Sanitarie, istituzioni
All'interno di ogni collettività umana (dalle tribù primitive ai moderni Welfare States) è sempre rilevabile un insieme di pratiche sociali finalizzate alla cura delle malattie e al mantenimento della salute, nonché a fornire varie forme di assistenza durante gli eventi più critici del ciclo vitale come la nascita o la morte. A seconda del livello generale di sviluppo, queste pratiche assumono gradi diversi di articolazione organizzativa e formalizzazione, a loro volta connesse a specifici sistemi di riferimento cognitivi e normativi. Nelle società moderne, a partire dal XIX secolo, le pratiche riguardanti salute e malattia hanno cominciato a differenziarsi sempre più nettamente dalle altre pratiche sociali, affermandosi progressivamente come autonoma sfera istituzionale, singolarmente riconoscibile anche sotto il profilo terminologico: la sanità, appunto (santé, health care, Gesundheitswesen, ecc.). Nel corso dell'ultimo secolo in tutti i paesi occidentali tale sfera ha registrato un intervento sempre più massiccio da parte dello Stato, non solo nella regolazione dei comportamenti individuali e collettivi, ma anche nell'erogazione diretta di prestazioni e servizi. Il termine sanità (o sistema sanitario) ha finito così per denotare quasi unicamente l'insieme dei programmi e delle strutture pubbliche in questo settore, che peraltro rappresentano uno dei pilastri portanti del contemporaneo Stato sociale. Tale denotazione è tuttavia fuorviante. Anche nelle società più sviluppate la sfera della sanità continua a includere infatti numerosi attori e pratiche di tipo non pubblico: non solo la medicina privata, ma anche l'insieme delle attività di cura (nel senso più ampio del termine) svolte autonomamente da associazioni volontarie, famiglie e individui. Il particolare mix fra pubblico, privato e 'sociale' costituisce anzi una rilevante dimensione di variazione fra i sistemi sanitari dei vari paesi occidentali: si pensi al peso del settore privato nella sanità americana, al ruolo delle associazioni mutualistiche non pubbliche o semipubbliche nella sanità olandese o svizzera o ancora all'elevato grado di pubblicizzazione della sanità svedese.
In quanto sfera istituzionale pressoché universale in ogni forma di vita associata, la sanità si presta a essere studiata nei più svariati contesti e sotto molteplici profili. Quasi tutte le scienze sociali si occupano direttamente o indirettamente di istituzioni sanitarie e molte di esse hanno sviluppato specifiche sottodiscipline incentrate su tali istituzioni: si pensi alla storia della medicina, alla sociologia della salute, all'economia e politica sanitaria. Grazie al contributo di questi filoni di studio ha potuto cumularsi negli ultimi decenni una massa di conoscenze sulle dinamiche micro- e macro-istituzionali della sanità, sulla loro evoluzione nel corso del tempo e nei diversi paesi, sulla loro logica di funzionamento nonché sulle sfide e i dilemmi che esse pongono per gli anni a venire. Stante il ruolo cruciale e 'fondativo' del bene salute sul piano sia individuale che collettivo, è quasi superfluo sottolineare la rilevanza di simili conoscenze: una rilevanza che travalica l'ambito accademico per investire direttamente quello delle scelte politiche e legislative.
Se la medicina occidentale nasce con Ippocrate nella Grecia del VI secolo a.C., la moderna sanità come sfera istituzionale relativamente differenziata fa la sua comparsa, come si è detto, solo nel secolo scorso. L'avvio del processo di modernizzazione e in particolare la sempre più intensa urbanizzazione promuovono una riorganizzazione su vasta scala delle pratiche di terapia medica nonché di igiene collettiva, e incoraggiano specifiche misure di regolazione e di intervento diretto da parte dello Stato a fini sia di assistenza sia di prevenzione. La devastante epidemia di colera scoppiata nel 1832 (diciottomila vittime nella sola Parigi) fu un triste detonatore di questo decollo della sanità in senso moderno. Neutralizzare i veicoli di 'contagio' e sopprimere ogni potenziale fonte di 'miasma' (i due fattori ritenuti responsabili della spirale epidemica) furono i due principali e originari obiettivi di politica sanitaria perseguiti dai paesi europei a partire dagli anni trenta del secolo scorso. Come è stato giustamente sottolineato (v. De Swaan, 1988, p. 126), più che di una 'politica' nel senso odierno di policy, agli inizi si trattò essenzialmente di un insieme di interventi di 'polizia' (il termine usato in Germania era per l'appunto Polizei), ossia di azioni ispettive da parte delle pubbliche autorità volte a far rispettare le norme di igiene. Con il passare del tempo tuttavia a tali azioni si affiancarono nuove misure per la razionalizzazione e l'espansione delle strutture di cura e assistenza, per il risanamento urbano e per la disciplina delle pratiche terapeutiche, anche a seguito del crescente numero di medici e del lento ma inarrestabile progresso del sapere clinico.
Élites di governo, burocrazie statali e medici non furono i soli attori di questa prima ondata di istituzionalizzazione sanitaria in Europa. Un ruolo di rilievo fu infatti giocato anche dalle chiese e dagli istituti di beneficenza privata (che intensificarono il proprio attivismo sociale e dirottarono verso questo settore una parte significativa delle proprie risorse finanziarie e organizzative) e soprattutto dai vari movimenti popolari che fecero la loro apparizione nella seconda metà del secolo: non solo (e più tipicamente) associazioni e sindacati d'ispirazione socialista, ma anche movimenti politico-religiosi (pensiamo ai temperantisti scandinavi, ai fondamentalisti anti-rivoluzionari in Olanda o al cattolicesimo sociale e all'Opera dei Congressi in Italia). Furono questi movimenti a sperimentare le prime forme di mutualismo sanitario, ossia un nuovo meccanismo di redistribuzione su larga scala del rischio di malattia e di compensazione semiautomatica (in denaro e/o in natura) dei danni conseguenti, tramite l'istituzione di appositi fondi 'assicurativi' a iscrizione volontaria. La nascita del mutuo soccorso stimolò a sua volta lo Stato a emanare provvedimenti di legge a fini regolativi, e in alcuni paesi come la Gran Bretagna, la Francia, la Spagna o il Belgio ciò avvenne con singolare precocità (v. tab. I).
