Vedi Italia dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
L’Italia costituisce il quarto stato dell’Unione Europea (Eu) in termini di popolazione e ricchezza economica. In virtù della propria collocazione geografica, il paese si pone all’intersezione di due aree regionali strategicamente rilevanti: l’Europa continentale a nord e il Mediterraneo a sud. La posizione geopolitica del paese ha così contribuito a plasmarne le linee guida della politica estera. In particolare, quantomeno a partire dal secondo dopoguerra, l’Italia ha seguito tre assi principali, rivolti rispettivamente agli Stati Uniti, all’Europa e ai paesi emergenti. Il rapporto con gli Stati Uniti si è definito a partire dalla ‘scelta occidentale’ dell’Italia, ossia l’ingresso nell’Alleanza atlantica nel 1949. Nelle relazioni con Washington la posizione strategica del paese – posto esattamente sul confine tra i due ‘blocchi’ – si tradusse in una rilevanza geopolitica destinata a perdurare per tutto il periodo della Guerra fredda. D’altra parte, la protezione garantita dall’alleato americano comportò l’installazione di basi militari sul territorio della penisola e, cosa forse più importante, ricadute non trascurabili sulla politica interna – che si sostanziarono nell’esclusione del Partito comunista dalle coalizioni di governo. Terminata la Guerra fredda, e svanita la minaccia sovietica, l’Italia ha mantenuto negli Stati Uniti un partner fondamentale e nella Nato la principale alleanza strategica, come testimoniato dalla partecipazione alle maggiori operazioni militari e di peacekeeping dell’Alleanza. La seconda priorità nella politica estera italiana è testimoniata dalla propensione del paese a sostenere (seppur con alcuni limiti) il progetto di integrazione europea. L’Italia non è solo tra i sei membri fondatori delle originarie comunità europee, ma vede nell’Eu (di cui ha avuto la presidenza di turno nel secondo semestre del 2014) lo strumento principale per amplificare la propria influenza internazionale. Nonostante alcune inevitabili tensioni con Bruxelles, negli ultimi anni si è assistito a una sostanziale convergenza con le istituzioni comunitarie. Fanno eccezione due brevi (ma acuti) disaccordi nel 2009: il primo ha riguardato la politica dei respingimenti degli immigrati provenienti dalla Libia, il secondo la richiesta presentata dall’Italia alla Commissione europea di rivedere gli impegni comunitari relativi alla riduzione delle emissioni nocive. Per quanto concerne la terza linea d’azione della politica estera, l’Italia ha sviluppato una serie di rapporti bilaterali, in particolare con i paesi del Mediterraneo, del Medio Oriente e dei Balcani. La crisi libica del 2011, che ha oltretutto comportato forti attriti con i partner europei promotori dell’intervento militare come Francia e Regno Unito, non pare aver comportato forti contraccolpi nelle relazioni bilaterali tra Roma e Tripoli. Inoltre, nonostante il clima di caos e il latente conflitto civile che imperversa in Libia, Roma alla fine del 2014 era l’unica capitale di rilievo europea a mantenere aperta la propria sede diplomatica a Tripoli. Altrettanto importante è l’asse con la Turchia, paese con cui l’Italia intrattiene intense relazioni economiche, anche se dal 2013 in poi i rapporti bilaterali hanno subito un leggero raffreddamento a causa dei più generali attriti di Ankara con l’Unione Europea in seguito alla politica turca in Siria e Iraq e alle critiche di Bruxelles alla Turchia per via del peggioramento della condizione dei diritti civili e politici nel paese. Nei confronti del Medio Oriente, la politica estera italiana ha mantenuto una posizione di sostanziale equidistanza nella disputa israelo-palestinese (seppur con accenti diversi a seconda del colore del governo in carica), che le ha permesso di conservare rapporti amichevoli tanto con Israele che con i paesi arabi. In occasione della crisi di Gaza dell’estate 2014, ad esempio, Roma ha sostenuto la legittimità dell’azione di Israele in quanto difensiva, allo stesso tempo criticando alcuni aspetti dell’azione militare israeliana. Oltre al conflitto israelo-palestinese, l’Italia è stata attiva in Libano, dove ha assunto un ruolo centrale all’interno della missione Unifil II delle Nazioni Unite, e verso l’Egitto, con cui ha avviato un rapporto privilegiato. Durante il 2013 e all’inizio del 2014, l’Italia, tramite l’azione dell’ex ministro degli esteri Emma Bonino, si era resa anche protagonista del riavvicinamento tra l’Iran del nuovo presidente Rouhani e la comunità internazionale, soprattutto per ciò che concerne i rapporti con l’Unione Europea. Verso i Balcani, infine, la politica estera italiana è volta alla promozione della stabilità, in particolare al fine di stemperare le tensioni etniche e nazionali (soprattutto in Kosovo e Serbia) e combattere la criminalità organizzata. In questo teatro l’Italia ha mostrato un particolare interesse nei confronti della Serbia e del Montenegro, così come dell’Albania. Oltre ad essersi impegnata a dedicare sostanziosi investimenti in questi paesi, l’Italia si è fatta portatrice della domanda di ingresso della Serbia nell’Eu. Infine, l’Italia mostra un’elevata propensione al multilateralismo, come testimoniato dall’appartenenza e dalla partecipazione attiva all’interno delle principali istituzioni internazionali, quali le Nazioni Unite, il G8, il Wto e le già citate Eu e Nato. In particolare, per ciò che riguarda le Nazioni Unite, di cui il paese è uno dei primi contributori a livello mondiale, l’Italia si è impegnata nel difficile processo di riforma dell’organizzazione. La proposta avanzata da Roma, che sulla questione si oppone tanto a grandi potenze come la Germania e il Giappone quanto a stati emergenti come India e Brasile, è di incrementare il numero di seggi non permanenti all’interno del Consiglio di Sicurezza. Infine, per ciò che concerne le relazioni estere del paese, il 2014 ha visto l’Italia, insieme ad altri paesi come la Germania, al centro di un acceso dibattito interno all’Unione Europea circa le relazioni con la Russia. Se, da un lato, Bruxelles – così come gli Stati Uniti – ha cercato di assumere una posizione comune e ci ferma condanna nei confronti di Mosca per via della crisi in Ucraina, dall’altro non tutti i paesi membri sono stati d’accordo sulle modalità di risposta alla Russia e sulle sanzioni da imporre, sebbene alla fine si sia giunti a un’azione condivisa. Roma è stata criticata dagli attori europei più oltranzisti, come la Polonia o i paesi baltici, per via delle sue relazioni con la Russia, partner molto importante sia per l’approvvigionamento energetico, che per le relazioni economiche e commerciali. Le relazioni con la Russia hanno rischiato di compromettere anche la candidatura di Federica Mogherini alla carica di Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza dell’Unione Europea.
Dal 1946 l’Italia è una repubblica parlamentare. Le istituzioni principali comprendono il presidente della repubblica, che riveste un ruolo istituzionale e di garanzia (sebbene a volte politicamente rilevante), eletto dal Parlamento in seduta comune assieme ai rappresentanti delle regioni; il Parlamento, bicamerale perfetto, formato da una Camera dei deputati, composta da 630 rappresentanti, e da un Senato, comprendente 322 membri; il presidente del Consiglio dei ministri, nominato dal presidente della repubblica, il quale è sovente il leader del partito che ha ottenuto più seggi alla Camera dei deputati. Il mandato elettorale di deputati e senatori è di cinque anni, mentre il presidente della repubblica rimane in carica per sette. Infine, la Costituzione sancisce la divisione amministrativa del paese in 20 regioni e oltre 100 province.
