ISRAELE
(App. III, I, p. 907; IV, II, p. 237)
Popolazione. - In base al censimento del 4 giugno 1983 la popolazione d'I. (entro le linee armistiziali del 1949, ma comprese Gerusalemme orientale e i 23.789 Israeliani residenti nei territori amministrati) era di 4.013.831 ab., di cui 83% ebrei, 13% musulmani, 2,3% cristiani e 1,6% drusi. Della popolazione stimata all'inizio del 1990 (4.821.700 persone, di cui l'82% ebrei), il 92% era classificato come urbana, cioè residente in centri con oltre duemila abitanti. Il coefficiente di accrescimento annuo è stato pari a 1,7% tra il 1984 e il 1989; la natalità è del 22,3‰ tra gli ebrei (1990), contro il 37,3‰ dei musulmani, che sono però colpiti da una mortalità infantile molto più elevata. L'incremento della popolazione ebraica continua a dipendere prevalentemente dall'immigrazione, che nella prima metà degli anni Ottanta era compresa tra le 10.000 e le 18.000 unità annue, grazie anche al massiccio trasferimento di ebrei dall'Etiopia (falascià); le speranze di popolamento su vasta scala vengono riposte nella ripresa degli arrivi dall'Unione Sovietica, che dovrebbero portare in I. (e nei territori occupati) oltre mezzo milione di ebrei entro la metà degli anni Novanta: nel 1990 gli immigrati dall'ex Unione Sovietica sono stati 185.000.
La popolazione attiva (1.649.900 nel 1990) è appena il 34% di quella totale, che per un terzo è di età inferiore ai 14 anni. I disoccupati sono il 10% (1990); il 4,1% della forza-lavoro è assorbito dal settore agro-forestale e ittico, il 22% da quello minerario e manifatturiero, il 5,1% dall'edilizia, il 14,5% dal commercio, il 6,2% dai trasporti e il rimanente dai servizi pubblici e privati.
Condizioni economiche. - L'agricoltura, che contribuisce al PIL nella misura del 6% circa, non garantisce ancora la completa autosufficienza alimentare (è infatti deficitaria la produzione di cereali, oli e grassi), ma consente una redditizia esportazione ortofrutticola. Nel suo complesso il settore primario è caratterizzato dalle difficoltà finanziarie incontrate dalle aziende cooperativistiche (409 moshav con 146.500 ab. nel 1988) e collettivistiche (270 kibbutz con 126.100 ab.) costrette sempre più a impegnarsi in attività extra-agricole. La superficie coltivata ha raggiunto nel 1988-89 i 436.000 ha, di cui 216.000 irrigati. Tenendo conto della disponibilità d'acqua, si calcola che la superficie massima irrigabile sia di 530.000 ha, a cui vanno aggiunti 400.000 ha potenzialmente utilizzabili per le colture aride, 850.000 ha di pascolo naturale e 90.000 ha disponibili per il rimboschimento.
La più importante coltura di esportazione è rappresentata dagli agrumi, che però incontrano sul mercato europeo una crescente concorrenza da parte di Spagna e Marocco, e difficoltà all'interno a causa dell'astensione dal lavoro di parte della manodopera palestinese proveniente dai territori occupati. La concorrenza spagnola mette in difficoltà anche la floricoltura la cui produzione (fornita da 4500 ha di serre) veniva assorbita per il 90%, fino alla prima metà degli anni Ottanta, da paesi della CEE.
Il 30% del reddito nazionale è fornito dall'industria, che continua a lavorare prevalentemente per il mercato interno, anche se nel 1985 i prodotti industriali (diamanti esclusi) hanno rappresentato il 91% del valore complessivo delle esportazioni. Il maggiore complesso industriale è quello delle Israel Aircraft Industries, con oltre 20.000 addetti (aerei militari e civili, missili e altre armi), a cui è collegata una rete in rapida espansione di industrie elettroniche. I diamanti lavorati, con il 27%, sono la voce più importante tra le esportazioni (1990); tra le altre figurano le macchine e il materiale elettrico ed elettronico (21%), gli alimentari, i tessili, i prodotti chimici e metallici. Il 90% del fabbisogno energetico è importato, sotto forma di petrolio, dall'Egitto (25%), dal Messico (35%) e dalla Norvegia (10%). Di fronte alla prospettiva dell'esaurimento del giacimento di gas naturale di Rosh Zohar (41 milioni di m3 estratti nel 1988) si è intensificata la ricerca di nuove risorse; prospezioni sono in corso al largo della costa del Sinai. Nel 1988 sono stati individuati, con prospettive promettenti, minerali auriferi presso le miniere di rame abbandonate di Timna (Negev).
Nel 1990 i 925 km di ferrovie hanno trasportato 2,5 milioni di passeggeri e oltre 7 milioni di t di merci; sui 13.000 km di strade asfaltate circolano circa 800.000 autovetture private, 9000 autobus, 153.000 autocarri e 8700 taxi. La flotta mercantile, in espansione (il trasporto di passeggeri è stato praticamente abbandonato), annovera 58 navi per una stazza lorda complessiva di oltre 0,5 milioni di t. La compagnia aerea El Al ha trasportato 3,4 milioni di passeggeri nel 1988. Il commercio estero, che continua a gravitare verso l'Europa e gli Stati Uniti, è caratterizzato da un rilevante deficit nella bilancia dei pagamenti (3,3 miliardi di dollari nel 1990), su cui gravano in particolare gli acquisti di materiale bellico; dal 1988 I. gode di trattamento preferenziale da parte della CEE.
Bibl.: AA.VV., Gosudarstvo Izrail'. Spravočnik, Mosca 1986; S. Green, Living by the Sword: America and Israel in the Middle East, Londra 1988; S. Swirski, Israel, ivi 1989.
Politica economica e finanziaria. - Nella prima parte degli anni Ottanta l'economia israeliana è stata caratterizzata da crescenti squilibri. Questi ultimi affondano le loro radici, oltre che nei successivi rialzi del prezzo del petrolio verificatisi nel corso degli anni Settanta, nello sviluppo eccessivo della domanda interna, alimentato dai persistenti ampi disavanzi del settore pubblico, dall'aumento della spesa per la difesa e da una crescita dei salari reali superiore a quella della produttività. A ciò si deve aggiungere un diffuso sistema d'indicizzazione delle attività finanziarie e una politica del tasso di cambio volta a mantenere inalterato il potere d'acquisto, elementi che hanno favorito il forte aumento del tasso d'inflazione. In questo periodo il disavanzo pubblico è risultato superiore al 15% del PIL, la bilancia dei pagamenti di parte corrente ha presentato continui disavanzi, mentre il tasso d'inflazione è andato rapidamente aumentando.
Per fronteggiare questa situazione, nel luglio 1985 il governo ha adottato un drastico programma di stabilizzazione economica. Oltre a un inasprimento della politica fiscale e a una significativa svalutazione del tasso di cambio, il nuovo programma ha introdotto un congelamento dei prezzi e una sospensione temporanea del meccanismo d'indicizzazione dei salari al costo della vita. Successivamente alla svalutazione, per ottenere una maggiore stabilità monetaria, il tasso di cambio dello shekel è stato stabilizzato nei confronti del dollaro.
I risultati del programma sono stati rilevanti. Il tasso d'inflazione è sceso dal 374% del 1984 al 48% nel 1986 e intorno al 20% negli anni successivi. Il disavanzo pubblico in rapporto al PIL, da oltre il 15% del 1984, è diminuito all'1% nell'anno successivo, e ha mutato addirittura di segno nel 1986. Il programma di risanamento non ha, peraltro, avuto costi eccessivi in termini di occupazione; il tasso di disoccupazione, pur essendo salito di oltre 1 punto percentuale tra il 1984 e il 1986, è ritornato intorno al 6% nei due anni successivi.
Questa evoluzione riflette la forte crescita fatta registrare dall'economia israeliana nel 1987 (4,6%) in seguito, soprattutto, alla notevole espansione del settore industriale (4,4%, il tasso più elevato dalla metà degli anni Settanta).
Il 1988 è stato un anno di crescita meno rapida del PIL, anche se sia l'inflazione che il disavanzo corrente hanno fatto registrare un miglioramento rispetto al 1987 e la disoccupazione è restata sostanzialmente stabile. Per contro, è fortemente aumentato il disavanzo pubblico (circa il 9% del PIL) a seguito delle spese addizionali dovute ai nuovi insediamenti nei territori occupati.
Il 1989 si è aperto con un nuovo programma economico che prevedeva l'impegno a ridurre il disavanzo pubblico agendo dal lato sia delle spese che delle entrate. Sempre nel 1989 si è giunti a un accordo fra le parti sociali per il controllo della dinamica salariale, al fine di contenere l'inflazione e difendere lo shekel (che, secondo le indicazioni del nuovo programma, è stato svalutato di circa il 13,5%). Sebbene a fine anno il disavanzo pubblico fosse tornato ai livelli del 1987, le misure di politica economica adottate non sono riuscite a promuovere la ripresa: la crescita del PIL nel 1989 ha fatto registrare un ulteriore rallentamento, mentre l'inflazione è risalita.
Il 1990 è stato dominato dall'impatto della massiccia immigrazione dall'URSS sull'economia israeliana, cresciuta peraltro a ritmi sostenuti. L'incremento della spesa pubblica destinata all'assistenza dei nuovi immigrati ha contribuito a un nuovo peggioramento del rapporto fra disavanzo pubblico e PIL.
Nel 1991 il quadro globale non è cambiato significativamente: le tensioni causate dai flussi migratori sono state ancora l'elemento dominante, ulteriormente aggravate dal congelamento per motivi politici di un prestito USA di 10 miliardi di dollari destinato a far fronte alle esigenze dei nuovi immigrati.
Storia. - Il negoziato con l'Egitto, avviatosi con il viaggio del presidente egiziano A. al-Sādāt a Gerusalemme il 20 novembre 1977, proseguì con sostanziale successo verso il raggiungimento di un'intesa di pace tra i due paesi, anche per merito dell'assidua mediazione degli Stati Uniti. Dal 14 maggio al 13 giugno 1978 gli Israeliani effettuarono un'operazione militare di vaste proporzioni nel Libano meridionale, diretta particolarmente contro i movimenti armati dell'OLP ivi stazionanti; e questo, in concomitanza con i progressi nelle conversazioni egizio-israeliane, determinò un accentuarsi delle divergenze tra l'Egitto e il resto del mondo arabo.
