Italia
Geografia umana ed economica
di Pasquale Coppola
Questioni territoriali
Dopo un contrastato dibattito politico che si è sviluppato per tutto l'arco degli anni Novanta, la spinta verso una struttura più marcatamente federalista dello Stato si è tradotta da fine decennio in varie iniziative di legge. Dapprima, tra il 1977 e il 2000, una serie di disposizioni hanno promosso il decentramento di molteplici funzioni e compiti dallo Stato alle Regioni e agli enti locali, nel quadro di una vasta revisione degli assetti della macchina pubblica. Nel marzo 2001 il Parlamento ha approvato poi una legge di riforma costituzionale che ridefiniva in senso federalista l'articolazione dei poteri statali. In particolare, veniva ribaltato l'impianto originario dell'art. 117 della Carta, attribuendo al potere centrale la competenza legislativa esclusiva solo su alcune materie espressamente menzionate (tra le altre, la politica estera, la difesa, la giustizia, l'ordine pubblico, la moneta, l'immigrazione, i rapporti con le confessioni religiose, la cittadinanza, le norme generali dell'istruzione e la determinazione dei livelli minimi dei servizi); per tutto il resto divenivano competenti gli organismi regionali.
La riforma, confermata da un referendum nell'ottobre successivo, restava peraltro poco chiara e incompiuta in taluni aspetti, generando in pochi anni numerosi conflitti di competenza sollevati presso la Corte costituzionale ora dalle Regioni ora dallo Stato. Nella legislatura successiva, sotto la pressione soprattutto della Lega Nord, membro della compagine governativa, è maturata in Parlamento la maggioranza necessaria a deliberare ulteriori cambiamenti della seconda parte della Costituzione. Oltre a modificare i poteri del Presidente della Repubblica e del primo ministro e la composizione della Corte suprema, una nuova legge costituzionale ha così previsto il varo di un Senato federale e il conferimento di ulteriori competenze alle Regioni (segnatamente in materia di assistenza sanitaria, organizzazione scolastica e polizia regionale e locale); era anche sancita una particolare autonomia per Roma capitale nell'ambito della Regione Lazio. La riforma, approvata in seconda lettura nel novembre 2005, si è però infranta di fronte all'esito negativo del referendum popolare tenutosi nel giugno seguente.
Se, pur attraverso varie contraddizioni, il protagonismo delle istituzioni regionali appare nell'insieme decisamente consolidato in apertura del nuovo millennio, sembra al contrario sopita la discussione in tema di aree metropolitane, che pure aveva suscitato notevoli aspettative dopo la legge del 1990 che ne aveva previsto l'istituzione. Solo in Sicilia, avvalendosi delle competenze dello Statuto speciale, si è delineata una loro provvisoria coincidenza con i perimetri pro-vinciali, sperimentando appunto l'attivazione di tre 'province me-tropolitane'corrispondenti ai tre maggiori magneti urbani dell'isola (Palermo, Catania e Messina). Sempre in virtù di uno Statuto speciale, l'assemblea regionale sarda ha, invece, previsto l'avvio delle quattro nuove province di Carbonia-Iglesias, Medio Campidano, Ogliastra e Olbia-Tempio, i cui capoluoghi sono ancora in via di definizione. Con le procedure ordinarie delle leggi statali sono state istituite, infine, tre nuove province in Lombardia (Monza e Brianza), nelle Marche (Fermo) e in Puglia (Barletta-Andria-Trani).
Le revisioni di una maglia comunale di base che in taluni casi mostra una parcellizzazione spinta, a scapito della funzionalità di molti servizi pubblici, non paiono procedere in direzione di processi virtuosi di accorpamento. Le Regioni, cui spetta la competenza in merito, si sono mosse piuttosto verso la creazione di un certo numero di nuovi comuni. Questa spinta è stata, peraltro, controbilanciata dal diffondersi di un nuovo modello culturale dell'azione pubblica fondato sulla dimensione locale dello sviluppo: si sono moltiplicate le formule di coordinamento tra varie autonomie di base sia per la gestione di servizi sia per la progettazione di linee di sviluppo (consorzi, unioni finalizzate di comuni, distretti industriali e turistici, patti territoriali, ecc.). All'interno delle grandi città ha preso, inoltre, concreto avvio un'ar-ticolazione in municipalità dotate di propri organismi elettivi preposti a una serie di funzioni decentrate,
La struttura territoriale del Paese s'impalca in maniera sempre più marcata sulla trama delle infrastrutture di collegamento, che negli ultimi tempi ha mostrato di rafforzarsi soprattutto nella sezione centro-settentrionale, grazie a una cospicua mole di stanziamenti nel sistema ferroviario e in quello della grande viabilità. Perno del sistema è il fascio di connessioni che ruotano sul 'corridoio europeo n. 5', il quale percorre trasversalmente il Nord dell'Italia da Torino a Trieste e s'incerniera con altri assi europei orientati in senso nord-sud in corrispondenza di Novara e Verona, promosse a nodi di transito di rilevanza transnazionale. In questo contesto si situano l'avvio dell'alta velocità ferroviaria tra Torino e Milano e poi i lavori per la nuova modernissima tratta Lione-Torino, il cui progettato attraversamento della Val di Susa ha suscitato forti resistenze nelle comunità locali. Al Sud, se si eccettua l'entrata in funzione dell'alta velocità tra Roma e Napoli, la dotazione infrastrutturale ha fatto meno passi in avanti: in particolare, si sono accumulati i ritardi nell'ammodernamento della principale arteria viaria, rappresentata dall'autostrada Salerno-Reggio Calabria. Alla realizzazione dell'avveniristico, quanto costoso, Ponte sullo Stretto di Messina il governo Prodi ha rinunciato nel 2006, benché ne fosse già stato aggiudicato l'appalto, ritenendo più urgente il perfezionamento delle connessioni ferroviarie e autostradali di base di Calabria e Sicilia.
Nonostante gli indubbi progressi nell'assetto della protezione civile, le perduranti carenze nel dominio delle politiche di prevenzione del rischio in un territorio reso ancor più fragile dai cambiamenti climatici in corso continuano a produrre frequenti dissesti. Benché contenute per lo più a scala subregionale, appaiono particolarmente incisive e diffuse, per la crescente antropizzazione e l'aumento delle superfici impermeabilizzate, le conseguenze di forti precipitazioni concentrate, che tendono sempre più a connotare i regimi pluviometrici della penisola. Del resto, ricerche in ambito comunitario attribuiscono all'I. tra il 1980 e il 2002 il 38% delle vittime causate in Europa dalle inondazioni. Nell'accentuazione dei contrasti climatici rientrano anche prolungate stagioni siccitose, che hanno recato gravi danni alle colture nel Centro-Sud nel 2002 e nel Nord l'anno successivo. Sul fronte sempre aperto dei fenomeni sismici, il millennio si è aperto con le forti scosse che nell'ottobre 2002 hanno interessato il Molise costiero, causando 27 vittime in una scuola malamente costruita di San Giuliano di Puglia.