La storia politica italiana del dopoguerra è contraddistinta da un momento di cesura, all’inizio degli anni Novanta, che ha portato alla transizione dalla cosiddetta ‘Prima Repubblica’ alla ‘Seconda Repubblica’. A trasformare il sistema politico italiano furono innanzitutto le ricadute interne dei mutamenti internazionali: a poco più di un anno dal crollo del Muro di Berlino il Partito comunista italiano (Pci), guidato dal segretario Achille Occhetto, venne infatti ufficialmente sciolto per dare vita al Partito democratico della sinistra (Pds). Sul piano interno, furono invece l’operazione giudiziaria ‘Mani pulite’ e i numerosi scandali che misero in luce un sistema ampiamente corrotto a spingere verso un netto ricambio della classe dirigente e dei principali partiti di governo: la Democrazia cristiana (Dc) e il Partito socialista (Psi) vennero ufficialmente sciolti, e nelle elezioni del 1994 emersero prepotentemente nuovi partiti e nuovi leader: tra questi, la Lega Nord di Umberto Bossi e Forza Italia di Silvio Berlusconi. Contestualmente, nel 1993, in seguito a un referendum popolare, si riformò il sistema elettorale, abrogando il principio proporzionale e sostituendolo con uno semi-maggioritario. Questa scelta era finalizzata a ridurre il numero dei partiti in Parlamento e assicurare così maggiore stabilità alle coalizioni di governo: dal 1945 a oggi si sono infatti succeduti più di cinquanta governi. Tuttavia, il nuovo sistema elettorale non ha portato i risultati sperati e nel 2005 è stato reintrodotto il sistema proporzionale, con una soglia di sbarramento e un premio di maggioranza: alla Camera il premio consiste in almeno 54 seggi al partito che ottiene più voti, mentre al Senato la vittoria in una data regione garantisce il 55% dei seggi disponibili per quella regione.
Tale sistema elettorale è stato adottato nelle elezioni del 2008, che sono state vinte dalla coalizione di centro-destra guidata da Berlusconi. Nonostante la cospicua maggioranza parlamentare, nel 2010 il governo Berlusconi era entrato in crisi. Il fattore scatenante è stato riconducibile alla tensione tra il leader del Pdl Berlusconi e il co-fondatore del partito, nonché ex presidente della Camera, Gianfranco Fini, il quale ha formato prima un gruppo parlamentare separato e poi un partito a sé stante, denominato Futuro e libertà per l’Italia (Fli). Le elezioni amministrative del 2011 avevano manifestato un progressivo cambiamento nelle scelte elettorali della popolazione e posto una sfida ulteriore alla tenuta del governo. La crisi del governo Berlusconi è stata accentuata dalla grave situazione finanziaria in cui versava il paese: ciò ha dato il via a una serie di pressioni internazionali affinché l’Italia adottasse misure di rigore, che hanno portato alle dimissioni del governo Berlusconi nel novembre del 2011. A seguito della nomina da parte del presidente della repubblica Giorgio Napolitano di Mario Monti a senatore a vita, le forze politiche si sono accordate intorno al nome dello stesso Monti quale capo di un governo tecnico, che guidasse l’Italia fino alle elezioni del 2013. Lo stesso governo Monti ha rassegnato le proprie dimissioni, nel momento in cui il maggior partito della coalizione a suo sostegno, il Pdl, ha annunciato l’intenzione di voler ritirare la fiducia in polemica con alcune misure finanziarie introdotte dal governo. Le nuove elezioni per il rinnovo del Parlamento si sono tenute il 24 e 25 febbraio 2013 e hanno segnato l’inaspettata ascesa del Movimento 5 stelle, fondato dall’ex attore comico Beppe Grillo. Il movimento, presentatosi per la prima volta in un’elezione nazionale, è risultato il primo partito alla Camera dei deputati, con un risultato del 25,56%, contro il 25,42% del Partito democratico, guidato da Pierluigi Bersani. A livello di coalizioni, quella di centro-sinistra – comprendente, oltre al Pd, Sinistra ecologia e libertà (Sel), il Centro democratico (Cd) e il Südtiroler Volkspartei (Svp) – ha ottenuto alla Camera il 29,55% dei voti, mentre quella di centro-destra, con Berlusconi candidato premier e formato dal Pdl, la Lega Nord e altre formazioni minori, ha ottenuto il 29,18% dei consensi totali. Questo risultato ha portato a uno stallo nella formazione del nuovo governo, soprattutto in considerazione del fatto che al Senato la coalizione di centro-sinistra, che pure si è giovata del premio di maggioranza alla Camera, non ha riportato la maggioranza dei seggi. Contestualmente ai negoziati per la formazione del nuovo governo, inoltre, il nuovo parlamento eletto avrebbe dovuto eleggere il nuovo capo dello stato, dal momento che il mandato di Giorgio Napolitano era in scadenza. Nel clima di immobilismo politico causato dal sostanziale pareggio delle forze in campo, con tre diversi fronti – centro-sinistra, centro-destra e Movimento 5 stelle – senza i numeri necessari per poter formare un governo da soli, proprio l’elezione del presidente della repubblica è diventata il banco di prova per misurare gli equilibri. Il Pd si è spaccato sulla candidatura di Franco Marini prima e di Romano Prodi poi, erodendo in tal modo la credibilità di Bersani e creando le condizioni per un imprescindibile accordo con il Pdl sulla rielezione di Napolitano. Tale accordo ha costituito anche la base della formazione di una ‘grande coalizione’ di governo, formata da Pd e Pdl e con Enrico Letta del Pd come primo ministro. Il nuovo governo avrebbe dovuto traghettare il paese verso nuove elezioni, anche attraverso una nuova fase di riforme istituzionali, prima su tutte quella della legge elettorale. A complicare il quadro, all’interno degli stessi schieramenti di governo sono occorsi nuovi spaccamenti: da un lato, il Pdl si è scisso, dando vita alla rinascita di Forza Italia, che è passata all’opposizione, e al Nuovo centrodestra guidato dal ministro dell’interno Angelino Alfano, rimasto al governo. Dall’altro lato, il Pd ha cambiato la propria dirigenza, con l’elezione a nuovo segretario del partito di Matteo Renzi. Quest’ultimo ha impresso un’accelerazione al processo di riforma della legge elettorale, presentando al parlamento un progetto concordato con Forza Italia. Nel febbraio del 2014, in seguito alla richiesta della maggioranza del Pd di un cambio di governo, Letta si è dimesso e Matteo Renzi è stato incaricato da Napolitano di formare un nuovo esecutivo. Il nuovo governo è sostenuto dal Partito democratico, il Nuovo centrodestra e Scelta civica. Inizialmente, Renzi aveva stretto un accordo con la maggiore forza di opposizione, Forza Italia, su alcune riforme; in seguito all’elezione alla presidenza della repubblica di Sergio Mattarella (al posto di Napolitano, dimessosi a fine 2014) nel gennaio del 2015, però, tale dialogo si è interrotto e il governo ha impresso un’accelerazione ad alcuni progetti di riforma, primo tra tutti quello sulla legge elettorale. La nuova legge, cosiddetta ‘italicum’, approvata nel maggio del 2015, vale solo per la Camera, in quanto il Senato, a sua volta, è stato oggetto di una riforma e diventerà un organo non più elettivo. Il sistema è proporzionale e prevede un ampio premio di maggioranza (340 seggi, pari al 55% dei seggi totali) da assegnare alla lista che riceva almeno il 40% dei consensi; una novità introdotta dalla nuova legge è che, qualora nessuna lista raggiunga tale percentuale, è previsto un secondo turno in cui concorreranno le prime due liste.