Il 17 settembre 1978 M. Begin, al-Sādāt e il presidente americano J. Carter firmarono a Camp David un'intesa preliminare per un trattato di pace, che prevedeva il ritiro israeliano dal Sinai, un sistema di garanzie militari reciproche e un progetto di autonomia palestinese per la Cisgiordania e la striscia di Gaza. Il trattato di pace fu definitivamente approvato il 26 marzo 1979, insieme a un piano di evacuazione in varie fasi degli Israeliani dal Sinai, con il relativo smantellamento degli insediamenti impiantativi, l'approntamento delle misure di sicurezza (al quale furono chiamati a partecipare gli Stati Uniti), la decisione di dare vita a normali relazioni tra I. ed Egitto, e l'impegno a proseguire la discussione sull'autonomia per Cisgiordania e Gaza.
Fu a questo punto che nella coalizione ministeriale si andarono approfondendo le divergenze già emerse durante l'intero periodo negoziale: di fronte a coloro che intendevano valersi della pace con l'Egitto per confermare la supremazia sull'intero schieramento arabo, si trovarono in minoranza i ministri che invece, anche a causa della difficile situazione economica e della crescente inflazione, erano più possibilisti e cercavano di estendere il processo di pacificazione. Fu così che M. Dayan lasciò il 21 ottobre 1979 il ministero degli Esteri (poi sostituito da Y. Shamir), ed E. Weizman (25 maggio 1980) il dicastero della Difesa. Né la risoluzione del vertice della CEE a Venezia, il 15 giugno, sul problema palestinese riuscì ad attenuare l'intransigenza di Begin e della maggioranza.
Anche a causa della sempre più precaria situazione economica, il primo ministro decise d'indire in anticipo le elezioni il 30 giugno 1981: tenutesi in un clima di tensione (bombardamento aereo israeliano della centrale nucleare di Tamūz presso Baghdād), queste confermarono, sia pure di poco, la supremazia numerica del Likud sui laburisti (48 seggi contro 47), così che il nuovo governo confermò gli orientamenti di fermezza con Shamir agli Esteri e A. Sharon alla Difesa, mentre quale capo di Stato maggiore fu scelto R. Eitan e, in qualità di ambasciatore, fu inviato a Washington M. Arens. Da parte israeliana, dunque, si accentuò la spinta aggressiva (bombardamenti in Libano contro le basi palestinesi, che coinvolsero civili e determinarono per ritorsione tiri di artiglieria dei guerriglieri su località israeliane), mentre, nonostante le remore, al-Sādāt non riusciva a sfuggire ai condizionamenti israeliani e alle pressioni statunitensi.
La tregua tra governo israeliano e OLP, raggiunta il 24 luglio con la mediazione di P. Habib, inviato del presidente statunitense R. Reagan, non fu che momentanea: I. era deciso a imporre la propria pace nello scacchiere attraverso la distruzione della struttura politicomilitare costruita in Libano dai Palestinesi. Fu in questo clima che maturò il mortale attentato del 6 ottobre contro al-Sādāt, seguito dall'invio di contingenti militari nel Sinai da parte di Gran Bretagna, Francia, Italia e Paesi Bassi.
Perfezionata nell'autunno l'intesa strategica con gli Stati Uniti (accordo del 30 novembre tra Sharon e C. Weimberger), completato il 25 aprile 1982 il ritiro dal Sinai (restò tuttavia la vertenza sulla località confinaria di Taba, risolta solo nel dicembre 1988), il governo colse l'occasione del ferimento dell'ambasciatore a Londra, S. Argov (3 giugno), per dare inizio all'operazione ''Pace in Galilea'', che dal 6 giugno prese avvio dal Libano meridionale sino a investire Beirut e a provocare uno scontro diretto con le truppe siriane, che però impedirono il tentativo di tagliare la strada Beirut-Damasco. L'assedio posto ai quartieri della capitale controllati dai Palestinesi, da parte di combattenti libanesi e di contingenti siriani, si protrasse fino al 24 settembre, nonostante l'esodo concordato dei guerriglieri palestinesi, la nomina di B. Ǧumayyil (Gemayel) alleato degli Israeliani a presidente del Libano, la strage di profughi palestinesi dei campi di Ṣabrā e Šātīlā (16-18 settembre) a opera delle milizie cristiane dopo la morte in un attentato di Ǧumayyil, la nomina a nuovo presidente di A. Ǧumayyil, suo fratello, e l'arrivo di una forza multinazionale d'interposizione, composta da militari di Stati Uniti, Italia, Francia e Gran Bretagna.
D'altronde le perdite subite dagli Israeliani, inaspettatamente alte (oltre 500 caduti), le violenze imposte ai civili e l'atteggiamento governativo che aveva accompagnato l'intera campagna, indussero I. alla creazione di una commissione d'inchiesta, anche se la nomina a nuovo presidente della Repubblica del generale C. Herzog (22 aprile 1983) confermava l'autorevolezza del prestigio militare. Con la firma di un trattato di pace con A. Ǧumayyil, che sarà poi ripudiato dal Libano, Begin considerò conclusa la propria opera e si ritirò dalla vita pubblica: il 3 settembre 1983 le truppe israeliane ripiegavano lungo il fiume Awali e il successore di Begin, Shamir, poté accingersi a indire per il 23 luglio 1984 elezioni anticipate. I risultati segnarono un progresso per i laburisti (45 seggi), che superarono le destre calate a 41 deputati: le incertezze e la confusione che regnavano nell'Allineamento (Alleanza fra il Partito laburista e il Partito operaio unito, MAPAM) impedirono però di sfruttare il successo. Il capo laburista S.Peres e quello del Likud, Y. Shamir, si accordarono per un governo di alleanza alla testa del quale si sarebbero avvicendati, ciascuno per metà legislatura. Tale ministero, subito distintosi per l'impegno di gestire l'immigrazione di circa 10.000 poverissimi etiopici della minoranza ebraica dei Falascià, procedette, anche per l'infittirsi degli attacchi della resistenza libanese (uccisione nel febbraio 1985 di 12 militari nell'esplosione di un'auto-kamikaze), al graduale ritiro dal Libano. Tuttavia, sotto controllo militare diretto è rimasta una fascia confinaria profonda dai 7 ai 18 km ove vivevano circa 115.000 Libanesi in una cinquantina di villaggi e in cui opera, tra l'altro, la milizia collaborazionista affidata al maggiore A. Laḥad. Altro segno della scelta dell'uso della forza fu il bombardamento aereo del quartier generale dell'OLP a Tunisi (1° ottobre 1985).
In ogni caso, durante la presidenza Peres, si riuscì a ridurre l'inflazione a circa il 30% annuo, anche grazie alle triangolazioni commerciali con il Sud Africa e alla partecipazione alla fruttuosa vendita di armi all'Iran. Inoltre si ebbero rilevanti iniziative diplomatiche: conversazioni di Helsinki con rappresentanti dell'URSS in vista della ripresa dei rapporti consolari (18 giugno 1986), visita dello stesso Peres al re del Marocco Ḥasan ii a Ifrane (22-23 luglio), incontro di Peres con il presidente egiziano H. Mubārak ad Alessandria (11-12 settembre). Nondimeno tali iniziative non diedero risultati di qualche rilievo. In particolare, il reiterato rifiuto di Peres di aderire alla ventilata Conferenza internazionale sul Medio Oriente, sotto l'egida delle Nazioni Unite e con la partecipazione degli stati membri del Consiglio di sicurezza oltre che di tutte le parti interessate compresa l'OLP, evidenziò che la politica estera di I. nella sostanza restava immutata. Tale impostazione, nella seconda fase della legislatura, con la presidenza Shamir, venne chiaramente criticata, tra l'altro, dalla CEE nelle risoluzioni del 23 febbraio e del 12 marzo 1987, e fu contestata con drammaticità dall'esplosione dell'intifāḍa (a partire dal dicembre 1987), ovvero della protesta civile della popolazione palestinese dei territori occupati dagli I. nel 1967.
Nonostante l'imponente repressione e vigilanza messe in atto dal governo d'I. e in particolare dal ministro della Difesa I. Rabin, e i costi rilevanti sostenuti (in due anni, un miliardo di dollari), fu impossibile imporre il ritorno all'ordine, e il Comando nazionale unificato dell'intifāḍa, d'accordo con l'OLP, riuscì di fatto a imprimere una svolta a una questione trascinatasi per decenni. Il prezzo a livello d'immagine per I. fu altissimo, con lacerazioni e contrapposizioni nelle comunità ebraiche nel mondo e con la prospettiva incombente di estremisti e di coloni israeliani disposti a fare giustizia nei confronti dei Palestinesi. Né le elezioni politiche tenutesi alla normale scadenza il 1° novembre 1988 recarono significative novità: 40 deputati alle destre, 39 ai laburisti, una notevole dispersione specie verso i partiti minori di destra e religiosi. Ovvia fu dunque la formazione di un governo di larga coalizione guidato da Shamir e con Peres al ministero delle Finanze.
La proclamazione dello stato palestinese avvenuta il 15 novembre ad Algeri a opera del Consiglio nazionale palestinese, con l'accettazione di tutte le risoluzioni dell'ONU sulla Palestina, compresa quella del novembre 1947 relativa alla spartizione, pose poi I. di fronte a nuove complesse alternative anche per l'appoggio guadagnatosi dall'OLP su scala internazionale e per l'intenzione statunitense, sotto la presidenza di G. Bush, di muoversi per una soluzione costruttiva. Per cercare di dare una risposta alle sollecitazioni provenienti da tutte le parti e per tentare di risolvere il problema dell'intifāḍa, il governo approvò (15 maggio 1989) un piano di pacificazione basato sulla formazione di una rappresentanza palestinese attraverso elezioni da tenersi nei territori occupati. Nonostante gli interrogativi e le proteste per i limiti di tale piano, si sviluppò tra tutte le parti una discussione intensa, ufficiale e ufficiosa, che per un verso determinò l'acutizzarsi dei contrasti tra possibilisti e intransigenti nelle file stesse del Likud, per un altro favorì contatti tra esponenti dell'OLP e rappresentanti israeliani.
Proprio lo spessore di tali colloqui e l'ampiezza delle possibili conseguenze indussero l'esercito israeliano a ordinare lo spettacolare rapimento in Libano dello sceicco ῾Abd al-Karīm ῾Ubayd, dirigente del movimento sciita degli Ḥizb Allāh. Questa azione sembrava volta a costringere gli Stati Uniti ad azioni di forza nello scacchiere o a mimetizzare gli sviluppi del dialogo appena iniziato.
