Istituto nazionale L.U.C.E
di Gian Piero Brunetta
Organo tecnico istituito nel 1924 e denominato inizialmente L'Unione Cinematografica Educativa (da cui l'acronimo L.U.C.E., usato comunemente come sostantivo, Luce) con la finalità di propaganda politica e diffusione della cultura attraverso la cinematografia, mediante la realizzazione di cinegiornali e documentari. La storia dell'I. N. L., nei suoi tre quarti di secolo di vita, pur percorsa da spinte d'autonomia e pur nella sua ricchezza e complessità, rimane soprattutto legata alla storia del fascismo. Dal regime fascista ricevette la spinta e il sostegno decisivo per una rapida crescita e alcuni caratteri che ne formarono l'identità. In cambio ne celebrò subito i fasti e ne registrò le trasformazioni esterne, lo spirito di conquista, la costruzione dei riti e dei miti, lo sforzo e i processi d'identificazione della Nazione con la figura di un dittatore desideroso da subito di acquisire visibilità e peso internazionali. Per mezzo dei cinegiornali Mussolini e il fascismo riuscirono a costruire quotidianamente una sorta di monumento celebrativo per immagini in onore del duce e delle sue imprese. Negli ultimi cinquant'anni del Novecento il Luce, oltre ad aver perso il ruolo monopolistico dell'informazione cinematografica per la nascita di altre testate e l'avvento della televisione che rese subito obsoleto quel tipo di giornalismo visivo, attraversò fasi assai diverse che lo portarono ad assumere progressivamente ruolo e funzioni distanti e distinti da quelli del primo ventennio di vita. Una storia significativa, certo, ma meno coesa. Si possono distinguere due anime nella prima fase della storia del Luce: una 'naturale', che si caratterizzò subito per la forte presenza di geni didattici ed educativi, e l'altra, acquisita in un primo momento per ragioni opportunistiche, che si pose al servizio del regime e del suo capo con il ruolo di annalista e cantore visivo delle sue gesta. Il monumento per immagini costituisce tuttavia solo una parte ‒ quella finora più visibile e conosciuta ‒ dell'enorme patrimonio dell'Istituto. L'altra racconta molte altre storie di rappresentazione dell'Italia, degli italiani e del mondo al di fuori dell'Italia
All'inizio l'organismo di produzione si chiamava Sindacato istruzione cinematografica (SIC) ed era nato per produrre e diffondere film educativi; era una piccola società anonima, costituita nel 1924 per iniziativa di Luciano De Feo, avvocato e giornalista con una notevole esperienza di politica economica internazionale. I primi titoli del 1924 comprendevano alcuni documentari di Roberto Omegna, il pioniere della cinematografia scientifica italiana, come La vita dei ragni Epeira, o La vita delle farfalle, oltre a un originale resoconto del viaggio di Guelfo Civinini e Franco Martini in Africa orientale dal titolo Aethiopia. Ma già nel settembre dello stesso anno, per intervento diretto di Mussolini, favorevolmente impressionato da un documentario sulla sua attività di governo (Dove si lavora per la grandezza d'Italia, di Mario Albertelli), la piccola impresa si trasformò in un organismo sostenuto da vari enti e battezzato dallo stesso Mussolini L'Unione Cinematografia Educativa.
