Assistenza sociale
1. Introduzione
Nel senso etimologico (ad/sisto: stare accanto, essere vicino) il termine 'assistenza' indica una generica azione di soccorso che altrettanto bene può essere espressa da termini diversi, quali carità, beneficenza, filantropia, e persino servizio. In effetti, non solo nel linguaggio corrente questi concetti sono spesso assunti come equivalenti, ma anche nel gergo coniato dalle burocrazie e dagli addetti ai lavori si avverte talvolta la difficoltà di pervenire a una definizione più rigorosa di ciò che propriamente appartiene al campo dell'assistenza e si distingue dunque dalle restanti espressioni di solidarietà sociale.Generalmente si intende per assistenza l'aiuto rivolto a chi, temporaneamente o permanentemente, non dispone dei mezzi necessari al proprio sostentamento. Il problema, tuttavia, si ripropone immutato, dal momento che anche in questa definizione convenzionale restano imprecisati i contenuti e i caratteri degli aiuti erogati, le figure alle quali sono rivolti e, soprattutto, le funzioni che a essi si attribuiscono all'interno della società.
Il tentativo di superare queste difficoltà comporta, innanzitutto, un esame storico delle condizioni nelle quali i diversi significati dell'opera assistenziale si sono imposti, e in secondo luogo la limitazione more geometrico del concetto di assistenza sociale in base a uno o più criteri particolari.Una prima indicazione positiva, a questo proposito, proviene dal semplice accostamento dell'attributo 'sociale' al sostantivo astratto. Tenuto conto delle circostanze storiche nelle quali si forma la sfera pubblica, possiamo difatti definire l'assistenza sociale come il complesso degli aiuti che, all'atto della formazione della società borghese come ambito dello scambio di merci e del lavoro sociale, si propongono come obiettivo specifico il mantenimento dell'ordine sociale.
L'aspetto innovativo di questa definizione è dato pertanto dalla relazione che si stabilisce tra la natura degli aiuti erogati e la finalità verso la quale essi sono orientati. Ne segue che, in tanto l'assistenza può essere definita sociale, in quanto non riguarda più una parte marginale e limitata del corpo sociale, ma investe le basi stesse della sua organizzazione, ovvero diviene strumento di stabilità nelle mani del potere politico centrale. La sua funzione diviene cioè quella di disciplinare la società civile. Affinché ciò si verifichi, tuttavia, è indispensabile che i problemi a cui si rivolge l'intervento assistenziale siano consapevolmente ricondotti alle modalità di funzionamento del sistema sociale. In altri termini, è necessario che si giunga a comprendere che tali problemi non possono più essere affrontati né mediante l'atto benefico affidato alla discrezionalità dei privati, né tramite provvedimenti incompatibili con la logica e i meccanismi che governano la produzione e la riproduzione delle principali risorse economiche e sociali.
Queste condizioni, come vedremo, si presentano soltanto al momento della formazione dell'economia di mercato: allorquando, cioè, i fenomeni a cui hanno dato luogo le trasformazioni della società non possono più essere risolti con gli strumenti di controllo di cui disponevano le società tradizionali e richiedono invece l'apprestamento di nuove misure di intervento sociale.
Reciprocità, redistribuzione delle risorse collettive, economia e morale familiare costituiscono, nella lunga durata, i cardini dei sistemi sociali che precedono l'avvento della società moderna (v. Polanyi, 1944). Ospitalità, dono, carità, filantropia rappresentano, in quelle società, le manifestazioni concrete di quei principî fondamentali (v. Mauss, 1923-1924; v. Sahlins, 1972; v. Gluckman, 1968; v. Lévi-Strauss, 1949; v. De Gerando, 1867; v. Löning, 1892). Generalmente è corretto assumere che questo sistema si è preservato, relativamente inalterato nella sostanza, sino alla fine del feudalesimo nell'Europa occidentale.
Per tutto il Medioevo i meccanismi con cui si provvedeva alla distribuzione dei beni di sussistenza continuarono a essere una funzione della più vasta organizzazione sociale. Il mercato non costituiva ancora un'istituzione separata. Le relazioni tradizionali di protezione e di subordinazione conservarono inalterato vigore, quantunque tendessero talvolta a rivestire forme più congeniali all'evoluzione dei rapporti sociali (v. Bloch, 1939; tr. it., pp. 167-168).
Rispetto alle società tribali si era aperto, è vero, lo squarcio del cristianesimo, che anche su questa materia della carità aveva "invertito l'ordine delle cose", come scrivevano Florian e Cavaglieri nel trattato su I vagabondi. Alla reciprocità e alle consuetudini di redistribuzione altruistica era subentrata l'oblazione benefica che, rispetto alle pratiche precedenti, appariva affrancata da regole di tipo collettivo, imposte e ritualizzate in innumerevoli cerimonie che impegnavano la comunità nel suo insieme o la sfera appena più limitata della parentela. In sintesi, se prima si dava per solidarietà, per obbligo condiviso dalla coscienza comune, "col cristianesimo si dà per pietà" (v. Florian e Cavaglieri, 1897-1900, vol. I, p. 356).I poveri, difatti, sono "poveri di Cristo". Essi sono "l'olocausto che si offre alla giustizia eterna in espiazione delle colpe dell'umanità, e per loro mezzo è possibile la pratica della virtù che tutte le altre avanza, la carità" (v. Calisse, 1911, p. 88). Come la carità, che vi corrisponde in termini di solidarietà umana, anche il povero è indispensabile: perché favorisce la redenzione dal peccato e la salvezza dell'anima del benefattore.Ma il sistema della carità e della beneficenza, benché fosse complesso e generalizzato, non presentava ancora i caratteri di un'organizzazione rivolta agli interessi degli assistiti. La buona azione, l'opera di soccorso, comunque erogate, tenevano conto pressoché unicamente, come ricordava agli inizi del Quattrocento Antonino da Firenze, "della volontà, della bontà e della misericordia del benefattore, senza preoccuparsi a questo riguardo della persona di colui che ha ricevuto l'elemosina" (v. Geremek, 1973, p. 682).
Il raggio d'azione è troppo corto, il cerchio dell'intervento si chiude troppo presto. L'atto di soccorso riguarda la figura del povero come categoria etica, magari spirituale, ma mai come categoria sociale. Si tratta delle modalità in cui l'aiuto debba essere prestato; del merito o demerito del mendicante; delle giustificazioni teologiche dell'assistenza prestata, e di chi possa o meno essere considerato un autentico povero, degno di ricevere l'elemosina. Ma raramente la riflessione si eleva dalle situazioni contingenti. L'approccio è quasi sempre particolaristico. Il problema centrale è quello "delle differenze tra i poveri e dei criteri con cui si riconosce la povertà" (ibid., p. 681).
Non solo. Essendo dettata innanzitutto dalla morale, la pratica caritatevole risulta a un tempo discriminante e dispersiva. Discriminante, perché seleziona i poveri con criteri incostanti, variabili nel tempo e nello spazio senza ragione alcuna che non sia il sentimento del benefattore. Dispersiva, perché raramente ci si avvede della ineguale e ingiusta ripartizione degli aiuti che finiscono per essere sovrabbondanti in alcuni settori e deficitari in altri: per i motivi più disparati, senza seguire alcuna regola, ma soprattutto al di fuori di una visione delle cause e degli effetti generali che toccano la questione della povertà.In questo quadro la Riforma protestante introdusse i primi germi del cambiamento. Negando la salvezza per mezzo delle opere, essa minava alle radici l'intero edificio della carità imperniata sul concetto di salute dell'anima del benefattore. Cadde cioè la sopravvalutazione dei doveri ascetici in confronto a quelli mondani e, in contrasto con la concezione cattolica tradizionale, si predicò "l'obbedienza verso l'autorità e l'adattamento alla posizione avuta nella vita" (v. Weber, 1904-1905; tr. it., p. 156).
Sul piano etico questa predicazione comportava la condanna della mendicità, del parassitismo e di ogni altra forma di ingiustificata dipendenza dell'individuo dalla ricchezza e dal lavoro della collettività. La povertà poteva avere origine dalla sventura o dalla disgrazia, ma non poteva in alcun modo essere equiparata a una virtù. Quanto alla beneficenza, essa "non doveva essere indiscriminata e poteva essere amministrata meglio da organismi, quali la municipalità e le chiese, che da persone singole incapaci di controllarne le ripercussioni sociali" (v. Bainton, 1952; tr. it., p. 225).
Almeno nei principî, dunque, la figura del povero "immagine di Cristo" avrebbe dovuto essere accantonata. E quanti non erano inabili al lavoro dovevano necessariamente essere in procinto di trasformarsi in artigiani operosi.Sarebbe tuttavia ingiustificato ricondurre al pensiero dei riformatori la sostanza di questi cambiamenti e degli altri che a essi seguirono a partire dal XVI secolo.