A livello governativo, frattanto, tramontò la possibilità di intese stabili con i laburisti con i quali si era avviata la legislatura e, specie a partire dalla crisi ministeriale del giugno 1990, si formarono esecutivi espressi dalla destra sotto la guida di Shamir e con l'apporto delle formazioni nazionalistiche minori. La validità di tale formula trovò conferma durante la Guerra del Golfo, in particolare quando Baghdād nel gennaio 1991 lanciò un'offensiva missilistica contro Israele.
Fu in quelle circostanze che emerse l'intento statunitense d'imporre la propria strategia globale anche a Tel Aviv, imponendo a I. di non intervenire direttamente nel conflitto. Questa strategia proseguì nel dopoguerra, non senza aspri contrasti con Tel Aviv, con l'impegno di Washington di promuovere il dialogo di pace tra I., gli Stati arabi e i Palestinesi. E in effetti, sia pure senza apparenti risultati, le conversazioni tra Israeliani, Palestinesi non legati ufficialmente all'OLP ed esponenti di Giordania, Siria e Libano si avviarono a partire dagli incontri di Madrid del 30 ottobre.
Gli Stati Uniti sollecitarono nel dicembre l'abrogazione da parte dell'ONU della risoluzione che il 10 novembre 1975 aveva definito il sionismo ideologia razzista, ma, ostili alla moltiplicazione degli insediamenti nei territori occupati dal 1967, bloccarono nel marzo 1992 le garanzie per prestiti a I. per 2 miliardi di dollari destinati all'assorbimento di nuovi immigrati specie dall'ex URSS.
Dopo l'uscita dalla coalizione (gennaio 1992) dei partiti di estrema destra contrari ai negoziati di pace di Madrid, I. si avviò a elezioni politiche anticipate. Nel febbraio I. Rabin tornò alla guida del Partito laburista, mentre Shamir veniva confermato leader del Likud. I laburisti vinsero le elezioni del 23 giugno aggiudicandosi 45 seggi, mentre il Likud ne ottenne 32. Le elezioni videro la sconfitta dei partiti religiosi. La vittoria dei laburisti apparve come foriera di una reale distensione in Medio Oriente mentre Rabin, prima ancora di essere nominato primo ministro, confermava questo ottimismo promettendo elezioni nei territori occupati e l'annullamento delle agevolazioni fiscali per i coloni. Nell'agosto il negoziato di pace si è riaperto a Washington, dove I. si è detto pronto, in linea di principio, ad accettare la risoluzione 242 dell'ONU che prevede la restituzione dei territori occupati in cambio della pace, e ha proposto elezioni generali per una rapida autodeterminazione in Cisgiordania e a Gaza, mentre ha prospettato alla Siria la restituzione di buona parte delle alture del Golan, con una zona cuscinetto presidiata da una forza ONU o multinazionale.
Bibl.: F. El-Asmar, Through the Hebrew looking-glass, Londra 1986; T. Gozansky, Formation of Capitalism in Palestine, Chaifa 1986; The Reagan Administration and Israel, a cura di T. Dershowitz, Washington 1987; A. Keller, Terrible days. Social divisions and political paradoxes in Israel, Amstelveen (Paesi Bassi) 1987; B. Morris, The birth of the Palestinian refugee problem 1947-1949, Cambridge 1987; S. Ferrari, Vaticano e Israele, Firenze 1991.
Letteratura. - Per quanto affondi le radici nella precedente letteratura ebraica, la letteratura israeliana presenta caratteristiche e temi squisitamente contemporanei.
Dopo gli anni Cinquanta le nuove ondate di autori che si sono avvicendati sulla scena letteraria riflettono sempre più i problemi degli Israeliani nati nel paese. Scrittori immersi nel loro ambiente naturale si fanno interpreti delle problematiche intime dell'individuo con le sue crisi e i suoi contrasti. È tuttora aperto il dibattito tra i critici se questa letteratura contemporanea possa considerarsi una creazione letteraria assolutamente nuova, addirittura ''rivoluzionaria'' rispetto alla precedente (B. Kurzweil), o possa invece ritenersi legittima prosecutrice del passato (G. Shaqed).
Nella produzione narrativa israeliana contemporanea si delineano due essenziali correnti dialettiche: una volta alle tematiche esterne, l'altra rivolta all'interno. Lo stato d'I. non ha ancora trovato un assestamento pacifico, e sono innanzitutto gli scrittori che avvertono il trauma spirituale generale in cui il problema della sopravvivenza assume un carattere esistenziale. Essi si fanno interpreti dell'aspirazione individuale alla libertà, alla pace, alla sicurezza, ma nello stesso tempo cercano un'integrazione con il mondo che circonda la loro società e che invece contrasta le loro aspirazioni, soffocandole violentemente.
S. Yzhar è forse uno dei più anziani scrittori nati in I. e, come dimostrano i suoi romanzi (ha-Shāvūi, "Il prigioniero"; ha-Nimlāṭ, "Lo scampato"), è uno degli interpreti di questo stato d'animo.
Il tema della guerra e la protesta contro la degenerazione morale che questa inevitabilmente provoca nell'animo umano costituiscono una nota fondamentale nell'opera narrativa di diversi scrittori. Appaiono così sia storie brevi sia romanzi incentrati sulla condizione spirituale di uomini che si sentono coinvolti in una grave crisi morale conseguente al dover soggiacere a una situazione che impone all'uomo di difendersi e uccidere. L'esperienza bellica nella narrativa israeliana in genere non trova un'esaltazione e una rappresentazione in chiave eroica, al contrario: essa crea turbamenti psicologici e letterariamente stimola all'evasione da un simile mondo: "Desideravo nascondermi dal mondo", dice il protagonista di un romanzo di B. Tammuz (n. 1919). Il tema dell'evasione appare anche nei romanzi di Y. 'Amiḥai (n. 1924), assai noto anche come poeta, così come nel romanzo hā-Yōrēd lĕ-ma 'ălāh (1961, "Colui che discende verso l'alto" o "L'acrofilo") di Y. Kianuk (n. 1930), dove lo scrittore si trova a New York, una città che gli è estranea e di cui tuttavia ama l'estraneità e coglie l'alienazione. Il tema della solitudine affiora in un altro scrittore, P. Sadē (n. 1929), che nel romanzo Maṣāvō shel 'ādām (1967, "La condizione umana") accetta come gradevole tale stato d'animo e che, in una sua precedente opera del 1957 (hā-Ḥayyīm Kĕmāshāl, "La vita come parabola"), ha denunciato il nazionalismo fine a se stesso.
Tra gli scrittori che danno alla loro narrativa un taglio piuttosto simbolico o scrivono racconti dal significato allegorico vi è Tammuz con il romanzo breve ha-Pardēs, "L'aranceto" (1972), una favola che ha come tema le opposte rivendicazioni sul paese tra arabi ed ebrei.
Il modulo letterario dell'allegoria morale, in voga tra i rappresentanti della narrativa israeliana della cosiddetta ''generazione di mezzo'', è particolarmente privilegiato da popolari scrittori più giovani quali 'A. ῾Oz (n. 1939) e A. B. Yehoshua῾ (n. 1936).
Il primo, tradotto in più lingue, ha riscosso un discreto successo internazionale. In Mīkā'ēl šel-lī (1968, trad. it., Michele mio, 1975), indulgendo in fantasie, ῾Oz descrive la solitudine della protagonista del romanzo proponendo un originale profilo della Gerusalemme degli anni Cinquanta. Yehoshua῾, che già nella sua prima narrativa aveva evidenziato uno stile ondeggiante tra il surrealismo e il simbolismo, è un autore di grande rilievo, assolutamente originale. Sia ῾Oz in Mĕnūḥāh nĕchōnāh (1970, "Un giusto riposo") che Yehoshua῾ in Ghērūshīm mĕ'uḥārīm (1978, "Un tardivo divorzio") scrutano la psicologia dell'individuo, il primo nella struttura collettivistica del kibbutz e l'altro in quella di una grande famiglia, di cui sono analizzati i sentimenti e le reazioni intercorrenti fra generazioni diverse.
Altri autori che meritano citazione sono: A. C. Kahanà, che con stile accurato e preciso, fondato su ritmi contenuti, riesce a coinvolgere il lettore descrivendo complessi rapporti personali, come in Sādōt magnētī īm (1977, "Campi magnetici"), e A. Appelfeld (n. 1932), le cui storie, dedicate in gran parte al tema degli ebrei di fronte all'Olocausto, sono l'espressione del "sopravvissuto che delinea il passato come se fosse congelato nel presente"; analogamente nei suoi romanzi brevi (Badenheim 1939; trad. it., 1981) e Il Rifugio (trad. it., 1985), delineando con straordinaria discrezione la condizione psicologica dei protagonisti ebrei alla vigilia del genocidio nazista, Appelfeld riesce a rendere l'angosciosa situazione dell'imminente sventura che incombe sugli ebrei europei a opera di un mondo implacabile che li incalza senza concedere loro scampo. Y. Orpaz (n. 1923), Kianuk e J. Shabtai (1934-1981) sono tre narratori che, cronologicamente, possono essere collocati nella ''generazione di mezzo''.
La prosa di Orpaz è stata definita "realismo fantastico"; Sippurē Reḥov Tomagena ("Racconti di Via Tomagena") rivive con uno stile impressionistico il passato remoto della sua fanciullezza in Russia, mentre in Mot Lysanda (1988, "Morte di Lysanda") il sogno e la fantasia irrompono nella realtà quotidiana del protagonista, un "pazzo soave che vive quando sogna e sogna quando vive, un pazzo di quelli che esistono soltanto nell'arte".
Di Kianuk va citato Ādām ben Chelev (1986, "Adamo figlio di cane"), storia di un attore ebreo costretto a far da pagliaccio personale al comandante di un campo di sterminio nazista: in un'atmosfera macabro-grottesca, attraverso il progressivo affondare del protagonista in una rassegnazione che diviene ben presto apatica indifferenza di alienato, Kianuk offre una straziante rappresentazione della violenta profanazione dell'uomo attuata da altri uomini.
Zichrōn dĕvārīm (1977, "Promemoria") e Sōf dāvār (1984, "Conclusione") di Shabtai sono testimonianze di un talento autentico di narratore e di artista.
I personaggi principali di molti romanzi degli anni Ottanta sono giovani della generazione attuale, chiamata a misurarsi con i problemi della società israeliana di oggi: è a essi infatti che spetta ormai la responsabilità del paese. I protagonisti sono spesso spinti al suicidio da problemi di coscienza legati con l'attuale situazione militare; e in essi si agita non soltanto un conflitto interiore, ma anche un conflitto con la generazione precedente, che si è staccata dal passato, dalla casa paterna, dalla Diaspora.