Il vero punto di svolta nell'evoluzione dei moderni sistemi sanitari europei coincise tuttavia con l'introduzione dell'assicurazione pubblica e obbligatoria contro le malattie. Il paese pioniere a riguardo fu la Germania bismarckiana, che introdusse il primo schema già nel 1883 (v. tab. I). L'assicurazione obbligatoria fu un'innovazione istituzionale di vasta portata. A differenza delle tradizionali istituzioni di beneficenza pubblica, privata o ecclesiastica essa offriva infatti prestazioni in forma imparziale e semiautomatica, secondo procedure e modalità organizzative altamente specializzate, su base non più locale ma nazionale (anche se lungo demarcazioni occupazionali). A differenza delle istituzioni di mutuo soccorso, l'assicurazione obbligatoria prescindeva inoltre da ogni preferenza politico-confessionale dei propri affiliati e creava un nuovo diritto sociale all'assistenza in caso di malattia, disciplinato e protetto dalla legge. Non fu facile introdurre mutamenti di una simile portata. Come mostra la tab. I in molti paesi i primi tentativi di innovazione fallirono: in Svizzera l'obbligo assicurativo è diventato legge federale solo nel 1994. L'istituto dell'assicurazione obbligatoria si è diffuso col tempo anche al di fuori del contesto europeo. Negli Stati Uniti la copertura pubblica riguarda tuttavia solo i cittadini poveri e quelli anziani: i tentativi di introdurre schemi più inclusivi non hanno avuto sinora alcun successo (v. sotto, cap. 4).
Nel periodo che va dall'inizio del nostro secolo alla seconda guerra mondiale il settore sanitario registra una crescita progressiva e lineare del proprio peso istituzionale, sotto il profilo qualitativo e quantitativo. La medicina e la chirurgia si affermano come discipline di primo piano in ambito accademico, anche a seguito dei progressi compiuti sul fronte della ricerca clinica e farmacologica (soprattutto la scoperta della penicillina). La professione medica si specializza e si organizza. La crescita economica consente migliori condizioni di igiene, mentre l'aumento della scolarizzazione articola e modernizza i comportamenti sanitari della popolazione. Ma soprattutto si estende il raggio della regolazione pubblica sull'intero settore. In molti paesi l'assicurazione obbligatoria di malattia viene estesa a nuove categorie di lavoratori e ai loro familiari, mentre aumenta ovunque l'offerta di servizi da parte dello Stato, specialmente nel comparto ospedaliero.
A partire dagli anni cinquanta l'espansione della sanità subisce in tutti i paesi una vera e propria impennata. L'indicatore più sintetico per cogliere questo processo sotto il profilo quantitativo è la percentuale di spese sanitarie rispetto al PIL. Come mostra la tab. II, in media OECD tale percentuale passa dal 3,8 al 7,6% fra il 1960 e il 1990. Gli Stati Uniti sono il paese che ha registrato la crescita più massiccia: nel 1990 il settore sanitario è giunto ad assorbire il 12,3% del PIL. L'ultimo quarantennio ha assistito a numerose innovazioni anche sotto il profilo organizzativo. Praticamente ogni aspetto e fase della produzione e del consumo sanitari sono diventati oggetto di una dettagliata regolazione statale. Come si è già notato, i vari sistemi differiscono ancora oggi quanto al peso specifico del settore pubblico, di quello privato e di quello 'sociale': la diversa rilevanza quantitativa del settore non pubblico nei paesi OECD è peraltro segnalata dai dati della tab. II. Ma, quale che sia, il mix fra le tre principali componenti del sistema sanitario poggia ormai sempre e comunque su articolate discipline normative emanate dallo Stato.
L'innovazione più rilevante del lungo boom espansivo postbellico è stata l'introduzione di un nuovo modello organizzativo per l'intervento pubblico: il servizio sanitario nazionale. Già negli anni trenta e quaranta si era affacciato anche nella sanità un nuovo orientamento culturale volto a riformare tutto il ventaglio delle politiche sociali: la dottrina della 'sicurezza sociale'. Tale dottrina si poneva come superamento del tradizionale approccio basato sull'assicurazione obbligatoria dei lavoratori e raccomandava l'istituzione di sistemi di protezione sociale integrata, fornita direttamente dallo Stato, finanziata preferibilmente dal gettito fiscale piuttosto che dai contributi e basata su diritti di cittadinanza, automaticamente estesi a tutta la popolazione. Nel 1938 la Nuova Zelanda creò il primo sistema sanitario nazionale ispirato a tali nuovi principî. Nel 1942 il piano Beveridge propose a sua volta la sostituzione dell'assicurazione obbligatoria di malattia, introdotta in Inghilterra nel 1911, con un nuovo NHS (National Health Service) di impianto universalistico, il quale fu poi effettivamente attivato nel 1946. Come mostra la tab. I, l'esempio del Regno Unito è stato successivamente emulato dai Paesi Scandinavi, prima, e dai paesi sudeuropei nel corso dell'ultimo ventennio.
La creazione di 'servizi nazionali' ha storicamente rappresentato un nuovo significativo punto di svolta nel processo di istituzionalizzazione della sfera sanitaria, per molte ragioni. Un servizio nazionale tende infatti a essere più omogeneo e standardizzato rispetto ai tradizionali sistemi di mutue obbligatorie: e ciò vale sia per i diritti riconosciuti ai cittadini, sia per gli standard di prestazione (almeno sulla carta). Inoltre, un servizio nazionale tende per sua natura a erodere gli spazi di azione del settore non pubblico e a indurre una progressiva omologazione dei comportamenti sanitari sia degli utenti che dei fornitori di prestazioni. Infine un servizio 'nazionale' realizza pienamente l'ideale della cittadinanza sanitaria: ossia di una garanzia di assistenza universale, collegata al solo status di cittadino e dunque indipendente da ogni altra condizione socioeconomica. Ciò non significa naturalmente che la creazione di un servizio nazionale sia da considerarsi come uno stadio evolutivo 'superiore' e quasi obbligato anche per quei sistemi organizzati su base mutualistica. Nel corso dell'ultimo quarantennio anche questi sistemi hanno peraltro registrato un notevole sviluppo organizzativo e hanno esteso il raggio di copertura della protezione pubblica sino a raggiungere anch'essi, di fatto, la piena universalità. D'altro canto, vi sono importanti differenze anche fra i servizi nazionali dei paesi elencati nella tab. I (ad esempio fra il NHS britannico e il Servizio Sanitario Nazionale italiano), proprio per quanto riguarda il grado di istituzionalizzazione. L'idea stessa di un 'servizio nazionale' conferisce nondimeno al sistema di tutela della salute di questi paesi una risorsa simbolica aggiuntiva, con un suo autonomo potenziale di condizionamento sulla logica di funzionamento non solo del settore sanitario, ma del sistema di welfare nel suo complesso.