Il capitale sociale iniziale di un milione di lire fu portato a due e mezzo e sottoscritto dalle seguenti istituzioni: il Commissariato generale per l'emigrazione, la Cassa nazionale per le assicurazioni sociali, l'Istituto nazionale delle assicurazioni, l'Opera nazionale combattenti, la Cassa nazionale assicurazioni infortuni sul lavoro. Direttore generale dell'organismo era Luciano De Feo, vicepresidente il marchese Giacomo Paulucci di Calboli Barone e presidente l'ambasciatore Giuseppe De Michelis, senatore del Regno. Mentre sarebbero dovuti passare ancora alcuni anni perché il fascismo si occupasse seriamente dell'industria cinematografica e varasse una legge che ne favorisse la ripresa dopo che la produzione era scesa praticamente a zero, fu sufficiente la visione di pochi minuti di documentari per convincere Mussolini delle enormi possibilità propagandistiche ed educative del nuovo mezzo. A pochi mesi di distanza dalla nascita di questo organismo Mussolini, con una lettera ufficiale del 14 luglio 1925 indirizzata ai ministri dell'Interno, delle Colonie, dell'Economia nazionale e dell'Istruzione pubblica, li invitò a "riconoscere ufficialmente la L.U.C.E. e ad utilizzare la sua organizzazione tecnica ed i suoi film per fini di educazione, istruzione e propaganda". Il 5 novembre 1925, con il r.d.l. nr. 1985, il L.U.C.E. fu trasformato in Ente parastatale (l'Istituto Nazionale Luce) alle dipendenze del governo.Grazie al Luce e al suo ruolo istituzionale il fascismo fu il primo governo al mondo a esercitare un controllo diretto sulla cronaca cinegiornalistica e Mussolini il primo capo di Stato capace di costruirsi, grazie ai cinegiornali, un gigantesco arco di trionfo per le proprie imprese. Per legge i cinegiornali vennero proiettati obbligatoriamente in tutte le sale italiane a partire dal 1926. La propaganda politica era naturalmente l'obiettivo principale, ma assieme a essa furono sperimentati nuovi modi di comunicazione e di informazione giornalistica, legati alla narrazione quasi diaristica della piccola storia quotidiana dell'Italia e degli italiani.Con r.d.l. del 24 gennaio 1929 il Luce fu dichiarato unico organo tecnico cinematografico al servizio dello Stato e in seguito alla creazione del Ministero della Cultura popolare (1937) l'organismo passò alle dipendenze e sotto il controllo del Ministero stesso.
Il primo cinegiornale apparve nel giugno del 1927 e in quel primo anno ne furono prodotti 44, mentre tutta la produzione muta, che si spinse fino al gennaio del 1931, fu di circa 900 unità. Dal 1931 al 1943 vennero realizzate due serie di cinegiornali: la prima, che si concluse nel periodo compreso tra gennaio e marzo 1940 e conta 1693 numeri; la seconda, che ne comprende 379. Ogni settimana venivano realizzati quattro numeri di cinegiornale della lunghezza di 250 metri circa con servizi riguardanti l'attualità sia italiana sia straniera. Per i servizi stranieri si procedeva allo scambio di notizie con le agenzie e le case di produzione di vari Paesi, e in alcuni casi venivano rielaborate le notizie stesse. A partire dagli anni Trenta poi furono realizzati dei numeri speciali dei Giornali Luce per l'estero in varie lingue. Ma il Luce realizzò, accanto ai cinegiornali, un'imponente massa di documentari, corto, medio e lungometraggi e, in una seconda fase, entrò anche nel campo della fiction. Centinaia e centinaia di titoli, dall'indomani della sua nascita, che vanno dalla Fabbricazione del cappello di pelo di coniglio (1925) ai Funerali della prima regina d'Italia Margherita di Savoia (1926) da La vita all'aperto, il mezzo di educare i bambini ad una sana vita igienica (1926) al XV giro ciclistico d'Italia (1927), dalla documentazione della spedizione al Polo Nord dell'aeronave Italia alla lotta contro la tubercolosi, dal Concorso pompieristico internazionale di Torino (1928) alla Coltivazione dello zafferano (1929), a titoli dedicati alla lavorazione del cuoio, del legno, delle ceramiche, del vetro di Murano, del marmo, dalla documentazione dei lavori della direttissima Firenze-Bologna alla vita dei topi bianchi, delle formiche, della zanzara, sempre realizzati da Omegna. Titoli che costituiscono, assieme ai cinegiornali, una fonte insostituibile e straordinaria di documentazione antropologica dell'Italia. Se l'Italia povera e sottosviluppata era in pratica invisibile e restava il più possibile al di fuori dell'obiettivo della macchina da presa, i cinegiornali e i documentari intendevano raccontare da una parte con spirito enciclopedico, dall'altra con la voce del cantore epico, la spinta dell'Italia in cammino verso la modernizzazione, senza mai dimenticare le radici nella tradizione. Così, accanto a titoli come L'Italia di domani, lungometraggio del 1927, o a documentari sul varo del transatlantico Conte Grande, o a quelli dedicati all'igiene della casa o ai successi nella lotta contro la tubercolosi, o ai lavori di costruzione della diga di Santa Vittoria in Sardegna, o all'industria idroelettrica italiana, vi sono altri documentari rivolti al mondo contadino sull'uso dello zolfo nelle pratiche agricole, o sulla lotta alla fillossera in viticoltura, o sulle sagre nel Matese, sulla festa dell'uva a Velletri, o su altre feste popolari e patronali in varie regioni della penisola.Inoltre, nel fissare gli stereotipi discorsivi e visivi sia sulle grandi città d'arte sia su luoghi meno noti, il Luce ebbe il merito di incrociare la microstoria locale e di tentare di innestarla con uno spirito unitario nell'alveo della storia nazionale. Le piccole patrie acquistavano così visibilità per i loro caratteri specifici e per il ruolo che svolgevano all'interno della cultura nazionale.