Le cause essenziali del mutamento non si individuano insomma nella diversa mentalità con cui si guarda al povero, quanto piuttosto nell'intreccio di un variegato insieme di fattori, non sempre facilmente districabile, che annovera a diverso titolo l'espansione demografica, le crisi di approvvigionamento alimentare e gli andamenti ciclici delle malattie epidemiche (v. Livi Bacci, 1987). Ai quali sono probabilmente da aggiungere le trasformazioni dei sistemi di produzione e distribuzione, la crescita degli agglomerati urbani, la mobilità della popolazione.
Nel loro insieme questi eventi contribuivano ad allontanare l'idea che il povero fosse semplicemente un'esemplificazione dell'immagine di Cristo, come tale positiva anche per le azioni di solidarietà che suscitava nell'animo del donatore. Il cambiamento nella riflessione teologica si innestava, in altri termini, nella trasformazione più ampia della società. E questo conduceva ineluttabilmente a un mutato atteggiamento nei riguardi della massa dei derelitti e dei vagabondi.
Questi, all'incirca, gli effetti che ne derivarono: lentamente l'attenzione si sposta dalla figura del benefattore a quella del destinatario del soccorso; si comincia a tracciare una linea più netta tra coloro che sono in condizioni di richiedere l'aiuto e quanti, invece, per indolenza, vizi e malvagità, non dimostrano di meritarlo; subentra a poco a poco nella coscienza dei governanti l'idea che si debbano necessariamente porre delle barriere all'aiuto indiscriminato o, comunque, che il beneficio del povero debba essere messo in relazione con quello della società. In breve, accanto alla tradizionale visione cristiana della carità, si fa largo "una corrente di pensiero che nella povertà vede una maledizione e nei poveri dei pericoli per la società" (v. Gutton, 1974; tr. it., p. 78).
L'elargizione del soccorso viene con ciò subordinata a un costo per l'assistito. Il problema è mettere i poveri in condizione di non nuocere, difendendo a un tempo l'ordine costituito e le gerarchie esistenti nella società. Per questo è indispensabile un'organizzazione assai più razionale ed efficace dell'assistenza.In effetti, è verso la fine del XVI secolo, più o meno in coincidenza con la terribile carestia che colpisce l'intera Europa, che convenzionalmente si situano gli inizi, ancora incerti sotto il profilo dei programmi ma già delineati nell'impostazione e nell'ideologia, dell'assistenza sociale (v. Geremek, 1973, p. 688). L'apparato variegato e ingombrante delle misure partorite dalla fantasia assistenziale e solidaristica dei secoli precedenti non smette certo di operare: né allora, né dopo. Al contrario, "conosce stimoli nuovi che ne favoriscono lo sviluppo" (ibid.) per un lungo periodo a venire. Eppure si riconoscono criteri nuovi, si affacciano obiettivi e intendimenti più generali che non si limitano più a soddisfare le richieste di masse considerevoli di sbandati che assediano i centri abitati maggiori, creando disordini e diffondendo la paura. Finalmente si pongono al centro delle azioni filantropiche le possibili conseguenze sul piano sociale, la preservazione della vita associata e dei suoi valori: in primis quello dell'operosità affacciatosi con la Riforma.
3. Dalla beneficenza privata alla carità legale
Già agli inizi del Cinquecento il rifiuto del lavoro era percepito come un problema sociale. Se si prendono in esame in questo periodo i provvedimenti di assistenza, affiorano pressoché ovunque i medesimi principî generali. A Venezia e poi a Roma, per esempio, l'accattonaggio viene proibito su tutto il territorio cittadino sotto la minaccia di severe sanzioni, restrittive della libertà. Gli estranei senza fissa dimora vengono rispediti ai paesi di provenienza. Le persone valide del luogo devono essere indotte a guadagnarsi da vivere mediante il lavoro (v. Geremek, 1973, pp. 686 ss.). Negli Stati tedeschi, nella medesima epoca, le ordinanze sui poveri contengono analoghi principî: divieto di mendicare, proibizione di stabilirsi sul territorio cittadino per coloro che non possono provare di possedere i mezzi sufficienti per vivere, collocazione coatta in un luogo di lavoro (v. Florian e Cavaglieri, 1897-1900, vol. I, pp. 363 ss.). Idem per quanto riguarda la Francia e l'Inghilterra. Anche in questi paesi la responsabilità dei soccorsi è affidata alle municipalità e alle parrocchie; si obbligano gli amministratori e i giudici di pace a limitare l'offerta di assistenza ai soli poveri invalidi, ad allontanare i vagabonds, e a provvedere affinché alle persone valide venga procurato comunque un lavoro (ibid., pp. 366 ss.).
Quantunque indicativamente, la strada era dunque tracciata. Ma perché l'opera fosse compiuta sino in fondo e i principî dell'etica cristiana si traducessero (non senza residui) in quelli della 'ragion di Stato' era indispensabile soddisfare un duplice ordine di condizioni. Occorreva, da un lato, la compilazione di un minuzioso catalogo delle circostanze che davano diritto al soccorso; dall'altro, era necessario che la consapevolezza dei governanti circa i pericoli della mendicità e del vagabondaggio per la pace e l'ordine sociale fosse condivisa dalla maggioranza della popolazione.Alla prima esigenza si diede risposta, sul piano della riflessione, tramite un'elaborata classificazione delle diverse tipologie del miserabile e, su quello amministrativo, mediante una non meno dettagliata differenziazione degli aiuti o, rispettivamente, delle restrizioni della libertà degli assistiti, a seconda che si giudicasse il povero meritevole o non meritevole. Si introduce di conseguenza una serie pressoché interminabile di 'coefficienti di povertà'. Occorreva, come poi dirà il Bentham, possedere "uno stato completo delle differenze che presentavano gli individui relativamente alle diverse condizioni dell'indigenza", dal momento che non si sarebbe potuto altrimenti "stabilire un buon prospetto dei soccorsi in favore dei poveri, senza la massa di indicazioni sollecitata dai suoi quadri" (cit. in De Gerando, 1867, p. 387).
Dalla generica e pressoché inservibile categoria degli "huomini vagabondi et otiosi" si arriva alla più articolata distinzione tra idle and disorderly persons, rogues and vagabonds e incorrigibles rogues, introdotta in Inghilterra nei primi del Settecento, via via sino alla esaustiva nomenclatura sinottica in 2 categorie, 8 classi e 135 specie. Quanto all'utilità che da queste classificazioni si poteva sperare di ricavare, essa dipendeva dall'accuratezza e dalla severità delle pene che vi sarebbero state associate. E in effetti contestualmente si sviluppò un complesso armamentario di punizioni, rapportate alla gravità del caso e alla resistenza che il soggetto opponeva al trattamento. La galera, innanzitutto. Quindi la frusta e il bando perpetuo. Ma anche, nei casi più difficili o quando occorreva manifestare inequivocabilmente lo stato della persona, l'apposizione crudele di infallibili signa conditionis che rendevano perenne il riconoscimento dello stato del mendicante o dell'indigente mediante il marchio rovente e irreversibili mutilazioni del corpo (v. Geremek, 1974, tr. it., p. 126; v. Florian e Cavaglieri, 1897-1900, vol. I, pp. 88 ss.).Quanto alla seconda esigenza, che la popolazione prendesse cioè coscienza della gravità e dei pericoli del pauperismo dilagante, la soluzione adottata non fu meno efficace della precedente. Quale strumento più adatto poteva difatti essere escogitato se non l'obbligo da parte dei benestanti di partecipare alle spese necessarie al mantenimento dei poveri? Questa misura trova per la prima volta applicazione nelle disposizioni assunte in Inghilterra tra il 1597 e il 1598, poi confluite nel celebre Atto di Elisabetta (An act for the relief of the poor, 1601) che si proponeva in generale di razionalizzare il complesso degli interventi adottati sino a quel momento a livello locale.
Ma l'aspetto che più merita di essere segnalato è per l'appunto il fatto che, rendendo obbligatoria la contribuzione a favore dei poveri, l'Atto di Elisabetta minava alle fondamenta la logica dell'assistenza dei secoli passati.L'aiuto dato ai poveri non avveniva più tramite l'elemosina (alms): atto singolare, discrezionale, espressione contingente di benevolenza, magari valida nel caso particolare ma inefficace come azione di bonifica e controllo del disordine sociale recato dal pauperismo. Diveniva tributo (rate), cioè obbligo; e implicava così la corresponsabilizzazione di ognuno a un problema che interessava la totalità dei proprietari e dei possessori di immobili (householders).