Popolazione
Al censimento del 2001 la popolazione italiana ammontava a 56.995.744 ab., con un incremento dello 0,4% appena rispetto al 1991. Tale dato era la risultante di andamenti differenziati per le grandi aree geografiche: in particolare, il Nord cresceva dell'1%, il Centro si mostrava sostanzialmente stabile e il Sud presentava una lievissima flessione (−0,1%). Rispetto agli anni Ottanta, emergeva un'evidente inversione di tendenza sia per le aree settentrionali, che avevano allora perso circa l'1,4% dei loro residenti, sia per quelle del Centro-Sud, che esibivano ancora dinamiche positive. Era nel Nord-Est che si registravano gli incrementi di popolazione più significativi del decennio 1991-2001 (con il Trentino-Alto Adige al 5,6% e il Veneto al 3,4%), mentre nel Centro emergevano le Marche (2,9%). I cali più vistosi interessavano invece la Liguria (−6,2%), il Molise (−3,1%) e la Calabria (−2,8%). L'analisi dell'andamento delle dinamiche demo-grafiche è complicata dalla difficile interpretazione delle successive risultanze anagrafiche, secondo le quali la popolazione italiana avrebbe raggiunto alla fine del 2005 i 58.751.711 abitanti. Lo scarto è imputabile almeno in parte a fattori di carattere amministrativo, che riguardano in primo luogo la sanatoria di immigrati irregolari (con l'emersione di una cospicua quota di popolazione già residente nel Paese, ma non censita) e anche varie rettifiche anagrafiche successive al censimento.
Alla scala nazionale, il saldo naturale è stato costantemente negativo, con la sola eccezione del 2004. L'andamento è frutto di bilanci diffusamente deficitari delle regioni del Centro-Nord, cui non pone rimedio il contenuto prevalere delle nascite nel Sud e nelle isole. Il tasso di natalità medio, dopo aver toccato un minimo del 9,2‰, è lievemente risalito (9,5‰ nel 2005), con un minimo per le regioni centrali e un massimo per quelle meridionali, con oscillazioni interne che appaiono di poco conto. In effetti, la distribuzione dei timidi segnali di ripresa nel ricambio generazionale lascia chiaramente intravedere l'apporto conferito dalle immigrate alla fecondità generale, risalita in un decennio da 1,19 a 1,33 figli per donna, pur restando fra le più basse d'Europa. A conferma della natura di tale ricambio è la crescente quota di figli di immigrati nei vari livelli dell'istruzione scolastica (oltre 400.000 allievi).
La mortalità si è ormai attestata sul 9,5‰, con scarti leggermente superiori nelle regioni centro-settentrionali, più toccate dalla senilizzazione e dai riflessi negativi degli inquinamenti sulla salute, e punte inferiori nel Sud e nelle isole, dove i contingenti giovanili sono meglio rappresentati. Nel complesso, la longevità degli italiani ha fatto ulteriori progressi: la speranza di vita si è portata oltre i 77 anni per gli uomini e a 83 per le donne. Ne deriva il consolidarsi del processo di invecchiamento con un rapporto tra la popolazione con almeno 65 anni e quella con meno di 15 anni in costante crescita, giunto nel 2005 a quota 138 (di gran lunga il più alto d'Europa); e dal 2004 per la prima volta anche nelle regioni meridionali (con l'esclusione della Campania) gli ultrasessantacinquenni hanno superato la popolazione con meno di 15 anni. Questa rapida crescita della quota di anziani, particolarmente avvertita in Liguria e in altre regioni del Centro-Nord, ha reso sempre più problematico il bilancio della spesa pensionistica, obbligando i governi a successivi aggiustamenti della normativa, e grava anche sugli oneri della sanità e su quelli dell'assistenza alla popolazione non autosufficiente, comportando - tra l'altro - un consistente flusso di badanti dall'estero. Congiuntamente con le modifiche di alcuni com-portamenti sociali (tra cui l'incremento dei divorzi), la crescita degli anziani si riflette pure sulla struttura della cellula familiare, che è ormai ridotta a una media di 2,5 componenti.
Data la stabilizzazione dei saldi naturali su valori modesti o negativi, l'incremento di popolazione segnato da alcune regioni è sostanzialmente connesso alla distribuzione dei movimenti migratori. Per quanto attiene alla componente interna di tali movimenti, in apertura del 21° sec. si osservano consistenti bilanci positivi per le aree centrali e soprattutto per quelle settentrionali, a fronte di un dato negativo per il Mezzogiorno. Nel quadro di un tendenziale aumento della mobilità sia intra- sia interregionale, sono regioni quali l'Emilia-Romagna, la Toscana e la Lombardia a confermarsi come principali attrattori di flussi, mentre le regioni meridionali perdono complessivamente circa 50.000 indivi-dui l'anno. Un fenomeno, che risulta numericamente contenuto, ma piuttosto significativo a causa della potenziale ricaduta negativa sullo sviluppo economico, è dato dal flusso di giovani laureati (alcune decine di migliaia) che abbandonano il Paese per trasferirsi nei prestigiosi gangli della ricerca e dell'economia in Europa occidentale e negli Stati Uniti. Comunque, il vero timone delle dinamiche demografiche è sempre più costituito dall'entità e dalla natura dell'immigrazione, che raccoglie oltre il 5% degli abitanti del Paese.
Il calcolo della popolazione straniera insediata in I., nonostante si sia effettuato l'incrocio tra diverse fonti di rilevazione, resta tuttora approssimato: lo dimostrano con chiarerra le inattese impennate registrate in occasione dei diversi provvedimenti di sanatoria. Anche le più recenti misure, la l. 30 luglio 2002 nr. 189 (nota come legge Bossi-Fini), hanno ampiamente modificato il quadro peraltro già noto dell'immigrazione, facendo emergere oltre 600.000 individui e rivoluzionando la graduatoria delle nazionalità più numerose. Alla fine del 2005, a pro-cedure di regolarizzazione ormai completate, il montante degli immigrati a norma è valutabile a quasi 2,4 milioni, cui andrebbe aggiunto un ulteriore 25% di irregolari a vario titolo: per una stima com-plessiva di 3 milioni. Tale cifra collocherebbe ora la penisola al quarto posto in Europa per numero assoluto di stranieri dopo la Germania, la Francia e la Spagna. La loro incidenza sui residenti varia fortemente tra i grandi insiemi territoriali: massima nel Nord-Est (intorno al 6%) e di poco inferiore nel Nord-Ovest, è in linea con la media nazionale del 5,2% al Centro e di gran lunga meno significativa (1,4%) nel Sud e nelle isole. La concentrazione massima si raggiunge nelle province di Roma e Milano, che da sole richiamano oltre un quinto degli immigrati.
