Israele
La storia del cinema israeliano è legata inestricabilmente alle travagliate vicende storiche e politiche che, dalla nascita ufficiale del movimento sionista (1897) condussero, nel 1948, alla creazione dello Stato di Israele negli stessi territori già abitati dagli arabi. È una storia che sin dalle origini segue un percorso parallelo alla 'nascita della nazione', il suo costituirsi come territorio dove riunire, in nome della complessa ideologia sionista, i tanti popoli della diaspora ebraica: società dunque plurietnica per eccellenza, ma nazione 'virtuale', nata dalle logiche della politica e della diplomazia internazionali (cui la tragedia della Shoah impresse nel secondo dopoguerra una brusca accelerazione). Il cinema israeliano, dunque, non fa che riflettere e rappresentare i conflitti che segnano da sempre il Paese: una identità culturale (ma anche sociale ed economica) divisa tra Occidente e Oriente (ovvero tra il ceppo ashkenazita e quello sefardita); la costante dicotomia tra memoria e futuro, tra tensione 'eroica', coscienza di un destino 'unico' e ricerca della 'normalità'. A queste lacerazioni interne alla cultura israeliana si aggiunge il sanguinoso conflitto con il popolo palestinese espropriato delle sue terre e delle sue risorse, esiliato nella sua stessa patria, per uno dei più drammatici paradossi della storia contemporanea, dagli esuli e dalle vittime per antonomasia.
Se la terra di Palestina fu tra le prime a essere fotografata dal cinema e dai suoi inventori (gli operatori dei fratelli Lumière vi giunsero già nel 1896, quelli di Thomas A. Edison nel 1903), bisogna attendere la fine del primo conflitto mondiale, con la dissoluzione dell'impero ottomano e l'inizio del mandato britannico sulla Palestina, deciso dalla Lega delle Nazioni nel 1920, per vedere la nascita di un cinema realizzato direttamente da immigrati ebrei. Il primo di questi fu Ya'ackov Ben Dov, ebreo di origine ucraina che diede vita, con la Menorah, alla prima società cinematografica realizzando documentari direttamente finanziati e sponsorizzati dalle istituzioni sioniste sparse nel mondo, le quali intuirono ben presto lo straordinario potenziale che il nuovo mezzo espressivo poteva offrire alla loro causa. Erano film dichiaratamente propagandistici o educativi, che illustravano gli sforzi dei pionieri nel lavoro agricolo, nella costruzione di strade e opere pubbliche, nel diffondere la lingua o nel preservare i riti ebraici. Tali film circolarono anche all'estero, tradotti nelle diverse lingue della diaspora.Il primo film sonoro, che con grande abilità tecnica e fotografica mescolava fiction e documentario, fu Zot Hi Ha-᾽Arets (1935, Questa è la terra) dei fratelli Baruch e Yitzhak Agadati, che ripercorreva la storia e le realizzazioni concrete dei primi decenni del movimento sionista. In realtà il primo film di finzione in lingua ebraica, interpretato da attori teatrali, ῾Oded Ha- Noded (Oded il vagabondo), era stato 'girato' nel 1932 da Natan Axelrod e Haim Halachmi, ma venne distribuito privo di colonna sonora. Axelrod, uno tra i pionieri del cinema israeliano e fondatore della Carmel Film nel 1934, realizzò molti film e documentari di grande interesse sino allo scoppio del conflitto mondiale.
Tra gli anni Trenta e Quaranta furono numerosi i film realizzati allo scopo di ricercare fondi per alimentare la aliyah, ovvero l'emigrazione in terra di Palestina, specie dalla Germania nazista. Molte di queste erano produzioni straniere di ebrei residenti negli Stati Uniti.
Dopo la Seconda guerra mondiale, il genocidio perpetrato dai nazisti rappresentò uno dei temi centrali della cinematografia israeliana. Proprio un anno prima della nascita ufficiale dello Stato di Israele, il giornalista e romanziere ebreo americano Meyer Levin giunse nella sua futura patria per girare, con Herbert Kline, Beit Avi (1947, La casa di mio padre), imperniato sulla ossessiva ricerca dei propri genitori da parte di un ragazzino sopravvissuto al campo di concentramento di Buchenwald, che mescola abilmente gli elementi drammatici con la ricostruzione storica.