La legge del 1601 conservava peraltro immutata la distinzione tra poveri abili e inabili. Questi ultimi dovevano essere mantenuti dalle parrocchie, che divenivano le normali unità di amministrazione dei soccorsi (v. Poor law, 1971, p. 216). I poveri abili erano costretti a lavorare a seguito di provvedimenti stabiliti dagli ispettori dei poveri (overseers) e dai rettori delle parrocchie (parish wardens); coloro che rifiutavano di occuparsi erano invece avviati in modo forzato a una casa di lavoro, le famigerate workhouses.Idealmente ci si incamminava dunque verso un sistema diverso dai precedenti. Ma l'applicazione di queste disposizioni doveva dimostrarsi ben presto assai più faticosa e inconcludente di quanto si sarebbe potuto supporre. Gli entusiasmi e le speranze furono di breve durata. Le parrocchie non intendevano soccorrere che i propri poveri, i residenti, quando non tentavano addirittura di liberarsi dell'obbligo a esse imposto dalla legge a spese di altre parrocchie "più ricche o meno avare" (v. Mantoux, 1905; tr. it., p. 492).
Il sistema delle provvidenze, inoltre, presentava vistose smagliature nelle diverse aree del paese (v. Marshall, 1968, p. 12). L'istituzione delle workhouses si rivelò presto un rimedio peggiore del male che avrebbe dovuto sanare. I poveri aumentarono con progressione apparentemente inarrestabile, così come accadeva per i tributi, dal momento che i due termini erano ormai strettamente correlati (v. Mantoux, 1905; tr. it., p. 495).In Inghilterra come in Francia, e altrove, all'aumento vertiginoso del pauperismo si rispondeva con il rafforzamento delle misure a carattere repressivo. Workhouses, hôpitaux, dépôts de mendicité, Zuchthaüser, Zwangsarbeitanstalten assumevano sempre più palesemente la forma e la funzione di istituti di pena, veri e propri reclusori "a mezza via tra la galera e la caserma" (v. Bloch, 1908, p. 178).La 'legge sui poveri' e le analoghe misure intraprese in gran parte dei paesi europei manifestavano con ciò la loro inadeguatezza ad affrontare e ancor più a rimuovere le vere cause del problema. Le ragioni? Il diritto del povero a ottenere il soccorso non era in realtà che l'obbligo della parrocchia. Se si riconosceva l'esigenza della collettività di approntare quelle misure indispensabili al contenimento della miseria e alla difesa dell'ordine costituito dai suoi effetti perniciosi, faceva ancora difetto nella normativa generale la considerazione dei diritti inalienabili della persona. Come dire che l'idea illuministica di una felicità fondata sul "maggior bene del maggior numero", sul matrimonio tra interessi del singolo e interessi della comunità, restava ancora sullo sfondo dell'epoca come un traguardo indistinto.
L'espressione usata da Sidney e Beatrice Webb per caratterizzare i tratti dell'opera assistenziale che allora andava compiendosi coglie assai bene questa insufficienza: "Relief of the poor within a framework of repression" (v. Webb e Webb, 1927, p. 396).
Non solo. L'architettura di un sistema che accompagnava il soccorso agli indigenti con la minaccia di un "salutary terror" (v. Rimlinger, 1971, p. 19) evidenziava un'ulteriore ragione di inadeguatezza. Essa si rivelava difatti profondamente inadatta ad affrontare le trasformazioni avvenute nella struttura economica della società del tempo. Se il fallimento dei suoi intendimenti repressivi aveva dimostrato, senza alcun dubbio, i limiti del suo impianto psicologico, non meno gravi erano le difficoltà a cui essa si esponeva dal punto di vista economico.Vincolare i poveri alle loro parrocchie, o comunque alle amministrazioni locali, procedeva insomma controcorrente. Contrastava nientemeno che con il presupposto fondamentale della nascente società industriale: quella libera circolazione del lavoro, quella possibilità del lavoratore di trovare dove disponibile un lavoro, che costituiva sempre più l'unica vera opportunità di sopravvivenza per le masse. Impedendo agli indigenti di muoversi liberamente alla ricerca di un lavoro (Act of settlement, 1662), si salvaguardava l'interesse dei possidenti locali a non essere gravati di tributi che competevano ai residenti dei luoghi dove il povero aveva fissato il proprio domicilio legale. Ma a che prezzo? "Gli veniva così tolta - osserva Mantoux - l'unica possibilità di guadagnarsi da vivere e, per paura di doverlo assistere, lo si condannava a cadere in uno stato di assoluta povertà nel quale l'assistenza pubblica e privata sarebbero apparse l'unica risorsa" (v. Mantoux, 1905; tr. it., p. 492). Se da un lato, dunque, lo sviluppo delle industrie e dei mercati faceva il suo corso, dall'altro la società del XVIII secolo pareva inutilmente sforzarsi di erigere le più strenue resistenze alla soluzione dei problemi che la sua stessa trasformazione aveva creato e avrebbe continuato a imporre.
La società del XVIII secolo è posta di fronte a due contrastanti influenze. "L'una che emana dal paternalismo e protegge il lavoro dai pericoli del sistema di mercato, l'altra che organizza gli elementi della produzione, inclusa la terra, in un sistema di mercato, privando la gente comune del suo status precedente e obbligandola a guadagnarsi la vita offrendo in vendita il proprio lavoro" (v. Polanyi, 1944; tr. it., p. 103). L'idea che il lavoro costituisce il naturale destino dell'uomo aveva ormai fatto proseliti nelle classi dirigenti. "L'insistenza sul lavoro cominciò ad accompagnare e infine a sostituire la fede nella carità" (v. Woolf, 1978, p. 1065).
L'indignazione morale per lo spreco delle risorse profuse nella sterile opera di assistenza di una crescente massa di indigenti all'interno delle case di lavoro soppiantava, lentamente ma inesorabilmente, la compassione per il destino di questi sventurati. Il teorema della ricchezza della nazione, in altre parole, prendeva il posto dei problemi legati alla salute pubblica nella mente dei governanti. Non solo cioè ci si allontanava progressivamente dall'idea tradizionale della carità religiosa: si cominciavano a prendere le distanze anche dalle più recenti manifestazioni della filantropia civile.Con l'avvento dell'illuminismo si affacciava profetica anche l'idea della pubblica utilità. La quale, a sua volta, non era che l'espressione retorica della fede nel progresso e nelle ragioni dell'economia. I 'buoni costumi', l'avversione per ogni forma di indolenza e la ricerca del benessere comune rappresentavano, in definitiva, i correlati di quel nuovo ordine sociale che si stava rapidamente imponendo sotto l'incalzare degli avvenimenti politici e industriali.
Di fronte a queste trasformazioni la società appariva pesantemente gravata dall'eredità del passato. Per averne conferma, basterà considerare le reazioni collettive alle decisioni prese dai giudici di pace del Berkshire, Inghilterra, riunitisi a Speenhamland nel 1795. Occasione di questa iniziativa era la necessità di elaborare una risposta ai problemi del pauperismo lasciati irrisolti dall'applicazione della Poor law elisabettiana. Con la legge del 1601, com'è noto, i poveri venivano costretti a lavorare qualunque fosse il salario che potevano trarne. L'obbligo del lavoro, almeno per i poveri validi, permaneva cioè indipendentemente dalle garanzie di sussistenza che ne sarebbero eventualmente derivate.Mai si era pensato alla possibilità di fornire un sussidio a integrazione del salario. Come dire che non esisteva l'idea di un salario di sussistenza, né quella di una soglia di povertà rispetto alla quale commisurare l'efficacia dei soccorsi. Di più. Era assente qualunque riferimento ai possibili legami tra l'azione assistenziale e l'esperienza lavorativa. A parte l'ovvia equazione che si stabiliva tra l'attività di lavoro esercitata e la libertà dell'individuo, da un lato, e tra l'assenza di un lavoro e la restrizione di questa libertà, dall'altro, nessun nesso pareva sussistere tra i due termini. Non necessariamente e non sempre lavorare equivaleva a una garanzia di sopravvivenza.