Con 61 milioni di abitanti, l’Italia è il quarto paese più popoloso dell’Unione Europea dopo Germania, Francia e Regno Unito. La densità di popolazione è tra le più elevate del continente, anche se la distribuzione sul territorio risulta concentrata in alcune aree metropolitane. Nel corso degli ultimi anni la popolazione è leggermente incrementata, principalmente in virtù dell’elevata immigrazione. Il tasso di fecondità è pari a 1,4 figli per donna, inferiore alla media europea (pari a circa 1,5). Inoltre, disaggregando il dato per le sole donne italiane, tale valore scende a 1,33, mentre per le donne straniere è di 2,05. Parallelamente alla bassa crescita demografica si registra un incremento nella vita media degli italiani: se nel 2002 la speranza di vita alla nascita era di 77,1 anni per gli uomini e 83 per le donne, attualmente tale valore è cresciuto rispettivamente a 79,9 e 84,8 anni. Il risultato di questi due fattori è l’invecchiamento relativo della popolazione.
I flussi migratori registrano una tendenza positiva e l’effetto dell’immigrazione sulla crescita della popolazione è duplice: oltre a portare nettamente in attivo il saldo migratorio, essa influisce positivamente anche sul saldo naturale (ovvero la differenza tra nascite e decessi). Un’osservazione più approfondita dei flussi migratori mostra il sorpasso, a partire dal 2008, dei migranti provenienti da paesi extracomunitari rispetto a quelli provenienti dall’Unione Europea. Questo dato è in parte dovuto alla regolarizzazione massiccia di immigrati presenti già da tempo in Italia (perlopiù collaboratrici domestiche e badanti), ma anche al rallentamento degli ingressi dai paesi dell’Europa centro-orientale. La maggior parte della popolazione straniera risiede nelle regioni centro-settentrionali, in particolare in Lombardia, Lazio, Veneto ed Emilia-Romagna. L’incremento dei residenti non italiani ha generato nell’opinione pubblica la percezione di una maggiore insicurezza. Effettivamente, i dati relativi alla criminalità confermano almeno in parte la correlazione tra immigrazione e crescita del numero dei reati commessi, nonostante un significativo calo relativo agli omicidi. In particolare, la quota di detenuti non italiani cresce anno dopo anno in modo più che proporzionale rispetto alla crescita della popolazione immigrata. La popolazione italiana si differenzia dalla maggior parte degli altri paesi europei per una disparità consistente nella dinamica dei redditi e una distribuzione territoriale disomogenea. In base alle rilevazioni Istat del 2015, circa il 28% delle persone residenti in Italia è a rischio povertà o esclusione sociale e più del 10% si trova in condizioni di deprivazione. In termini comparativi, l’Italia è inoltre uno dei paesi europei in cui la proporzione di situazioni a basso reddito relativo è più elevata: il 20% delle famiglie dispone di un reddito inferiore del 60% rispetto al valore mediano. Tale disparità si riflette su base territoriale nelle differenze tra regioni del nord e del mezzogiorno: mentre in Emilia Romagna, Lombardia, Veneto, Piemonte e Toscana il reddito medio familiare è superiore del 10-15% rispetto alla media nazionale, in Calabria, Sicilia, Basilicata, Campania, Molise e Puglia questo risulta inferiore del 20-30%. Complessivamente, il reddito delle famiglie residenti nel Sud Italia è pari al 75% di quelle del Nord. Per far fronte all’elevata incidenza delle situazioni a basso reddito, l’Italia adotta politiche distributive e redistributive in misura analoga agli altri membri dell’Eu. Rispetto agli omologhi, tuttavia, l’efficienza dei trasferimenti risulta minore: misurando il rapporto tra percentuale del prodotto interno lordo (pil) destinata alla spesa sociale (pensioni escluse) e riduzione della popolazione con redditi insufficienti si osserva in Italia un risultato inferiore al 20% e tra i peggiori in Europa insieme a Grecia e Spagna (per converso, a parità di spesa pubblica, i paesi scandinavi raggiungono un risultato prossimo al 70%). Il welfare italiano garantisce comunque una varietà di servizi, che pongono il paese nella media dei paesi più avanzati.
Per quanto concerne, ad esempio, il servizio sanitario nazionale, la densità di personale medico in rapporto alla popolazione (3,76 medici e 3,4 letti d’ospedale ogni 1000 abitanti) e la percentuale della spesa complessiva rispetto al pil (7,1%) si pongono di poco al di sopra della media europea. Infine, occorre segnalare un male endemico che grava sulla società italiana: l’Italia è infatti terreno di incontro tra una serie di organizzazioni criminali di stampo mafioso, la cui portata trascende i confini nazionali. Oltre alle forme autoctone quali la Camorra, la ‘Ndrangheta, Cosa nostra e la Sacra corona unita, si sono insediate ormai da anni forme analoghe di associazione a delinquere di origine russa, cinese, albanese e nigeriana. Insieme, queste organizzazioni svolgono una serie di attività illecite altamente remunerative, dal traffico di armi al racket della prostituzione, fino allo spaccio di stupefacenti.
Con un pil pari a 1819 miliardi di dollari nel 2015, l’economia italiana risulta ottava su scala mondiale e quarta in Europa. Nello stesso anno il pil pro capite ammonta a circa 35.665 dollari a parità di potere d’acquisto. L’attuale condizione è il risultato dell’eccezionale crescita sperimentata in seguito al secondo dopoguerra, quando il paese passò da uno stato di semi-arretratezza e un’economia basata principalmente sull’agricoltura a un’economia industrializzata e con un terziario avanzato. Nel 2015, il peso dell’agricoltura sul pil è pari soltanto al 2,2%, in leggero aumento rispetto ai dati del 2014. Inoltre, nonostante una netta diminuzione nel primo decennio del secolo, la produzione è frammentata in una miriade di aziende (perlopiù a conduzione familiare) di dimensioni ridotte. Questo comporta, rispetto ad altri paesi europei, una minore redditività e una serie di disfunzioni. Tra le piccole imprese, una percentuale crescente svolge attività collaterali alla produzione agricola, come l’agriturismo e la lavorazione di prodotti agricoli. Anche nel 2015, i dati confermano la tendenza di crescita già avviata dal 2009. L’occupazione nel settore è pari al 3,7% della forza lavoro complessiva. Per quanto concerne il settore secondario, l’industria rappresenta poco meno di un quarto del pil e dà lavoro a quasi cinque milioni di persone (cui si sommano circa due milioni di lavoratori nel comparto dell’edilizia). La composizione del settore comprende più di un milione di aziende, di cui circa il 95% è costituito da piccole e medie imprese, localizzate principalmente nelle regioni del nord. Dopo una relativa crescita nel 2006 e nel 2007, la crisi del 2008-09 ha comportato una contrazione significativa, pari al 10,4% in due anni, di gran lunga superiore alla media europea. A questa ha fatto seguito una riduzione nell’occupazione proporzionalmente inferiore, pari al 3,5% (molte imprese sono infatti riuscite a contenere il numero dei licenziamenti facendo ricorso alla cassa integrazione). Passando infine al settore terziario, esso genera circa il 74% del pil, occupando il 68,5% della forza lavoro. Rientrano in questa categoria le imprese commerciali, quelle turistiche e di servizi alle persone e alle imprese. Secondo le rilevazioni Istat, anche il terziario ha subito una battuta d’arresto in seguito alla crisi: seppur limitata, la contrazione del settore in Italia risulta in controtendenza rispetto alla media europea. Per quanto concerne i flussi commerciali con l’estero, i principali partner commerciali sono gli stati europei e, in misura inferiore, gli Stati Uniti, il Brasile, la Cina e la Turchia.