Dopo il primo conflitto tra ebrei e palestinesi (che per gli israeliani ha rappresentato la 'guerra d'indipendenza'), seguito alla costituzione dello Stato di Israele (14 maggio 1948, data che per il popolo palestinese segna da allora la nakba, 'catastrofe') e concluso dagli accordi di armistizio firmati tra il febbraio e il luglio 1949, il primo film di lingua ebraica del dopoguerra fu Hafugah (1950, Cessate il fuoco) di Amram Aman, commedia melodrammatica che riflette sulle contraddizioni tra la vita nei kibbutz, destinati a una rapida disgregazione per l'esaurirsi della spinta ideologica che ne aveva sostenuto la diffusione, e le tentazioni della vita cittadina.
Se il contrasto tra la tensione etica e politica della vita comunitaria ‒ che aveva segnato l'opera dei 'padri della patria' ‒ e l'affermarsi di una borghesia edonistica, materialistica e occidentale era destinato a divenire nel tempo una questione nevralgica per la cultura e per il cinema israeliano, la guerra, l'indipendenza, le figure eroiche e mitiche del sionismo, la costruzione della nuova nazione, l'olocausto e i suoi sopravvissuti restano i temi dominanti della produzione tra gli anni Cinquanta e Sessanta, definita del 'realismo sionista'. Una delle opere più riuscite e rappresentative del genere bellico, il primo ad affermarsi compiutamente nella cinematografia israeliana, è una coproduzione tra I. e Stati Uniti Giv῾a 24 eyna ῾ona, noto anche come Hill 24 doesn't answer (1955; Collina 24 non risponde), la cui regia fu affidata all'inglese Thorold Dickinson. Mescolando melodramma, ricostruzione storica e topoi classici del film di guerra, l'opera racconta in flashback e con efficace indagine psicologica le storie di quattro soldati di diverse nazionalità, incaricati di difendere un'altura sulla strada per Gerusalemme. Se il tema dei volontari che dall'estero aiutarono I. nella cosiddetta guerra d'indipendenza darà spunto a diverse produzioni statunitensi, la più celebre delle quali resta Exodus (1960) di Otto Preminger, le coproduzioni con gli Stati Uniti (ma anche con Gran Bretagna e Francia), girate per lo più in inglese e destinate principalmente ai mercati internazionali, contribuirono fortemente allo sviluppo professionale di quadri tecnici e artistici che acquisirono una formazione secondo gli standard della produzione internazionale, determinante per la nascente industria cinematografica israeliana, vista l'assenza di qualsiasi politica statale di sostegno, che sarebbe continuata sino alla fine degli anni Settanta.
Se molti registi, come per es. Baruch Dienar, andarono a studiare cinema negli Stati Uniti, allo sviluppo della cinematografia israeliana diedero un contributo importante anche numerosi cineasti esuli che seguirono gli imponenti flussi migratori di ebrei da tutto il mondo favoriti dalla 'legge del ritorno' varata dal primo ministro Ben Gurion. Tra questi lo statunitense Larry Frish, la cui commedia Tel Aviv Taxi (1954) si ricorda soprattutto per essere stata il primo lungometraggio completamente prodotto in patria, nei Geva Studios vicino a Tel Aviv; ma anche Nuri Habib (nato in Iraq) autore del primo film israeliano a colori, Ha-Tiqvah (1956, Nostalgia di una patria) che rifletteva proprio sui flussi migratori, ma ambientando la vicenda negli anni Venti, l'epoca 'eroica' del sionismo.
Fu in quegli anni che, a seguito delle ondate di immigrati ebrei di origine araba provenienti dall'Africa settentrionale e dal Medio Oriente, le tensioni tra le due principali componenti della cultura ebraica ‒ con i sefarditi di origine araba relegati a ruoli minori e anche socialmente emarginati dalla componente ashkenazita, che costituiva l'establishment nazionale ‒ iniziarono a manifestarsi diffusamente. Al contempo, l'immagine dei palestinesi e del mondo arabo avrebbe rappresentato, anche nel cinema, uno spartiacque per gli sviluppi futuri. Nei film israeliani realizzati prima degli anni Sessanta, i palestinesi erano mere comparse e, come gli altri popoli arabi, nemici avvolti dall'anonimato, allo stesso modo delle tribù di nativi indiani nelle epopee western americane ed europee; o erano dipinti, per es. in molte commedie, come personaggi esotici e di scarsa cultura, comunque sempre personaggi marginali.