Con l'introduzione della Speenhamland law questo nesso veniva invece evidenziato. Il 'povero' aveva cioè diritto a un sussidio da parte della municipalità anche se disponeva di un lavoro, a condizione che il salario che ne ricavava fosse inferiore a una soglia prefissata dalla legge, più o meno coincidente con il livello minimo di sussistenza.Così il meccanismo della legge: "Quando la pagnotta di farina di seconda qualità, del peso di 8 libbre e 11 once, costerà uno scellino, tutti i poveri abili al lavoro, per soddisfare i propri bisogni, dovranno disporre di 3 scellini la settimana, sia che li guadagnino col proprio lavoro sia con quello dei familiari, sia che ricevano un sussidio dalla parrocchia; inoltre 1 scellino e 6 pence per la moglie e per ogni membro della famiglia. E così, rispettando questa proporzione, si aggiungeranno tre pence per l'uomo e un penny per ogni familiare, ogni volta che il prezzo del pane aumenterà di un penny".Inutile dire che le conseguenze di questo provvedimento dovettero risultare a dir poco rovinose. L'economia di mercato si trovava allora in una fase di rapida espansione e profondi erano gli effetti che questa trasformazione esercitava sulla vita materiale della gente (v. Braudel, 1977; tr. it., pp. 47 ss.). In queste condizioni il tentativo di regolare la sussistenza della popolazione in modo indipendente dalle leggi e dagli effetti del mercato equivaleva di fatto a fare dell'assistenza un'enclave separata dal resto della società; un'anomalia istituzionale che rischiava di frapporsi al funzionamento del mercato del lavoro in un momento in cui "l'assenza di un mercato del lavoro si dimostrava anche per la gente comune un male maggiore delle calamità che dovevano accompagnarne l'introduzione" (v. Polanyi, 1944; tr. it., p. 99).
Come non prevedere difatti che, contando sull'intervento fornito dalla municipalità, proprietari terrieri e fabbricanti avrebbero cercato di sfruttare il sistema a loro vantaggio, scaricando sulla collettività l'onere di colmare la differenza tra ciò che avrebbero dovuto pagare ai loro operai sotto forma di salario e ciò di cui questi avevano bisogno per soddisfare le loro necessità primarie? Come non prevedere, ancora, che in tal modo si sarebbe introdotto un pericoloso incentivo alla violazione di quei contratti di lavoro che ormai costituivano ovunque il meccanismo principe della regolazione delle relazioni tra operai e datori di lavoro? Qualcuno avrebbe comunque provveduto al mantenimento di coloro che, pur occupati, non guadagnavano col loro lavoro abbastanza per sopravvivere. Ma chi avrebbe pagato? Nella pratica, l'introduzione di questo provvedimento equivaleva a inserire una finzione scenica in un sistema che di apparente e di irreale aveva assai poco. Anzi: era regolato da ferree leggi economiche, capaci di ricondurre alla loro logica qualunque ostacolo la società avesse tentato di porre sul suo percorso.In effetti, come era facile prevedere, il nuovo assimilò o fagocitò il vecchio, scaricando le scorie prodotte dalla frizione tra i principî paternalistici e solidaristici della legge di Speenhamland e le esigenze del mercato del lavoro sulle spalle di coloro che avrebbero dovuto esserne i beneficiari.Nelle intenzioni dei suoi promotori, Speenhamland era destinata a prevenire l'impoverimento della gente comune, o almeno ad attenuarne le conseguenze. Gli esiti, ovviamente, risultarono completamente diversi. "L'assistenza accordata alla miseria divenne un premio accordato all'imprevidenza e alla pigrizia" (v. Mantoux, 1905; tr. it., p. 495).
Se la legge intendeva rispondere alle tensioni e alle paure che si diffondevano dagli avvenimenti che precedettero lo scoppio della Rivoluzione francese, le sue conseguenze rappresentarono per la società del tempo un ammonimento severo a non perseverare negli errori commessi per incomprensione o dispregio delle regole dell'economia di mercato.Il Reform bill del 1832 e il Poor law amendment act del 1834, per quanto riguarda le vicende inglesi, segnarono la fine dell'immiserimento attuato per via di legge, e con questo del tentativo di avviare un ordine economico di tipo capitalistico senza un mercato del lavoro e una normativa corrispondente sotto il profilo sociale. Entrambi "mettevano fine alla norma del padrone bonario e del suo sistema di assistenza" (v. Polanyi, 1944; tr. it., p. 103). Da allora in avanti, il diritto di vivere sarebbe stato subordinato alla capacità produttiva del lavoratore e alle regole della concorrenza stabilite dal mercato.Le integrazioni di salario, così come ogni altra provvidenza che in passato si inseriva nel composito tessuto dell'assistenza, furono accantonate, demandando allo spietato gioco delle leggi economiche la facoltà di giudicare il diritto alla sussistenza di poveri e indigenti. Merita su questo punto riportare ancora le parole di Polanyi: "Se Speenhamland aveva fatto uso eccessivo dei valori del vicinato, della famiglia e dell'ambiente rurale, ora l'uomo era distaccato dalla casa e dalla famiglia, strappato dalle sue radici e da tutto l'ambiente che per lui aveva un significato. [...] Se Speenhamland rappresentava la putrefazione nell'immobilità, ora il pericolo era quello della morte nell'abbandono" (ibid., pp. 106-107).
L'abolizione delle norme varate a Speenhamland segna il decollo definitivo del capitalismo economico e contemporaneamente avvia una nuova concezione dell'assistenza, i cui indirizzi sarebbero rimasti sostanzialmente inalterati per gran parte del XIX secolo. In Inghilterra come in Francia, in America come in Italia e nella quasi totalità degli altri paesi europei, dilagò la concezione che attribuiva agli aiuti ai poveri la responsabilità diretta della crescita del pauperismo. "Esiste un diritto - scriveva emblematicamente il reverendo Malthus - che generalmente si è ritenuto attribuito all'individuo e che invece io credo egli non abbia né possa avere: un diritto alla sussistenza allorquando il proprio lavoro non gli consenta di acquisirla onestamente. Le nostre leggi, è vero, affermano l'esistenza di questo diritto e impongono alla società di fornire impiego e cibo a coloro che non possono ottenerli in un mercato regolare, ma ciò facendo esse capovolgono le leggi della natura, sicché dobbiamo attenderci la conseguenza non solo che esse falliscano nei loro obiettivi, ma che i poveri che pur avrebbero voluto favorire debbano soffrire in modo assai più crudele a causa dell'inumana truffa che così è stata perpetrata a loro danno" (v. Malthus, 1826⁶, pp. 319-320).
La diagnosi era spietata, inappellabile; così come immodificabili dalla volontà degli uomini apparivano a Malthus e ai contemporanei le leggi 'naturali' che governavano il rapporto tra le risorse disponibili e l'entità della popolazione. Accantonato ogni "irragionevole senso di meschina reverenza per i poveri" (v. Mandeville, 1723; tr. it., p. 116), a esso subentrava, come faro di orientamento, l'inossidabile razionalità del riformismo illuminista. L'abolizione degli aiuti agli indigenti pareva di conseguenza derivare, come corollario, dalla dimostrazione rigorosa dei teoremi dell'economia. Da questa indagine scientifica, non da "un miscuglio di pietà, follia e superstizione", come ancora credeva Mandeville, si traeva la conclusione che i poveri non potevano vantare alcun diritto a qualsivoglia sorta di soccorsi; che essi non potevano avanzare pretese nei confronti dei più abbienti; e soprattutto che ogni forma di assistenza era contraria alle leggi di natura e pertanto foriera di illibertà e di maggiori sventure per gli assistiti e per l'intera società.
La pretesa di garantire la sicurezza si dimostrava così inconciliabile con il mantenimento della libertà degli individui. Dopotutto, questo confermavano i molti tentativi compiuti in precedenza di offrire un aiuto agli indigenti: costringendoli perciò stesso ad assumere atteggiamenti servili, rinchiudendoli all'occorrenza in avvilenti istituti di lavoro, imponendo loro l'umiliazione massima della perdita dei diritti civili e di ogni dignità. L'obiettivo da raggiungere si era evidentemente spostato.In sincronia con l'affermazione del libero mercato del lavoro e degli scambi, proclamati sovrani i diritti del cittadino secondo gli insegnamenti della Rivoluzione del 1789, la difesa della libertà d'azione del singolo, ivi compresa quella di correre incontro a un destino di miseria, diveniva assolutamente prioritaria. Solo per questa via maestra avrebbe potuto realizzarsi, così si credeva, il risultato di un armonico consorzio sociale composto di individui liberi e uguali che, sulla base del reciproco rispetto, sarebbero pervenuti alla massima soddisfazione dei loro interessi.