Nel 2015 il valore delle esportazioni ha raggiunto la cifra di circa 528,3 miliardi di euro, segnando una crescita rispetto agli anni precedenti, dopo che però era crollata del 20,9% su base annua nel 2009. Allo stesso modo, anche le importazioni stanno ora registrando una ripresa rispetto al 2009, per un valore assoluto di circa 471 miliardi di euro, in leggero calo rispetto al 2014. Fino al 2014, l’economia italiana portava ancora i segni della recessione del 2008-09. Nel 2014, infatti, il tasso di crescita era stato ancora negativo, attestandosi al -0.2%. Per il primo anno, nel 2015 il segno ‘meno’ è invece scomparso, lasciando spazio a una crescita dello 0,8%. La disoccupazione è invece ancora alta (12,2%). Dal 2007 il tasso di disoccupazione giovanile in Italia è passato dal 24% a quasi il 40% nel 2015. La principale sfida del governo consiste quindi nel ridurre il debito e il disavanzo pubblico con misure restrittive, senza tuttavia minare la fragile ripresa economica. Finora, per quanto i precedenti governi di Monti e Letta abbiano gestito le finanze pubbliche con cautela e rigore, poco è stato fatto per migliorare le prospettive di crescita nel medio e lungo periodo, poiché permangono vincoli strutturali alla produttività del paese, come per esempio un mercato del lavoro relativamente meno flessibile rispetto ai partner commerciali, una scarsa concorrenza nei servizi non commerciabili, un’eccessiva frammentazione della produzione in piccole e medie imprese e un’elevata pressione fiscale.
Per far fronte alle componenti di lungo periodo della debole ripresa, il governo Monti avrebbe voluto inserire una serie di riforme per la liberalizzazione del mercato del lavoro e dei servizi. Tuttavia, trattandosi di misure altamente politiche, il governo tecnico ha preferito escluderle dall’agenda e concentrarsi sulle leve fiscali. Per garantire la stabilità e prevenire eventuali attacchi speculativi è stato ridotto il disavanzo pubblico, e occorre limitare il debito pubblico, che nel 2015 è ancora superiore al 130% sul pil. Per stimolare la crescita economica sarà tuttavia opportuno affiancare la politica macroeconomica a misure di sostegno delle imprese italiane verso i mercati che sono stati meno toccati dalla crisi (in particolare in Estremo Oriente). Nonostante l’economia italiana prima della crisi abbia testimoniato un maggior grado di internazionalizzazione, attualmente l’import-export si concentra sulle aree geograficamente più prossime.
Il consumo interno lordo di energia in Italia ammonta a 146 milioni di tonnellate equivalente di petrolio (Mtep) e il mix energetico è caratterizzato dalla preponderanza nell’utilizzo di petrolio e gas naturale, risorsa che, nonostante il calo congiunturale dovuto alla contrazione dei consumi, è andata acquistando un peso crescente sui consumi nazionali, giungendo nel volgere di un trentennio a eguagliare – e in prospettiva a sopravanzare – il ruolo del petrolio come principale componente del paniere dei consumi.
D’altra parte, la bocciatura per via referendaria, nel 2011, dell’opzione di ritorno all’utilizzo dell’energia nucleare ha accantonato l’unico elemento che avrebbe potuto modificare la composizione del mix energetico nazionale. Nel medio periodo dunque, oltre al menzionato aumento del peso percentuale del gas naturale, la principale variazione nei consumi nazionali potrebbe derivare dall’obiettivo del raggiungimento di una quota del 17% di energia prodotta da fonti rinnovabili entro il 2020, in linea con gli accordi sottoscritti in sede europea.
Dato strutturale del comparto energetico dell’Italia, paese povero di risorse energetiche autoctone, è la dipendenza dagli approvvigionamenti dall’estero, che corrisponde a poco meno dell’80% del totale dei consumi a fronte di una media europea poco superiore al 55%. L’elevata dipendenza dall’estero non sembra tuttavia tradursi in un elevato grado di vulnerabilità del sistema paese, scongiurato da un’efficace politica di diversificazione dei canali di approvvigionamento degli idrocarburi. Messo a dura prova dal conflitto scoppiato nel 2011 in Libia – tradizionalmente tra i principali fornitori di petrolio alla penisola – lo schema di approvvigionamento italiano ha mostrato sufficiente flessibilità da evitare ricadute sui consumi nazionali. L’Azerbaigian è attualmente il primo esportatore di petrolio in Italia, seguito dalla Russia.
Una altrettanto efficace politica di diversificazione dei fornitori sembra al contempo caratterizzare anche lo schema di approvvigionamento di gas naturale. A fronte di consumi che si sono attestati nel 2015 a circa 67 miliardi di metri cubi (gmc/a), la rete infrastrutturale di approvvigionamento è in grado infatti di assicurare al paese oltre 110 gmc/a. Oltre ad essere condizione imprescindibile per la tutela della sicurezza energetica nazionale, la ridondanza delle infrastrutture potrebbe d’altra parte permettere al paese di riesportare parte del gas naturale importato, assurgendo a hub della distribuzione della risorsa nell’Europa meridionale. Non a caso, oggi tale obiettivo è uno dei cardini della strategia energetica nazionale. Benché la dipendenza dalle importazioni non metta dunque a serio rischio il sistema Italia, essa tuttavia ha una ricaduta diretta e rilevante sui costi dell’energia.
Oltre alla sicurezza dell’approvvigionamento, le politiche energetiche nazionali sono finalizzate all’abbattimento delle emissioni nocive per l’ambiente. Rispetto ai dati dei primi anni Ottanta, con la sola eccezione relativa al metano e all’anidride carbonica, si registra una sostanziale riduzione in diverse sostanze inquinanti, quali gli ossidi di zolfo (-90%), gli ossidi di azoto (-30%), il monossido di carbonio (-50%) e i composti organici volatili non metanici. L’anidride carbonica, principale responsabile dell’effetto serra, dipende principalmente dalle centrali di produzione elettrica (33%), dai trasporti su strada (25%), dall’attività industriale (16%) e dal riscaldamento domestico (15%).
Per quanto concerne la lotta all’inquinamento, l’Italia ha sottoscritto sia la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfccc) del 1992 sia il Protocollo di Kyoto del 1997 e gli accordi di Parigi del dicembre 2015. Nonostante il paese abbia mancato gli obiettivi di riduzione di gas serra stabiliti in questa sede per il periodo 2008-12, nell’agosto 2012, dopo due anni di rinvii, il ministero dell’ambiente ha presentato il Piano nazionale per la riduzione delle emissioni dei gas serra fino al 2020, incardinato negli obblighi europei e nella strategia dell’Unione Europea al 2050.
Secondo il rapporto Freedom in the World di Freedom House, l’Italia è un paese libero. Il paese ha ottenuto il miglior punteggio possibile in relazione al pluralismo politico, alla possibilità di partecipazione al processo elettorale e al funzionamento dell’apparato governativo. Stesso punteggio, dopo diversi anni di valore 2, è stato raggiunto in relazione alle libertà civili, ovvero libertà di espressione e di culto; diritti di associazione; rule of law; diritti individuali. Per quanto concerne la libertà di parola e di stampa, essa è garantita costituzionalmente.