È questa la tematica del romanzo di Orpaz hā-῾Elem (1984, "Il giovanotto"), il cui protagonista ricorda il personaggio di un precedente libro dello stesso Orpaz, Bayth lĕ-ādam eḥad ("La casa di un uomo"); questo il tema che riaffiora in Bithō ("La figlia") di Kianuk e in Qufsāh shēḥōrā (1987, "La scatola nera") di ῾Oz, e forse anche nell'opera di Y. Qenaz Hitganevūth yĕḥīdīm (1987, "L'infiltrazione degli individui").
Nel romanzo Ḥiyyūk ha-gēdī (1983, "Il sorriso del capricorno"), D. Grossman, forse il più conosciuto fra i narratori dell'ultima generazione, induce il suo personaggio ῾Uri a un mancato suicidio di protesta, che ricorda molto quello del protagonista di Kianuk; e sarà un rappresentante della generazione precedente a pagare con la vita per l'atto che ῾Uri ha compiuto per protestare contro gli orrori dell'occupazione israeliana. Anche il romanzo di S. Luz Nafshō bĕ-chapō (1986, "Una vita in pericolo") tratta del suicidio di un giovane nel corso di un'azione militare.
La letteratura prospetta l'immagine di un paese che sta attraversando una crisi e offre una visione tra le più aspre dello stato d'I., di cui è riflessa, senza dubbio, una dimensione tragica che angoscia molti Israeliani d'oggi: i cittadini più coscienti, infatti, avvertono di vivere in una realtà sconvolta, i cui valori sono soggetti a quel processo di corrosione che si verifica in ogni società degradata dalla guerra.
È soprattutto la poesia che determina il passaggio dalla cosiddetta ''letteratura del noi'', che esalta, cioè, i momenti collettivi del risveglio nazionale, alla ''letteratura dell'io'', in cui gli autori esprimono soprattutto i moti interiori dell'animo e le intime istanze spirituali.
Tra i poeti meritano di essere ricordati: D. Pagis (1930-1986) che, scampato ancora bambino ai campi di sterminio nazisti, solo nelle opere più recenti ha affrontato, sia pure indirettamente, il tema dell'Olocausto. Autore rigorosamente schivo di sé, Pagis si esprime soprattutto per mezzo di immagini: tra esse, particolarmente pregnante quella di Caino e Abele, ora assunta a simbolo della forza della vittima di fronte a quella dell'omicida, ora espressione di pietà per l'uccisore stesso. Le raccolte più significative sono: Shĕ ῾ōn haṣēl (1959, "L'orologio dell'ombra"), Shā hūth mĕ 'uḥereth (1964, "Dilazione ritardata"), Gilgūl (1970, "Metamorfosi"), Shĕnĕm ῾āsār pānīm (1981, "Dodici volti"), Millīm nirdāfōth (1982, "Sinonimi") e Mīḥūṣ la-shūrāh (1986, "Fuori della norma").
Singolare per originalità tematica e moduli espressivi è la produzione lirica di A. Ghilboa᾽ (n. 1917), premio Israel per la letteratura, che ha raggiunto in Yiṣḥāq e in ha-Chōl hōlēch (1983, "Tutto procede") l'espressione emozionale più consona a una realtà dura dal punto di vista personale e nazionale.
Le liriche di Zelda (1924-1984), apparentemente semplici − la raccolta più notevole è Shĕ nīvdĕlū mi-chòl merḥāq (1984, "Isolati da ogni lontananza") − sono dense di significato e riflettono una limpida visione religiosa e universalistica del mondo, esente da illusioni, focalizzata sull'uomo e sui problemi della sua esistenza, e consapevole della sofferenza e del dolore umano nel mondo, che sono accettati con rassegnazione.
Altra figura di rilievo è J. Wallach (1944-1985), definita "voce archetipo" della poesia ebraica moderna, autrice delle raccolte Shīrāh (1976, "Poesia"), ōr pĕre᾽ (1983, "Luce selvaggia") e Ṣūrōth (1985, "Forme", postumo).
Ḥ. Gurī (n. 1923), premio Israel per la letteratura, è considerato un rappresentante della generazione dei poeti del Palmàch, una corrente letteraria che prende il nome da una delle più famose brigate combattenti, illustre non solo per le eroiche gesta, ma anche per la sua struttura spirituale e culturale. La sua produzione, definita una "poesia nativa", è una felice combinazione della lingua biblica con quella quotidiana e militare, una poesia "le cui radici affondano nella Bibbia e la corolla è nel presente". Tra le sue opere, una raccolta antologica della lirica: Ḥeshbōn῾·ōver 1945-1987 (1988, "Conto corrente 1945-1987").
Molti altri poeti costituiscono voci valide di questo sintetico panorama della poesia israeliana; citiamo tra essi A. Eldan (n. 1924), T. Rivner (n. 1924), O. Rabin (n. 1921), E. Biton (n. 1942), cantore cieco delle memorie ebraiche della patria d'origine, il Marocco.
R. Someq (n. 1951), uno dei migliori fra i giovani poeti contemporanei, prende spesso ispirazione da fatti della vita quotidiana, che però vengono sollevati a livelli di alto significato da intense risonanze metaforiche (Asfalt, 1984, "Asfalto"; Goleh, 1976, "Esiliato"). R. Harnik è autrice di una raccolta di dolenti ed emozionanti poesie dedicate al figlio caduto in Libano: Mishirē har Herzl, Jerushalaim (1987, "Cimitero del Monte Herzl in Gerusalemme").
Bibl.: Racconti d'Israele, a cura di J. Blocker, Milano 1964; Carosello di narratori israeliani, a cura di O. Ceretti Borsini, ivi 1968; Y. Goell, Bibliography of modern Hebrew literature in English translation, New York 1968; Poeti d'Israele, a cura di G. Romano, trad. di L. Bigiavi Levi, Padova 1969; G. Sciloni, Nuove correnti in seno alla letteratura ebraico-israeliana di oggi, in Henoch, iv (1982), 3, pp. 343-82; B. Kurzweil, Ḥippūś ha-sifruth ha-Yis'rāēlīth ("Ricerca sulla letteratura israeliana"), Tel Aviv 1982; L. Yudkin, Aspects of Israeli fiction, Manchester 1984; G. Sciloni, Volevo dirti qualcosa, Modena 1986; La novella d'Israele, a cura di G. Sciloni, introd. di A.B. Yoffe, Milano 1987; G. Shaqed, ha-Siporeth ha-῾Ivrith (1880-1980) ("La narrativa ebraica"), Gerusalemme 1988; O. Barthana, Zehiruth, Sifrūth 'Ereṣ yiśrā'ēlīt ("Attenzione, letteratura israeliana"), Tel Aviv 1988; Poesia israeliana, a cura di G. Scilone, in Trapani nuova, 30 marzo 1988; Letteratura di Israele, a cura di G. Sciloni, in Nuovi Argomenti, 29 (gennaiomarzo 1989); G. Shaked, Punti esclamativi in punti interrogativi. Le significanze politiche della prosa ebraica israeliana negli anni 70 e 80 del nostro secolo, ibid.; Letteratura ebraica d'Israele. Antologia con apparati critici della letteratura ebraica contemporanea, a cura di G. Sciloni, in Rassegna mensile di Israel, 57, 1-2 (gennaio-agosto 1991).
Archeologia. - L'intensa attività archeologica svolta in I. nell'ultimo quindicennio non permette un'analisi completa dei dati e delle problematiche da essa emersi ma costringe a una selezione che, per quanto rigorosa, può risultare parziale. Iniziando dai rinvenimenti relativi alle età più antiche, fra il 1977 e il 1980 sono stati effettuati da O. Bar Yosef e A. Gopher alcuni sondaggi a Netiv Hagedud, nella valle del Giordano, che hanno messo in luce numerose abitazioni di forma circolare relative al Neolitico pre-ceramico A (8500-7600 ca.). Particolare interesse riveste una figurina femminile seduta, che ha il suo più stringente confronto in un esemplare di ÇCayönü in Anatolia. Dal 1972 le ricerche di C. Epstein in Golan hanno permesso l'individuazione di alcuni insediamenti, databili circa alla metà del 4° millennio, organizzati in veri e propri villaggi. Si tratta dei siti di Rasm Ḥarbuš, Rasm al-Kabaš e ῾Ayn al-Ḥariri, caratterizzati da allineamenti paralleli di case la cui pianta a forma rettangolare con corte interna è tipica della cultura calcolitica: l'economia di sostegno di questi centri comprendeva l'agricoltura e l'allevamento. Dal 1982 Th. Levy e D. Alon sono impegnati a Shiqmin nello scavo di un importante insediamento, in cui la disposizione e la standardizzazione degli edifici hanno permesso di riconoscere l'esistenza, fatto del tutto inedito per questo periodo nel Negev, di un impianto urbanistico.
Nella parte bassa della città è stata messa in luce una costruzione con due fasi abitative: la più recente presenta una ricca collezione di ceramiche del Calcolitico di Bersabea e una grande macina; nel livello sottostante sono stati rinvenuti una fornace per la fusione del rame con abbondanti scorie e uno scettro, sempre in rame, identico all'esemplare rinvenuto a Naḥal Mishmar presso ῾Ayn Gedi.
A Yarmoth in Giudea la missione franco-israeliana diretta da P. de Miroschedji ha indagato, a partire dal 1980, gli strati relativi al Bronzo Antico mettendo in evidenza uno dei più estesi insediamenti fortificati di tutta la Palestina. La scoperta più rilevante riguarda una costruzione denominata Withe Building, che per le dimensioni, la pianta e l'accurata tecnica edilizia dev'essere considerata un edificio pubblico, probabilmente di natura cultuale, come risulta dai confronti con i contemporanei templi di 'Ai, Megiddo e Bāb al-Draha'.
Le indagini dirette da A. Kempinski a Kabri nel biennio 1986-87 hanno messo in luce un insediamento che raggiunge la massima estensione e floridezza nel Bronzo Medio ii B, ma che già nel Bronzo Medio ii A presenta un articolato sistema difensivo.
Il rinvenimento in queste fasi di ceramica anatolica e cipriota testimonia i contatti commerciali di tale centro, interessato soprattutto allo scambio di metalli e in particolare di rame. Il rapido declino di Kabri intorno al 1600 si lega a quello di numerosi insediamenti della parte settentrionale della piana di Acco a riprova di una generale crisi della regione.
Lo scavo di A. Zertal a Mount Ebal ha messo in luce un complesso cultuale monumentale in uso dalla fine del 13° e per tutto il 12° secolo: il tipo di culto che emerge da questo santuario all'aperto sembra completamente incentrato sul sacrificio.