E lo Stato, l'intervento pubblico? Almeno in una prima fase, l'età liberale si pone in aperto dissenso su ogni possibile ingerenza pubblica negli affari sociali. Come riassume il De Ruggiero (v., 1962, p. 130), "ogni superflua ingerenza dello Stato, che dispensi l'individuo dallo sforzo e dalla lotta per affermarsi e gli somministri una provvidenza legislativa, che ne infiacchisce il carattere e lo corrompe con l'abitudine servile dell'attendere e del propiziarsi l'aiuto dall'alto", deve essere giudicata irrimediabilmente controproducente. L'enfasi dell'azione riformista liberale si esercita pertanto esclusivamente nello spazio delimitato dalla necessità di sanare le carenze caratteriali degli indigenti. Ammesso in effetti che il successo economico rappresenti la prova della conformità delle virtù borghesi alle leggi del mercato, analogamente la sventura e il fallimento economico dell'indigente devono essere assunti come manifestazioni indubitabili della difformità del suo comportamento dalle regole del gioco economico-sociale. Così lo stigma attribuito alle vittime della miseria rappresenta null'altro che una conseguenza secondaria di una sanzione emessa in prima istanza dall'impersonale meccanismo del mercato. Questo significa che il diritto dei singoli ad agire come unità indipendenti del corpo sociale implica anche l'accettazione delle conseguenze che ne possono derivare: la responsabilità del soggetto circa gli esiti economici e sociali della propria condotta, innanzitutto; ma anche l'estraneità della collettività di fronte a quelle situazioni di miseria e di privazione cui, per imprevidenza, inettitudine o semplice sventura, una parte della società può essere assoggettata.Se poi questi atteggiamenti nei confronti dei poveri e, di conseguenza, nei confronti dell'assistenza vennero ampiamente disattesi, ossia rimasero come canoni ideali della condotta pubblica, ciò è dipeso dalle necessità contingenti di garantire un minimo di ordine sociale e dalla difficoltà di interrompere drasticamente una prassi ormai consolidata di sussidi e aiuti, che si serviva di una complicata rete di enti e istituzioni come sempre dotati di forza di inerzia e dunque restii a smobilitare al mutare della situazione.
Resta il fatto, nella sostanza, che indipendentemente dalle specifiche circostanze presenti nei diversi luoghi, il denominatore comune della politica assistenziale di quest'epoca è dato dalla presenza di azioni di soccorso di tipo residuale, selettive, accompagnate sempre dallo stigma del pauperismo, erogate preferibilmente al di fuori del domicilio dell'assistito, in ambienti severamente disciplinati. Come dire che nell'età liberale, sin quasi alla fine del XIX secolo, l'assistenza cessa di darsi un programma sociale.
Figlia dell'economia piuttosto che della pietà solidaristica, essa trascura proprio quelle dimensioni dell'organizzazione sociale che, sia pure timidamente, parevano essersi affacciate sul finire del secolo precedente.Le forze alla base del capitalismo erano ben visibili a ogni livello della vita sociale. L'enfasi posta sulla libertà degli individui destituiva di legittimità ogni pretesa di ottenere una protezione da parte della società. L'affermazione della filosofia del laissez faire portava a escludere a priori che le cause della povertà potessero risiedere nel funzionamento delle istituzioni: esse dovevano necessariamente essere individuali.Come definire altrimenti la logica assistenziale che scaturiva da questi principî se non una discontinuità, un'interruzione nella lunga vicenda che aveva accompagnato lo sviluppo dell'assistenza nei secoli passati? Una volta abolita la carità, l'assistenza non poteva ex definitione assumere un orientamento sociale. In una società basata interamente sul contratto tra le parti, come poi dirà W. G. Sumner (v., 1883, p. 74), "sentiment is out of place in any public or common affairs".
Protezione del libero mercato, limitazione delle competenze dello Stato nelle questioni economiche e sociali, affermazione della visione utilitaristica nel presupposto della spontanea armonia tra utilità pubblica e utilità individuale costituiscono i fondamenti etico-giuridici della società liberale della prima metà del XIX secolo. In essa è infatti radicata la convinzione che le leggi dello Stato e della società debbano corrispondere a quelle del mercato. Che l'ordine della produzione e della distribuzione debba essere interamente consegnato ai meccanismi del mercato autoregolato. E che soltanto a condizione che nessuna istanza extraeconomica interferisca nei rapporti di scambio il sistema possa funzionare "nel senso del benessere di tutti e dell'equità, nella misura delle rispettive capacità individuali" (v. Habermas, 1962; tr. it., p. 99).Nonostante le speranze e le ambizioni sollevate a questo riguardo, ben poco di quello che era stato disposto o promesso dalla Rivoluzione francese fu poi effettivamente realizzato. Specie nel campo assistenziale.
In genere, l'assistenza offerta al povero valido si risolveva nella fiducia riposta nella possibilità di ottenere un lavoro. Il discorso, come nota il Cherubini, è quello tipico del liberalismo, "in cui il diritto al lavoro si identifica con la libertà del lavoro; non detta nessun obbligo concreto [...] ma un impegno generico di svincolare il mercato più che di correggerlo; respinge una vera tutela del salario come antieconomica. È un discorso che intende favorire l'industria, ben più che il proletariato, in cui l'égalité, sbandierata a ogni frase nei confronti dell'assistenza, si riduce a formula priva di contenuto" (v. Cherubini, 1958, pp. 112-113).
Come altrove, del resto. La Commissione incaricata di rivedere l'ordinamento dell'assistenza in Inghilterra, non si esprimeva diversamente nel Report del 1834. L'aiuto pubblico, enunciava il rapporto, deve essere limitato esclusivamente agli indigenti, cioè a "coloro che sono impediti di lavorare o incapaci di ottenere, se occupati, i mezzi di sussistenza". Non deve invece preoccuparsi di soccorrere i poveri, se con questi si intendono coloro che "al fine di ottenere la pura sussistenza sono obbligati a dedicarsi a un lavoro" (cit. in Rimlinger, 1971, p. 53). La distinzione è sottile. Ma con essa si stabilisce il limite della responsabilità dello Stato nei confronti del problema; limite coincidente con la capacità del soggetto di provvedere da solo al proprio sostentamento.
Sullo sfondo di questi ragionamenti si intravvedono ancora gli echi della posizione malthusiana circa l'ineluttabilità della disuguaglianza e l'inanità degli sforzi adoperati per modificarla. La minuziosa elencazione dei motivi della miseria personale (indolenza, ozio, disadattamento alle convenzioni sociali) diveniva cecità assoluta di fronte alle cause obiettive della povertà generale. Né la regola aurea della less eligibility, o della minor preferenza tra il più basso guadagno realizzabile sul mercato e il soccorso ottenibile dalla pubblica assistenza, né il workhouse test, con il quale si intendeva provare la veridicità del bisogno dell'assistito, potevano di conseguenza bastare a rimuovere le cause strutturali che stavano alla base del pauperismo.
Certo non era la "compassione dei commensali", come scriveva Malthus in un cinico passaggio della prima edizione dell'Essay, che poteva impedire al povero di presentarsi "in soprannumero al grande banchetto della natura". Nel frattempo la realtà era profondamente mutata. Innanzitutto, erano mutate le dimensioni della popolazione. Fatta uguale a 100 la popolazione del 1750, un secolo più tardi quella inglese vale 289, quella tedesca 180, la francese 147 e l'italiana 160 (v. Livi Bacci, 1987, p. 16). D'altro canto la crescita demografica provocò la sovrappopolazione delle campagne e l'esodo conseguente verso le città. I restanti cambiamenti sono da manuale: allentamento dei vincoli parentali e indebolimento delle funzioni protettive esercitate in passato dalla comunità; aumento delle condizioni di insicurezza e maggiore esposizione degli operai alle vicende cicliche dello sviluppo economico, alle quali si accompagnava una drammatica degradazione delle condizioni di esistenza, destinata a divenire persino oleografica nella galleria delle immagini mentali associate dai posteri agli avvenimenti di quell'epoca.Insomma, "la rivoluzione industriale stava causando uno sconvolgimento sociale di proporzioni straordinarie, e il problema della povertà era semplicemente l'aspetto economico di questo avvenimento" (v. Polanyi, 1944; tr. it., p. 164).
In queste condizioni il principio assoluto della protezione delle leggi del mercato mostrava sin troppo chiaramente la sua matrice astratta, la sua impotenza a essere impiegato come criterio guida dell'azione politica. Quel legame organico tra "morale ed economico, istituti etici e istituti economici" (v. Croce, 1942, p. 310), sulla cui osservanza quasi religiosa la società liberale aveva elevato le fondamenta del suo edificio politico-sociale, doveva necessariamente essere dissolto per lasciare il posto a una più realistica e obiettiva visione dei fatti.Verso la fine del XIX secolo, contro questa concezione liberale dell'assistenza vanno pertanto affermandosi sempre più vigorose sollecitazioni, dirette a potenziare l'opera regolatrice e interventista dello Stato. Dapprima nella sfera della produzione e dello scambio di merci, in seguito anche in quella del lavoro e della protezione degli strati sociali più esposti alla trasformazione dell'assetto economico. Sicché, "alle tradizionali funzioni di ordine, cui lo Stato aveva già provveduto nell'età liberale, all'interno per mezzo della polizia, della giustizia e di un'oculata politica fiscale, all'esterno con una politica estera fondata sulla propria forza bellica" (v. Habermas, 1962; tr. it., p. 177), si associano nuovi campi di attività relativi alla pianificazione e all'organizzazione degli interventi nella sfera sociale.