Il notevole sviluppo registrato dalla sanità negli ultimi decenni ha grandemente contribuito a migliorare lo stato di salute della popolazione e a ridurre le tradizionali ineguaglianze di accesso alle cure mediche fra classi sociali e aree territoriali: ciò è peraltro testimoniato dall'andamento dei principali indicatori sanitari come la mortalità infantile, la speranza di vita, l'incidenza delle 'morti evitabili' e così via (v. Abel Smith e altri, 1995). Questo sviluppo non è però stato privo di implicazioni negative, soprattutto per quanto riguarda l'efficienza e l'efficacia. I costi crescenti della sanità sono in buona parte responsabili di quella 'crisi fiscale' in cui si dibattono da quasi due decenni tutti i Welfare States maturi. Negli ultimi anni sono emerse d'altra parte preoccupazioni sempre più serie circa i criteri esplicitamente o implicitamente utilizzati per l'allocazione e la distribuzione delle risorse sia all'interno della sanità sia, più in generale, fra i vari ambiti funzionali dello Stato sociale. Prima di esaminare tali problemi e le possibili soluzioni conviene tuttavia identificare con maggior precisione i fattori responsabili del lungo ciclo di crescita iniziato dopo la seconda guerra mondiale.
Le spinte espansive sono in parte provenute dal versante dell'offerta, in connessione ad alcune caratteristiche strutturali della produzione sanitaria. Questa non solo utilizza attrezzature e tecnologie sempre più sofisticate e costose, ma è contraddistinta da alta intensità e rigidità di forza lavoro, da attori fortemente sindacalizzati e in posizione di monopolio e da margini piuttosto ridotti per l'incremento della produttività. In economie caratterizzate da tassi di produttività e remunerazioni crescenti, questi elementi hanno esercitato un'inesorabile spinta inflattiva: i costi unitari di produzione di beni e servizi sanitari hanno teso infatti a crescere a un ritmo pari (o addirittura superiore) a quello degli altri settori dell'economia, pur rimanendo gli outputs produttivi pressoché costanti. In larga misura, tuttavia, la crescita è stata alimentata da una serie di fattori da domanda, e in particolare dall'impressionante incremento dei consumi da parte dei cittadini. La nozione di 'domanda' va naturalmente intesa in senso lato, a comprendere cioè non solo il consumo spontaneo che ha origine direttamente dall'iniziativa degli utenti, ma anche (e forse soprattutto) quello indotto dai medici. L'universalità dell'esplosione dei consumi a livello comparato suggerisce l'esistenza di cause di fondo comuni e di ordine generale (v. Ferrera e Zincone, 1987).
Queste vanno innanzitutto cercate sul piano delle trasformazioni sociodemografiche. Come è noto, negli ultimi decenni i paesi industrializzati sono entrati in una fase di intensa transizione demografica, che ha visto un rapido aumento della popolazione anziana. In buona parte l'invecchiamento della popolazione è un fenomeno relativo, dovuto al calo della natalità, ma in parte esso è collegato all'aumento della speranza di vita. A questo aumento hanno contribuito in misura determinante proprio i formidabili progressi della scienza e delle tecnologie biomediche, che non solo hanno sconfitto molte malattie ma hanno anche guadagnato la sopravvivenza per molte infermità una volta letali: si è in questo modo esteso il novero delle morti 'evitabili' (almeno sotto i 65 anni). Il mutamento demografico ha avuto e ha immense ripercussioni sul sistema sanitario, data la relazione a forma di 'J' fra età, da un lato, e morbilità e fruizione dei servizi dall'altro. Considerato poi il carattere cronico o invalidante della morbilità senile, lo sviluppo medico ha finito per accrescere la dipendenza di un numero sempre maggiore di persone nei confronti dell'apparato sanitario (il cosiddetto paradosso medico), tendendo così a innalzare il tasso e l'intensità media della morbilità in seno alla popolazione generale.
Occorre poi tenere presente l'emergere di nuove e numerose forme di morbilità/mortalità sociale. Se infatti è indubbio che il maggior benessere e il progresso medico hanno consentito un notevole miglioramento delle condizioni di vita e di salute della popolazione, riducendo la morbilità/mortalità tradizionale (che era prevalentemente di origine infettiva), è però altrettanto vero che sono comparsi nuovi e pericolosi rischi sanitari collegati a comportamenti tipici della società del benessere: alcolismo, droghe, fumo, incidenti, stress, ecc. Si è così verificato un 'effetto di sostituzione' che ha in parte controbilanciato la scomparsa di vecchie patologie.
Oltre alle trasformazioni sociodemografiche hanno però giocato un ruolo importante anche altre dinamiche di ordine economico, politico-istituzionale e culturale. Il consumo sanitario ha dimostrato di essere postivamente correlato al reddito nazionale: la maggior disponibilità economica a livello aggregato ha infatti incentivato/consentito un maggior consumo dei beni sanitari offerti dalla sempre più forte e dinamica industria della salute. Maggior benessere economico ha però significato anche modernizzazione culturale, quindi una maggiore attenzione e preoccupazione per la salute psicofisica. L'ultimo quarantennio ha assistito a un rapido e intenso processo di 'medicalizzazione' della salute che ha comportato: a) una crescita progressiva delle aspettative sanitarie (considerazione del proprio stato di salute e delle possibilità di incrementarlo tramite la scienza e la tecnologia medica); b) una progressiva estensione della medicina professionale entro la sfera della salute individuale; c) una ridefinizione di molti episodi o problemi personali (il parto, la morte, l'ansia) in chiave medica. Lo sviluppo del Welfare State sul piano politico-istituzionale ha esercitato pressioni anch'esse dirompenti sulla domanda. Come si è già detto, il raggio di copertura dell'assicurazione obbligatoria di malattia è stato esteso a sempre più persone; è anche aumentata la gamma di rischi protetti (pensiamo alla riabilitazione). L'innesto delle dinamiche culturali sopra menzionate sul processo di estensione della copertura assicurativa ha poi funto da vero e proprio moltiplicatore: la medicalizzazione della salute ha infatti comportato un uso sempre più intenso dei diritti sanitari e quindi un onere sempre più gravoso per lo Stato.Occorre infine ricordare le dinamiche indotte direttamente dal sistema degli incentivi. La crescente regolazione pubblica della sanità ha originato numerose forme 'perverse' di incentivazione nei confronti dei tre principali protagonisti dell'arena sanitaria: i consumatori, i fornitori di prestazioni (in primo luogo i medici) e i finanziatori (Stato e/o enti vari). I primi sono stati almeno inizialmente illusi di poter consumare 'gratis' o comunque a costi bassissimi rispetto ai benefici; i secondi, pur essendo di fatto responsabili della gestione della domanda e della sua amplificazione, sono stati tendenzialmente sollevati da ogni vincolo che non fosse quello ippocratico e talora sono stati indotti all'intensificazione della propria 'rendita' professionale; i terzi infine si sono riservati pochi poteri di controllo e valutazione (almeno sino agli anni ottanta) e hanno mostrato scarsa efficienza regolativa. Il 'contratto' sottostante ai moderni sistemi sanitari (sia quelli basati sulle mutue obbligatorie, sia i servizi nazionali) è nato in altre parole con un grave vizio d'origine: ha acceso infatti un impegno aperto (open ended) da parte dello Stato, con incentivi quasi unicamente predisposti ad ampliarne l'apertura. A partire dagli anni ottanta, con l'intensificarsi delle dinamiche sociodemografiche, economiche, politiche e culturali appena illustrate, tale vizio d'origine istituzionale ha cominciato a manifestare tutti i suoi effetti negativi, soprattutto sul piano finanziario. La sfida dei costi ha però ovunque stimolato la ricerca di nuovi strumenti normativi e organizzativi volti al contenimento dei consumi, al controllo dei fornitori e alla responsabilizzazione degli enti finanziatori. Quasi tutti i paesi hanno dato così avvio a un complessivo ripensamento dei propri sistemi di governo sanitario, per incrementarne sia l'efficienza che l'efficacia.