Sotto la spinta delle nouvelles vagues europee, gli anni Sessanta segnarono la nascita di nuove e impetuose correnti nel cinema israeliano (definito il cinema della 'nuova sensibilità'), che si ritrovò a dover conciliare le influenze del cinema d'autore europeo e la specificità culturale israeliana. E se in quegli anni esso fu soggetto a dure critiche provenienti dagli ambienti ortodossi e nazionalistici, in seguito gli sono stati rimproverati una eccessiva attenzione alle istanze formali ed estetiche e il fatto di avere completamente ignorato i reali problemi socio-politici del Paese.
In realtà, in un periodo in cui l'industria cinematografica iniziava a consolidare le proprie strutture, la nouvelle vague israeliana ricevette un certo successo di critica, specie a livello internazionale, ma fu quasi sempre bocciata sul piano commerciale. Il box office premiava infatti solo i generi collaudati, da una parte il bellico o nazional-eroico e, dall'altra, le commedie e i melodrammi etnico-popolari, le cosiddette burekas (dal nome di un dolce tipico), che mostravano in modo evidente le influenze del melodramma arabo, in particolare egiziano, ma anche di opere turche e iraniane, comunque orientali, e che finivano per attirare in primo luogo le comunità di ebrei di origine araba (sebbene fossero dirette e interpretate nella maggior parte dei casi da registi e attori di origine ashkenazita). Punta di diamante del genere burekas, almeno sul piano commerciale (ottenne infatti un successo strepitoso con un milione e duecentomila spettatori, cioè la metà della popolazione di Israele del tempo!), fu Sallah Shabbati (1964) diretto da Ephraim Kishon, il quale adattò per lo schermo una sua pièce teatrale, un complicato intrigo familiare centrato sulle disavventure e le astuzie per la sopravvivenza di una famiglia di ebrei arabi a contatto con gli ebrei 'occidentali', che servì da modello per una copiosa fioritura di prodotti di genere.Il successo delle burekas era destinato a durare sino alla metà degli anni Settanta; tra i titoli più famosi si ricordano Lupo (1970), Kats ve Carasso (1971), Casablan (1973), tutti di Menahem Golan. Personaggio poliedrico ed eccessivo, che ha sempre diviso la critica del suo Paese, Golan diresse thriller e film drammatici, prima di intraprendere negli Stati Uniti un'ambiziosa e burrascosa carriera come produttore, culminata nella coproduzione tedesco-israeliana Ha-Qosem mi-Lublin (1979; Il mago di Lublino), dal romanzo di I. Singer.In questo scenario, i nuovi registi, che per fattori generazionali non avevano vissuto gli anni eroici della nascita d'I. e non erano stati influenzati dall'ideologia sionista, ma che per la maggior parte erano giovani borghesi ashkenaziti educati secondo canoni occidentali, si opposero fermamente a entrambi i generi, rivendicando il segno d'autore contro il cinema commerciale e usando, a causa dei budget limitati, la cinepresa 16 mm ed équipes tecniche 'leggere'.Prototipo e precursore del nuovo cinema fu Ḥor be-Lavanah (1965, Un buco nella luna) di Uri Zohar.