Ovviamente, questi mutamenti non si realizzarono in modo subitaneo. La conversione al credo interventista anche nell'ambito delle politiche sociali muoveva in realtà da lontano. Derivava, come sempre del resto, dall'irrompere sulla scena nazionale e internazionale di preoccupanti crisi economiche, come la 'grande depressione' che negli anni dal 1873 al 1898 colpì gran parte delle nazioni europee. Si radicava profondamente nell'attribuzione ai ceti borghesi del diritto di attiva partecipazione alla vita politica e nel riconoscimento dei diritti di cittadinanza a quote sempre più estese della popolazione. Poteva inoltre contare sull'accresciuto potere di contrattazione della classe operaia che, tramite le associazioni sindacali, poneva al potere politico la necessità di sviluppare un'ampia opera di mediazione e regolazione dei conflitti industriali. Sorgeva, insomma, dalla sempre più diffusa consapevolezza che la composizione dei contrasti di interesse tra le parti sociali non avrebbe più potuto avvenire "esclusivamente nell'ambito della sfera privata" (ibid., p. 172), senza per questo mettere a repentaglio la stabilità e forse la stessa sopravvivenza del sistema di mercato.Ineluttabilmente, lo scontro sociale si trasferiva sul terreno della politica.
La libertà si affidava all'autorità, e il ricorso all'intermediazione dello Stato, al suo intervento compensativo in settori anche collaterali alla natura specifica del conflitto industriale, veniva così a proporsi come la sola soluzione in grado di contemperare gli interessi confliggenti delle classi. Ciò equivaleva a porre le premesse di una nuova prospettiva nel settore dell'assistenza sociale.
La parola chiave è lo Stato, un intervento pubblico sempre più esteso e organizzato. Sotto questa bandiera si erano poste già la Francia post-rivoluzionaria, l'Inghilterra all'epoca della riforma assistenziale del 1834, l'Italia risorgimentale. "Quasi tutti gli [...] uomini di Stato del continente - osservava ad esempio Cavour - si sono apertamente dichiarati contro qualunque sistema di carità legale [...]. A fronte tuttavia di questa unanime riprovazione, noi crediamo dover manifestare un'opinione affatto contraria a quella che regna fra noi, e costituirci difensori di un sistema che saviamente applicato può salvare solo la società dai pericoli che la sovrastano" (cit. in Cherubini, 1958, p. 367). Ma si trattava di principî, se non astratti, certamente inapplicati in un programma coerente e generale di provvidenze capaci di incidere sulla reale portata dei problemi della povertà. Dovunque si riconosceva ormai la necessità di soppiantare i cardini del sistema tradizionale, ma in nessun luogo si era ancora arrivati a tradurre in un programma concreto di riforme il diritto sociale dei cittadini.
Il primo consistente passo in questa direzione fu compiuto in Germania da Bismarck in un periodo di intenso sviluppo industriale, al quale si accompagnavano reali preoccupazioni circa la stabilità del potere costituito.
Politiche, difatti, più che economiche o strettamente umanitarie, erano le ragioni che spinsero Bismarck a porsi su questa strada e a varare, nell'arco di poco più di un quinquennio, una serie di misure che avrebbero formato l'ossatura fondamentale di larga parte della legislazione a venire in questa materia.La spinta propulsiva all'adozione di interventi specifici nel settore assistenziale venne allora dalla tesi che solo una monarchia sufficientemente attenta al benessere della classe operaia avrebbe potuto arginare la disaffezione crescente dei lavoratori nei confronti della Corona e allontanare così il rischio di un loro avvicinamento ai movimenti politici rivoluzionari. L'obiettivo principe, in altri termini, era quello di 'addomesticare' le agitazioni operaie, accrescendo al tempo stesso la lealtà dei lavoratori alle istituzioni. Per raggiungerlo era indispensabile superare gli impedimenti posti dalla concezione liberistica sull'estraneità dell'azione pubblica e ripristinare, nella sostanza, il nucleo centrale dell'idea paternalistica della protezione del 'suddito' da parte del 'signore'. Al posto di quest'ultimo, beninteso, doveva subentrare l'apparato burocratico dello Stato; così come in luogo degli strumenti tradizionali della prestazione benefica e dei legami di subordinazione personale era d'obbligo il ricorso a modalità di intervento che fossero compatibili con la logica del mercato.
Dal punto di vista politico, l'ideologia che informava le misure introdotte sotto forma di assicurazioni obbligatorie per la salute (1883), gli infortuni sul lavoro (1884), la vecchiaia e l'invalidità (1889), era manifestamente antisocialista. Come già detto, esse miravano da un lato a sottrarre la classe operaia dall'orbita di influenza del socialismo rivoluzionario e dall'altro si proponevano di avocare allo Stato la gestione della Arbeiterfrage, sottraendola allo scontro storico tra gli interessi dei lavoratori e gli interessi dei possessori dei mezzi di produzione. In questo modo la concessione ai lavoratori di alcuni diritti sociali veniva finalizzata a prevenire il riconoscimento di più ampi diritti politici.Ciascuno dei problemi coperti dalle misure assicurative risultava di conseguenza rapportabile alle tensioni sociali che l'assenza di quei provvedimenti avrebbe probabilmente causato sulla stabilità del sistema. Nondimeno esse costituirono le prime azioni politiche, nella sfera della sicurezza, alle quali può essere legittimamente attribuito un carattere 'sociale'.
Il loro obiettivo, dopotutto, era il bene dell'intera comunità, unificata e rappresentata nello Stato (v. Rimlinger, 1971, p. 116). Erano obbligatorie e come tali scavalcavano i limiti degli ordinamenti basati sulla discrezionalità degli interventi. Operavano nel presupposto di un controllo generalizzato affidato a un apposito ufficio assicurativo imperiale. Escludevano l'azione dei privati ed erano sovvenzionate dallo Stato allo scopo di impedire che si ripetessero quegli inconvenienti che avevano contraddistinto le precedenti forme assicurative basate sulle società di mutuo soccorso.Tramite questi meccanismi si tendeva a far sì che il lavoratore vedesse nello Stato un alleato piuttosto che un nemico, con il risultato di assicurare la lealtà delle masse alle istituzioni vigenti. La legittimità del potere politico non sarebbe più stata ancorata unicamente al rispetto di astratti principî formali o al richiamo retorico ai comuni valori della tradizione. Sarebbe stata invece fondata sulla calcolabilità concreta delle prestazioni e dei vantaggi ottenuti dall'assistito anche grazie alla mediazione del potere politico nella sfera sociale. E pour cause: non restava alternativa.
Difficile non tenere presente l'ammonimento del Tocqueville della Démocratie en Amérique: "Non vedete - egli scriveva - che le religioni si infiacchiscono e che la nozione divina dei diritti scompare? Non notate che i costumi si alterano, e che con essi si cancella la nozione morale dei diritti? Non scorgete che da ogni parte le fedi fanno posto ai ragionamenti, e i sentimenti ai calcoli? Se, in mezzo a questo universale scardinamento, non giungete a legare l'idea dei diritti all'interesse personale, che s'offre come il solo punto immobile nel cuore umano, che cosa vi resterà dunque per governare se non la paura?" (v. Tocqueville, 1835-1840; tr. it., p. 284).
Presupposti analoghi stavano a fondamento delle misure che di lì a poco sarebbero state intraprese nella gran parte dei paesi europei (v. Alber, 1982; tr. it., pp. 22 ss.). Per l'Inghilterra merita almeno citare l'Old age pension act del 1908 e il National insurance act del 1911, quest'ultimo relativo all'assicurazione di malattia e di disoccupazione. La prima di queste norme prevedeva l'erogazione di un trattamento pensionistico senza richiedere alcun contributo da parte degli assicurati, ma soprattutto senza "assoggettare il beneficiario all'odiosa prova dei mezzi e senza ammonizione di sorta circa le modalità di condotta che gli avrebbero consentito di fruire immediatamente del contributo" (v. Rimlinger, 1971, p. 59). L'atto del 1911, d'altra parte, pur muovendosi sulla medesima linea del riconoscimento di basilari diritti sociali ai lavoratori, presentava ancora sostanziali elementi di stampo liberistico. Contro le forze dell'opposizione che chiedevano un provvedimento di natura non contributiva, tanto l'assicurazione di malattia che quella di disoccupazione furono di fatto subordinate a una contribuzione minima costante da parte degli assicurati.