I dati qualitativi contenuti nella tab. I e i dati di spesa della tab. II segnalano che l'espansione dell'intervento pubblico in sanità è avvenuta con tempi, forme e intensità diversi nei vari paesi. Solo accurate ricostruzioni storiche possono dar conto di tutti i fattori responsabili dei singoli percorsi nazionali. Pur sapendo di semplificare, si può dire tuttavia che l'evoluzione della politica sanitaria e il processo di statalizzazione del settore sono stati in larga misura influenzati dai rapporti di forza esistenti tra i seguenti attori: i partiti e i movimenti politici; la professione medica e le sue associazioni di categoria; la burocrazia, e in particolare gli apparati che erogano i servizi; e infine le amministrazioni locali (soprattutto ove l'assetto costituzionale o la storia politico-amministrativa conferiscano a queste ultime giurisdizione e competenza nel settore). I partiti di sinistra e i sindacati dei lavoratori sono stati di norma i propugnatori delle grandi riforme in direzione statalista, in conflitto più o meno aperto con i partiti di centro e di destra. La professione medica, gelosa della propria autonomia di corpo e del proprio status economico-sociale, ha invece teso a difendere l'orientamento mercantile del sistema, da cui essa trae ovvi vantaggi. Gli apparati burocratici hanno giocato un ruolo meno netto e prevedibile: in alcuni casi essi hanno osteggiato qualsiasi alterazione dello status quo potestativo e delle routines amministrative; in altri hanno appoggiato le forze riformiste, anche al fine di accrescere il proprio ambito di azione e le proprie risorse. I rapporti fra governi centrali e periferici hanno infine avuto una parte rilevante nel facilitare o ostacolare le coalizioni fra gli altri attori e nel determinare gli esiti istituzionali delle riforme in termini di centralizzazione/decentramento. Nell'arena sanitaria hanno operato naturalmente anche altri attori (datori di lavoro, altre categorie di fornitori, assicurazioni private, associazioni di consumatori, ecc,): quelli citati sono tuttavia i più rilevanti se ciò che interessa è l'assetto macro-organizzativo (il mix fra pubblico e privato, la creazione di un servizio sanitario nazionale, ecc.).
Il campo di forze tra questi attori ha teso storicamente a essere abbastanza bilanciato: l'evoluzione istituzionale del sistema sanitario ha seguito di norma un percorso incrementale, fatto di piccoli aggiustamenti successivi. L'esperienza dell'area anglo-scandinava insegna tuttavia che l'equilibrio ha potuto in alcuni casi sbilanciarsi notevolmente a favore di un dato attore (per esempio i partiti di sinistra), dando così origine a pervasivi cambiamenti istituzionali, quale l'introduzione di un servizio sanitario nazionale.
La Gran Bretagna del secondo dopoguerra costituisce a questo proposito un esempio emblematico. Le condizioni politiche che resero possibile il passaggio dall'assicurazione sociale di tipo occupazionale introdotta da Lloyd George nel 1911 al NHS sono così sintetizzabili: 1) il progressivo indebolimento della British Medical Association, in larga misura ostile alla riforma ma lacerata dai contrasti al suo interno e profondamente insoddisfatta rispetto al sistema vigente (e in particolare rispetto ai poteri delle approved societies, che assicuravano i lavoratori); 2) un partito laburista elettoralmente forte, disciplinato sul piano parlamentare, impegnato sul piano ideale (e avvantaggiato dal clima solidaristico postbellico), affiancato da un grande sindacato; 3) una burocrazia efficiente e relativamente spoliticizzata, ma in parte sensibile alle pressioni e alla propaganda sindacale; 4) delle amministrazioni locali - all'epoca - deboli rispetto al governo centrale e osteggiate dalla professione medica come agenzie di erogazione/controllo/finanziamento dei servizi.
Come si vede, l'emergenza di condizioni politiche favorevoli al NHS fu dovuta alla marcata debolezza di uno degli attori in campo (i medici) non meno che alla particolare forza dell'altro. La quarta condizione spiega in larga misura l'orientamento centralistico assunto dal NHS, almeno sino alla riorganizzazione del 1974.
Le riforme svedesi degli anni sessanta (che hanno modificato il sistema sanitario secondo le linee del NHS e sono culminate in una pressoché completa statalizzazione dei medici) sono scaturite da una costellazione in parte diversa da quella britannica. La professione medica era in Svezia più forte e coesa e ha quindi opposto una resistenza più ferma alle riforme, e in particolare a quella che ha trasformato nel 1970 i medici in dipendenti dello Stato. Il partito socialdemocratico ha dovuto combattere pertanto una battaglia più aspra che in Inghilterra: la sua vittoria è stata in larga misura resa possibile dall'alleanza di ferro con i vertici della burocrazia e dal sostegno delle contee.
Se le vicende inglesi e quelle svedesi mostrano come i rapporti di forza tra gli attori abbiano potuto in alcune congiunture storiche prendere una piega particolarmente favorevole alla statalizzazione, il caso degli Stati Uniti costituisce un esempio emblematico di come tali rapporti possano invece evolversi in senso ostinatamente antiriformistico. Come è noto, le amministrazioni democratiche (da Johnson a Clinton) hanno più volte tentato in questo dopoguerra di introdurre l'assicurazione sanitaria obbligatoria per tutti i cittadini. Il tentativo è però ripetutamente fallito e le uniche innovazioni significative al riguardo sono state i programmi Medicaid (per i bisognosi) e Medicare (per gli anziani) introdotti nel 1965. Negli Stati Uniti la professione medica è riuscita a trasformare la propria associazione, l'American Medical Association, in un vero e proprio potentato, forte e coeso sul piano organizzativo, dinamico e aggressivo sul piano politico; essa ha inoltre allevato al proprio fianco un alleato potente e interessato al mantenimento di un florido mercato sanitario, ossia la rete delle grandi compagnie di assicurazioni private. Il partito democratico, dal canto suo, è sempre stato organizzativamente più debole e permeabile e ideologicamente meno impegnato dei partiti riformisti europei. Infine, la struttura federativa e la polverizzazione delle giurisdizioni locali hanno reso strutturalmente poco rilevanti gli altri due attori (burocrazia e governi locali), impedendo così la formazione di un fronte compatto e consistente a favore dell'estensione della sanità pubblica.