Attore di teatro e di cinema, regista autodidatta, Zohar rappresentò per diversi anni una figura carismatica del cinema israeliano. Prima della crisi mistica che lo avrebbe portato a diventare un religioso realizzò, oltre a numerosi documentari e prodotti televisivi, undici lungometraggi, alternando opere personali e sperimentali a film decisamente commerciali, drammatici ma anche del genere burekas. Ḥor be-Lavanah, prodotto in bianco e nero, caratterizzato dalla musica francese, dall'uso onirico delle scenografie, delle luci, del montaggio, rappresentò per la prima volta sullo schermo una denuncia diretta dell'ideologia sionista e una rivolta contro l'uso manipolatorio del suo 'realismo' cinematografico. Tutto ciò grazie alle sua struttura di 'film nel film', surreale e narrativamente frammentario, alla sua cifra dichiaratamente parodistica verso le pratiche del cinema nonché dei pregiudizi (come quello nei confronti dei personaggi arabi) nei film israeliani e attraverso il duplice personaggio di un immigrato che diventa regista, interpretato dallo stesso Zohar. In seguito, Zohar si distinse, oltre che per le scelte propriamente stilistiche, per la capacità di fornire una sensibile analisi introspettiva dei personaggi (l'impossibile triangolo amoroso tra uno studente, una donna matura e il figlio di lei) nel drammatico Shlosha yamim ve yeled (1967, Tre giorni e un ragazzo), da un racconto di A.B. Yehoshua, come anche per la lucida riflessione sulla situazione sociale e psicologica del Paese dopo la vittoria militare nella guerra dei Sei giorni in Kol mamzer melekh (1968, Ogni bastardo un re). Un evento, quello della vittoria militare, che avrebbe peraltro dato nuova linfa narrativa e produttiva a quel cinema 'nazionale ed eroico' avversato da Zohar; d'altra parte la leva dei nuovi registi crebbe impetuosamente e tra i nomi più significativi vanno ricordati quelli di Nissim Dayan, Abraham Heffner, Moshe Mizrachi, Daniel Wachsmann, Dan Wolman, Isaac Yeshurun che formarono il movimento Qayits (acronimo di Qolnoa῾ Yisraeli tsa῾ir, Giovane cinema israeliano).
Svanita l'euforia per il successo nella 'guerra lampo' del 1967, il logoramento sociale ed economico imposto dalla cronicità del conflitto (la 'guerra permanente' come la definì il generale Moshe Dayan) seminò inquietudini nel Paese, destinate a esplodere dopo la prima sconfitta militare nella guerra dello Yom Kippur (1973).
Questa situazione ebbe forte eco oltre che nella produzione letteraria e teatrale, anche in quella cinematografica. Il movimento della 'nuova sensibilità' assunse così una direzione più politica. Il film che più di ogni altro si fece interprete di questa nuova tendenza descrivendo impietosamente la crisi morale del Paese e denunciando il militarismo e la pressione poliziesca imperanti ‒ e il primo, forse, ad affrontare senza mezzi termini i nodi oscuri del conflitto con i palestinesi ‒ è Shalom, tefilat Ha-Derekh (1973, Shalom, la preghiera per la strada) opera d'esordio di Yaki Yosha, già assistente di Zohar, che del film fu anche sceneggiatore e produttore. Shalom ("pace" in lingua ebraica) è il nome del giovane protagonista, che vaga, a piedi o in automobile, discutendo con sé stesso o con gli amici per le strade e i dintorni di Tel Aviv, in un film privo di struttura narrativa, ma di grande sincerità e originalità stilistica, debitore di numerose opere 'contestatarie' del Sessantotto europeo e statunitense, da Easy rider (1969) diretto da Dennis Hopper ad Alice's restaurant (1969) di Arthur Penn, a Zabriskie Point (1970) di Michelangelo Antonioni.
Altri film significativi di questa spiccata tendenza socio-politica sono Le'an Ne῾elam Daniel Wax? (1972, Che fine ha fatto Daniel Wax?) di A. Heffner, una sorta di 'grande freddo' anni Settanta e ᾽Or min Ha-Hefqer (1973, Luci sul nulla) di N. Dayan, regista di origine siriana, che descrive la difficile condizione di alcuni giovani in un quartiere alla periferia di Tel Aviv. Ma il primo film critico in maniera esplicita nei confronti dell'istituzione del servizio militare (in I. la leva è assolutamente obbligatoria e dura tre anni) fu Masa῾ ᾽Alunqot (1977, Truppe paracadutiste) di Yehuda Judd Ne'eman.