Esistono molti quotidiani e periodici, la maggior parte dei quali su base locale, mentre le principali testate giornalistiche sono legate a grandi gruppi editoriali o ai partiti. Rimane tuttavia eccezionale e controversa l’influenza dell’ex premier Berlusconi sui media nazionali, sia all’interno della tv di stato sia tramite Mediaset, il gruppo privato da lui fondato e controllato dalla sua famiglia, seppur dal 2013 in poi Berlusconi sembri più defilato rispetto alla scena politica nazionale. Con poche eccezioni, negli ultimi anni si è assistito a una polarizzazione della stampa attorno a due posizioni estreme: alcune testate hanno assunto una posizione di critica serrata all’operato e alla vita privata del premier; altre si sono palesemente schierate in difesa dell’allora presidente del Consiglio. I rapporti tra governo e media sono diventati particolarmente tesi nell’estate del 2009, quando il giornale cattolico «L’Avvenire» ha criticato apertamente la condotta morale del premier nella vita privata. In tutta risposta, il quotidiano «Il Giornale», di proprietà della famiglia Berlusconi, ha dato avvio a una campagna volta a screditare il direttore dell’«Avvenire», il quale alla fine è stato costretto alle dimissioni. Nello stesso periodo, il gruppo l’Espresso citò il premier per diffamazione, dopo che quest’ultimo aveva definito il quotidiano «La Repubblica» sovversivo e aveva incitato gli sponsor al boicottaggio. Ancora nel 2009, ha sollevato un intenso dibattito la proposta di legge volta a vietare la pubblicazione delle intercettazioni ambientali senza permesso del giudice. Dopo quasi un anno di polemiche, a giugno del 2010 la Camera ha ratificato un emendamento che consente la pubblicazione di quelle intercettazioni che siano ritenute rilevanti dalla cosiddetta udienza filtro, oppure quelle utilizzate dal pubblico ministero per motivare ordinanze cautelari o decreti di perquisizione.
Passando alla libertà di religione, anch’essa è garantita dalla Costituzione. Sebbene la confessione cattolica sia dominante e la Chiesa cattolica goda di benefici particolari, non esiste una religione ufficiale di stato. Il governo ha firmato accordi con diversi gruppi religiosi, ai quali fornisce aiuti in misura proporzionale alla loro diffusione; rispetto ad altri paesi, manca però una legge generale sulla libertà di religione. Inoltre, data l’influenza (non solo morale) del Vaticano nella vita pubblica del paese, alcune voci critiche si sono levate per affermare una più netta e sostanziale separazione tra stato e chiesa. Questo tema non sembra però incontrare il favore dell’opinione pubblica: ne è un esempio la reazione sostanzialmente negativa a una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che nel novembre del 2009 si è pronunciata contro l’esposizione dei crocifissi nelle aule scolastiche. Anche la libertà di associazione e il diritto di sciopero sono garantiti dalla Costituzione. Circa il 35% della forza lavoro è iscritta a un sindacato. Per quanto concerne la rule of law, il sistema giudiziario è imparziale e indipendente, ma soffre per la cronica lentezza dei processi. La tortura è illegale, ma alcune organizzazioni per i diritti umani hanno accusato le forze dell’ordine di aver ecceduto in alcune circostanze nell’uso della forza, in particolare contro immigrati clandestini. A partire dal 2009, le misure adottate all’interno del cosiddetto ‘pacchetto sicurezza’ hanno introdotto una nuova fattispecie di reato, quella dell’immigrazione clandestina, su cui vi è stato un ampio dibattito, fino all’abolizione di tale reato prevista nel 2016.
La parità di genere è, almeno formalmente, garantita: l’indennità di maternità corrisponde solitamente a cinque mesi di astensione dal lavoro a stipendio pieno. Anche le opportunità di accesso all’istruzione e di ingresso nel mondo del lavoro collocano il paese ai primi posti tra i paesi industrializzati. Ciononostante, il tasso di disoccupazione tra le madri è significativamente più elevato rispetto alle donne senza figli e ancor più rispetto alle single: quasi il 20% delle donne lascia o perde il lavoro alla nascita del primo figlio. Rimane inoltre una notevole disparità di trattamento a parità di impiego rispetto agli uomini. Infine, la presenza femminile all’interno delle istituzioni politiche rimane limitata: alle ultime elezioni parlamentari, le donne costituivano solo il 21% dei deputati. Un ultimo aspetto rilevante riguarda la corruzione, un problema costante nella politica italiana, nonostante il colpo di spugna alla classe dirigente della Prima Repubblica portato dall’inchiesta ‘Mani pulite’, e indipendentemente dal colore del governo in carica. Tra gli ultimi scandali a livello nazionale, uno dei più gravi negli ultimi anni è stato rappresentato dal cosiddetto sistema di ‘Mafia capitale’, una rete di favoritismi e corruzione che coinvolgeva persone legate direttamente all’amministrazione comunale di Roma e malavita organizzata.
Analogamente a quanto accade negli altri grandi paesi europei, l’Italia dedica alla politica di difesa una quota relativamente limitata del bilancio statale. Nel 2015, secondo quanto comunicato dal governo italiano, il budget devoluto alla difesa è tuttavia risultato in crescita rispetto all’anno precedente, attestandosi a circa l’1,5% del pil. Nonostante tale dato sia stato soggetto a una cospicua volatilità nel corso degli ultimi venti anni, l’Italia conferma la tendenza comune nel Vecchio Continente a privilegiare altri settori di spesa, principalmente quelli legati al welfare. Questa allocazione delle risorse riflette i benefici dell’appartenenza alla Nato e, più in generale, all’assenza di minacce dirette al territorio nazionale. Infatti, da una parte l’alleanza con gli Stati Uniti ha storicamente garantito la presenza delle forze armate americane sul suolo italiano; dall’altra, con il collasso dell’Unione Sovietica è venuta meno l’unica minaccia alle frontiere nazionali. Il fatto che sia svanita la principale minaccia militare all’integrità del paese non ha tuttavia eliminato il bisogno di una capacità di difesa, ma ha imposto al contrario una profonda revisione strategica. Principalmente in seguito alla fine della Guerra fredda, e in particolare come reazione alla lezione appresa durante la prima Guerra del Golfo (1990-91), le forze armate italiane hanno avviato un significativo processo di riforma, che finora si è sostanziato nella sospensione a tempo indeterminato della leva di massa. Il passaggio da un esercito di coscritti a uno di volontari ha comportato una cospicua contrazione nel numero delle forze, che rispetto alla metà degli anni Novanta si sono più che dimezzate, e un miglioramento qualitativo a livello di addestramento ed equipaggiamenti. Rimangono tuttavia alcuni limiti, come testimoniato dall’ingente porzione di risorse destinate al personale (63%) e, per converso, dalla trascurabile quota riservata alla ricerca e sviluppo (3,7%). Per invertire tale tendenza il Consiglio dei ministri sta varando una corposa riforma al fine di privilegiare gli investimenti a scapito delle spese amministrative; ciò dovrebbe garantire da una parte la sostenibilità finanziaria della difesa e dall’altra una migliore efficacia operativa delle forze armate in ambito europeo e Nato. In sostanza, ciò significherebbe che il 50% del bilancio verrebbe assegnato alla spesa del personale, mentre il restante 50% sarebbe suddiviso tra addestramento e ricerca e sviluppo.