Ma a trionfare fu forse quella che si può chiamare la sindrome 'titanico-muratoria' del regime, che dagli anni Trenta sostituì quella ruralista e che propose, per moltissime volte, servizi e cortometraggi sull'inaugurazione del cippo marmoreo a Tor Carbonia in memoria di Michele Bianchi, o della ferrovia elettrica del Gargano, o dell'ospedale Costanzo Ciano di Livorno, o di un sanatorio a Torino, o della casa del balilla a Perinaldo in provincia di Imperia, o del monumento ai caduti di guerra di Velletri, del dormitorio pubblico di Primavalle, dell'ambulatorio medico del gruppo fascista nomentano. Una frenesia e un fervore al tempo stesso distruttivi, restaurativi e costruttivi percorrono decine e decine di servizi del Luce e aiutano a ritrovare le forme rimaste intatte per secoli di paesaggi modificati di lì a poco in maniera irreversibile e irreparabile. E poi vi sono le miriadi di incontri ufficiali, di cerimonie pubbliche, di viaggi del capo del governo, del re e di personalità fasciste in lungo e in largo nella penisola, una quantità gigantesca di rituali ripetitivi, strette di mano, sorrisi e saluti alla folla, sfilate e visite: dalla visita del presidente del Consiglio turco İsmet Pascià a Roma, a quella del duce ai lavori della bonifica pontina, o alla fabbrica del Lingotto della Fiat a Torino, dalla visita di Arnaldo Mussolini agli stabilimenti della Compagnia italiana alimentare (CIA) a quella effettuata dal re all'esposizione di pittura antica spagnola.
È possibile considerare questa enorme massa di materiali come un testo unico che si snoda in maniera ininterrotta, fondandosi su strutture ripetitive formalizzate sin dall'inizio, che si andarono modificando con un andamento lento, quasi inavvertibile. E si può parlare di un sistema unitario di elaborazione e trasmissione di un modello comunicativo moderno, che serviva sia all'edificazione della mitologia mussoliniana e di un'iconologia divistica costruita a misura delle diverse tappe della politica interna e internazionale di Mussolini, sia alla rappresentazione positiva, euforica ed euforizzante, dell'Italia 'in cammino'. La struttura e l'impaginazione dei cinegiornali teneva conto di alcuni modelli giornalistici contigui e paralleli. Ogni numero offriva, a tutta pagina, la traduzione visiva di temi popolari presenti nei quotidiani e nei settimanali più diffusi. L'arco delle notizie variava spesso in senso topologico e geografico, ma morfologia e tipologia sono riconducibili a moduli ben definiti, che si volevano mantenere stabili nel tempo: se Padova fu rappresentata all'inizio come la città dei goliardi e della Fiera campionaria, la maggior parte dei servizi nel corso degli anni riprodusse gli stereotipi originari senza però escludere l'immissione di elementi nuovi determinati da piccoli avvenimenti che non mutano comunque la Storia profonda, lo sforzo di raggiungere, nel più breve tempo possibile, una visione e una rappresentazione unitarie del Paese. Il menabò di un cinegiornale era suddivisibile in serie di temi fissi, che andavano dalla politica allo sport allo spettacolo e comprendevano anche notizie di attualità e motivi culturali: il numero dei servizi crebbe con il passare degli anni, ma lo schema espositivo e narrativo restò inalterato. Negli anni che vanno dal 1931 al 1940 è possibile distinguere almeno quattro periodi, che corrispondono a quattro diverse fasi della politica mussoliniana e che vanno dalle battaglie per la ruralizzazione alla borghesizzazione del fascismo, alla marcia verso la conquista dell'Impero e alla mobilitazione per la conquista del mondo: la modifica dei linguaggi, la diversa disposizione delle notizie, l'aumento delle rubriche, la creazione di nuove rubriche fisse (per tutte quella intitolata Notizie dall'Impero, creata dopo il 1936), vanno studiati proprio in quanto trasmettono i mutamenti dell'ideologia del regime e ne registrano tutte le fasi.