La sconfitta del partito laburista nelle elezioni del 1977 segnò, dal 1979, una nuova politica governativa di sostegno al cinema di qualità. Mentre il filone della commedia entrava in crisi, il cinema israeliano privilegiava i temi sociali e politici, visti per lo più attraverso vicende intime e personali. Nel frattempo, tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli anni Ottanta, emerse una giovane generazione di filmmakers che scelse decisamente la strada del documentario. Tra questi il nome più noto a livello internazionale è quello di Amos Gitai con opere che testimoniano della difficile convivenza tra arabi e israeliani, rivelatosi poi come uno dei più importanti cineasti contemporanei. Altri giovani documentaristi hanno fatto conoscere, a partire dagli anni Novanta, i loro lavori anche fuori I., come Nurith Aviv, David Benchetrit ed Eyal Sivan.
L'invasione del Libano (1982) acuiva le tensioni con i Paesi musulmani e la crisi sociale interna. La nuova consapevolezza politica delle relazioni con gli arabi spinse i registi israeliani a superare gli stereotipi culturali trovando attenzione presso pubblico e critica fuori dal Paese. Se D. Wachsmann affronta il tema delle espropriazioni delle terre ai danni dei palestinesi con Khamsin (1983, Vento dell'Est), con Me'ahorei Ha-soragim (1984; Oltre le sbarre) Uri Barbash valica gli stilemi del genere carcerario, descrivendo, con grande intensità e caratterizzazione dei personaggi, la convivenza tra detenuti politici arabi e criminali comuni israeliani all'interno di una prigione di massima sicurezza. Il film, di estremo realismo ma al tempo stesso chiara metafora della comune condizione di prigionia dei due popoli, 'condannati' alla reciproca accettazione e alla coesistenza, venne proiettato nell'ambito di numerosi festival, ottenendo il premio della critica internazionale alla Mostra del cinema di Venezia e una nomination all'Oscar come miglior film straniero.
Dalla fine degli anni Ottanta il cinema israeliano ha affrontato temi progressivamente più impegnativi e conflittuali: l'omosessualità (specie con le opere di Amos Gutman, morto prematuramente di AIDS nel 1993), il legame tra religione e politica e il fanatismo ortodosso, come in Ha-Meyu῾ad (1990, Il designato) di D. Wachsmann, il diffondersi della criminalità e del traffico di droga, la fuga da I., specie verso gli Stati Uniti, e le tensioni sociali e familiari che ne conseguono, come in Ha-Merhaq (1994, La distanza) di D. Wolman.
Ma la svolta forse più emblematica di questa nuova visione (definita da critici ed estimatori apocalittica) è rappresentata dalla trilogia che l'attore e regista Assi Dayan (figlio del celebre uomo politico ed eroe della guerra dei Sei giorni, Moshe Dayan) ha realizzato nel corso degli anni Novanta. Dopo aver diretto per circa un ventennio commedie burekas e film di satira sociale, Dayan ha girato nel 1992 Ha-Ḥayim ῾al-pi Agfa (La vita secondo Agfa), dove, nell'arco di una sola notte, un pub di Tel Aviv chiamato Barbie (come il manicomio) diventa il microcosmo di un'intera città e dei suoi mali ‒ solitudine, disperazione, discriminazione e alienazione sociale ‒ attraverso una caleidoscopica galleria di personaggi che, oltre a riepilogare la storia e i generi del cinema israeliano, raffigura i diversi volti della società contemporanea. L'ambientazione del film, girato in un cupo bianco e nero e squarciato dal colore solamente nelle scene finali, rievoca ironicamente quella del classico Casablanca (1942) diretto da Michael Curtiz: la proprietaria del piano bar è qui però interpretata da una donna, la grande star teatrale e cinematografica Gila Almagor, le cui vicende autobiografiche sono state trasposte sullo schermo da Eli Cohen (Ha-Qayts shel Aviya, 1988, L'estate di Aviya, Orso d'argento a Berlino, ed ῾Ets Ha-Domim Tafus, 1995, Sotto l'albero di Domin). Dopo Ha-Ḥayim ῾al-pi Agfa A. Dayan ha diretto Smikhah Ḥashmalit u-Shmah Mosheh (1995, La coperta elettrica), una commedia nera sul mondo della droga e della prostituzione, e Mar Baum (1997, Il Signor Baum), un'amara