Per il periodo di transizione dal Bronzo Tardo al Ferro risultano di particolare interesse gli scavi condotti sul settore costiero, atti a mettere in luce gli aspetti peculiari della cultura filistea e le sue interazioni con il mondo israelitico. Al riguardo si segnalano le indagini compiute a Tel Miqne e a Tel Qasile.
Il primo di questi centri, identificato con l'antica Ekron, risulta infatti un insediamento occupato agli inizi del 12° secolo dai Popoli del Mare e soggetto in seguito alle mire espansionistiche di David e dei sovrani di Giuda. L'importanza di Tel Qasile si basa sul fatto che esso è l'unico sito scoperto finora in Palestina creato ex novo dai Filistei; inoltre il suo complesso templare rappresenta un documento eccezionale per la comprensione della religiosità e dei culti dei Popoli del Mare.
Fra gli scavi condotti in insediamenti dell'età del Ferro riveste particolare importanza quello di D. Ussishkin a Tel al-Duweir in Giudea, generalmente identificato con l'antica Lachish. Le più recenti campagne hanno permesso di datare con sicurezza il livello 3° del sito all'8° secolo e di ricondurre la sua distruzione agli eserciti di Sennacherib che nel 701 conquistarono la città.
Un ulteriore dato riguarda la cronologia delle anfore, che presentano impresso un bollo con la dicitura lmlk, "del re" o "per il re", associata a due tipi differenti di simboli, rappresentanti in un caso uno scarabeo con quattro ali e un disco solare, nell'altro uno scarabeo con due ali. Il rinvenimento di ambedue le tipologie nel 3° livello di Lachish e la loro assoluta mancanza in quello successivo hanno permesso di dimostrare che esse ricoprono il medesimo arco temporale.
A Tel Batash, identificata con la biblica Timna, G. L. Kelm e A. Mazar hanno messo in luce un insediamento che presenta una sequenza stratigrafica che va dal Neolitico all'epoca persiana. Di notevole interesse è la porta urbica relativa al livello di 10° secolo: essa presenta, a causa di un muro frontale a L, un'entrata indiretta cui segue un passaggio interno protetto da due massicce torri laterali. Tale tipologia non ha precisi confronti nel mondo vicino-orientale, anche se alcuni elementi richiamano le porte del Ferro di Tel Beit Mirsim e Karatepe.
Fra gli scavi di epoca ellenistica si segnalano quelli di Tel Dor e Ascalon. Nel primo, le indagini su ampia scala condotte da E. Stern hanno permesso una chiara lettura dell'impianto urbanistico e del sistema difensivo. Nel secondo sono soprattutto emersi dati relativi a singole strutture: in particolare si ricorda la messa in luce di un ampio edificio la cui parte settentrionale era suddivisa in magazzini, nei quali è stata rinvenuta un'ampia raccolta di materiale ceramico.
Bibl.: Su tutta l'attività archeologica in I. a partire dal 1982 cfr. Excavations and survey in Israel, a cura di A. Sussmann, I. Pommerantz, trad. ingl. di Hadashot Arkeologiyot, organo del Dipartimento israeliano delle antichità e musei. Per gli anni precedenti notizie periodiche sono fornite dalle rassegne Notes and news e Chronique archéologique, rispettivamente delle riviste Israel Exploration Journal e Revue Biblique. In generale: W. G. Dever, New vistas on the Early Bronze IV (MB I), Horizon in Syria-Palestine, in Bull. Amer. Schools Orient. Research, 237 (1980), pp. 35-64; A. M. T. Moore, A four-stage sequence for the Levantine Neolithic, ca. 8500-3750 B.C., ibid., 246 (1982), pp. 1-34; A. Kempinski, Syrien und Palästina (Kanaan) in der letzten phase der Mittelbronze II B-Zeit (1650-1570 v. Chr.), Wiesbaden 1983; M. Borshi, R. Gophna, The settlements and population of Palestine during the Early Bronze Age II-III, in Bull. Amer. Schools Orient. Research, 253 (1984), pp. 41-53; R. Gonen, Urban Canaan in the Late Bronze period, ibid., pp. 61-73; M. Borshi, R. Gophna, Middle Bronze Age II Palestine: its settlements and population, ibid., 261 (1986), pp. 73-90. Per i singoli centri citati cfr. A. Mazar, Excavations at Tel Qasile. I, in Qedem, 12, Gerusalemme 1980; A. Mazar, G. Kelm, Three seasons of excavations at Tel Batash-Biblical Timah, in Bull. Amer. Schools Orient. Research, 248 (1982), pp. 1-36; D. Ussishkin, Excavations at tel Lachish, 1978-1983. Second preliminary report, in Tel Aviv Journal of Archaeology, 10 (1983), pp. 97-105; A. Mazar, Excavations at Tel Qasile. II, in Qedem, 20, Gerusalemme 1985; Th. E. Levy, D. Alon, Shiqmin I, in British Archeological Reports, International series, 356 (1987); P. de Miroschedji, Yarmouth 1 (1980-82), Parigi 1988; A.B. Knapp, Complexity and collapse in the North Jordan valley: archaeometry and society in the Middle-Late Bronze Ages, in Israel Exploration Journal, 39 (1989), pp. 129-48; D. Ussishkin, Notes on the fortifications of the Middle Bronze II Period at Jericho and Shechem, in Bull. Amer. Schools Orient. Research, 276 (1989), pp. 29-53; E. Stern, Hazor, Dor, and Megiddo in the time of Ahab and under Assyrian rule, in Israel Exploration Journal, 40 (1990), pp. 12-30; D. Ussishkin, Notes on Megiddo, Gezer, Ashdod, and Tel Betash in the tenth to ninth centuries B.C., in Bull. Amer. Schools Orient. Research, 277/78 (1990), pp. 109-19; I. Finkelstein, On archaeological methods and historical considerations: Iron Age II Gezer and Samaria, ibid., pp. 109-19; E. Stern, J. Berg, I. Sharon, Tel Dor, 1988-1989: preliminary report, in Israel Exploration Journal, 41 (1991), pp. 46-61; W.G. Denver, Archaeological data on the Israelite settlement: a review of two recent works, in Bull. Amer. Schools Orient. Research, 284 (1991), pp. 77-90.
Arte. - Con discrezione, lontano da ogni furore messianico, il manifesto poetico del Gruppo 10 +, costituitosi nel 1965, così sentenziava: "Ci opponiamo ad ogni espressione plastica che si fondi sull'espressionismo e rifiutiamo ogni collegamento con l'iconografia ebraica e con qualsiasi altro abuso di simbolismo che trova purtroppo larga eco nei circoli oziosi del pubblico e delle istituzioni. Non aneliamo a scoperte sensazionali o ad alcuna rivoluzione in arte", additando un nodo cruciale e tipico dell'arte israeliana sin dai suoi esordi, al tempo delle prime immigrazioni: l'inevitabile persistere, pur in dinamico aggiornamento, della dicotomia forma-contenuto. Gli strali del Gruppo 10+ si appuntano, in questo caso, su una particolare declinazione di quel binomio, quella, attiva negli anni Venti e Trenta, che riveste, deformandola ed emozionandola espressionisticamente, un'iconografia sterile e retorica, infarcita di simboli biblici e sionisti. Ma all'indomani della proclamazione dello stato di I., nel 1948, neppure i fondatori di Nuovi Orizzonti, i pionieri dell'astrattismo, quello delle avanguardie europee, sfuggono a quella morsa. Non è un caso infatti se J. Zaritsky, Y. Streichman, L. Nikel o A. Stematsky rifuggono l'assolutezza dell'astrazione geometrica e optano invece per quella lirica di matrice francese: dietro le loro composizioni dai colori tenui, sfumati e sognanti si affacciano di nuovo i colori, la luce, l'impianto del paesaggio israeliano. Bandito dunque l'espressionismo, in continuità ideale con l'astrattismo, qual è l'identità della prima generazione di artisti sabra? La mostra The want of matter, a quality in Israeli art, ospitata nel 1986 al museo di Tel Aviv, la delinea nuovamente nel ricorso a parametri definiti come decisamente israeliani, o meglio, TelAvivians, dal luogo di lavoro della maggior parte dei partecipanti. Si parla di ''qualità povera'' dei materiali, a partire dal supporto di compensato; del carattere frammentario e conflittuale delle composizioni; del ricorso alla scrittura come quintessenza dell'aniconicità; della dialettica tra la realtà locale e quella esterna ma, soprattutto, della matrice concettuale di quelle prove, distanti dalla sensualità materica e cromatica delle poetiche precedenti.
A guidare il gruppo è R. Lavie (n. 1937). I suoi quadri, che rade pennellate bianche o rosa virano al monocromo, sono tempestati di segni, sorta di scarabocchi infantili, e costellati di foto, ora completamente visibili ora celate da un ulteriore strato di pittura, quando compostamente organizzate e quando deliberatamente casuali. Sembrerebbero, a prima vista, riecheggiare la scrittura di Cy Twombly o i combine paintings di R. Rauschenberg, ma, a ben vedere, le prove di Lavie, antiideologiche e demistificanti, non condividono l'irruenza gestuale né i presupposti polemici del maestro new dada americano: al posto dell'incalzare di oggetti trovati, manomessi e scaraventati sulla tela siamo al cospetto di rappresentazioni bidimensionali di luoghi, situazioni o ricordi vicini o lontani, presenti o passati, organizzate fuggendo ogni sistemazione geometrica o simmetrica, destabilizzate da una pluralità di fuochi visivi.
Se latrici di messaggi comunque radicati nella realtà israeliana, non stupisce allora che quelle prove prediligano alle mitografie consumistiche della pop art l'inquietudine delle contaminazioni new dada.
Un'opera di Lavie del 1973 risulta particolarmente eloquente: su un fondo in parte nero e in parte bianco, dove il colore si distende uniforme ma vibrante, l'artista staglia in alto a destra l'immagine fotografica di una piazza europea dominata da un mazzo di gerani rossi mentre campeggia al centro, in caratteri ebraici, la scritta in rosso Gheranyum. Lo scarto spazio temporale tra il ''qui e lì'' si traduce così nel contrasto visuale ma nell'equivalenza semantica tra la riproduzione fedele della realtà e la sua pura nominazione, con procedimento affine a quello adottato in One and three chairs (1965) dal maestro del concettualismo statunitense J. Kosuth. Un'opera, dunque, che conferma la sostanza mentale di quelle inquietanti combinazioni, la distanza tra un'opzione aniconica e una meramente rappresentativa. Ma le ascendenze di Lavie non sono solo europee o americane, come la mostra puntualmente registra.