Dopo una fase di slancio iniziale delle presenze africane, la scena migratoria è ormai dominata dalla componente europea, cui appartengono ben 5 stranieri su 10, mentre 2 muovono dal continente nero, altrettanti dall'Asia e uno dall'America. Sul piano religioso, i nuovi arrivati sono per metà cristiani (divisi alla pari tra cattolici e ortodossi) e per un terzo musulmani. La nazionalità più numerosa (11,9%) è quella romena, che ha scavalcato di recente il gruppo albanese (11,7) e quello marocchino (10,3), mentre la sanatoria del 2002 ha fatto emergere in massa un'immigrazione ucraina (5,2) formata in prevalenza di badanti e di collaboratrici familiari. Quest'occupazione, e quelle in genere del mondo dei servizi, connotano diffusamente le presenze straniere soprattutto negli ambienti urbani, mentre il comparto industriale accoglie un'altra consistente quota d'immigrati nel Nord e il primario è il settore d'impiego dominante nel Mezzogiorno. Ormai è nato all'estero 1 su 10 dei lavoratori complessivamente denunciati all'INAIL e 1 su 6 tra i nuovi occupati.
Mentre in passato l'I. è stata teatro di una consistente migrazione di transito diretta verso Paesi più prosperi dell'Europa centro-occidentale, essa è divenuta ora stabile destinazione finale per buona parte dei flussi che la interessano: ciò è testimoniato dalla mole dei ricongiungimenti familiari, con il riequilibrio tra i sessi e l'aumento del numero dei minori. Quella immigrata è una popolazione giovane, compresa al 70% tra i 15 e i 44 anni, e incide in termini di nascite per una quota (circa il 9%) quasi doppia rispetto al peso totale della componente straniera sui residenti. L'accentuarsi della stabilizzazione, se da un lato rafforza la base lavorativa e contributiva e avvia più saldi percorsi d'integrazione, dall'altro esalta la scarsità delle risorse pubbliche destinate all'accoglienza, aggrava la pressione sul mercato degli alloggi e offre spunti a ripetuti episodi di discriminazione e a pulsioni xenofobe incanalate soprattutto da alcune forze politiche.
Rispetto alle economie europee più avanzate, il Paese denuncia dei ritardi nel settore dell'istruzione, ritardi densi di conseguenze sulla qualificazione del potenziale lavorativo: infatti, un buon 28% degli italiani è ancora fermo agli studi elementari e meno di un terzo dispone di una licenza superiore, mentre i laureati non superano il 9%. Nel campo universitario, in particolare, la riforma che ha istituito due tipi di titolo ha consentito di raddoppiare in un quinquennio il numero di diplomati e laureati (300.000 nel 2004-05); ma gli investimenti negli atenei e nella ricerca, pari all'1,1% del PIL, sono tuttora metà delle quote impegnate dalla Germania e dalla Francia: insignificanti rispetto al 3% assunto come obiettivo a sostegno di sviluppo nonché di innovazione in sede comunitaria. La popolazione urbana resta prossima al 67% del totale, ma questo valore ha perso di significatività di fronte alla radicale trasformazione delle logiche insediative che ha investito gran parte del Paese. In effetti, dall'inizio degli anni Novanta i centri con oltre 100.000 ab. hanno continuato a perdere residenti, anche se a un ritmo in genere più contenuto rispetto al decennio precedente, mentre è moderatamente aumentato il peso demografico dei loro dintorni. Modesti saldi positivi esibiscono solo Prato, grazie alla robusta immigrazione cinese, e la conurbazione dello Stretto (Reggio di Calabria-Messina), alla cui periferia persiste l'esodo rurale. Singolare è anche il caso della provincia intorno alla capitale: la popolazione cresce oltre il 10%, invadendo i residui vuoti del grande anello metropolitano. Alla sorte delle maggiori sedi urbane si è associata, in un processo iniziato dagli anni Ottanta, quella dei centri medi, anch'essi toccati dal calo di una popolazione che va piuttosto a infittire le maglie minori di un reticolo sempre più serrato, specie in alcune regioni di più intenso dinamismo economico e sociale.
L'I. procede, dunque, decisamente verso un modello di urbanizzazione diffusa, dove le polarità sono moltiplicate dal decentramento degli impianti produttivi e, sempre più, da quello di grandi attrattori di consumo e di apparati di servizi. È un processo che parifica prepotentemente gli standard di vita, ma ha per costo una marcata intensificazione del pendolarismo e un massiccio consumo di suolo, anche per il ricorrere di formule urbanistiche a bassa densità (la 'villettizzazione', elettiva del Nord-Est).
Intensi sono stati, in questa fase, sia i processi di riuso degli spazi urbani resi disponibili dalla di-smissione dell'apparato industriale sia gli investi-menti volti al miglioramento dell'immagine urbana. Si è aperta una nuova stagione di ricerca urbanistica e di progettazione architettonica, anche in rapporto sia con riconversioni funzionali sia con l'organiz-zazione di grandi eventi (è il caso, per es., di Torino con le Olimpiadi invernali 2006). Ugualmente nel ripetersi di appuntamenti culturali (festival, mostre d'arte, notti bianche ecc.) si è cercato di elaborare strategie di rilancio degli spazi urbani, soprattutto di quelli centrali. Le grandi città italiane mostrano, peraltro, diffusi problemi legati alla presenza di consistenti sacche di marginalità sociale, specie in talune periferie, e ricorrenti disagi nella vita quotidiana, soprattutto per effetto di modelli di traffico farraginosi e di alti livelli d'inquinamento. A tali disagi oppongono solo scarse barriere la chiusura di zone al traffico privato, i periodici blocchi di circolazione, l'utilizzo di trasporti pubblici a metano e la costruzione di nuove metropolitane (Napoli, Torino).