Nel corso dell’ultimo decennio si è assistito poi a un accresciuto impegno in missioni internazionali: se negli anni Ottanta l’Italia partecipava in media a non più di dieci missioni all’anno, negli ultimi anni questo dato è triplicato: alla fine del 2015 il paese era impegnato in diverse missioni internazionali tra Africa, Mediterraneo, Medio Oriente e Asia. Tra queste, le più importanti sono quelle in Afghanistan (Resolute Support), Libano (Unifil II), Kosovo (Kfor) e Bosnia (Althea). Anche in ambito Nazioni Unite, l’Italia figura ai primi posti in termini di personale impegnato in missioni di peacekeeping. La ragione dell’attivismo italiano sembra dipendere più da valutazioni politiche che non da considerazioni di sicurezza: il vantaggio principale in termini di interesse nazionale consiste infatti nell’incrementare la visibilità e il peso dell’Italia all’interno delle istituzioni internazionali. Sul fronte interno, nonostante la tradizionale polarizzazione dei partiti in parlamento, la decisione di impegnarsi in missioni all’estero (solitamente edulcorate dall’eufemismo ‘missioni di pace’) raccoglie solitamente un consenso bipartisan. Così è stato, seppur non senza polemiche e formalismi, anche per la partecipazione dell’Italia alle operazioni in Libia. Ciò è giustificato dal fatto che la partecipazione italiana avviene all’interno di contingenti multinazionali formalmente legittimati dall’egida di istituzioni internazionali quali le Nazioni Unite, la Nato e l’Unione Europea. Queste missioni si caratterizzano per una bassa intensità di violenza: con l’eccezione del teatro afghano, infatti, raramente i soldati italiani si trovano coinvolti in massicci scontri a fuoco. Tra le funzioni principali che il contingente italiano deve svolgere figurano: 1) la ricostruzione fisica, politica e infrastrutturale della zona interessata; 2) l’addestramento delle forze di polizia locali; 3) le operazioni militari per garantire la sicurezza e la stabilità. Mentre in Kosovo e in Bosnia la dimensione della sicurezza è relativamente marginale, in quanto il processo di stabilizzazione dei due paesi sembra ormai concluso, in Libano e in Afghanistan la situazione è ben diversa. Nel paese dei cedri la missione Unifil II è riuscita a garantire per più di quattro anni una sostanziale cessazione delle ostilità, ma il quadro politico del paese e della regione rimangono altamente instabili. Lo stesso può dirsi, a maggior ragione, per l’Afghanistan, dove la missione Isaf non ha raggiunto gli obiettivi preposti. Oltre alle funzioni di stabilizzazione e di supporto alla ricostruzione, l’Italia è impegnata in Afghanistan all’interno della missione dell’Unione Europea Eupol Afghanistan, il cui obiettivo è l’addestramento e il rafforzamento delle istituzioni di polizia in tutte le aree del paese, e addestra soldati e combattenti curdi in Iraq, in funzione anti-Is (Stato islamico), pur non partecipando attivamente ai bombardamenti della coalizione internazionale. Infine, oltre alla partecipazione attiva alle missioni internazionali, negli ultimi anni l’Italia ha mostrato un rinnovato interesse per le iniziative lanciate in seno alla Politica europea di sicurezza e difesa, volte a dotare l’Eu di forze proprie per la gestione delle crisi. Nel 2015 l’Italia si è proposta come mediatrice e capofila di un eventuale intervento in Libia per far fronte all’emergere delle forze jihadiste, ma la comunità internazionale non ha ancora predisposto un piano di intervento.
Sempre nel 2015, si è riacceso il dibattito su due minacce percepite alla sicurezza, a volte ritenute connesse, seppure in mancanza di elementi di evidenza: l’immigrazione e il terrorismo islamico. La questione dell’immigrazione ha nuovamente assunto dimensioni preoccupanti per la sicurezza del paese, dato l’elevato numero di persone sbarcato sulle coste dell’Italia, in maniera particolare sulla Sicilia e le sue isole. Il governo, che nel 2013-14 aveva risposto con l’istituzione di un’operazione navale, Mare nostrum, che prevedeva il pattugliamento delle coste e il salvataggio dei migranti soprattutto attraverso il Canale di Sicilia, ha successivamente giocato un ruolo importante in seno Eu per tentare di risolvere l’emergenza. Ciò detto, la mancanza di una vera politica comune europea continua a pesare sulle difficoltà di gestione dei flussi e di individuazione di politiche adeguate. Per ciò che concerne il terrorismo di matrice islamica, il livello di allerta è tornato altissimo in seguito all’ondata di attentati che si sono susseguiti nel 2015 sia in Europa (primi tra tutti gli attacchi di Parigi del 13 novembre 2015), che fuori (come l’attentato di Tunisi del marzo 2015, in cui sono morti anche quattro cittadini italiani). Secondo le stime ufficiali, dall’Italia sarebbero partiti circa 50 foreign fighters per unirsi allo Stato islamico in Siria e Iraq. Sebbene non vi siano prove del ritorno in patria di alcuni di loro, il fenomeno del jihadismo autoctono continua a essere monitorato e costituisce la maggiore potenziale minaccia alla sicurezza interna del paese. Nel corso del 2015 le forze di sicurezza e di intelligence hanno compiuto diverse operazioni di anti-terrorismo, arrivando a individuare ed espellere decine di possibili individui radicali dal territorio italiano.
Approfondimento
Nel 2015, la politica estera italiana si è confrontata con gli stessi problemi e gli stessi rischi con cui aveva fatto i conti nel 2014. Parimenti, non dissimili sono stati i modelli di azione e reazione della nostra diplomazia, a conferma che questa riflette la storia, il retaggio socio-culturale e le dinamiche politiche del paese. Nel 2015, tutti i fattori di crisi e di rischio nel Medio Oriente e nel sud Mediterraneo si sono aggravati.
L’accordo sul nucleare iraniano, sul piano regionale, si sta rivelando una ragione di tensione, creando difficoltà anche alla alleanza tra Stati Uniti ed Arabia Saudita, caposaldo della tradizionale stabilità dell’area.
In un contesto così fragile e pericoloso, l’Italia, cui va il merito di aver fatto sì che le questioni mediterranee figurassero in testa all’agenda europea, ha riservato i maggiori sforzi diplomatici alla crisi libica, ove sono stati individuati i nostri maggiori interessi diretti. Negli altri scacchieri, abbiamo continuato a fornire contributi anche con l’impiego delle Forze Armate, ma senza nascondere la sfiducia verso un impiego dello strumento militare svincolato da una strategia di ampio respiro.
La debolezza dell’azione collettiva dell’Unione Europea e le incertezze della diplomazia Usa, tradizionali riferimenti ed ancoraggi della nostra politica estera, non ci hanno aiutato.
Oggetto di controversie e polemiche è stato il nostro atteggiamento sulla Siria e la lotta all’Is, in particolare dopo gli attentati di Parigi.
Forse anche per il modo in cui è stato comunicato, questo atteggiamento ci ha esposto a sospetti e accuse di una radicata riluttanza, iscritta nei geni della nostra cultura civile e politica, a corroborare l’azione di politica estera con l’uso della forza.
È un problema serio, ed il governo farebbe bene a tenerne maggior conto per evitare che posizioni valide in principio nei fatti siano interpretate come rinunciatarie e deboli. È un prezzo che l’Italia ha pagato anche in passato, conseguenza di errori e condizionamenti di una fase storica ormai alle nostre spalle.