"Volevo dipingere oggetti identificabili ma anche distanti dalla figurazione e dalla realtà, come le forme che si trovano nella pittura astratta; cercavo una forma definita, un oggetto", proclama nel 1937, e con largo anticipo sui tempi, A. Aroch (1908-1974), che contamina una pittura sostanzialmente astratta con scritte, segnali, insegne, come quella con gli stivali che ricordava nella bottega del calzolaio nel paese natale in Russia e che invano tentava di riprodurre fedelmente.
"Credo che Aviva Uri, attraverso me e gli altri, ha mosso una intera generazione. La sua linea è ultrasensibile nella sua antisensibilità", confessa Lavie a proposito del disegno libero, spregiudicato, allusivo ma non traspositivo dell'artista. Sia Y. Garbuz, allievo di Lavie allo State art teachers training college di R. Hasharon, sia H. Schlesnyak adottano il collage come forma espressiva. Ma mentre il primo affolla spasmodicamente la superficie con scritte, foto e disegni in una congestionata Isra-Babel, le composizioni del secondo (nato negli Stati Uniti, 1938-1980) sono rarefatte e nostalgiche, contemplano poche scritte, qualche ritaglio di giornale che riferisce di visite illustri, foto di protagonisti della storia come Lincoln o dell'arte come Rembrandt.
L'uso dei materiali poveri, la frammentazione e la processualità guidano anche il cammino degli scultori. N. Tevet (n. 1946) rivela sin dal 1974 una forte attenzione allo spazio quando costruisce Corner con tre sedie collegate da assi di legno. Il percorso successivo, come documenta l'esaustiva mostra apertasi nel marzo 1991 nel museo di Tel Aviv, registra, assieme a un maggior coinvolgimento spaziale, una progressiva complicazione compositiva. Listelli di legno prima, sedie e tavoli a mo' di unità modulari poi, fino all'introduzione odierna di oggetti trovati, strutturano equilibri precari che prolificano dal pavimento o franano dalla parete, in un'originale sintesi di pensiero costruttivista, dadaista e minimalista. Anche il coetaneo M. Gitlin, che vive tra New York e I., dopo le prime prove attente alla versione distillata di espressionismo astratto di M. Rothko e B. Newman, sposa l'opzione minimalista. Parte da una forma elementare a parete da cui strappa dei pezzi che si dispongono nello spazio vicino o lontano dalla forma madre; il rivestimento pittorico bianco o nero asseconda quei confini slabbrati come tracce del processo esecutivo. Y. Dorchin, invece, ospite del padiglione israeliano alla Biennale di Venezia del 1990, elegge il ferro come materiale base, nella foggia degli oggetti trovati che assembla poi in sculture dal rigore nuovamente minimalista.
Se dunque il minimalismo sembra essere una poetica ricorrente nella scultura degli anni Settanta, occorre sondarne la particolare declinazione israeliana. Una società fondamentalmente agricola, fondata e cresciuta sugli ideali pionieristici del lavoro collettivo e manuale, sulla rivoluzionaria vicenda dei kibbutzim che la quasi totalità degli artisti ha condiviso, non può riconoscersi nelle forme fredde, industriali e geometriche del minimalismo statunitense; opta invece per il legno, più caldo e flessibile, di cui rispetta la struttura originaria ostentando le tracce della lavorazione artigiana.
Analoga distanza si riscontra in ambito pittorico. Lo testimonia il lavoro di M. Kupferman, nato nel 1926 in Polonia e sopravvissuto all'Olocausto. Ossessivamente ricorrente nei suoi quadri è il motivo della griglia, non asettica e assertiva come quella della statunitense A. Martin, ma torturata dalla pittura che la ricopre, la cancella, la scarnifica facendone emergere brandelli da fondi monocromi grigio porpora. È proprio nella dialettica tra rigore e ansia di libertà, tra riservatezza e generoso coinvolgimento che il critico statunitense R. Pincus Witten legge l'originalità dell'astrazione ebraica in cui Kupferman s'inserisce come pietra miliare. Un equilibrio inquieto e instabile, quello dell'artista polacco, non condiviso per es. da M. Gershuni che, coetaneo di Lavie, esordisce negli anni Settanta con collages di foto e scritte fortemente improntati dalla tematica dell'here and there. Ne è esempio quello in cui il padre compare due volte, prima mentre legge, e dopo l'emigrazione del 1929, al lavoro nei campi. Abbandonata quella distanza, le opere recenti si configurano invece come ''paradigmi di un'esistenza ai limiti dell'inferno'' dove il colore, rosso sangue, si aggruma o distende a disegnare svastiche, stelle, a scrivere versi biblici, canzoni, inni. Un caso sempre meno isolato, un percorso sempre più condiviso.
Proprio per l'imprescindibilità del binomio forma-contenuto, l'arte israeliana non è impermeabile all'acutizzarsi della situazione politica e sociale alle soglie degli anni Ottanta. La guerra del Kippur prima, quella del Libano nel 1982, ma soprattutto il problema irrisolto dei territori e della questione palestinese al centro della conferenza di pace seguita alla Guerra del Golfo lasciano tracce profonde nell'opera degli artisti, che ingrossano le fila del pacifismo, che contestano le scelte governative, che promuovono mostre collettive di artisti arabi, israeliani e palestinesi. Se cambiano i contenuti e le forme che li esprimono, in direzione politica i primi ed espressionista le seconde, permane, nella generazione di artisti che esordiscono sul volgere degli anni Settanta, il carattere discontinuo e frammentario delle composizioni che spesso lasciano la parete per protendersi nello spazio. Come quelle di T. Getter, T. Geva, J. Levin e M. Na'aman, concettuali prima, brulicanti di immagini veloci, smarrite, cromaticamente urlanti, oggi. Valga, per tutti, il caso di Getter che crea oggi indecifrabili puzzles e che solo nel 1977 componeva The ideal city and Tel Hai yard, in cui sono didatticamente sovrapposte l'immagine classica e spaziosa della città ideale di Urbino e il semplice profilo di una casa-tipo israeliana. Se Geva traccia ritratti sommari di arabi con i nomi dei loro villaggi in ebraico, soldati e bombardieri si stagliano con precisione iperrealista dai reticoli o dal profilo dello stato d'I. del giovane D. Reeb. Mentre ai ritratti aggressivi di J. Mishori fanno eco le immagini di guerra computerizzate di D. Frumer.
"Abbiamo sbagliato perché le nostre pitture non hanno espresso l'ansia e la tensione della nostra vita in questa terra. Come può un artista, in un luogo teatro di una continua lotta per l'esistenza, separarsi dal contesto? È insopportabile oggi dipingere e dire: la mia pittura è come un uccello che canta su un albero. Dobbiamo esprimere la vita reale; confesso di non averlo fatto in passato": così si schiera, nel novero dei ''pentiti'', persino l'irriducibile Y. Streichman, pioniere di Nuovi Orizzonti. Se si riaccende, dunque, nel corso degli anni Ottanta, la pittura espressionista a rivestire nuovamente un'iconografia a sfondo politico-sociale, quasi un aggiornamento del binomio posto sotto accusa dal Gruppo 10+, persiste, pur assumendo sempre nuove fogge e significati, il tema antico e profondamente identificante della terra. Se emergeva dalle fluide e luminose stesure cromatiche degli astrattisti, se era restituita per frammenti ma con la distanza dell'apparecchio fotografico dalle composizioni contaminate dei Tel-Avivians, essa è assunta nel corso degli anni Sessanta e Settanta come materia base dell'opera per caricarsi poi, nel decennio successivo, di forti valenze politiche. Pochi esempi, nel confronto tra due mostre tenutesi a distanza di dieci anni. In Concepts+Information, ospitata nel 1971 nell'Israel Museum di Gerusalemme, a un anno dalla prima e fondamentale esposizione di arte concettuale al MOMA di New York, I. Danziger espone Seeded canvas, parte del più vasto progetto Rehabilitation of the Nasher Quarry. Una tela appesa a cavi è spruzzata con una particolare emulsione plastica che consente la crescita di una natura artificiale. Nato nel 1916 a Berlino, l'artista è sin dal 1939, quando crea la scultura Nimrod, animatore della tendenza ''canaanita'' che, tacciata dal sionismo d'idolatria, ricerca le origini ebraiche non già in Palestina ma nell'antico Oriente per farne rivivere, filtrati dal linguaggio artistico, miti e riti. Come A. Uri e A. Aroch per la generazione degli anni Sessanta e Settanta, Danziger costituisce allora per i giovani artisti alla ricerca di una nuova identità un sicuro punto di riferimento. Sempre a Gerusalemme, J. Neustein espone invece Jerusalem River Project, dove 55 altoparlanti diffondono nell'arida valle del deserto di Giuda il suono dell'acqua che scorre. Sul tema dello scavo, in cui si ricompongono l'anima agricola e quella difensiva della società israeliana, insiste con opere di foggia minimalista e fortemente politicizzate M. Ulmann (n. 1940). Scava nel 1972 nel kibbutz Metzer e nel villaggio arabo Messer due identiche trincee: lo scambio di terra tra i due luoghi ritualizza la scottante problematica del dialogo. Ancor più evocativo è il lavoro di H. Mehutan che circonda le trincee con sacchi di sabbia.
Dopo aver trascorso dieci anni a Londra, M. Kadismah torna in I. nel 1972 e dà avvio alla serie delle Forests. Dopo le prime, consistenti in lastre di metallo appese agli alberi, espone nel 1975 a Gerusalemme The canvas forest, una selva di lenzuoli appesi in cui sono ritagliate sagome di alberi. Kibbutzista convinto, invitato nel 1978 alla Biennale di Venezia, vi conduce un branco di pecore marcate di azzurro; riprende in seguito e fino a oggi quel tema, dipingendolo ossessivamente.
La mostra curata invece da A. Barzel nel 1980 a Tel Hai, organizzata dai 27 kibbutzim della zona con la partecipazione di 42 artisti, invita a creare un lavoro originale con e nel paesaggio. Se D. Meiri erige cupole di basalto intorno a tronchi d'ulivo, B. Arowetti installa una tenda rosa su una struttura al neon dello stesso colore. Se Dov Or Ner seppellisce in una buca profonda una bottiglia con sangue israeliano mischiato a quello arabo, T. Bauman stampa sulle pareti di un rifugio ritagli di giornali con notizie di scontri armati. Tra le numerose presenze spiccano quelle di P. Coen Gan e di Z. Goldstein. Nato in Marocco, Cohen Gan è particolarmente sensibile ai problemi d'integrazione e si batte per quella dei Palestinesi. Pianta una tenda in un campo profughi vicino a Gerico, idea il Dead Sea Project dove il binomio acqua dolce e acqua salata simboleggia quello tra vita e morte. Z. Goldstein, nato nel 1947 in Romania e vissuto a lungo a Milano, appende a un rifugio di Tel Hai un manifesto con la scritta Irrationalism - A Crisis New Ideology. Attento oggi al linguaggio costruttivista, realizza oggetti tridimensionali dalla foggia industriale proiettandone a parete l'immagine bidimensionale corredata di scritte.