Condizioni economiche
Nel primo quinquennio del 21° sec. il PIL italiano è cresciuto in complesso dello 0,4%, definendo un quadro di grave stagnazione, che solo in apertura del 2006 sembra in via di superamento. Ne hanno risentito pesantemente tanto le finanze pubbliche, quanto i livelli degli investimenti e i bilanci delle famiglie, costrette a contenere i loro consumi. Il valore di 26.000 dollari di reddito pro capite cela scompensi sociali in via di accentuazione, in particolare tra quel 10% della popolazione che detiene oltre il 45% della ricchezza netta e quel 13% che viene collocato nella fascia della 'povertà relativa' (particolarmente avvertita da quanti non dispongono di un alloggio di proprietà). Di norma, nel periodo considerato i redditi dei lavoratori autonomi sono cresciuti di oltre il 10%, contro meno del 2% per quelli da lavoro dipendente e da pensione; sul piano territoriale poi si è registrato un aggravarsi del tradizionale divario (il 40% nel 2005) tra il prodotto del Centro-Nord e quello del Sud, che in alcuni anni ha addirittura fatto segnare risultati negativi. Il livello totale dell'occupazione appare stabile, ma la disoccupazione risulta scesa intorno a una media dell'8%, anche in questo caso però si delinea un contrasto marcato per il Mezzogiorno, dove il saldo occupazionale è risultato negativo e resta altissima soprattutto la disoccupazione giovanile. Va osservato, peraltro, che la situazione lavorativa del Paese è difficile da stimare nella sua portata reale per la rilevanza assunta di recente dalle varie forme di contratti a termine e per la persistenza di amplissime sacche di lavoro sommerso e di economia informale, specie nel Sud.
Il contributo del comparto primario alla formazione del PIL si è stabilizzato intorno al 3% a fronte di una quota occupazionale del 4%. Benché permangano molti tratti di arretratezza sia nell'eccesso di frammentazione aziendale (meno del 5% delle aziende sopra i 20 ha) sia nel rilievo di ordinamenti colturali ormai superati, si vanno pure consolidando valide spinte innovative, che hanno stimolato una leggera ripresa dell'occupazione. Nel senso del rilancio vanno letti, tra l'altro, il deciso incremento dei terreni destinati a colture biologiche e la diffusissima ricerca di produzioni di qualità, valorizzate attraverso marchi di origine locali (in primo luogo per vino, olio e prodotti caseari). Al contenimento dei costi di molte coltivazioni contribuisce l'ampia presenza di mano d'opera straniera, in genere pendolare e a buon mercato, il cui sfruttamento - specialmente in alcune campagne del Mezzogiorno - ha purtroppo riproposto odiose forme di caporalato e prestazioni prive di ogni controllo e garanzia. Dal settore industriale proviene il 27% del prodotto lordo con un'occupazione valutata al 31%. Gli esordi del Duemila hanno visto crescere le difficoltà di molti rami sotto l'attacco congiunto dei grandi fulcri mondiali delle tecnologie avanzate, da un canto, e delle produzioni a basso costo delle economie emergenti, dall'altro. Nei comparti di punta, in particolare, difetti di visione strategica e modestia degli investimenti in innovazione hanno rapidamente demolito le potenzialità, pur rilevanti, dei poli italiani dell'informatica e della chimica, hanno eroso molti sbocchi di mercato dell'elettronica di consumo, hanno agitato le acque di un ramo brillante come l'elettromeccanica. Pure attività ancora ricche di competenze tecnologiche, come l'aeronautica civile e l'aerospaziale, soffrono di carenze di massa critica. Solo l'industria leader dell'auto sembra riprendere slancio dopo una crisi che l'ha scossa alle radici, facendo temere la sua 'cattura' da parte di multinazionali straniere. Risultato di questo processo è un ulteriore dimagrimento occupazionale delle grandi aziende, con alti costi sociali e con l'abbattimento all'8% dell'incidenza dei beni ad alta tecnologia sull'export dei manufatti.
Le produzioni più tradizionali e le piccole imprese, che hanno un loro punto di forza nel tessile-abbigliamento, stanno sopportando un duro confronto con la modestia dei prezzi proposti dai concorrenti dei Paesi di nuova industrializzazione (Cina in testa). Già da tempo le risposte vincenti si sono articolate sul miglioramento della qualità e l'organizzazione in distretti locali specializzati; ma nel periodo più recente si è rafforzata la tendenza a uscire dalla dimensione locale, coinvolgendo nelle fasi di produzione le aree estere in grado di offrire migliori competenze e minori costi. Di fatto, la geografia della Terza Italia, che aveva alla base cellule distrettuali più o meno vaste e articolate, sta conoscendo una profonda mutazione: distretti con coesione e produzioni più deboli entrano in crisi; altri infrangono il loro originario ancoraggio territoriale, proiettandosi con gli stabilimenti in una relativa continuità oltre i confini orientali (per es., dal Friuli-Venezia Giulia, dal Veneto, dall'Emilia-Romagna verso Slovenia, Croazia, Slovacchia, Ungheria e, soprattutto, Romania; dalla Puglia verso Albania e Monte-negro); altri distretti cercano, infine, un complemento più lontano attraverso partner o investimenti diretti in diversi Paesi asiatici.
Oltre alla rottura dello schema territoriale, il 21° sec. porta un cambiamento significativo nella struttura dimensionale dell'impresa manifatturiera italiana, imperniata da sempre sul dualismo tra pochi colossi e una moltitudine di piccoli operatori. Si va delineando, infatti, un marcato protagonismo delle medie imprese: sarebbero già più di 4000 quelle rilevate in un 'Nord allargato', e conterebbero un'occupazione - in crescita - di oltre 600.000 addetti; soprattutto, molte di loro vanterebbero una forte internazionalizzazione e livelli di export aumentati del 50% nel primo quinquennio del millennio, annunciando una vera rivoluzione nel panorama del capitalismo industriale italiano.