Nella Francia della III Repubblica un programma di assicurazione pensionistica fu introdotto nel 1890 sulla base di una limitata contribuzione del beneficiario. In Italia invece la prima legge di assicurazione obbligatoria è quella sugli infortuni industriali ed entra in vigore all'inizio del 1899.Quanto alla Russia, finora trascurata nell'analisi, i programmi varati nello stesso arco di tempo si pongono su una linea di sostanziale continuità con i provvedimenti in materia assicurativa intrapresi nei principali paesi europei. Anche qui, in effetti, contestualmente ai primi vagiti del processo di industrializzazione e all'affacciarsi delle prime manifestazioni di dissenso della classe operaia, si provvide a introdurre dapprima una copertura assicurativa sul versante sanitario (1866) e poi, in prosieguo di tempo, un duplice provvedimento legislativo concernente l'assicurazione infortunistica (1903, 1912), nel mentre che, sempre nell'area della sicurezza sociale, il trattamento delle pensioni di vecchiaia era esteso all'epoca al solo personale impiegato presso l'apparato governativo (v. Rimlinger, 1961). Cambiamenti più profondi si sarebbero verificati in seguito, dopo l'avvento della Rivoluzione bolscevica del 1917 (v. McAuley, 1982). Ma anche in tal caso in termini non molto dissimili, mutatis mutandis, dall'impianto e dalla logica che avevano guidato le riforme assicurative volute da Bismarck nella Germania guglielmina (v. Rimlinger, 1971, p. 340).Le forme nelle quali questi provvedimenti sono organizzati e attuati concretamente risultano evidentemente diverse. Variano a seconda delle specifiche vicende nazionali.
Nel complesso, tuttavia, esse sono unificate da alcune caratteristiche fondamentali. Introducono il regime assicurativo come strumento generale dell'azione dello Stato in campo sociale. Muovono tutte dal presupposto dell'obbligatorietà dei programmi. Prevedono la partecipazione contributiva dello Stato accanto o, più raramente, in alternativa a quella dei datori di lavoro e degli stessi assicurati. Prospettano idealmente la realizzazione di un diritto sociale dei cittadini a un minimo di protezione di fronte agli incerti della vita. Si propongono più o meno esplicitamente una funzione di legittimazione delle élites politiche. Hanno come fine comune la pacificazione dei conflitti sociali tra le parti sociali, ovvero la ricerca di una stabilità politica compatibile con la prosecuzione del processo di produzione industriale.Sia in rapporto alla precedente esperienza della mutualità operaia volontaria, sia a fortiori alle metodiche caritative delle società tradizionali, l'introduzione delle assicurazioni sociali su basi obbligatorie comporta indubbi benefici. Il salto di qualità è considerevole. Come osserva il Cherubini, "mentre nel gesto benefico il soccorso rimane subordinato all'apprezzamento discrezionale del carattere del bisogno, qui la prestazione è dovuta al verificarsi dell'evento". Lì "si interviene solo e quando esiste uno stato di indigenza", ora "per escludere e attenuare il danno prima che il medesimo abbia potuto recare conseguenze immodificabili e assumere aspetti anti-sociali" (v. Cherubini, 1958, p. 63).
Di più. All'atteggiamento compassionevole verso il miserabile o alla paura del disordine, tipici delle epoche trascorse, subentra adesso la convinzione che si debba anzitutto assicurare il rispetto di un diritto, l'amministrazione della giustizia.L'estensione dell'obbligatorietà attesta formalmente che la contribuzione richiesta all'assicurato è relativamente indipendente dai benefici pattuiti; discende piuttosto dal diritto dell'assicurato a ottenere comunque tali benefici, il risarcimento del danno, indipendentemente da uno stretto rapporto attuariale con i contributi versati.
Avendo accennato agli aspetti positivi dei sistemi assicurativi, conviene ora considerarne i limiti, che costituiscono cospicui residui dell'ideologia assistenziale dell'epoca precedente.Il ricorso alla contribuzione, intanto, discende dall'assunto che il coinvolgimento finanziario dell'assicurato possa servire a elevarne il senso di responsabilità. Alla certezza del risarcimento, impostasi nel campo degli infortuni industriali e delle malattie, si accompagna dappertutto l'ancoramento dei programmi a quel criterio attuariale che si pone come 'garante simbolico' del rispetto delle regole del gioco economico.Inoltre, accanto alla moderata estensione universalistica dei programmi ("per tutti allo stesso modo e nella stessa misura") permangono ancora le significative esclusioni di quelle categorie di cittadini che non offrono sufficienti garanzie di capacità e di continuità contributiva, come i lavoratori della terra. Il valore dell'obbligo assicurativo, per finire, appare di fatto svilito dalla sistematica traduzione di questo principio in quello caritatevole del 'beneficio minimo indispensabile', con il quale si intende evidentemente prevenire il rischio che l'assicurato rinunci ad acquistare sul mercato le risorse che gli servono per il proprio sostentamento.I programmi assicurativi varati in quest'arco di tempo si collocano dunque in un punto mediano di un ideale riepilogo della storia assistenziale.
Da un lato, per i tratti innovativi che li contraddistinguono, essi si pongono certamente al di là delle composite manifestazioni della carità e della filantropia privata e organizzata che le società tradizionali hanno sviluppato prima della 'grande trasformazione' economica e istituzionale. La responsabilità pubblica nella regolazione dei comportamenti sociali, in effetti, è ormai un dato acquisito. Una quota sempre più rilevante delle risorse di bilancio è assorbita dalle spese per la protezione sociale. La tendenza è alla copertura universale di tutti i cittadini e a un numero crescente di prestazioni sui più vari aspetti dell'esistenza 'dalla culla alla tomba', indipendentemente, entro certi limiti, dalle qualità e dalle caratteristiche dell'assistito.
Dall'altro lato, invece, se guardiamo alle prospettive piuttosto che ai passi compiuti, se prendiamo realisticamente in esame le applicazioni anziché la sola enunciazione dei principî, se misuriamo il divario tra gli ideali e i fatti, allora il giudizio deve essere formulato in modo diverso. Nell'insieme i programmi assicurativi di inizio secolo restano ancora lontani da quell'obiettivo di garantire "in ogni circostanza e a tutti gli individui un reddito di sussistenza sulla base di un diritto", che nell'immediato secondo dopoguerra lord Beveridge indicherà come zoccolo irrinunciabile della costituzione del moderno Stato del benessere. Molti sono i bisogni ancora scoperti, molte le selettività, ossia le procedure di intervento che subordinano l'erogazione dei benefici all'accertamento di determinate caratteristiche nella condizione dell'assistito: il reddito, lo stato civile, quello familiare. Sarebbe sufficiente per convincersene esaminare dall'interno la struttura dei programmi. Tranne poche eccezioni, la preferenza accordata alle metodiche assicurative esprime emblematicamente la volontà di incanalare l'azione solidaristica dello Stato nell'alveo della logica mercantile. Di fatto, la logica dello scambio tende a permanere sostanzialmente inalterata anche sul terreno della solidarietà e dell'integrazione sociale.
La sfera dell'assistenza, d'altro canto, parrebbe assumere in questo contesto un ruolo sempre più ausiliario rispetto all'apparato previdenziale: quasi un'anomalia in un sistema di protezione dell'individuo altrimenti fondato su principî e rapporti di natura contrattualistica.In realtà molteplici sono i tratti comuni ai due sistemi: quello previdenziale, che si sviluppa dalle forme assicurative obbligatorie, e quello assistenziale che permane come residuo inerziale del passato, ineliminabile nella misura in cui sono ineliminabili le condizioni che continuano a produrre emarginazione e dipendenza all'interno del mercato. Entrambi muovono implicitamente dal presupposto che esista un diritto incomprimibile dell'individuo, in quanto cittadino, a ottenere un minimo di protezione da parte dello Stato. Entrambi operano nel quadro delle garanzie di diritto pubblico e ambedue emanano dallo stesso potere legislativo.Le divergenze tra previdenza e assistenza riguardano aspetti più profondi. Il sistema previdenziale riconosce il diritto alla prestazione come contropartita di una precedente contribuzione, ovvero assume come premessa l'esistenza di un rapporto contrattuale tra il lavoratore e l'organo previdenziale. Quello assistenziale, invece, ne prescinde e basa l'erogazione del soccorso, sempre che esista un effettivo stato di necessità, sull'impegno collettivo ai valori della solidarietà.
Di conseguenza, se il primo risponde a un diritto acquisito, il secondo si muove piuttosto nell'orbita, per sua natura mutevole e arbitraria, del riconoscimento di particolari circostanze di bisogno ritenute meritevoli di tutela da parte della collettività. Pertanto, l'uno ribadisce attraverso la prestazione la legittimità del rapporto che il cittadino, tramite il lavoro, ha stabilito con la società e i suoi fondamenti istituzionali; l'altro solleva presumibilmente sentimenti di stigma e reazioni di ostilità nei confronti degli assistiti, sentimenti e reazioni appena mimetizzati dalla copertura etica del valore della solidarietà.