Nei paesi dell'Europa continentale l'equilibrio tra gli attori principali dell'arena sanitaria è rimasto storicamente più stabile e bilanciato: esso non ha dunque aperto la strada alle grandi riforme in direzione statalista, ma non ha neppure consentito boicottaggi. Non sono mancati in alcuni paesi momenti di alta tensione e di congiunturale alterazione dei rapporti di forza. Ma si è trattato di episodi tendenzialmente isolati. In alcuni paesi la costellazione di forze ha addirittura teso a rafforzare nel tempo lo status quo, escludendo dall'agenda politica l'ipotesi di qualsiasi grande disegno riformista. Questo è ad esempio il caso della Germania, dove il sistema di mutue obbligatorie riorganizzato durante l'occupazione alleata ha riscosso nell'ultimo quarantennio un alto consenso da parte di tutti i principali attori: i medici, che conservano una elevata autonomia professionale e partecipano attivamente alla gestione/programmazione del sistema, collaborando persino al contenimento dei costi; i vari partiti, incluso quello socialdemocratico, che non ha mai guardato con grande entusiasmo ai modelli nordici e ha istituito legami organizzativi con le casse mutue; la burocrazia e i Länder, che giocano un ruolo importante nel sistema, godendo di considerevole potere decisionale.In un panorama continentale sostanzialmente stabile e 'conservatore' in termini di riformismo sanitario, l'unica eccezione è costituita dall'Italia, che nel 1978 ha smantellato il vecchio sistema mutualistico imperniato su una molteplicità di schemi categoriali per istituire il Servizio Sanitario Nazionale. La congiuntura che ha consentito la 'deviazione' della politica sanitaria italiana dal tradizionale solco delle assicurazioni occupazionali si è originata a seguito dei seguenti sviluppi: 1) il progressivo indebolimento della corporazione medica, in conseguenza, da un lato, della burocratizzazione del 'medico della mutua' a partire dagli anni cinquanta e, dall'altro, della frammentazione interna susseguita allo sgretolamento della struttura gerarchica ospedaliera durante gli anni sessanta; 2) la forte avanzata elettorale del Partito Comunista Italiano durante gli anni settanta, prima a livello regionale e poi nazionale, unita a profondi rivolgimenti nel clima sociale e culturale e a una revisione della linea politica del partito, che lo ha gradatamente portato in seno all'area governativa; 3) il dissesto organizzativo, ma soprattutto finanziario delle casse mutue, che ha progressivamente eroso la credibilità di questi istituti e il loro potere di pressione e di veto; 4) la creazione delle Regioni ordinarie, che ha offerto l'occasione istituzionale per una generale ristrutturazione organizzativa e ha irrobustito il fronte riformista grazie all'attivismo delle nuove élites di governo periferico.Nel corso degli anni ottanta anche gli altri paesi dell'Europa meridionale tornati alla democrazia (Spagna, Portogallo e Grecia) hanno avviato la transizione dal sistema mutualistico al servizio sanitario nazionale, a seguito di sviluppi politici non molto dissimili da quelli italiani.
Se fino agli inizi degli anni ottanta l'espressione 'riformismo sanitario' è stata pressoché sinonimo di 'statalizzazione' del settore, l'ultimo quindicennio ha registrato un graduale mutamento di clima e di prospettiva. I problemi di costo e di efficacia sopra menzionati hanno modificato l'agenda politica e molti paesi hanno avviato 'riforme delle riforme' di segno nettamente restrittivo. In nessun paese occidentale l'ipotesi di un totale smantellamento della sanità pubblica e di un ritorno tout court alla medicina privata è stata mai presa in seria considerazione (nemmeno nell'Inghilterra thatcheriana). È emersa però una generale consapevolezza dei limiti e delle trappole del tradizionale statalismo open ended, insieme a una generale rivalutazione dei meccanismi della concorrenza e della responsabilizzazione rispetto ai costi. Il nuovo riformismo sanitario ha dato luogo a nuovi conflitti politici, e i partiti di sinistra si sono spesso trovati, con i sindacati, dalla parte della 'conservazione'. Sarebbe tuttavia fuorviante interpretare l'attuale fase evolutiva della sanità solo in termini di destra e sinistra, di Stato e mercato nelle loro tradizionali accezioni. I dilemmi di policy che i governi debbono oggi fronteggiare in questo settore sono di natura qualitativamente diversa rispetto al passato e non possono essere né dibattuti né risolti facendo ricorso a vecchi stereotipi ideologici o a vecchi strumenti istituzionali, ma richiedono piuttosto un grande sforzo di ri-tematizzazione politica e progettazione ideale.
Le strategie di contenimento dei costi sanitari adottate dai vari paesi OECD nel corso dell'ultimo quindicennio sono state in larga misura condizionate dagli assetti istituzionali e dai mix pubblico/privato consolidatisi nei decenni precedenti. A dispetto della notevole varietà di provvedimenti, è possibile tuttavia identificare alcune tendenze di fondo. Dopotutto, come si è illustrato nel cap. 3, l'esplosione dei costi sanitari è stata la conseguenza di spinte espansive di natura strutturale, che hanno operato in tutti i contesti nazionali. Per riassumere le tendenze di fondo del nuovo riformismo 'restrittivo' conviene distinguere due fasi: gli anni ottanta, in cui si è soprattutto cercato di tamponare le falle dei tradizionali assetti, e gli anni novanta, in cui si è avviata la ristrutturazione vera e propria di questi assetti. Sul versante dell'offerta le principali linee direttrici della politica restrittiva degli anni ottanta sono state le seguenti.