Il cammino del Paese verso un'economia di servizi si è ormai completato: al terziario si attribuisce il 70% del PIL contro il 65% dell'occupazione. La componente del commercio continua la sua evoluzione con il calo progressivo degli addetti negli esercizi al dettaglio e il deciso accrescersi del peso della grande distribuzione: il fenomeno non manca di notevoli ricadute sul paesaggio e sulla circolazione delle città e delle loro periferie. Il ramo più segnato da parabole innovative e da duri confronti d'interesse - data la sua centralità economica - è quello delle banche, nel quale si è aperta una stagione di fusioni, di accordi di respiro europeo e di tentativi di penetrazione del capitale straniero. Nel quadro generale di una politica di privatizzazioni, pure per la gestione delle infrastrutture (reti idriche ed energetiche, au-tostrade, ferrovie, aeroporti, telecomunicazioni) si sono delineati vivaci confronti tra interessi collettivi, attori pubblici e operatori privati italiani e stranieri. Particolare rilievo ha assunto il controllo delle banchine portuali, dopo che la lievitazione del traffico mercantile tra Europa e Asia orientale e sud-orientale ha rivalutato la posizione della penisola lungo le rotte mediterranee. Nel movimento complessivo (prossimo nel 2002 a 460 milioni di t), fermo restando il primato di Trieste e Genova, si è accresciuta la partecipazione degli approdi mercantili meridionali, a partire da Taranto (base operativa di una grande compagnia australiana) e da Napoli (prescelta dalla compagnia di bandiera cinese) per toccare quindi Gioia Tauro (che si pone come piattaforma privilegiata del movimento di container). Dell'introduzione delle 'autostrade del mare', destinate ad alleviare con traghetti specializzati il traffico di veicoli pesanti lungo la penisola, si sono giovati molto lo scalo di Salerno e quello di Napoli, mentre quest'ultimo ha rimontato le graduatorie anche per i transiti croceristici. Se le crociere hanno segnato le crescenti fortune di alcune grandi aziende armatoriali italiane, il resto del movimento turistico ha retto con una certa fatica alle psicosi del terrorismo internazionale e alla decisa concorrenza di nuove mete di vacanza meno costose e meglio organizzate. In particolare, il lieve calo degli arrivi totali (sugli 82 milioni di individui) si è accompagnato con una contrazione dei periodi medi di soggiorno; ma la quota di visitatori stranieri (sui 37 milioni) fa tuttora dell'I. la quinta destinazione turistica al mondo, generando un saldo attivo del comparto nell'ordine dei 10 miliardi di euro l'anno. Più o meno dello stesso importo era il valore positivo della bilancia dei flussi commerciali prima che nel 2004 si verificasse la prevalenza delle merci in entrata: nello stesso anno la quota del commercio internazionale detenuta dal Paese è scesa sotto il 4% per effetto di un indice di competitività che lo vede arretrare nelle classifiche mondiali addirittura al 45° posto. Se grava in particolare sulle importazioni la lievitazione della bolletta energetica, che fa da corollario alla pesante dipendenza dai rifornimenti esteri, sempre più si avvertono anche i contraccolpi delle offensive vincenti condotte dai nuovi produttori di beni di consumo, soprattutto nell'elettronica civile e in campi, come il tessile e l'abbigliamento, dove si sono attenuate le barriere frapposte al dilagare delle economie emergenti. Non va, peraltro, dimenticato che parte dei beni importati in alcuni rami costituiscono ormai semilavorati destinati a riprendere la via dell'estero con prestigiose etichette italiane. Del resto, proprio le produzioni del comparto moda restano (con il 10%) in cima alle nostre esportazioni dopo quelle della meccanica e dell'auto. Una buona metà dei nostri scambi avviene nei confini dell'Unione Europea, con crescente attenzione alla sua sezione orientale; nell'export seguono poi gli Statti Uniti; in entrata emergono i Paesi petroliferi e l'Asia Orientale. Forse il commercio estero è l'ambito in cui si legge meglio lo scompenso negli assetti produttivi e nelle aperture alla globalizzazione all'interno dell'I., visto che la propensione a esportare dal Centro-Nord è valutata al 25% rispetto al PIL dell'area, mentre quella del Sud e delle isole non supera ancora il 10% (che è anche la quota di loro pertinenza nelle esportazioni del Paese).
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Politica economica e finanziaria
di Salvatore Rossi
Dal 1999 l'I. è entrata a far parte dell'area dell'euro. La moneta e la politica monetaria comuni hanno messo l'economia italiana al riparo dalle crisi valutarie che l'avevano scossa nel quindicennio precedente.
Dalla metà degli anni Novanta l'economia mondiale stava nel frattempo mutando in maniera radicale: si affermava un nuovo paradigma produttivo basato sulle tecnologie dell'informazione e della comunicazione, e i grandi Paesi asiatici si rivelavano realtà produttive e concorrenziali a livello globale. Di fronte a queste trasformazioni il sistema produttivo italiano ha perso competitività, attardato da una struttura nella quale predominano la piccola dimensione d'impresa e una specializzazione in beni tradizionali che sono a basso contenuto tecnologico. Il ritmo di sviluppo è diminuito, collocandosi al di sotto di quello medio europeo, già più basso che nelle aree più dinamiche del mondo.
La struttura produttiva
Secondo i dati ricavati dal censimento generale dell'ISTAT, nel 2001 il sistema produttivo italiano contava circa 4 milioni di imprese industriali e di servizi, in cui erano occupate oltre 15 milioni di persone. Risultava elevato il numero di imprese di dimensioni molto piccole: il 95% aveva meno di dieci addetti, il 58% solo uno. La dimensione media era di 3,8 addetti, in diminuzione ri-spetto al censimento del 1991. Il 30% ca. delle imprese era localizzato nel Nord-Ovest, il 27% nel Mezzogiorno, il 22% nel Nord-Est e, infine, il 21 nel Centro. La frammentazione produttiva, in atto dagli anni Settanta, appariva fenomeno comune a tutte le ripartizioni geografiche. È proseguita negli anni Novanta del 20° sec. e nel primo decennio del nuovo secolo la perdita di peso relativo dell'agricoltura e dell'industria manifatturiera: secondo i conti nazionali dell'ISTAT la quota in termini di occupati è passata tra l'anno 1992 e l'anno 2005 dal 7% al 4% nell'agricoltura e dal 23% al 20% nell'industria manifatturiera. La contrazione nell'industria ha anche riflesso la progressiva esternalizzazione di molte attività di servizio, con un conseguente maggior sviluppo dell'occupazione nel settore terziario, pari nel 2005 al 65% del totale. Analoghe tendenze si riscontrano nella creazione del valore aggiunto: nel 2005 il 68% del valore aggiunto è stato prodotto nel settore dei servizi, il 30% nell'industria, il 2% in agricoltura. Nonostante la sempre crescente pressione competitiva dei Paesi emergenti, il numero di addetti alle imprese del cosiddetto made in Italy (lavorazioni tessili, abbigliamento e calzature, mobilio) è ancora alto, seppure in riduzione. Diminuisce l'occupazione nel settore del commercio, in parte per l'emergere di nuove forme organizzative basate su maggiori superfici di vendita. Grazie allo sviluppo del mercato immobiliare, nel settore delle costruzioni il numero di imprese attive e l'occupazione risultano in forte aumento.