Le notizie italiane possono apparire intercambiabili e assimilabili a un modulo uguale per molte: la realtà era sempre vista in modo positivo, si celebravano anniversari e centenari, si inauguravano Opere nazionali del dopolavoro e Opere nazionali Balilla. Ogni prima pietra posata, ogni nastro tagliato, era un'ulteriore conferma della potenza del regime, della sua capacità di tradurre le parole in fatti. La violenza e l'aggressività dello squadrismo vennero subito sublimate e convogliate nei grandi exploit delle imprese sportive (come la traversata dell'Atlantico da parte di Italo Balbo raccontata da Mario Craveri nel primo documentario sonoro del 1931, Lo stormo atlantico). Lo schema espositivo e narrativo non serviva all'individuazione della specificità dell'avvenimento descritto, ma alla sua assimilazione indifferenziata, alla sua neutralizzazione nella massa delle notizie fornite. Nessun elemento ‒ in assenza delle informazioni qualificanti del sonoro ‒ potrebbe consentire di distinguere l'inaugurazione di una casa del Fascio da quella della posa della prima pietra per una casa dei pompieri, o di una casa dell'Opera maternità e infanzia. Nel 1938 nacque, con il sostegno di Luigi Freddi, l'Industria CortiMetraggi (INCOM) con il compito di sottrarre al Luce il monopolio della produzione documentaristica e di ricondurla sotto un più rigido controllo del Ministero della Cultura popolare. Su un piano parallelo rispetto al Centro sperimentale di cinematografia, il Luce contribuì a formare operatori e registi che passarono alla regia dei film di finzione mantenendo intatte alcune caratteristiche e distinguendosi, rispetto ai registi formati dal Centro, per la capacità di far parlare tutti gli elementi: paesaggio, architettura, storia dei luoghi e delle persone.Tra i documentari prodotti dal Luce si possono ricordare almeno quelli di Francesco Pasinetti, Sulle orme di Giacomo Leopardi (1941), Città bianca (1942), Piccioni di Venezia (1942), La gondola (1942); di Giorgio Ferroni, Vertigine bianca (1941), All'aria aperta (1942), Passo d'addio (1942); di Fernando Cerchio, Ali fasciste (1941), Ritorno al Vittoriale (1942), La scuola del cinema (1942); di Roberto Rossellini, Fantasia sottomarina (1940); di Giacomo Pozzi Bellini, Pietro Francisci, Romolo Marcellini, Roberto Omegna e di altri ancora.
Per quanto riguarda invece i lungometraggi di finzione, pur limitandosi alle produzioni più impegnative è d'obbligo citare almeno Camicia nera, il film realizzato da Giovacchino Forzano nel 1933 per il decennale dell'avvento del fascismo; Il cammino degli eroi (1936) di Corrado D'Errico; Scipione l'Africano (1937) di Carmine Gallone, opera prodotta da un consorzio omonimo di cui il Luce era socio maggioritario; Grano fra due battaglie (1941) di Romolo Marcellini; I trecento della settima (1943) di Mario Baffico, film che racconta con grande intensità l'eroica resistenza di un battaglione alpino in Albania, realizzato alla vigilia della caduta del fascismo. Ferroni, Marcellini, Cerchio, D'Errico, Baffico, Basilio Franchina, sono solo alcuni dei nomi di operatori e registi che compirono il loro apprendistato grazie ai corto e mediometraggi realizzati per il Luce prima di approdare alla regia dei film di finzione.
Furono proprio gli anni di guerra a mostrare i limiti del Luce come strumento di propaganda e il suo procedere non in sintonia con il passo del regime: anche se venne creato un reparto speciale e si cercò di rendere più efficace il racconto bellico con un arricchimento dell'enfasi visiva, di montaggio e verbale, di fatto il Luce sembrò girare a vuoto come macchina di propaganda, quasi avesse di colpo perso le sue capacità di comunicare al pubblico degli italiani.