Fissazione di tetti di spesa e bilanci definiti. - Preoccupati dall'andamento della spesa sanitaria pubblica, numerosi governi hanno iniziato a stabilire in anticipo la quantità di risorse finanziarie disponibili di anno in anno, vuoi per l'intero settore sanitario vuoi per alcuni suoi comparti, come quello ospedaliero. Tetti e blocchi sono stati più agevoli ed efficaci nei servizi sanitari nazionali piuttosto che nei sistemi basati su mutue obbligatorie: i primi sono infatti teoricamente più programmabili dei secondi. L'esperienza italiana ha tuttavia dimostrato che la politica dei tetti aggregati a livello nazionale è poco efficace se le strutture decentrate di spesa (USL e Regioni) non hanno incentivi a risparmiare né strumenti di controllo sui prescrittori di spesa. D'altra parte, alcuni sistemi di mutue obbligatorie hanno dato prova di buona programmabilità finanziaria. È questo il caso ad esempio della Germania, dove il governo federale ha promosso un sistema di vera e propria concertazione per il contenimento dei costi, con il coinvolgimento delle casse di malattia, delle associazioni dei medici e dei Länder. Vari sistemi di finanziamento 'definito' (piuttosto che 'a piè di lista') sono stati sperimentati un po' in tutti i paesi nei confronti degli ospedali, sia pubblici sia convenzionati.
Riorganizzazione delle strutture e del personale. - In molti paesi sono stati introdotti blocchi nelle assunzioni di dipendenti nonché limiti alle ammissioni delle facoltà di Medicina o all'abilitazione professionale. Sono state sperimentate anche nuove forme di organizzazione del lavoro, soprattutto nei grandi ospedali. Molti istituti di cura (soprattutto quelli di piccole dimensioni) sono stati chiusi o riconvertiti ad altri usi, come la riabilitazione. Specifici incentivi sono stati introdotti per incoraggiare sistemi di cura alternativi al ricovero, ove possibile. Infine tutti i nuovi investimenti sono stati sottoposti a vagli sempre più rigidi da parte delle autorità pubbliche nazionali o locali.
Controlli sulle tecnologie e sui prezzi. - Numerosi passi sono stati compiuti per limitare l'acquisto di sofisticate attrezzature medico-diagnostiche e per razionalizzarne l'impiego. In tutti i paesi sono stati rafforzati inoltre i sistemi di controllo dei prezzi dei farmaci.
Controlli sul comportamento prescrittivo dei medici. - Come principali prescrittori di spesa (per farmaci, accertamenti, ricoveri, interventi), i medici sono diventati bersaglio di numerosi provvedimenti volti a influenzare il loro comportamento, responsabilizzandolo verso i costi indotti. I sistemi di pagamento per prestazione sono stati perlopiù sostituiti con sistemi per quota capitaria e varie forme di incentivazione al risparmio sono state sperimentate anche per quanto riguarda i medici ospedalieri. In Belgio, Francia, Germania e Olanda sono stati introdotti articolati sistemi di monitoraggio sulle prescrizioni, con sanzioni per i comportamenti devianti. Vi sono stati anche numerosi tentativi di stabilire codici di comportamento o 'protocolli' terapeutici standard da seguire per le più comuni patologie, volti a massimizzare l'efficacia rispetto ai costi.
Sul versante della domanda il principale ingrediente delle politiche restrittive è rappresentato dall'introduzione di forme di compartecipazione finanziaria da parte degli utenti, al fine di contenere i consumi e recuperare gettito. Tra la fine degli anni settanta e la metà degli anni ottanta tutti i paesi occidentali hanno introdotto i tickets sui farmaci e, in molti casi, sulle visite mediche, sugli accertamenti diagnostici e persino sui ricoveri ospedalieri. In genere, la disciplina dei tickets ha previsto articolati sistemi di esenzione in base a svariati criteri: reddito, patologia, età, ecc., volti a mitigarne l'impatto sulle fasce di popolazione più deboli o a rischio. La tendenza comune è stata tuttavia quella di accrescere, nel tempo, il peso delle compartecipazioni per l'utente standard. Per i cittadini di molti paesi, i tickets sono stati lo strumento più visibile (e impopolare) del nuovo riformismo 'restrittivo'. Indipendentemente dalla sua efficacia nel contenere costi e consumi (che è stata mediamente soddisfacente), tale strumento ha di fatto operato una graduale circoscrizione e ridefinizione della cittadinanza sanitaria. Dal tradizionale universalismo incondizionato si è infatti passati a un universalismo sempre più condizionato: il quale mantiene aperta per tutti la porta d'accesso alla tutela pubblica, ma modula i costi di ingresso in base a criteri di efficacia ed equità, riservando la gratuità totale solo a un numero più o meno circoscritto di cittadini che si trovano in particolare stato di bisogno.
Le tendenze restrittive appena illustrate sono proseguite (e anzi si sono in molti casi accentuate) anche nel corso degli anni novanta. In quest'ultimo decennio il nuovo riformismo sanitario si è tuttavia fatto più ambizioso: l'obiettivo è infatti diventato quello di una ristrutturazione di fondo della cornice istituzionale della sanità pubblica (anche nei suoi rapporti con la sfera privata), intesa a promuovere nuovi tipi di interazione tra fornitori e finanziatori, più imperniati sulla concorrenza e ispirati da una cultura di responsabilità e intraprendenza manageriale.Il primo nucleo di idee relative alle potenzialità di un recupero della 'logica di mercato' all'interno della sanità (privata, ma anche pubblica) si è sviluppato negli Stati Uniti già nel corso degli anni ottanta, dando luogo a una vera e propria messe di sperimentazioni. Tra queste degne di particolare nota sono state le Health Maintenance Organizations, strutture in competizione fra loro per attrarre pazienti cui fornire assistenza sanitaria onnicomprensiva per un premio annuale predeterminato, e dunque interessate a bilanciare tra loro costi e qualità dei servizi. Negli Stati Uniti è nata anche la proposta di riformare la sanità pubblica introducendo mercati simulati e forme di concorrenza amministrata. Tale proposta è stata successivamente rielaborata in Gran Bretagna: nel 1991 il governo conservatore ha varato una pervasiva riforma del NHS mirante proprio all'introduzione di un 'mercato interno' fra compratori e fornitori. Il nuovo sistema funziona a grandi linee così. Le strutture amministrative decentrate del servizio (district health authorities), rette da managers, utilizzano le proprie risorse finanziarie comprando servizi dagli ospedali pubblici o privati accreditati (in competizione fra loro), in base a considerazioni di costo-efficacia. Allo stesso tempo, i medici di base sono stati incoraggiati a raggrupparsi in 'studi associati gestori di fondi pubblici' (fundholding practices), ai quali è stata delegata la responsabilità di