Le principali variabili macroeconomiche
Tra il 1998 e il 2005 il prodotto interno lordo (PIL) italiano è cresciuto in termini reali a un tasso medio annuo dell'1,3%, circa un punto percentuale in meno rispetto al resto dell'area dell'euro. Inoltre, nel corso di tale periodo il ritmo di espansione è andato rallentando: appena superiore al 2% nella media del quadriennio 1998-2001, è stato quasi nullo nella media del quadriennio successivo (0,3%); nel 2003 e nel 2005 l'attività economica ha ristagnato. L'andamento del PIL ha risentito sia del progressivo indebolimento della domanda nazionale sia, soprattutto, del freno esercitato dagli scambi con l'estero.Tra le componenti interne della domanda, il contributo di maggiore rilievo alla crescita della produzione è provenuto dalla spesa per consumi delle famiglie: nell'intero periodo essa ha sostenuto il PIL per 0,8 punti percentuali in media ogni anno, ma l'apporto è divenuto nullo nel 2005. La bassa dinamica dei consumi complessivi ha riflesso quella della componente dei beni non durevoli e dei servizi, mentre gli acquisti di beni durevoli, fatta eccezione per il biennio 2001-02, hanno continuato a registrare incrementi elevati. L'accumulazione di capitale ha fornito un apporto medio al tasso di crescita del PIL di mezzo punto percentuale l'anno, decelerando notevolmente nel quadriennio 2002-2005 (0,2 punti, contro 0,8 nel quadriennio 1998-2001); gli acquisti da parte delle imprese di macchinari, attrezzature e mezzi di trasporto, che avevano registrato una crescita sostenuta fino al 2000, hanno rallentato negli anni successivi per poi contrarsi nel 2003 e nel 2005. La dinamica degli investimenti in costruzioni è stata invece positiva, riflettendo soprattutto l'andamento del comparto residenziale, pur con un rallentamento dal 2003.Tra il 1998 e il 2005 la differenza fra esportazioni e importazioni di beni e servizi ha sottratto in media mezzo punto percentuale all'espansione del PIL. Le vendite all'estero si sono contratte nel biennio 2002-03; dopo il parziale recupero del 2004, sono rimaste pressoché stazionarie nel 2005. La loro quota sulle esportazioni mondiali, valutata a prezzi costanti, si è progressivamente ridotta, scendendo nel 2005 al 2,7%, dal 4,6 del 1995. Mentre le esportazioni si riducevano, le importazioni hanno solo rallentato (dal 4,3% in media nel periodo 1998-2001 all'1% nel quadriennio successivo), risentendo della decelerazione della domanda interna, per cui il saldo commerciale e quello del conto corrente della bilancia dei pagamenti italiana sono peggiorati. Tra il 1999 e il 2005 il saldo corrente è passato da un attivo dello 0,7% del PIL a un passivo dell'1,5; quello commerciale da un attivo del 2,0% a un pareggio. Il peggioramento ha riflesso la progressiva perdita di competitività dei prodotti italiani e, al contempo, l'ingresso nel commercio internazionale di grandi Paesi caratterizzati da basso costo del lavoro e da una specializzazione settoriale in parte simile a quella italiana; vi ha concorso, dal lato delle importazioni, la progressiva e marcata crescita dei prezzi del petrolio e dei prodotti energetici, rispetto al minimo toccato nel 1998. A fronte dei disavanzi correnti verificatisi dal 2000 in poi, il conto finanziario della bilancia dei pagamenti ha registrato afflussi netti di capitali dall'estero che hanno contribuito a orientare verso il debito netto la nostra posizione patrimoniale sull'estero: questa, che alla fine del 1999 risultava essere attiva per il 4,5% del PIL, era ritornata passiva al termine del 2002; alla fine del 2004 il debito complessivo netto dell'I., con il resto del mondo risultava pari al 6,5% del PIL.
Nel corso degli anni Novanta la crescita annua dei prezzi al consumo in I. è scesa da livelli superiori al 6% a valori vicini a quelli degli altri Paesi dell'area dell'euro, collocandosi nel biennio 1998-99 intorno al 2%, in linea con i criteri di convergenza stabiliti dal trattato di Maastricht ai fini dell'adesione all'area dell'euro. L'inflazione ha subito modesti rialzi negli anni successivi, fino al 2,7%, soprattutto a causa dei forti rincari dei prodotti petroliferi dalla primavera del 1999, dei costi del lavoro per unità di prodotto in rialzo per le perdite di produttività del sistema, e dell'impatto temporaneo dell'introduzione delle monete e banconote in euro; l'impatto, sulla base di analisi empiriche, è rimasto moderato, riguardando principalmente certi servizi. Nel 2004-05 il ritmo di crescita dei prezzi al consumo è tornato su valori vicini al 2%.
Il mercato del lavoro e la produttività
Dopo la forte flessione dei primi anni Novanta, l'occupazione è cresciuta senza soluzione di continuità dal 1995 al 2003. La moderazione del costo del lavoro, prevalentemente riconducibile alla politica dei redditi avviata con gli accordi del 1993 tra governo e parti sociali, e la più flessibile rego-lamentazione dei rapporti di lavoro (l. 24 giugno 1997 nr. 197 e l. 14 febbr. 2003 nr. 30, note come pacchetto Treu e legge Biagi) sono i fattori sottostanti tale prolungata fase di espansione. Nel 2004-05 questa si è interrotta, anche a causa dell'andamento stagnante dell'economia: nel 2004 le unità di lavoro a tempo pieno di contabilità nazionale sono rimaste invariate e nel 2005 sono diminuite per la prima volta dal 1995 (-0,4 %). Nel complesso, il numero degli occupati misurato dalla contabilità nazionale è cresciuto tra il 1997 e il 2005 di 2,25 milioni (+10,2%); in termini di unità standard - che riconducono a unità di lavoro a tempo pieno le posizioni lavorative a tempo parziale, i lavoratori in cassa integrazione e le posizioni lavorative multiple - di 1,5 milioni (+6,8%). La crescita ha interessato in prevalenza le regioni del Nord e del Centro; è stata più modesta nel Mezzogiorno.
L'aumento dell'occupazione è stato favorito dall'espansione dell'offerta di lavoro, con un rilevante contributo del lavoro immigrato. L'I., da Paese di emigranti, si è rapidamente trasformata nel periodo 1991-2005 nel Paese in Europa con i più alti flussi di immigrazione dopo la Spagna. Le presenze regolari, cresciute soprattutto grazie ai ripetuti provvedimenti di sanatoria, sono salite da circa 650.000 nel 1992 a circa 2,5 milioni nel 2005. L'espansione dell'occupazione si è anche riflessa in una forte riduzione del tasso di disoccupazione, che si è progressivamente allineato alla media europea, passando dall'11,7% del 1997 al 7,7% del 2005. La riduzione ha interessato tutte le aree, anche se permangono rilevanti squilibri territoriali: nel 2005 tale tasso era pari al 14,3% nel Mezzogiorno, al 6,4 al Centro e ad appena il 4,2 nelle regioni del Nord. La produttività del lavoro, intesa come rapporto fra la produzione e il numero di unità standard di lavoro, è cresciuta nell'arco del decennio 1996-2005 solo del 4,8%, circa 8,5 e 4,7 punti in meno che in Germania e in Francia. Negli anni 2004-05 è addirittura diminuita, soprattutto nell'industria manifatturiera. Ne è stata causa prevalente il ritardo nell'adozione delle nuove tecnologie e nella connessa riorganizzazione d'impresa. Conseguentemente, nonostante un modesto progresso dei redditi da lavoro in termini reali (circa l'1,4% nel decennio prima citato), il costo del lavoro per unità di prodotto è aumentato molto più che nella media dei Paesi concorrenti, minando la com-petitività internazionale dei prodotti italiani.