Un test importante sarà la Libia, sempre che nel 2016 le fazioni riescano a trovare l’intesa sfuggita nel 2015. L’Italia sarà chiamata a svolgere un ruolo guida, del resto rivendicato, e sarebbe illusorio pensare che la prevista operazione di garanzia militare dell’accordo sarà una passeggiata. È probabile che in alcuni momenti e zone del paese si alzerà al livello di peace enforcing, con i rischi collegati. Le nostre Forze armate, che hanno dimostrato in questo campo una assoluta eccellenza, dovranno essere adeguatamente confortate e sostenute sul piano interno.
A marcare il profilo del nostro paese, di significativo impatto e valenza politica è stata la prima edizione dei ‘Dialoghi Mediterranei’, svoltasi a Roma a metà dicembre 2015. Affidata per l’organizzazione all’Ispi, è stata voluta e sostenuta dal ministro degli Esteri e dalla Farnesina per farne, nella capitale italiana, un momento di confronto e dialogo tra governi, operatori economici, esponenti della cultura dei paesi europei e dell’area.
Altra crisi di nostro immediato interesse investe l’Ucraina, con le correlate tensioni con la Russia.
Anche nel 2015, il ruolo italiano in questa crisi è apparso defilato, salvo qualche incursione a carattere di disturbo, ad esempio prima del Consiglio Europeo di dicembre, quando l’Italia ha avanzato riserve tecniche sulle modalità di rinnovo delle sanzioni a Mosca. La chiara percezione è stata che la partita Ucraina e dei rapporti con la Russia sia diretta principalmente da altri, in testa la Germania, con a rimorchio la Francia, e in parte gli Stati Uniti, questi ultimi condizionati, aldilà del ragionevole, da Polonia e paesi baltici.
L’Italia poteva fare meglio e di più ma pesa sulla nostra credibilità e capacità di incidere il sospetto di eccessive simpatie per la Russia, alimentato talvolta da dichiarazioni e comportamenti disinvolti di esponenti politici, anche di governo.
Un altro banco di prova, in effetti il più delicato, della politica estera italiana è stato, anche nel 2015, il rapporto con l’Unione Europea.
Non è esagerato affermare che questo rapporto è entrato in crisi, condito da un inusitato nervosismo nelle relazioni con la Germania. Siamo in una fase in cui sembra che il perseguimento degli obiettivi nazionali comporti polemiche continue nei confronti della Commissione e di Berlino, considerata l’ispiratrice delle politiche di Bruxelles.
È una impostazione, nella quale si era già avventurato il governo Berlusconi, che prevedibilmente porterà pochi frutti.
L’Italia, aldilà della retorica di maniera, ha un interesse nazionale vitale e concreto a salvaguardare l’Unione Europea, specificamente l’euro ed il Trattato di Schengen, così come ha pieno ed indiscutibile diritto a perseguire i propri obiettivi. A questo riguardo, nel 2015 sono già stati conseguiti degli apprezzabili risultati. Ancor più sarà possibile raggiungerne, quanto più il nostro governo – in primo luogo il presidente del consiglio – si mostrerà attento al quadro effettivo di alleanze che potranno coagulare attorno all’Italia, individuerà priorità precise e realistiche e, importante, si conformerà con maggior grazia alle tecniche relazionali e negoziali, per quanto frustranti, che caratterizzano l’Unione.
Non si può chiudere la panoramica sul 2015 senza un accenno alla insoluta questione dei Marò.
Il governo ha intrapreso nel 2015 la strada dell’arbitrato internazionale. Solo il tempo dirà se questa sarà stata la via giusta per una felice soluzione del caso. Visti gli scogli su cui si erano incagliati precedenti tentativi alternativi, la scelta era da considerarsi inevitabile. Sarà importante che la dolorosa vicenda venga tenuta al riparo dalla polemica politica in Italia. Ne soffrirebbe gravemente l’immagine del paese.
di Giancarlo Aragona
Approfondimento
Per il governo guidato da Matteo Renzi, il 2015 può essere considerato come un anno di assestamento, e forse anche di relativa ‘normalizzazione’. Il 2015 è stato però soprattutto l’anno in cui inizia a delinearsi un progetto più ampio, che dovrebbe consentire alla leadership dell’ex sindaco di Firenze di trovare un più stabile radicamento e diventare così il perno di un nuovo equilibrio politico. Un simile progetto – giornalisticamente definito con la formula (forse discutibile ma calzante) ‘Partito della nazione’ – consiste nella completa trasformazione del Partito democratico (Pd) in un vero e proprio catch-all-party: una formazione, cioè, capace di rivolgersi a tutto l’elettorato, che per questo deve abbandonare qualsiasi riferimento agli ultimi residui delle vecchie appartenenze ideologiche, adottando invece un’identità ‘post-ideologica’. Anche se non si tratta di un obiettivo di breve periodo, è indubbio che nel corso del 2015 alcune dinamiche cruciali ne abbiano rafforzato la traiettoria. In primo luogo, il miglioramento del quadro macro-economico e l’avvio di una ripresa della crescita del pil hanno contribuito a consolidare il livello di fiducia nell’esecutivo, ma soprattutto a ridurre la percezione di incertezza sul futuro da parte di imprese e consumatori. In secondo luogo, il governo si è impegnato a fondo in una serie di riforme che, al di là dei risultati concreti, hanno consentito a Renzi di conservare, anche nella veste di presidente del consiglio, l’immagine di ‘rottamatore’ della ‘Seconda Repubblica’. Infine, il Pd ha irrobustito ulteriormente la posizione di centro che è venuto a occupare dopo le elezioni del 2013, a seguito della formazione di un assetto tripolare in cui le due opposizioni (Movimento 5 stelle da un lato, la coalizione di centro-destra dall’altro) sono fra loro incompatibili. Le modalità che nel 2015 hanno portato all’elezione del presidente della repubblica Sergio Mattarella hanno segnato infatti la rottura del cosiddetto ‘Patto del Nazareno’ tra Pd e Forza Italia, ossia l’accordo sulle riforme istituzionali che aveva consentito a Renzi di conquistare Palazzo Chigi. Allo stesso tempo, è stato sancito anche l’avvio del processo di dissoluzione di Forza Italia, che ha lasciato ampio spazio al protagonismo mediatico della Lega Nord guidata da Matteo Salvini, col risultato che l’intera coalizione tende a radicalizzare il proprio messaggio e a spostarsi verso destra. D’altro canto, l’opposizione a Renzi all’interno del Pd è uscita dal partito per dare forma a un nuovo soggetto (Sinistra italiana). E, al di là dei futuri esiti elettorali, in questo modo risulta eliminato un rilevante ostacolo all’ulteriore spostamento del Pd verso il centro, oltre che nella direzione di un ‘Partito della nazione’.
L’attuale governo si è comunque trovato alle prese con una serie di nodi problematici irrisolti. Il fronte principale da cui provengono le insidie è quello economico: la ripresa è rimasta infatti fragile, e alla sua base vi sono soprattutto fattori esogeni, come la diminuzione del prezzo del petrolio e le politiche adottate dalla Bce. E proprio la fragilità della ripresa, unita al debito pubblico, non ha messo certo al riparo l’Italia dai rischi di turbolenze analoghe a quella del 2011. Nella corso del 2015, il governo Renzi ha iniziato a incontrare qualche difficoltà, anche sul piano dell’immagine, dinanzi a due problemi cruciali come l’emergenza migranti e gli attacchi terroristici: problemi non nuovi per l’Italia, ma che l’instabilità in Nord Africa e Medio Oriente ha contribuito a rendere ancora più urgenti. Tali fronti problematici non hanno coinvolto solo l’Italia, e sono destinati ad accompagnare a lungo tutto il Vecchio continente, alimentando anche tendenze xenofobe dalle conseguenze imprevedibili. Per le sorti di Renzi, il nuovo quadro rappresenta però un fattore particolarmente insidioso, oltre che per i margini inevitabili di imprevedibilità che esso implica, soprattutto perché viene a scontrarsi con tutti i motivi cruciali dello storytelling renziano: una narrazione fondata sull’ottimismo, quasi interamente centrata sulla dimensione interna, e – come è emerso in occasione degli attentati terroristici di Parigi nel novembre 2015 – non sempre adeguata a fronteggiare situazioni di grave crisi, che può in particolare comportare dirette assunzioni di responsabilità per l’Italia anche sul terreno militare.