Fin qui, tuttavia, analogie e divergenze riguardano soltanto il piano strutturale, l'impianto dei due sistemi. Più complessa, e per certi versi inquietante, è la relazione che si stabilisce tra previdenza e assistenza sotto il profilo dinamico. Con il trascorrere del tempo, avvicinandoci agli anni più recenti, la storia parrebbe ripetersi, quasi arretrare verso modalità che parevano assolutamente superate.Come il sistema dell'assistenza sociale non è potuto crescere, prendere forma e acquistare forza se non ai livelli permessi dall'economia sottostante, lo stesso sembrerebbe attualmente verificarsi, e certo in misura non meno importante, per il sistema della previdenza assicurativa.
Nel periodo che intercorre tra la ricostruzione postbellica e la metà degli anni settanta l'espansione delle provvidenze dello Stato sociale procede in effetti in modo parallelo alla crescita del mercato: quanto maggiori le risorse prodotte dal mercato, tanto più rilevanti gli impegni di spesa assunti dallo Stato nel campo delle politiche di protezione sociale. La premessa dichiarata sulla quale riposa, sin dalla sua costituzione, lo Stato del benessere è che la sua azione sia usata deliberatamente "per interferire con, o per sostituire, il libero gioco delle forze di mercato", secondo la nota definizione di T. H. Marshall (v., 1961, p. 288). In realtà, lo stretto legame che si stabilisce tra accumulazione di mercato, da un lato, e crescita dei programmi sociali, dall'altro, solleva giustificate perplessità sulla correttezza della premessa. Le difficoltà dello Stato del benessere, come opportunamente è stato rilevato dal sociologo americano A. W. Gouldner (v., 1970; tr. it., p. 124), parrebbero piuttosto derivare da questo, che esso sia costretto a cercare le soluzioni dei problemi sociali "all'interno delle istituzioni fondamentali che sono la causa del problema"; ossia, proprio nell'ambito di quel medesimo sistema di mercato che opera, a un tempo, come generatore di ineguaglianza ed emarginazione e come fonte delle risorse necessarie per approntare le soluzioni richieste."Per un tempo troppo lungo - ha osservato a questo proposito B. Abel Smith (v., 1970, p. 112) - la gente di qualunque tendenza politica ha ritenuto che gli slogans dell'era beveridgiana equivalessero a una descrizione dei fatti". La consapevolezza dei limiti del modello di sicurezza sociale sorto dall'impianto assicurativo veniva in effetti imponendosi assai dopo, e precisamente con il sopravvenire dei primi sintomi recessivi manifestatisi nell'economia dei paesi industrializzati sin dalla fine degli anni sessanta.
A partire da questa data, e soprattutto in coincidenza con l'affacciarsi della crisi economica degli anni immediatamente seguenti, si pone il problema di un cambiamento sostanziale dei sistemi di protezione sociale: del reperimento delle risorse finanziarie indispensabili al loro mantenimento, come della ripartizione delle responsabilità tra le diverse istituzioni della società.In effetti, i mutamenti che si innescano in questo periodo di tempo non sono riconducibili unicamente a ragioni meramente economiche. Le trasformazioni dell'economia interna e internazionale - crisi petrolifera, riduzione dell'interscambio mondiale complessivo, effetti della ristrutturazione tecnologica delle imprese e conseguente aumento della disoccupazione - costituirono certamente un motivo importante dell'arresto o del rallentamento di quel processo di crescita, apparentemente inarrestabile, delle risorse sulle quali si reggeva il compromesso tra Stato e mercato tipico delle società di Welfare State (v. Sgritta, 1984). In misura tutt'altro che trascurabile, tuttavia, le esigenze di cambiamento derivavano anche da aspetti connaturati alla logica della sicurezza sociale, quale si era andata configurando nei quarant'anni successivi alla sua istituzione. Apparivano come una conseguenza diretta dell'imperativo categorico che spingeva l'apparato pubblico a una costante, interminabile rincorsa delle tante diseguaglianze e degli incalcolabili disagi e difficoltà che venivano costantemente a prodursi come effetto dello stesso sviluppo industriale. Costituivano l'esito delle modificazioni del tessuto urbano e delle forme di convivenza tipiche della società moderna. Così come erano del resto da ascrivere al processo di invecchiamento demografico, alla scolarizzazione di fette sempre più ampie della popolazione giovanile, alla crescita delle aspettative di soddisfazione e copertura di bisogni secondari che fuoruscivano dal novero delle originarie protezioni assicurative. Infine, e forse soprattutto, i motivi di cambiamento erano la risultante del mai sopito e mai risolto problema della divisione delle responsabilità sociali tra sfera pubblica, mercato, relazioni familiari e istituzioni della solidarietà volontaria; a proposito del quale è appena il caso di rilevare come l'intervento pubblico, assistenziale prima e assicurativo poi, si sia sviluppato proprio in funzione compensatoria e integrativa dell'erosione progressiva delle capacità di difesa e protezione garantite dalle strutture tradizionali (v. Paci, 1982).
L'insieme di questi avvenimenti agiva sulle basi consensuali della struttura dello Stato del benessere. La crisi economica, cioè, si traduceva in crisi della sicurezza sociale, e questa si appuntava in modo particolare sugli esiti negativi che le spese di welfare avevano sul funzionamento dell'economia. Tornavano in auge vieti argomenti della polemica liberistica circa l'opportunità di mantenere in essere un sistema di provvidenze che si dimostrava sempre più asservito a mere logiche elettoralistiche, agli interessi degli apparati burocratici e professionali, al sostegno di interessi settoriali e corporativi.L'innesco della crisi, in definitiva, funzionava da detonatore rispetto a un ampio ventaglio di componenti, economiche e non, mantenutesi evidentemente allo stato latente o comunque inavvertite nella fase espansiva dell'economia. Il sopravvenire di circostanze economiche sfavorevoli, in altri termini, contribuiva a mettere allo scoperto le difficoltà intrinseche al sistema di welfare fondato sulla compatibilità attuariale tra contributi ed erogazioni. Fasce di popolazione relativamente consistenti ne restavano irrimediabilmente escluse. L'egemonia del sistema di protezione sociale sulle forze del mercato si rivelava tutto sommato insussistente. Nel mentre che, al crescere dell'area dell'insicurezza sociale, l'intervento pubblico era perciò stesso indotto a spingersi al di là delle sue capacità di autofinanziamento attraverso il ricorso al prelievo fiscale e contributivo.
Conseguentemente l'esercizio di quelle misure assistenziali di mantenimento dei redditi e di copertura dei bisogni che, nell'idea originaria dei fautori dello Stato sociale, avrebbe dovuto svolgere soltanto funzioni sussidiarie, veniva invece assumendo proporzioni e ruoli politicamente e finanziariamente sempre più onerosi. In tutti i paesi dell'area occidentale, difatti, il peso finanziario degli interventi assistenziali sul totale delle spese destinate alla protezione sociale cresceva a un ritmo alquanto superiore a quello di ogni altro capitolo di spesa.
Come dire che, in sostanza, con il trascorrere del tempo e l'incalzare degli avvenimenti, si è assistito a una sorta di 'vendetta' dell'assistenza nei confronti del sistema previdenziale. Crescita della disoccupazione ed evoluzione delle forme di dipendenza sociale di quote sempre più ampie della popolazione, in via di divenire strutturali, hanno in altre parole minato alle fondamenta i presupposti del sistema previdenziale, mettendo allo scoperto la fragilità e l'inconsistenza di una soluzione istituzionale che affidava le possibilità di coesistenza tra democrazia e mercato, solidarietà e profitto, quasi interamente al meccanismo assicurativo.La riproposizione del problema (antico) dell'assistenza e gli innumerevoli tentativi di fuga all'indietro, verso politiche di stampo neoliberistico, che a ridosso della fine del XX secolo hanno contraddistinto la ricerca affannosa di modelli di politica sociale alternativi, costituiscono una prova ulteriore della precarietà di quella soluzione.Che poi questo significhi che l'impianto istituzionale faticosamente partorito nel corso della lunga tradizione caritatevole e assistenziale dei secoli passati abbia "raggiunto i propri limiti di crescita" (v. Flora, 1985; v. Donati, 1984), è difficile dire. Certamente l'irrompere sulla scena sociale di problemi e soluzioni che si volevano definitivamente consegnati all'archivio della storia testimonia la precarietà dei traguardi raggiunti e annuncia, nel contempo, l'approssimarsi di nuove più impegnative sfide nel prossimo futuro.
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