Alla soglia degli anni Novanta il panorama artistico sembra dunque così delineato: accanto ad artisti il cui percorso è contraddistinto da una coerente continuità pur prodiga di scatti creativi, come nel caso di N. Tevet, M. Gitlin, Y. Dorchin e altri, s'impone una virata del linguaggio figurativo in direzione espressionista, la più consona a esprimere l'urgenza di problematiche sulla cui risoluzione si gioca oggi l'identità e il futuro della democrazia israeliana. Eppure, a dispetto di tale polarizzazione, la mostra Perspective, ospitata dal marzo 1991 nel padiglione Rubinstein del museo di Tel Aviv, promette un radicale cambio di rotta. Nove gli artisti invitati, di varie generazioni, dal più anziano R. Kadim alla giovanissima D. Almog (n. 1959). Nei tracciati pseudo-scientifici a inchiostro su lastre di plexiglas di N. Ziv, nelle immagini cristalline, astrali e femminili distribuite su supporti stratificati di D. Almog, nelle immagini dipinte che si distendono negli incavi dei massicci supporti tridimensionali di legno di O. Romberg, come pure nelle contaminazioni raggelate e kitsch di M. Pichadze, la curatrice D. Manor ravvisa gli stilemi del linguaggio post moderno: "Quest'arte cerca armonia, ordine e regolarità attraverso forme geometriche, proporzioni ideali, impiego di modelli scientifici e architettonici. Un'arte che realizza le aspirazioni internazionali dell'arte israeliana". Se è certamente auspicabile che essa si liberi dell'ipoteca contenutistica e di forme troppo spesso derivate, ciò non può e non deve avvenire a scapito di quei principi di dinamicità, irrequietezza e contaminazione che costituiscono l'essenza di un'arte autenticamente ebraica. Vedi tav. f.t.
Bibl.: H. Gamzu, Painting and sculpture in Israel, Tel Aviv 1951; S. Breitberg-Semel, in Artist and society in Israeli art 1948-1978, Catalogo della mostra, Tel Aviv Museum, ivi 1978; Id., in The want of matter. A quality in Israeli art, Catalogo della mostra, Tel Aviv Museum, ivi 1986; A. Barzel, Art in Israel, Milano 1988; D. Manor, Perspective, Catalogo della mostra, Tel Aviv Museum, Tel Aviv 1991; M. Omer, Arte contemporanea israeliana, Catalogo della mostra, Complesso monumentale San Michele a Ripa, Roma 1991.
Architettura. - Negli ultimi anni, in I. come in altri paesi, vi è stata nella cultura architettonica una serie di riflessioni critiche sulle concezioni dominanti nei precedenti decenni. Tuttavia, molte scelte operate in passato riguardo ai nuovi insediamenti e alle espansioni di città come Gerusalemme e Tel Aviv continuano a influenzare in modo determinante l'architettura e l'urbanistica.
La rete delle New Towns fu pianificata a partire dagli anni Quaranta con il duplice intento di ripartire la popolazione sul territorio e d'integrare per quanto possibile abitanti di recente immigrazione e provenienza geografica assai eterogenea. Sul modello britannico, una forte autorità per la pianificazione nazionale fu affiancata da commissioni distrettuali e strutture locali. L'aspra lotta contro l'ambiente desertico, con interventi-pilota riguardo a distribuzione idrica e sfruttamento dell'energia solare, pose in secondo piano la ricerca della qualità architettonica, emersa in tempi relativamente recenti. Negli ultimi anni è aumentato il peso delle iniziative autonome su base locale, mentre si è abbandonato l'ideale dell'assoluta integrazione.
Le vicende relative a Gerusalemme hanno assunto grande risalto internazionale: l'imponenza delle testimonianze storiche e la forte crescita demografica hanno reso questa città un caso esemplare sotto molti aspetti sia positivi sia negativi. L'autorevole consulenza del World Committee for Jerusalem, pur esercitando un influsso notevole soprattutto negli anni Settanta, non è sempre riuscita a indirizzare gli interventi nella Città Vecchia e le nuove espansioni.
Il quartiere ebraico nella Città Vecchia è stato ricostruito con caratteri vernacolari; i risultati sono stati definiti kitsch da critici come B. Zevi, membro del Committee fin dalla sua istituzione. Un notevole rilievo ha avuto comunque il recupero dell'antico cardo, vitalizzato come area commerciale (P. Bugod, E. Niv-Krendel, S. Aronson). Numerosi anche gli interventi in linguaggio moderno, sia pure con l'attenzione ai modi aggregativi dell'architettura mediterranea che contraddistingue in diverse versioni molte realizzazioni israeliane. Ne è un esempio l'opera dell'israeliano-canadese M. Safdie, una delle personalità più rilevanti della scena internazionale. Il suo Mamilla Business District, posto tra le nuove espansioni e la Città Vecchia, è stato tuttavia accusato di eccesso di scala rispetto a quest'ultima. Altre opere di Safdie sono i complessi residenziali Hosh e Block 38 (che comprendono restauri di antichi nuclei), la villa Van Leer (restauro e ampliamento di un edificio del 19° secolo) e il college per studenti-rabbini Porat Joseph, con il discusso progetto di sistemazione dell'area antistante il Muro del Pianto. Le grandi espansioni di Gerusalemme sono state pianificate negli anni Settanta con criteri oggi assai discussi. Sia le più recenti (Neeve Yakov, Pisgat Zeev, Ramat Alon) sia quelle precedenti di qualche anno (East Talpiot, Gilo) mostrano una grande varietà di forme dovuta all'impiego a rotazione dei vari architetti. Una certa uniformità è assicurata dal rivestimento in pietra di tutti gli edifici, imposto a Gerusalemme da una legge del 1918 che è stata sempre rinnovata.
Per es., Gilo, a sud della città, è stato progettato (A. Yasky e associati) per circa 10.000 abitazioni; è composto da settori di 700÷1000 abitanti (tra i progettisti, A. Yasky, R. Karmi, M. Lofenfeld e G. Gamerman, A. Spector e M. Amisar, G. Zippor). In particolare, il settore di A. ed E. Sharon è contraddistinto da forme e tecnologie decisamente moderne, mentre quello di S. Hershmann è esemplare dei recenti tentativi di un riallaccio alla tradizione abitativa locale, sia nella proposta di unità di vicinato di 50÷80 abitanti sia nella morfologia architettonica.
Un'altra linea di ricerca è quella di Z. Hecker, basata sulla combinazione di moduli poliedrici secondo il modello delle aggregazioni cristalline (abitazioni a Ramot). Continuano anche le realizzazioni sul Monte Scopus, come la Biblioteca Centrale (Y. Rechter), l'edificio di Pedagogia (D. Reznick con A. Spector e M. Amisar), la facoltà di Scienze morali (R. Karmi e associati).
A Tel Aviv, libera da condizionamenti storici, l'architettura ha spesso assunto caratteri moderni di tipo internazionale, come negli edifici rappresentativi del King Shaul Boulevard: Israel-America House e ''Kur'' office Building di A. ed E. Sharon; IBM Building (A. Yasky e associati); Asia House (M. Ben-Horin); Corti di Giustizia (Y. Rechter, M. Zarhy, M. Peri); ''Hakibbuts House'' Building (S. Mestechkin). Nell'università, W. J. Wittkower è autore del piano generale e di varie facoltà. L'ultima opera di L. Kahn, il Wolfson Engineering Building, è stata realizzata dopo la morte del Maestro da J. Mochly e Y. Eldar. A Tzrifrin (Tel Aviv), un originale college per infermiere è stato realizzato da A. ed E. Sharon.
Altre tendenze sono rappresentate in I. da A. L. G. B. Sonnino (serie di edifici pubblici in vari centri minori), S. Mandl e G. Kertesz (centro comunitario per i beduini a S. Caterina), I. M. Goodovitch (dormitori a Sharem-aSheik, stazione di servizio ad Haifā), J. Assa (museo-memorial della brigata corazzata Golani), A. Elhanani (centro psichiatrico a Tirat Carmel, Haifā), A. Mansfeld (asilo Shaar Ha῾ Aliya ad Haifā).
In definitiva, il panorama dell'architettura israeliana si presenta assai ricco e vario, come del resto è sua caratteristica fin dai tempi pionieristici del British Mandate, anche se spesso la critica ha lamentato la mancanza di un indirizzo unitario. Vedi tav. f.t.
Bibl.: B. Zevi, La forza di essere divisi, in L'Espresso, 14 maggio 1978, ora in Cronache di Architettura, 21, 1222, Bari 1978, pp. 182 ss.; An eye on Israel, con scritti di P. Maguire, U. Plesner, P. Davey, D. Fleischer, in Architectural Review, 165 (1979), 988, pp. 342-60; M. Levin, The second generation of Israeli architects, in Journal of Jewish Art, 7 (1980), pp. 70 ss.; Contemporary Israeli architecture, in Process: Architecture, con scritti di J. Kiriaty, M. Levin, 44 (1984); Baumeister, 82 (1985), 3; Moshe Safdie: building in contest, in Process: Architecture, con scritti di W. von Eckard, M. Safdie, 56 (1985); W. van Vliet, Housing policy as a planning tool, in Urban Studies, 22 (1985), pp. 105 ss.; M. Pidgeon, Report from Jerusalem, in Progressive Architecture, 66 (1985), 6, pp. 35 ss.; J. L. Kaufman, American and Israeli planners. A cross-cultural comparison, in Journal of the American Planning Association, 51 (1985), 3, pp. 352 ss. Vedi inoltre L'Architettura - cronache e storia, 25 (1979), 282, pp. 218-30; 27 (1981), 312, pp. 560-67; 29 (1983), 333, pp. 481-512; 32 (1986), 369, pp. 510-24; 34 (1988), 397, pp. 786-92; 35 (1989), 410, pp. 874-88; 36 (1990), 416, pp. 436-42; 37 (1991), 424, pp. 116-22.
Musica. - Al momento della creazione del nuovo stato (1948), I. contava due importanti accademie di musica, a Gerusalemme e a Tel Aviv, istituite negli anni Trenta e Quaranta, nonché un Istituto per la formazione degli insegnanti musicali, fondato nel 1945 a Tel Aviv.