comprare sul mercato sanitario (di nuovo, pubblico o privato) e all'interno del proprio budget predefinito un certo numero di prestazioni per i propri assistiti: visite specialistiche, accertamenti diagnostici, alcune prestazioni ospedaliere e di assistenza infermieristica. Agli ospedali pubblici è stato consentito di trasformarsi in trusts, abilitati a decidere in larga autonomia sulla gestione interna, incluse le retribuzioni dei dipendenti. La riforma del 1991 ha in altre parole operato una netta separazione tra finanziatori o compratori pubblici da un lato (district authorities e fundholders) e fornitori, dall'altro, incoraggiando relazioni di mercato fra le due classi di attori. Lo Stato non ha diminuito il suo impegno finanziario nella sanità, né ha ridotto in alcun modo il raggio di copertura, che resta universale: i diritti sanitari dei cittadini sono rimasti inalterati. Ciò che è stato abbandonato è la vecchia logica di funzionamento imperniata sulla programmazione sinottica dal centro e sulla coincidenza fra il momento del finanziamento e quello della gestione/erogazione diretta di prestazioni, in base a procedure e standard (anche di remunerazione) rigidi, uniformi su tutto il territorio nazionale e scarsamente reattivi alle variazioni di qualità e di domanda. Avviata nel 1991, la riforma del NHS ha subito negli anni successivi numerosi piccoli aggiustamenti ed è entrata a pieno regime solo nella seconda metà del decennio. Le prime valutazioni sistematiche dei suoi effetti tendono a essere mediamente positive. Le innovazioni britanniche hanno avuto larga eco internazionale e molti paesi hanno messo a punto proposte o a loro volta avviato processi di riforma ugualmente ispirati alle nozioni di mercati simulati e concorrenza amministrata. Nel 1992 l'Italia ha varato la propria 'riforma della riforma', che in parte si è mossa nella stessa direzione del NHS, ossia la separazione tra finanziamento pubblico e fornitura di servizi. Lo Stato continuerà a finanziare Regioni e USL, che sono ora governate da managers anziché dai vecchi comitati di gestione a reclutamento politico. I grandi ospedali sono stati scorporati dalle USL, con margini più ampi di autonomia, e continueranno a ricevere un finanziamento di base da parte dello Stato, ma potranno anche vendere a prezzo pieno parte delle loro prestazioni. Dal canto loro le USL potranno comprare prestazioni anche da fornitori privati, purché preventivamente accreditati. Rispetto alla riforma inglese, quella italiana prevede un maggiore decentramento e dunque diversità territoriale, ma conferisce meno autonomia tanto ai compratori quanto ai fornitori pubblici: le nuove aziende ospedaliere italiane avranno ben minori poteri di gestione dei trusts britannici. La riforma italiana non ha poi previsto alcun cambiamento per quanto riguarda i medici di base ma ha conservato il tradizionale sistema di finanziamento per quota capitaria.
Anche i paesi con sistemi di mutue obbligatorie hanno cercato di innestare al proprio interno nuovi meccanismi concorrenziali. Il progetto più ambizioso è stato elaborato in Olanda a partire dalla fine degli anni ottanta. Il 'piano Dekker' ha tuttavia suscitato molteplici controversie tecniche e politiche e non è ancora stato compiutamente realizzato. Nel 1994 la Germania ha a sua volta avviato una riorganizzazione del proprio sistema di casse malattia, mirante a stimolare la concorrenza tra di esse.
È ovviamente prematuro stilare un bilancio della nuova grande ondata di riforme sanitarie degli anni novanta. Il panorama che sta emergendo è variegato e per certi aspetti ancora confuso. È certo tuttavia che gli assetti macroistituzionali della sanità occidentale stanno rapidamente cambiando e che i vecchi steccati fra pubblico e privato, fra Stato e mercato stanno cadendo, per lasciar spazio a nuove originali forme di commistione e integrazione fra le due sfere. I profili organizzativi ereditati dal passato sono ancora più o meno chiaramente visibili nei vari paesi e condizionano ovviamente le opportunità e i percorsi del nuovo riformismo. Vi sono tuttavia chiari segnali di ibridazione reciproca e di convergenza internazionale. Come si è detto, le riforme britanniche hanno originato una sorta di effetto 'domino', che ha contagiato un po' tutti i sistemi. Nell'epoca della globalizzazione è probabile che anche l'organizzazione della sanità si faccia più omogenea fra paesi: e ciò vale soprattutto per i paesi dell'Unione Europea.
Sia a livello macro che micro le priorità allocative e distributive della sanità sono state storicamente il frutto di contattrazioni implicite tra professione medica e grandi acquirenti, tipicamente le compagnie di assicurazione e i governi. L'ammontare complessivo di risorse da destinare alla sanità rispetto ad altri settori potenzialmente rilevanti per le condizioni di salute della popolazione (ambiente, sicurezza dei posti di lavoro e dei trasporti, igiene pubblica, ecc.) è stato a sua volta essenzialmente definito in base ad automatismi istituzionali (come la spesa storica) o, più recentemente, in base alle compatibilità macroeconomiche. Entrambi questi metodi appaiono ormai sempre meno adeguati sotto il profilo dell'efficacia. Un'abbondante massa di dati empirici ha infatti messo in luce che: 1) vi sono impressionanti variazioni nei tassi di impiego delle varie forme di assistenza sanitaria - non solo tra paesi, ma anche tra aree all'interno di singoli paesi e tra medici e strutture all'interno di ogni singola area; 2) la correlazione tra queste variazioni e le variazioni dei più significativi indicatori dello stato di salute della popolazione non è elevata; 3) lo stato di salute è correlato invece molto positivamente con indicatori di altro genere, come la qualità dell'ambiente, la sicurezza del traffico, i comportamenti alimentari e gli stili di vita.
Le ricerche hanno anche dimostrato che buona parte delle variazioni nei tassi di utilizzo delle varie forme di assistenza sono il frutto di incertezza clinica: dell'assenza cioè di valide informazioni circa i reali effetti dei vari interventi medici. È emersa così in molti paesi la consapevolezza che sia necessario interrogarsi più chiaramente circa l'appropriatezza dei metodi di cura e delle strategie pubbliche di promozione della salute. In altre parole: quali pratiche sono veramente efficaci in termini di esito finale? E, di conseguenza: come definire l'entità dell'impegno pubblico per finanziare (quale che sia il modo di erogazione) tali pratiche? Questa seconda domanda ha implicazioni allocative intersettoriali (quanto all'assistenza sanitaria e quanto all'ambiente?) e intrasettoriali (quanto alla cura di questa o di quella patologia?), nonché chiare implicazioni distributive (quanto a chi?).