Comunque lo si intenda giudicare, non si può non riconoscere che Mussolini, grazie all'esperienza giornalistica e politica e alle sue doti oratorie, possedeva una competenza personale e una capacità di utilizzare i mass media assai più articolata rispetto ai dittatori e agli altri protagonisti dello spettacolo politico europeo. Fu il primo uomo politico a non limitarsi a un generico apprezzamento sul potere del cinema come arma di persuasione e manipolazione della realtà e fu anche il primo a servirsene cercando di tenere sotto controllo sia il documentario sia il cinema di finzione.Come capo del fascismo aveva bisogno di presentarsi come la personificazione della volontà di una nazione che desiderava ritrovare una propria identità forte anche agli occhi del mondo. Per vent'anni Mussolini fu il Divo capace di dominare l'immaginazione degli italiani, il sovrano della scena politica e spettacolare nazionale, una sorta di mattatore onnipresente e onnipotente, una figura capace di rivestire tutti i ruoli, in un lunghissimo assolo che lo vide esibirsi nei luoghi più diversi e indossare prima gli abiti borghesi, fino alla tuba e al frac, i costumi da bagno, la tuta da aviatore e la divisa da cavallerizzo, i caschi da motociclista o l'abbigliamento sportivo da tennista, e poi tutti i tipi di divise militari.Negli anni Venti e primi anni Trenta il duce fu comunque molto attento a mostrare di essere un uomo emerso dal popolo, al cui servizio intendeva porsi in modo disinteressato e totale. Col tempo, i rapporti vennero capovolti. Da una parte mise a frutto l'esperienza di maestro e uomo politico, che aveva militato nelle file dei socialisti, praticato l'oratoria di piazza e conosciuto i modi di far breccia nelle masse popolari; dall'altra si appropriò del gesto futurista; dall'altra ancora assimilò i rituali ideati da Gabriele D'Annunzio a Fiume, che gli sembrarono adattabili in pieno alle sue esigenze. Scomposto e incontrollato nella fase iniziale, sempre narcisisticamente compiaciuto e ben intenzionato a incarnare prima di tutto l'ideale fascista di virilità, il gesto mussoliniano subì nel tempo una serie di aggiustamenti e venne sottoposto a un più rigoroso controllo. Nel passaggio dal muto al sonoro variarono i modi della rappresentazione e la dialettica tra Mussolini e la folla ‒ per dimostrare come da questa dialettica nascesse una volontà sola ‒ si basava su un alternarsi sapiente di primi piani e campi totali. Il gesto, rispetto al parossismo motorio degli anni Venti, subì quasi un processo di ralenti. La parola invece era scandita e isolata in modo più netto. Apparvero in forma più massiccia e consapevole i primi piani e l'iconografia cinematografica imitava quella elaborata dalle diverse arti figurative. Il fascismo italiano non aveva, come il nazismo, un coordinatore generale della propaganda, e lo stesso Mussolini interpretava contemporaneamente il ruolo di regista, sceneggiatore e sovrano della scena cinematografica. Lo studio delle dinamiche evolutive del gesto mussoliniano consente di capire come l'idea della sacralità del rito pubblico della comunione della folla con il corpo e la parola del capo si sia formata progressivamente e abbia fatto registrare una vera e propria accelerazione ‒ culminata nel 1936 nelle trionfali giornate della conquista dell'Impero ‒ dall'indomani del confronto tra le immagini dei cinegiornali con quelle di Triumph des Willens (1935; Il trionfo della volontà) di Leni Riefensthal, o dei cinegiornali nazisti che riprendevano le adunate oceaniche del partito. L'abbandono di un modello di tipo sovietico e l'opzione per tecniche più sofisticate dal punto di vista dello spettacolo e soprattutto fondate su rigidi rituali, quali quelle naziste, voleva anche dire abbandono dell'ideologia del ruralismo e di quella dello squadrismo a favore di un'Italia del tutto fascistizzata, pronta a mettersi compatta come un sol uomo al servizio della volontà di Mussolini, di un'Italia da cui era scomparsa ogni conflittualità di classe e il fascismo faceva tutt'uno con l'idea stessa di Stato.
In quel periodo cominciò a manifestarsi una maggiore attenzione per la qualità delle riprese e delle inquadrature, e una cura stilistica che portava a utilizzare controluce, effetti notturni, panoramiche verticali e orizzontali, movimenti ascensionali che spingevano in direzione simbolica, quasi a suggerire un ascensus collettivo sulle orme di Mussolini, ormai lanciato dalla conquista dell'Impero verso destini sempre più gloriosi. Tuttavia forse solo in due momenti, quando venne dato di notte l'annuncio della fine vittoriosa della guerra d'Etiopia, con i riflettori che circondavano di un alone l'immagine del duce, e quando Mussolini tornò da Monaco nel 1938 e venne accolto da una folla plaudente che si snodava lungo il suo percorso, e la sera confluì a piazza Venezia accendendo fiaccole votive per manifestare la propria riconoscenza e la propria fede, giunsero a compimento una metabolizzazione completa dei rituali presi a prestito dal nazismo e una comunione altrove mai riuscita del tutto. L'attore, in quei momenti, era fisicamente assunto in cielo in una luce divina, mentre rimaneva solo il suono della sua voce.