Nel 1936 erano sorte l'Orchestra Filarmonica diretta da A. Toscanini e l'Orchestra Sinfonica dell'appena nato Ente Radiofonico, che rappresentarono un notevole incentivo per la produzione musicale del paese. Poco si era fatto nel campo operistico (se si esclude la compagnia di M. Golinkin formatasi nel 1923, che ebbe vita breve), e relativamente scarsa era la quantità di opere israeliane fino allora composte. Nel 1952 fu istituito il National Zimriya Song Festival per la musica corale, la cui tradizione è particolarmente forte nel paese. Nel 1956 veniva fondata la sezione israeliana dell'ISCM (International Society for Contemporary Music), cui si deve l'organizzazione delle annuali Settimane della musica israeliana, mentre nel 1962 l'Israel festival of music and drama inaugurava sotto la direzione di Ö. Partos un seminario per giovani compositori. Nel 1966 è nata per opera di R. Freier la Fondazione Testimonium che si propone la celebrazione dei diversi momenti della storia ebraica, commissionando lavori a compositori sia israeliani che stranieri. Di recente è sorto uno studio di musica elettronica presso l'Accademia musicale di Tel Aviv, diretto da Y. Sada'i (n. 1935).
Della generazione di compositori formatisi nei diversi paesi di origine e immigrati in Palestina per lo più intorno agli anni Trenta, deve essere ricordato in particolare il compositore russo J. Engel (1868-1927), trasferitosi a Tel Aviv nel 1924, alla cui opera si richiamano in diverso modo compositori giunti in Palestina in età più giovane, come P. Ben-Haim (1897-1984), M. Lavry (1903-1967), A. Boscovich (1907-1964), M. Avidom (n. 1908) ed E. Amiran (n. 1909).
Di essi, Ben-Haim è oggi forse il compositore israeliano più noto; nella sua opera è resa esplicita la tendenza a conciliare linguaggio musicale occidentale e tradizione musicale ebraica, facendo delle letture bibliche nella tradizionale forma della cantillazione (The sweet psalmist of Israel, tre movimenti sinfonici, 1953) un modello compositivo dei più fecondi per la nuova musica israeliana. Un altro gruppo di compositori si è invece interessato prevalentemente allo studio della tradizione musicale araba, e in particolare alle possibilità d'improvvisazione offerte dalla forma del Maqām. Del gruppo fanno parte compositori più giovani, la cui opera è legata, più di quanto non accadesse in passato, alla nuova educazione musicale ricevuta nel loro paese. Si ricorda per tutti H. H. Touma (n. 1934), allievo di Boscovich all'Accademia musicale di Tel Aviv, autore fra l'altro della Suite araba per pianoforte, del Sama'i per oboe e pianoforte, di due Studi per flauto e di Reflexus I per archi.
Negli anni Settanta si sono particolarmente affermati alcuni compositori della generazione più anziana, attenti alla conciliazione fra tradizione e tecniche di avanguardia, come Partos (n. 1907), J. Tal (n. 1910), A. Eherlich (n. 1915) e il più giovane N. Sheriff (n. 1935). Il loro lavoro è stato in diversa misura incoraggiato dai risultati delle ricerche di etnomusicologi come E. Gerson-Kiwi e A. Schiloach attivi presso il Centro di ricerca per la musica ebraica di Gerusalemme. Una posizione a parte occupano invece M. Seter (n. 1916) e Ben-Zion Orgad (n. 1928), la cui ripresa di motivi dell'antica liturgia non ha comportato una piena adesione alle tendenze di avanguardia.
La ricerca di un nuovo linguaggio improntato alla conciliazione fra tradizione orientale e tecniche seriali, avviata in I. dal compositore di origine polacca R. Haubenstock-Ramati (n. 1919) intorno agli anni Cinquanta, ha avuto una notevole influenza sui giovani compositori, fra cui J. Sada'i − autore di opere come Nuances per orchestra da camera, Aria da Capo per 6 strumenti e 2 magnetofoni, Interpolations variées per quartetto d'archi e cembalo − e i suoi allievi U. Scharvit (n. 1939), autore di Studi Eterofonici per pianoforte e Divertissement per mezzosoprano, flauto, fagotto, tamburo arabo e pianoforte, e J. Marchaim (n. 1940), autore di un Trio per flauto, viola e chitarra, Three Zen songs per due voci femminili e due flauti, Journeys per orchestra da camera e Retroactions per voce recitante e pianoforte.
Bibl.: P. Gradenwitz, Die Musik in Israel zwischen Orient und Okzident, in Schweizerische Musikzeitung, 1971, pp. 82-88; Id., Musik zwischen Orient und Okzident, Amburgo 1977; D. Harran, in The new Grove's dictionary of music and musicians, Londra 1980, pp. 356-58; Z. Keren, Contemporary Israeli music: its sources and stylistic development, Ramat-Gan 1980; A. Weisser, The modern renaissance of Jewish music, Vienna 19832; R. Collin, New music in Israel, 1983-1985, Tel Aviv 1985; P.V. Bohlman, The land where two streams flow: music in the German-Jewish community of Israel, Urbana (Illinois) 1989.
Cinema. - Sul territorio che avrebbe ospitato nel secondo dopoguerra lo stato di I. si avviò, fin dagli anni Dieci, una modesta attività documentaristica.
Nel 1912 il sionista russo J. Ben Dov realizzò "La vita degli ebrei a Eretz"; dal 1926 operò l'ebreo polacco N. Axelrod. Soltanto intorno al 1933 fu prodotto il primo lungometraggio ebraico, Oded Hano ded ("Oded il vagabondo"), diretto da H. Halakhmi, e bisognerà aspettare il 1936 per il primo film sonoro, Méal Hakhoravath ("Sopra le rovine"), realizzato da A. Wolf.
Nel secondo dopoguerra si pongono le basi di un'industria nazionale: dai principali studi, Geva e Herzlyia, escono soprattutto cinegiornali e documentari. Tra i migliori lungometraggi, dedicati prevalentemente ai temi della guerra contro gli arabi e all'occupazione della ''terra promessa'', si ricordano Givah 24 Eiyna Onad ("La collina 24 non risponde più", 1955) dell'inglese Th. Dickinson e He Hayu Assaram ("Erano dieci") di B. Dienar.
Negli anni Sessanta la produzione conosce un maggiore impulso e una più variegata articolazione in generi commerciali. Domina la figura di M. Golan, produttore e regista attivo in molti filoni (poliziesco, spionaggio, commedie musicali) che, insieme al cugino Y. Globus, comprerà nel decennio successivo la società statunitense Cannon costruendo un impero commerciale di dimensioni internazionali.
Tra gli autori di commedie si segnala E. Kishon, un celebre umorista fondatore del genere burekas (dal nome di un piatto locale) che mette in scena un ambiente di popolani abili e astuti in lotta con la ''modernità'' d'impronta occidentale (Sallah Shabati, 1962). A una più forte impronta d'autore risponde invece, almeno inizialmente, il cinema di U. Zohar che esordisce nel 1965 con Kahar ba'levana ("Un buco nella luna") andando incontro a un insuccesso commerciale che penalizzerà tutta la sua futura carriera, interrottasi nel 1977.
Tra la fine degli anni Sessanta e l'inizio dei Settanta nuovi autori s'impegnano su un duplice fronte: il linguaggio e lo stile, da una parte, l'analisi dei problemi delle giovani generazioni dall'altra.
Tra di essi ricordiamo Y. "Judd" Ne'Eman (Ha'simla, "La veste", 1970), A. Heffner (Le'an Ne'elan Daniel Wax?, "Ma che è successo di Daniel Wax?", 1972) e in particolare D. Wolman, che dopo l'opera d'esordio Ha'timhoni ("Il sognatore", 1970) realizza nel 1972 Floch, storia surreale e grottesca di un anziano ebreo che vuole divorziare dalla moglie per risposarsi con una donna più giovane capace di procreare. Il successo di pubblico che manca a Wolman arride invece ai film di M. Mizrahi finanziati dalla Golan-Globus, a cui si deve anche la più grande riuscita commerciale di tutto il cinema israeliano: Lemon popsickle ("Pop Lemon", 1978) di B. Davidson, sugli intrecci amorosi di tre adolescenti.
Una forte crisi economica, tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli anni Ottanta, riduce notevolmente la produzione commerciale. Contemporaneamente l'avvio di una politica governativa di sostegno apre una nuova stagione per il cinema d'autore, fitto di titoli e nomi, ormai presenti ai maggiori festival internazionali.
Tra gli esordienti si segnalano D. Wachsman, che nel suo primo lungometraggio (Transit, "Transito", 1980) racconta le difficoltà d'integrazione nella nuova patria degli ebrei nati in Europa; Y. Yosha, autore di Ha'ayt ("L'avvoltoio", 1981), un'opera polemica e scottante sullo sfruttamento dei familiari delle vittime di guerra, e di Rekhove Lelo Motza ("Vicolo cieco", 1982), sull'ambiente della prostituzione e della delinquenza; U. Barbash, il cui primo film (Meachorei Hasoragim, "Dietro le sbarre", 1984) descrive il rapporto tra gli arabi e gli ebrei nelle carceri israeliane; M. Bat-Adam (Al Khevel Dak, "Camminare sul filo", 1981), la prima regista donna del paese; I. Moshensohn (Rovè Huliot, "Il fucile di legno", 1979). Ricordiamo inoltre N. Dayan (Gesher Tzar Me'od, "Un ponte molto stretto", 1985), M. Recanati (Elef Neshikoth Ketanoth, "Cento piccoli baci", 1981), I. Yeshurun (Zug Nassoui, "Una coppia sposata", 1983), S. Ankri (Adama chama, "Terra ardente", 1986), E. Cohen (Hakayitz shel Aviya, "L'estate di Aviya", 1988), R. Bukaee ("Avanti Popolo", 1987) e A. Gutmann, che affronta i problemi degli emarginati e degli omosessuali (Nagua, "Alla deriva", 1983).
Una nuova crisi ha peraltro caratterizzato i primi anni Novanta con una riduzione del numero di film prodotti (scesi a mezza dozzina l'anno), appena un 4% dei fondi del ministero della Cultura destinati al cinema, e il prevalere delle pellicole commerciali su quelle attente alle questioni politiche, come Cup Final di E. Riklis, sul confronto fra Israeliani e Palestinesi.
Bibl.: O. G. Jacob-Arzooni, The Israeli film: social and cultural influences 1912-1973, New York-Londra 1983; D. Fainaru, Il cinema israeliano e la questione ebraica, in Bianco e Nero, 4 (1987), pp. 91-99.