La situazione di vera e propria emergenza finanziaria dell'ultimo decennio, dovuta alle sopra illustrate dinamiche di esplosione dei consumi e dei costi, non ha consentito l'apertura di un dibattito serio e articolato sui cruciali dilemmi di allocazione intersettoriale: l'obiettivo dei policy makers è stato esclusivamente quello di contenere tutte le spese, senza porsi delicati problemi di redistribuzione fra aree di intervento. Sui dilemmi allocativi e distributivi interni al settore sanitario il dibattito però ha cominciato ad avviarsi, in stretto collegamento con quello più generale sulla revisione dell'universalismo nel campo del welfare. In sanità l'universalismo di stampo tradizionale (quello teorizzato in passato dalla dottrina della sicurezza sociale) assumeva che tutti i cittadini, incondizionatamente, dovessero avere diritto a tutte le prestazioni rese disponibili dal progresso medico, senza restrizioni. Come si è osservato, nel corso degli anni ottanta la prima parte di questo assunto (tutti i cittadini, incondizionatamente) ha subito una progressiva ridefinizione. Si è infatti distinta la dimensione dell'accesso (che è rimasto universale e incondizionato) da quella della partecipazione finanziaria (che è stata invece modulata a seconda delle condizioni di bisogno dell'utente). Questo neo-universalismo non ha però sostanzialmente intaccato la seconda parte dell'assunto (tutte le prestazioni, senza restrizione). È vero che tutti i paesi hanno sempre dovuto razionare, in una qualche misura, le prestazioni disponibili, soprattutto quelle dipendenti da tecnologie sofisticate e costose: il metodo di razionamento nei fatti più utilizzato è stato quello delle liste d'attesa, prevalentemente basate sul criterio first come, first served. Ed è anche vero che alcuni paesi hanno cominciato a porre restrizioni al ricorso di certe prestazioni di contorno (cure termali, protesi, assistenza dentistica di routine, ecc.), ma si è trattato sinora di forme di razionamento implicito o marginale. L'assunto della piena comprensività (la terza dimensione dell'universalismo classico, distinta dall'accesso e dalla partecipazione finanziaria) non è stato consapevolmente e significativamente intaccato. Eppure, una limitazione dell'universalismo anche sotto questo profilo, in base a considerazioni di costo-efficacia, è diventata un'esigenza sempre più urgente, non solo come ulteriore risposta alle dinamiche di crisi fiscale e di invecchiamento demografico, ma anche come strategia per incoraggiare un uso più responsabile della medicina e una allocazione di risorse davvero più mirata alla promozione della salute che alla lotta accanita contro la malattia.Ma come delimitare l'universalismo sotto il profilo della comprensività? Come individuare un pacchetto di prestazioni essenziali, o di base, da mantenere nell'ambito della tutela pubblica? Ormai da qualche anno simili interrogativi hanno cominciato a essere esplorati da tecnici ed esperti: non solo medici e amministratori, ma anche filosofi, stanti le delicate implicazioni che ogni possibile risposta solleva sul piano etico. Poche sono state, sinora, le proposte concrete. Il principale scoglio da superare è metodologico: quali criteri adottare per la selezione? Secondo alcuni il criterio appropriato deve essere quello dell'impatto della patologia: occorre dare la priorità alla cura di quelle patologie che causano alta mortalità o morbilità, anche in relazione ai costi della cura, alla disponibilità di trattamenti efficaci, al rischio che tale patologia possa peggiorare (sul piano individuale o collettivo) in assenza di trattamento. Secondo questa prospettiva, un sistema sanitario dovrebbe dare priorità alla prevenzione delle 'morti evitabili', ossia quelle causate da malattie che, in base al sapere clinico corrente, non dovrebbero condurre alla morte prima di una certa età se curate in modo appropriato e al momento giusto. Secondo altri, tuttavia, questa prospettiva, da sola, non è corretta, in quanto non tiene conto della qualità della vita conseguente alla eventuale terapia. La cura di patologie che consentono anni di vita aggiuntivi in buone condizioni dovrebbe avere la priorità sulla cura di quelle patologie che invece lasciano il paziente in condizione di irrecuperabile invalidità. È quasi superfluo sottolineare i drammatici interrogativi che un tale approccio solleva: chi deve decidere il 'punteggio' da assegnare a ciascun trattamento in base al numero di 'anni di vita corretti in base alla qualità' da essi consentito? E, più fondamentalmente ancora: che cos'è la qualità della vita (anche definita in senso puramente fisiologico)?
Per quanto irrisolvibili possano sembrare, in alcuni paesi tali quesiti hanno già smesso di essere semplice oggetto di dibattito accademico per diventare scottanti questioni di decisione politica. Negli Stati Uniti ad esempio in seno al programma Medicaid sono stati fatti dei tentativi di identificare pacchetti di prestazioni delimitati e con una lista di priorità al loro interno in base alla quale razionare le risorse disponibili. In Oregon, una commissione composta da cinque medici, un'infermiera, un assistente sociale e quattro rappresentanti delle associazioni dei consumatori ha recentemente redatto una lista dettagliata di interventi sanitari su cui concentrare lo sforzo pubblico. La sperimentazione della proposta elaborata in Oregon è stata però bloccata a livello federale, anche a seguito dell'attività di lobbying esercitata dall'associazione nazionale degli invalidi. Certo, il contesto americano, storicamente imbevuto di 'minimalismo' per quanto riguarda l'intervento pubblico in sanità, ha reso meno difficile il passaggio dai dibattiti accademici alle proposte concrete. Ma la diversità americana non deve essere sopravvalutata. Alcuni passi nella medesima direzione sono stati recentemente compiuti anche da un paese tradizionalmente 'massimalista' come la Svezia. Nel 1993 una commissione ufficiale ha presentato una serie di proposte sul modo di fissare le priorità all'interno del servizio sanitario pubblico, distinguendo tra diversi gruppi di attività cliniche (elencate, appunto, secondo l'ordine di priorità): 1) trattamento delle patologie acute che mettono in pericolo la vita, incluse le malattie che, senza trattamento, condurrebbero all'invalidità o a morte prematura; 2) trattamento delle patologie croniche più severe, assistenza terminale palliativa, cura delle malattie che hanno prodotto riduzione di autosufficienza; 3) trattamenti di abilitazione/riabilitazione, inclusa la prevenzione; 4) trattamento delle patologie acute e croniche meno severe; 5) assistenza per ragioni diverse dalla malattia; 6) patologie minori: l'autocura è sufficiente.È indubbio che il dibattito pubblico su criteri e scelte che riguardano la vita e la morte è destinato a suscitare in futuro marcate tensioni e controversie politiche. Per il pubblico più vasto e meno consapevole, tale dibattito potrà addirittura inizialmente sembrare inammissibile. Ma in un mondo di risorse scarse (e contraddistinto dall'inevitabilità ultima della morte) la sfera della sanità è sempre stata e sempre sarà intrinsecamente incentrata su criteri di razionamento allocativo e distributivo: ciò che può variare è solo il mix tra carattere esplicito o implicito, razionale o non razionale, deliberato o casuale di tali criteri. (V. anche Assistenza sociale; Benessere, Stato del; Sanità: medicina e società).
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