Con la dichiarazione di guerra iniziò la parabola discendente. Negli anni del conflitto l'immagine e il mito mussoliniano cominciarono a subire le prime vistose incrinature: il duce era sceso da cavallo e in molte delle sue apparizioni al fronte o nelle cerimonie pubbliche cominciava a sembrare una comparsa.
Vale la pena di soffermarsi anche sul breve periodo della Repubblica di Salò (23 sett. 1943 - 25 apr. 1945), per lo sforzo di sopravvivenza e la rappresentatività dei materiali, nonostante la loro opacità e la perdita di ogni spinta, guida, fede e ragione ideologica. A capo del Ministero della Cultura popolare della Repubblica sociale fu nominato Fernando Mezzasoma, la cui preoccupazione fu quella di ridare vita al Giornale Luce, nel tentativo di dare il senso della continuità e di un'apparente normalizzazione. Dopo un breve commissariato provvisorio di Giuseppe Croce, Nino D'Aroma, ex direttore, fu nominato presidente.
La sede venne stabilita nell'albergo Bonvecchiati, nei pressi di piazza San Marco a Venezia. In attesa di utilizzare alcuni padiglioni nei Giardini della Biennale per lo sviluppo e la stampa, si continuò a portare il materiale negativo a Torino, con rischi di bombardamenti e costi molto alti. Erano settantuno le persone, tra tecnici, giornalisti, fotografi e operatori, a produrre il Giornale Luce a Venezia. Gli operatori ‒ allettati da una paga mensile di 10.000 lire ‒ non erano tutti di fede fascista; il reclutamento tra gli operatori era accompagnato dalla promessa di non dover realizzare alcun servizio di propaganda. I servizi dei cinquantacinque Giornali Luce realizzati dall'11 ottobre 1943 al 18 marzo 1945 (dal 374 al 428) lasciavano quasi sempre la guerra sullo sfondo e puntavano piuttosto su una serie di cronache sportive o mondane, o curiosità varie: dalle rubriche sui diversi tipi di artigianato (come venivano incise in Svizzera le fibbie metalliche che adornano le bretelle dei costumi dei vari cantoni, o veniva intagliato il legno in Val Gardena, o nascevano i manichini da vetrina in Danimarca) ai campionati sportivi, alle cacce al camoscio, alle mostre di fotografie artistiche giapponesi. E ancora gli sguardi sul commercio filatelico, gli spettacoli di beneficenza, le esibizioni di pattinaggio artistico sul ghiaccio coloravano ogni numero del Giornale Luce e davano l'impressione di una perfetta continuità con il passato. I servizi più propriamente legati alla guerra e alla nuova realtà politica iniziarono dalla registrazione della prima assemblea del Partito fascista repubblicano a Castelvecchio a Verona del nr. 380 del dicembre 1943. Un numero unico del giornale, il 386, ha per titolo L'Italia s'è desta. 9 febbraio XXII: cronache del giuramento dell'esercito repubblicano in tutta Italia. Da quel momento, anche se non abbondavano i servizi dal fronte, vi furono cronache sui bombardamenti alle opere d'arte e ai monumenti e chiese di Roma e del Nord, dalla distruzione del Tempio malatestiano di Rimini al bombardamento della chiesa degli Eremitani di Padova, o su Mestre e Treviso, sui giuramenti delle reclute, sulle consegne della bandiera di combattimento, o sulle partenze per il fronte di vari battaglioni di bersaglieri, marinai, fanti e alpini, dal Barbarigo all'Aosta, sulle onoranze ai caduti, sulle visite a mutilati e feriti. Qualche volta si ripresero azioni dei bersaglieri contro i partigiani del generale Tito in Slovenia, occultando la ferocia degli scontri. Un servizio del cinegiornale nr. 400 si intitola Presentazione degli sbandati e racconta, adottando la forma della parabola del figliol prodigo, come "circa cinquantamila sbandati desiderosi di tornare a lavorare e a combattere hanno risposto al richiamo della Patria affluendo ai Comandi Militari Provinciali e alle caserme".Pochi numeri dopo (nel nr. 410) si parla dei partigiani. Questo servizio colpisce sia per il fatto che, di tutti i servizi dei cinegiornali di Salò, si tratta dell'unico accenno alla guerra civile in atto, sia per la violenza del tono. I partigiani sono definiti come "autentici sicari al soldo nemico [...] bastardi che per viltà hanno tradito la Patria e per denaro servono lo straniero". Ovviamente "la spada della giustizia sarà inesorabile nel colpire i traditori". In due soli servizi si parla della Brigate nere, ma, visti gli esiti inferiori alle attese, si preferì calare subito un opportuno velo di silenzio. Alcuni servizi sono dedicati alla Guardia nazionale repubblicana: il senso che ne emerge è quello di una forza militare che si voleva idealmente ricollegare agli anni della Marcia su Roma, senza mezzi, votata alla morte, ormai priva di qualsiasi sostegno da parte della popolazione. Sporadicamente compare il duce a consegnare la bandiera di combattimento a una legione della Guardia, o a passare in rassegna un battaglione della Decima MAS, o a celebrare al Vittoriale il settimo anniversario della morte di D'Annunzio.