Se i maggiori pericoli per il progetto di ‘Partito della nazione’ sembrano così giungere dalla dimensione internazionale, le prospettive di consolidamento della leadership renziana devono fare i conti anche con un fronte problematico interno al Pd. Un fronte che non riguarda tanto i rapporti con il parlamento, quanto la capacità del vertice nazionale del partito di esercitare il proprio controllo sulle articolazioni periferiche. In effetti, le vicende relative al comune di Roma e alla regione Campania – che nel 2015 sono diventati temi di acceso dibattito politico – sono stati per molti versi solo l’eclatante testimonianza della fragilità del tessuto organizzativo del Pd sul territorio. Una fragilità che, evidentemente, ha costituito un ostacolo non da poco nel cammino che conduce verso il ‘Partito della nazione’. E che, una volta di più, ha mostrato come la leadership di Renzi – insieme alla stabilità del suo esecutivo – sia ancora prevalentemente fondata sulla formidabile (anche se fragile) risorsa del carisma personale; rimanendo dunque ben lontana dall’ottenere un significativo radicamento organizzativo e istituzionale.
di Damiano Palano
Approfondimento
Il 2015 sarà ricordato come l’anno della crisi di Schengen, la cui tenuta è stata messa in questione dalla più grande emergenza profughi che l’Unione Europea ricordi e dall’avvicendarsi di eventi tragici, come i numerosi naufragi nel Mediterraneo o gli attentati terroristici di Parigi. Tali vicende hanno alimentato una spirale in cui tanto l’opinione pubblica quanto gli attori politici si sono avviluppati, senza essere in grado di districare la contraddizione tra esigenze umanitarie e spinte securitarie che da anni affligge le politiche di controllo della frontiera. La crisi del regime confinario europeo è infatti una crisi di lunga durata che affonda le sue radici negli sconvolgimenti geopolitici innescati dalle cosiddette primavere arabe. Già gli episodi del 2011 mostrarono come la sostenibilità del regime confinario europeo si basasse sulla collaborazione con i paesi terzi: venendo a mancare quest’ultima, l’intero sistema di controllo delle migrazioni rischiava di crollare. Altro punto di rottura furono poi la sentenza ‘Hirsi’ (2012) della Cedu e la tragedia di Lampedusa dell’ottobre 2013, che resero più complicato per i paesi membri continuare a perseguire le politiche di respingimento dei migranti che erano state al centro delle attività di pattugliamento del Mediterraneo negli anni precedenti.
L’Italia, insieme alla Grecia, è stata l’epicentro della crisi. Stando alle cifre rese note alla fine del 2015, essa ha accolto 153.000 migranti. Un numero che, pur segnando una riduzione rispetto al 2014, rappresenta un aumento del 565% rispetto alla media del decennio 2003-2013. Sin dal principio l’Italia ha privilegiato una risposta umanitaria, anche e soprattutto al fine di ottenere una revisione del regolamento Eu n. 604/2013 (c.d. regolamento Dublino) e la condivisione dell’onere dell’accoglienza con gli altri partner europei. A dispetto delle dichiarazioni di intenti, l’Unione Europea ha invece assunto un atteggiamento più riluttante. Solo dopo il naufragio dell’aprile 2015, in cui persero la vita oltre 800 migranti, essa ha accettato di estendere il mandato dell’operazione di Frontex denominata ‘Triton’, triplicandone il budget e dotandola di mezzi che fossero in grado di svolgere attività di soccorso in mare analoghe a quelle realizzate con l’operazione ‘Mare Nostrum’ durante il 2014. L’agenda europea sulle migrazioni adottata nel maggio 2015 prevede tuttavia solo parziali concessioni sul piano della ridistribuzione dell’onere dell’accoglienza, proponendo l’adozione di un piano per la ricollocazione dei richiedenti asilo e invitando la Commissione a presentare una proposta di riforma del ‘regolamento di Dublino’ che includa delle deroghe alla regola che impone al paese di primo ingresso l’onere di trattare la domanda di protezione internazionale. Mentre il destino della proposta è ancora incerto, la ricollocazione dei richiedenti asilo procede a rilento, al punto che il New York Times ha stimato che al ritmo attuale ci vorranno 750 anni per completare il piano.
Molto più decisa è stata invece la risposta sul piano delle misure di sicurezza. Non solo si è lanciata una controversa operazione militare contro i ‘trafficanti’ nel quadro della Pesc, ma con l’acuirsi della crisi del sistema Schengen la strategia della Commissione ha progressivamente subordinato le concessioni sul piano della redistribuzione dell’onere dell’accoglienza al rafforzamento dei controlli alle frontiere esterne. Ciò è stato fatto essenzialmente in due modi: da un lato imprimendo un’accelerazione nella creazione dei cosiddetti hotspots, dall’altro proponendo un’ambiziosa riforma dell’agenzia Frontex, che dovrebbe trasformarsi in un autentico corpo di guardie di frontiera europeo.
Delle caratteristiche che tali hotspots dovranno assumere non si sa molto, anche perché essi sono privi di base legale nel diritto dell’Unione. Stando a quello che si legge nei documenti di indirizzo della Commissione, essi dovrebbero essere centri di ‘prima accoglienza’ in cui la registrazione dei migranti verrà effettuata con l’assistenza di Frontex e dell’Easo. Italia e Grecia sono state invitate ad identificare tali centri, precisandone anche la base legale nel diritto nazionale, in modo da conferire alle autorità di polizia il potere di trattenere i migranti in stato di detenzione in attesa del disbrigo delle pratiche di identificazione, esercitando anche poteri coercitivi nei confronti dei meno collaborativi. Al settembre 2015 il governo italiano aveva già individuato cinque hotspots in strutture ubicate a Pozzallo, Porto Empedocle, Trapani e Lampedusa, per una capacità di circa 1500 posti, anche se l’obiettivo è quello di aprire altre due strutture ad Augusta e Taranto. La loro base legale sembra doversi rintracciare nel D.lgs 142/2015, che ha recepito la direttiva 2013/33/Eu sull’accoglienza dei richiedenti asilo, stabilendo che le funzioni di prima assistenza ed identificazione continuano ad essere svolte nei centri già allestiti ai sensi del D.l. 30 ottobre 1995, n. 451. Sfortunatamente la disciplina dei centri di accoglienza in Italia è sempre stata carente, al punto che la dottrina giuridica non ha esitato a definirla come una forma di detenzione extra ordinem priva di tutele giurisdizionali. Per tale motivo numerose voci si sono levate per denunziare la debolezza della base legale dei nuovi hotspots, nonché il rischio di violazione dei diritti fondamentali alimentato dall’assenza di adeguate garanzie circa le condizioni di detenzione e l’effettività dell’esercizio del diritto d’asilo in luoghi lontani dallo sguardo della società civile e strettamente presidiati dalle forze di sicurezza.
di Giuseppe Campesi