allegoria in cui il protagonista, il cinquantenne signor Baum, nel ritirare dalla clinica i risultati del suo check-up annuale scopre di avere soltanto un'ora e mezza di vita, giusto il tempo di un film.L'attenzione sia alla forma sia al contenuto è divenuta una costante del cinema israeliano. Ne sono esempi Leneged ῾Einayim Ma῾araviyot (1996, Sotto gli occhi dell'Occidente), opera d'esordio di Joseph Picthhadze, liberamente ispirata al romanzo di J. Conrad, nel quale il regista, di origine georgiana, racconta, con grande cura della composizione, in un poetico bianco e nero e mescolando i generi (il road movie e il thriller metropolitano) e i set (le estatiche sequenze nel deserto del Negev), il ritorno in I. di un architetto emigrato a Berlino che scopre la verità sul passato del padre. Un film che indaga con sguardo acuto le dinamiche di integrazione culturale delle diverse generazioni di immigrati e analizza lo spaesamento dell'esilio e del ritorno; temi già presenti in Qafeh ῾im Limon ((1994, Caffè al limone) di Leonid Gorovec, che narra di un attore ebreo di grande successo in Russia che decide di tornare in I. con la famiglia, ma una volta arrivato si trova ad affrontare le incomprensioni linguistiche e culturali, cade in una profonda frustrazione, decide di tornare a Mosca, dal suo pubblico, ma si ritrova in un vicolo cieco. Storie di immigrazione, ma in una chiave da commedia ironica, ed entrambe ambientate nella comunità di immigrati russi e georgiani, sono anche al centro di Ha-Ḥaverim shel Yana (1999, Gli amici di Yana) di Arik Kaplun e di Ḥatunah me'uheret (2001; Matrimonio tardivo) opera prima di Dover Kosashvili, coproduzione tra Francia e I. (presentato al festival di Cannes 2001, nella sezione Un certain regard), che ha per protagonista un trentenne dottorando in filosofia, il quale ha una relazione con una donna di origine marocchina divorziata e madre di una bambina; situazione inaccettabile per i suoi genitori che, ignari di tutto, tentano continuamente di fargli conoscere ragazze illibate con cui accasarsi.
Dai primi anni Novanta, infrangendo uno storico tabù, le donne filmmakers israeliane ‒ quasi sempre utilizzando il più agile supporto del video e del digitale ‒ hanno assunto un ruolo cruciale nel fornire una testimonianza, attraverso un punto di vista decisamente fem-minile, sulle tragiche conseguenze umane del conflitto con i palestinesi e sul complesso 'puzzle identitario' di I. e della regione. Tra esse Sini Bar David, che in Ha-Lo gara kan af Pa᾽am (1998, noto anche come The South: Alice never lived here) rintraccia la memoria dell'esilio della sua famiglia di origine sefardita; Michal Aviad, che con l'intenso Lev Ha-᾽Aretz (2001, noto anche con il titolo Ramleh) segue i percorsi, destinati a non incrociarsi, di quattro donne israeliane di diversa cultura e religione; Anat Even e Ada Ushpiz con ᾽Asurot (2001, noto anche come Detained), sulle terribili vicende di tre vedove palestinesi; e Yifat Keidar che in Le᾽an at nosa᾽at (2001, noto anche con il titolo Between the lines) documenta il coraggioso lavoro di Amira Hass, corrispondente del quotidiano "Ha-᾽Aretz" dai Territori occupati.
Agli inizi del 21° sec. la produzione cinematografica israeliana si è attestata su una media di circa dieci film all'anno. Nonostante le rilevanti novità sul piano creativo permangono infatti problemi strutturali, come la sostanziale dipendenza dai fondi di sostegno statali (peraltro limitati), un'audience ancora molto ristretta, i vincoli linguistici e le scarse opportunità di sviluppo e formazione professionale. E il quadro socio-politico complessivo non aiuta certo a formulare previsioni ottimistiche sugli sviluppi futuri.
G. Fofi, M. Morandini, G. Volpi, Storia del cinema, 3° vol., Milano 1988, pp. 418-20.
A. Kronish, World cinema: Israel, Trowbridge 1996.
A. Schweitzer, Le cinéma israélien de la modernité, Paris 1997.
D. Fainaru, Dall'Est europeo al Medio Oriente: l'anima divisa del cinema israeliano contemporaneo, in Alpe Adria Cinema Trieste Film Festival, 13° ed., s.l. 2002 (catalogo della mostra).