Il clou dell'epifania mussoliniana, in quei diciotto mesi, è dato dal cinegiornale nr. 418, che racconta le giornate milanesi di Mussolini, con il discorso al Teatro Lirico, la manifestazione a piazza San Sepolcro, la visita alla legione Muti e così via. Per il resto la pratica dominante nei cinegiornali realizzati a Venezia era quella del silenzio: non si parlava del processo di Verona, della socializzazione, della linea gotica, né dell'avanzata angloamericana. Incombe su tutto questo materiale il senso della sconfitta imminente, della caduta irreversibile di ogni ragione e fede nel fascismo e nel suo capo. C'è infine il piccolo insieme di apparizioni mussoliniane a Salò, che forma con la storia del Luce un capitolo a parte e che offre un'immagine irriconoscibile di un uomo malato, destituito di ogni carisma e rappresentatività. La prima, quella che lo riconsegna agli italiani nel settembre 1943, è di un individuo in cerca di anonimato e in fuga dalle macchine da presa: ha un cappello scuro a larghe falde che gli copre la parte superiore del viso mentre il bavero alzato del cappotto copre quella inferiore. Da quel momento le apparizioni, come i discorsi, vennero centellinati: Mussolini era un ectoplasma, che si aggirava assieme ad altri in uno stato confusionale e denunciava una emorragia di forze e una perdita di facoltà psichiche e fisiche. La sua voce era irriconoscibile, il corpo prostrato. In apparenza era ancora il sovrano, ma attorno a lui c'era il vuoto.
La storia del Luce nel dopoguerra è per molti aspetti assai meno caratterizzata e coesa; per altri è in continua espansione e a partire dagli anni Sessanta ha teso a innestarsi in modo più diretto nella storia del cinema italiano di finzione.Nell'immediato dopoguerra lo Stato repubblicano dovette affrontare il problema di come garantire, sia pure in forma diversa, la continuità delle istituzioni. Mentre tutto il cinema, nelle sue figure più rappresentative degli autori, dei tecnici e delle maestranze, non subì alcuna epurazione, il Luce ‒ il cui patrimonio fu in buona parte requisito dall'esercito americano, che lo restituì solo alla fine degli anni Sessanta ‒ venne messo in liquidazione nel 1947, in quanto lo si identificava come il più rappresentativo detentore della memoria del regime e del consenso degli italiani, di cui si voleva con tutti i mezzi rimuovere il ricordo. Di fatto il commissario liquidatore Tommaso Fattorosi, che restò in carica circa dodici anni, e i membri dell'Istituto di vigilanza non sembrarono voler procedere con particolare urgenza alla liquidazione dell'ente. Già dalla fine degli anni Quaranta ‒ nel quadro di interventi a sostegno della ripresa della produzione cinematografica ‒ si concesse al Luce, con un'apposita legge, la possibilità di tornare a produrre cinegiornali e documentari e di rimettere in funzione i propri laboratori di sviluppo e stampa. Il decreto presidenziale nr. 575 del 7 maggio 1958 istituì l'EAGC, che assorbì in seguito Cinecittà e il Luce avviando una nuova fase nella storia di quest'ultimo ente che, progressivamente, ha riacquistato una varietà di funzioni sul piano produttivo, della distribuzione, dell'esercizio e della conservazione e valorizzazione, con tutti i mezzi possibili, del patrimonio di immagini cinematografiche e fotografiche. Nel 1962 l'Istituto Luce divenne una società per azioni e, sotto la spinta del successo internazionale ottenuto con il documentario di R. Marcellini La grande Olimpiade (1961), avviò la produzione di lungometraggi e film d'autore che hanno progressivamente assunto un'importanza primaria nella politica dell'Istituto. Tra i film realizzati vanno ricordati almeno La grande ora: Concilio Ecumenico Vaticano II (1962) di Antonio Petrucci e Incompreso (1966) di Luigi Comencini. Dal 1965 il Luce è l'unico vero produttore di film per ragazzi: tra i titoli da citare Un amico (1967) di Ernesto Guida, Pagine chiuse (1968) di Gianni Da Campo, Il cavaliere