La politica del bilancio pubblico
Lo sforzo di risanamento dei conti pubblici, che era stato avviato nella seconda parte degli anni Ottanta e intensificato negli anni Novanta, era culminato nel 1997 con la realizzazione delle condizioni necessarie alla partecipazione immedia-ta dell'I. all'Unione monetaria europea. L'aumento del carico fiscale e i numerosi interventi nel comparto della spesa avevano consentito di ridurre il disavanzo di bilancio delle amministrazioni pubbliche dall'11,8% del PIL del 1990 al 2,7 del 1997; escludendo le spese per interessi sull'ingente debito pubblico, il bilancio risultava in forte avanzo (avanzo primario), per il 6,7% del PIL. Nel 1998 sembrava quindi terminata la lunga fase di difficoltà dei conti pubblici; poteva iniziarne una nuova, in cui la politica di bilancio offrisse maggiori margini per perseguire obiettivi di stabilizzazione dell'economia e per creare condizioni favorevoli alla crescita e all'occupazione. Tuttavia, il risultato conseguito nel 1997 lasciava aperti alcuni problemi: l'aggiustamento dei conti pubblici non era stato ottenuto con misure tutte durature nel tempo, il livello della pressione fiscale aveva rag-giunto valori superiori alla media degli altri Paesi della UE, la composizione della spesa restava fortemente sbilanciata verso la spesa pensionistica.
Dal 1998, gli obiettivi della politica di bilancio hanno subito una graduale modifica. Pur restando prioritario l'obiettivo di raggiungere gradualmente il pareggio, la politica di bilancio è stata indirizzata soprattutto a ridurre la pressione fiscale e a rilanciare l'economia. Iniziava una fase caratterizzata dalla concessione di sgravi fiscali e dalla ripresa della crescita delle erogazioni per retribuzioni e sicurezza sociale. Durante il quadriennio 1998-2001 le risorse rese disponibili dall'ampia riduzione della spesa per interessi (2,9 punti percentuali del PIL), grazie al ribasso dei tassi dovuto all'Unione monetaria, sono state quasi interamente utilizzate per finanziare l'abbassamento della pressione fiscale (2,3 punti). Nel quadriennio 2002-2005 i conti pubblici hanno anche risentito negativamente della bassa crescita dell'economia. È stato fatto ampio ricorso a misure di natura temporanea per sostenere il gettito tributario e migliorare i saldi di bilancio. Dal 2001 il disavanzo è rimasto quasi sempre sopra la soglia del 3% del PIL, e ha superato il 4 nel 2005; l'avanzo primario si è quasi annullato.
La politica monetaria e finanziaria
Dall'inizio del 1999 la moneta in circolazione in I. è l'euro, e la politica monetaria che si applica all'economia italiana è quella comune valida per tutta l'area, messa a punto dal Sistema europeo di banche centrali, al cui vertice si colloca la Banca centrale europea. I tassi d'interesse a brevissimo termine sono identici in tutta l'area, quelli sulle attività finanziarie a più lungo termine differiscono per il diverso premio per il rischio associato all'emittente. Nel quinquennio 2001-2005 l'economia italiana ha potuto beneficiare di tassi d'interesse fra i più bassi della sua storia.
Il processo di modernizzazione del sistema bancario e finanziario del Paese, avviato alla fine degli anni Ottanta, è proseguito su vari fronti. Gli sforzi del legislatore e delle autorità di vigilanza sono stati orientati alla creazione di un sistema finanziario che fosse caratterizzato da una presenza minima dello Stato, in grado di competere a livello internazionale e di fornire una più ampia gamma di servizi alle famiglie e alle imprese. Anche per effetto della dismissione da parte del settore pubblico di gran parte delle sue partecipazioni in banche, nel periodo compreso tra il 1998 e il 2005 si sono formati per successive aggregazioni alcuni grandi gruppi bancari, caratterizzati da una rete distributiva attiva su tutto il territorio nazionale. Il numero di banche operanti in I. si è ridotto notevolmente, portando la concentrazione del mercato a livelli analoghi a quelli dei principali Paesi europei. È rimasto però importante il ruolo delle banche di minore dimensione, impegnate principalmente nel finanziamento delle piccole e medie imprese. Banche estere hanno acquisito partecipazioni rilevanti nel capitale di banche italiane. Contestualmente i gruppi bancari italiani di maggiori dimen-sioni hanno esteso la propria attività al di fuori dei confini nazionali, acquisendo il controllo di intermediari esteri operanti principalmente nei mercati dell'Europa dell'Est. L'approvazione del Testo unico in materia di intermediazione finanziaria (d. legisl. 24 febbr. 1998 nr. 58) ha definito un quadro regolamentare comparabile con quello dei Paesi più avanzati.
Le innovazioni legislative nonché le privatizzazioni sono state accompagnate da un forte sviluppo dei mercati mobiliari, sebbene il mancato completamento della riforma previdenziale non abbia ancora portato allo sviluppo dei fondi pensione, che in altre economie avanzate svolgono un ruolo centrale di investitori istituzionali e contribuiscono molto ad accrescere lo spessore dei mercati azionari e obbligazionari. La Borsa italiana, in particolare, resta più piccola di quelle degli altri Paesi con cui l'I. si confronta, sia per numero di imprese quotate sia per capitalizzazione. L'introduzione dell'euro e le accresciute necessità di finanziamento per fusioni e acquisizioni societarie hanno dato un forte impulso al mercato delle obbligazioni di imprese non finanziarie. Tale impulso si è recentemente attenuato, anche a causa dello scoppio di scandali finanziari che hanno coinvolto alcune grandi imprese operanti soprattutto nel settore alimentare. In seguito a questi eventi si è posta con forza la domanda di una maggiore tutela dei risparmiatori, a cui il legislatore ha inteso rispondere con la l. 28 dic. 2005 nr. 262.
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Storia
di Vittorio Vidotto
I primi anni del nuovo secolo rimanevano caratterizzati da una netta contrapposizione tra i due schieramenti politici di centrodestra e di centrosinistra. Questo sistematico conflitto, privo di possibilità di confronto e di incontro tra le parti, salvo alcune rare occasioni in politica estera, rimase la cifra politica di quegli anni: risultato forse inevitabile dopo l'avvio del bipolarismo nel 1994, ma non necessariamente positivo per la vita politica del Paese. Non si ottenne infatti quella semplificazione del sistema dei partiti (v. partiti politici) che era negli auspici dei sostenitori del bipolarismo, mentre si accentuò in modi esasperati la personalizzazione della politica: un fenomeno legato per gran parte alla figura e al ruolo di S. Berlusconi, ai consensi e ai dissensi convogliati sulla sua persona. L'insistito e reiterato annuncio di riforme epocali e decisive tenne il campo nella comunicazione politica, ma nessuno dei due schieramenti riuscì a dare avvio a un coerente, e tanto meno condiviso, processo riformatore anche per la ricorrente tensione interna alle due coalizioni. E l'alternanza al governo si tradusse, in molti casi, nella cancellazione di norme varate dalla precedente maggioranza. Mentre si confermavano alcuni mali storici del Paese, come la diffusa corruzione, l'inadeguatezza dei ceti dirigenti, la scarsa competitività, e si manteneva, e in qualche caso si accentuava, il forte divario tra Nord e Sud. In una situazione economica segnata da una tendenziale stagnazione fino all'avvio di una timida ripresa nel 2006.