inesistente (1969) di Pino Zac, La torta in cielo (1973) di Lino Del Fra, Turi e i paladini (1978) di Angelo D'Alessandro, Noi tre (1984) di Pupi Avati, Zoo (1988) di Cristina Comencini. Dal 1983 all'attività di produzione si affianca anche quella di distribuzione ed esercizio mediante l'assorbimento della società Ital-Noleggio Cinematografico. Dalla fine degli anni Sessanta l'Istituto ha prodotto opere di autori consacrati ma ha investito anche su esordienti, divenendo uno dei punti di riferimento per la sperimentazione e la ricerca di nuovi modi narrativi ed espressivi: tra i nomi da ricordare Carlo Lizzani, Pino Zac, Pupi Avati, Gianfranco Mingozzi, Paolo Benvenuti, Valentino Orsini, Giuseppe Bertolucci, Marco Bellocchio, Gianvittorio Baldi, Pasquale Misuraca, Pasquale Squitieri, Gianni Amelio, Beppe Cino, Mario Monicelli, Vilma Labate, Giovanna Gagliardo, Luca Verdone, Sandro Cecca, Francesco Ranieri Martinotti, Vito Zagarrio, Fabio Carpi, Mario Brenta, Michele Placido, Ettore Scola, Peter Del Monte, Francesca Archibugi. Dalla fine degli anni Ottanta il Luce è entrato in una fase ulteriore di distribuzione e coproduzione internazionale, con autori come Claude Chabrol, Otar Ioseliani, Theo Anghelopulos.
Nel 1994 è stata affidata a Folco Quilici la regia di una serie di ottanta documentari dedicati a La storia d'Italia del XX secolo, che si è avvalsa della consulenza degli storici Renzo De Felice, Valerio Castronovo e Pietro Scoppola e ha inaugurato una nuova fase di valorizzazione e riuso sistematico e pubblico del materiale d'archivio.
All'inizio del nuovo millennio il Luce appare come una realtà di nuovo vitale, capace di valorizzare e far rivivere il proprio patrimonio con una nuova politica di circolazione multimediale e di assumere un ruolo da protagonista e difensore delle ragioni cinematografiche su una scena produttiva del cinema italiano sempre più dominata dalle ragioni e dalle logiche televisive.
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Vincere, vinceremo. La guerra fascista (1940-1943), a cura dell'Istituto Luce e dell'Archivio nazionale cinematografico della Resistenza, Roma 1975.
Film Luce e guerra di Spagna. I cinegiornali della guerra civile spagnola 1936-1939, a cura di F. Mazzoccoli, Torino 1976.
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J.A. Gili, Stato fascista e cinematografia. Repressione e promozione, Roma 1981.
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La nuova fase avviata nel 1962 con la trasformazione in società per azioni ha visto al primo posto tra i compiti istituzionali quello della conservazione e del restauro del patrimonio cinematografico e fotografico ereditato dall'Istituto Nazionale Luce. Negli anni Settanta la valorizzazione dell'Archivio si è tradotta nella produzione di opere basate su filmati di repertorio, per poi assumere la fisionomia di una finalità autonoma, cui destinare risorse specifiche. L'Archivio storico fotocinematografico conserva i film prodotti dall'Istituto dal 1924, materiale documentario di attualità preesistente alla nascita dell'Istituto e acquisito già negli anni Venti, il patrimonio filmico della INCOM e le collezioni di altri cinegiornali del secondo dopoguerra, per un totale di oltre dodici milioni di metri di pellicola formato 35 mm. Nel 1996 è stato varato un piano di informatizzazione e digitalizzazione del patrimonio documentario, che prevede il restauro e la totale trasposizione dei filmati su supporti di conservazione, e la loro catalogazione all'interno di una banca dati consultabile sia in sede locale sia su Internet. Accordi con la Fondazione Scuola nazionale di cinema, per l'inserimento nella banca dati del materiale in possesso della Cineteca nazionale, e con la società Fratelli Alinari, per la conservazione del patrimonio fotografico, hanno rafforzato l'obiettivo di rendere l'Archivio il centro di raccolta di tutta la produzione documentaria italiana del Novecento. *