Nelle elezioni regionali dell'aprile 2000 il centrodestra conquistò otto delle quindici regioni a statuto ordinario (Piemonte, Lombardia, Veneto, Liguria, Lazio, Abruzzo, Puglia, Calabria diventate nove nel nov. 2001 dopo l'annullamento e la ripetizione delle elezioni in Molise). Il presidente del Consiglio M. D'Alema trasse le conclusioni dalla sconfitta e si dimise lasciando il posto a un altro governo di centro-sinistra, guidato da G. Amato e caratterizzato dalla presenza di tecnici di prestigio come T. De Mauro al Ministero dell'Istruzione e U. Veronesi a quello della Sanità. L'intero anno 2000 rimase contrassegnato da un'atmosfera di campagna elettorale permanente, punteggiata da aspre tensioni. La conflittualità politica era appena temperata dalle iniziative del presidente della Repubblica C.A. Ciampi, volte a restituire rilievo alle comuni tradizioni patriottiche con una serie di interventi pubblici e con il rilancio delle festività nazionali repubblicane. Ma già nei primi mesi del 2000 si era realizzato il riavvicinamento fra Berlusconi e il leader della Lega U. Bossi che aveva consentito la nascita di una nuova più ampia alleanza di centrodestra denominata Casa delle libertà (CdL). A questo punto nessuna scadenza politica poteva trovare soluzione in un rapporto costruttivo fra i due schieramenti. Così la principale realizzazione del centrosinistra nell'ultima fase della legislatura, la legge di revisione costituzionale (approvata nel marzo 2001 e confermata da un referendum nell'ottobre successivo) che modificava in senso federalista l'ordinamento italiano ampliando le competenze delle regioni (in materia di sanità, istruzione, lavoro, industria, lavori pubblici, agricoltura, turismo) ed estendendo l'au-tonomia di comuni, aree metropolitane e province, incontrò la dura opposizione della Lega e del centrodestra nuovamente alleati. Una riforma destinata a rimanere in vigore dal momento che quella più ampia, e più contestata, varata dal centrodestra nel novembre 2005 non venne confermata dal successivo referendum.
La campagna per le elezioni politiche della primavera del 2001 era avviata di fatto dall'estate dell'anno precedente. L'opposizione reclamava da tempo un ritorno alle urne, mentre il centrosinistra avvertiva l'urgenza di individuare un candidato da contrapporre a Berlusconi, la cui leadership nella coalizione di centrodestra era stata ampiamente riconfermata dai risultati positivi delle elezioni europee e regionali. Già nell'agosto fu avanzata la candidatura (perfezionata poi a ottobre con la rinuncia di Amato) di F. Rutelli, sindaco di Roma, ex radicale e in seguito esponente dei Verdi, non compromesso dai meccanismi della prima Repubblica e reso popolare dalla buona gestione del giubileo del 2000. Con grande dispiego di risorse Berlusconi impostò la propaganda nei termini di una marcata personalizzazione tale da offuscare il contributo degli alleati e da presentare la consultazione elettorale come un plebiscito sulla sua persona. Rutelli non riuscì a occupare la scena, mentre Berlusconi, diversamente da quanto avvenuto nel 1994 e nel 1996, si sottrasse al confronto diretto in televisione. Oltre a Forza Italia, della CdL facevano parte Alleanza nazionale (AN), il Biancofiore - che riuniva Centro cristiano democratico (CCD) e Cristiani democratici uniti (CDU) - e la Lega Nord.
Per il centrosinistra, la coalizione dell'Ulivo comprendeva i Democratici di sinistra (DS), La Margherita - una formazione nata nell'ott. 2000 e composta da Rutelli, I Democratici, il Partito popolare italiano (PPI), l'Unione democratici per l'Europa (UDEUR) e Rinnovamento italiano -, Il Girasole (Verdi e Socialisti italiani) e il Partito dei comunisti italiani (PdCI). L'Italia dei valori (IdV), guidata dall'ex magistrato A. Di Pietro uscito dai Democratici, si presentava auto-nomamente come il Partito della rifondazione comunista (PRC), che aveva tuttavia stabilito accordi con l'Ulivo per l'uninominale della Camera. I risultati delle elezioni del 13 maggio videro la netta vittoria della CdL che alla Camera ottenne 118 seggi più dell'Ulivo sul totale di 630 e al Senato 46 su 315. La vittoria della CdL venne favorita dal meccanismo del maggioritario malgrado la differenza dei voti complessivi riportati nell'uninominale della Camera fosse modesta. Nella quota proporzionale della Camera, che consente di misurare il divario fra le due coalizioni, le differenze percentuali furono molto forti (Ulivo 35,5%, CdL 48,5%). La soglia di sbarramento del 4% nel proporzionale fu superata solo da Forza Italia, dai DS, dalla Margherita, da AN e dal PRC; la Lega, nonostante il drastico ridimensionamento (passava infatti dal 10,1% al 3,9%), riusciva tuttavia a conquistare 30 seggi nell'uninominale. L'IdV otteneva una percentuale di voti analoga. Persero voti i DS, AN e il PRC, mentre Forza Italia diventava nuo-vamente il primo partito con una percentuale di consensi del 29,4%. Un buon successo (14,5%) registrò la nuova formazione della Margherita, trainata dalla candidatura Rutelli. La nuova vittoria di Ber-lusconi si fondava sulla sua capacità di convogliare il voto moderato diffuso presso tutti gli strati sociali, ma presente soprattutto nelle fasce di età giovanili e anziane, e di raccogliere l'insofferenza per la politica tradizionale i cui difetti erano interamente attribuiti al malgoverno delle sinistre. Colpiva la distribuzione geografica del successo, con un più marcato contributo dell'Italia meridionale e insulare, e della Sicilia in particolare dove la CdL si assicurava tutti i collegi uninominali. Tuttavia nelle contemporanee elezioni amministrative l'Ulivo riuscì in parte a bilanciare la sconfitta con la riconquista di grandi comuni quali Torino, Napoli e Roma dove venne eletto sindaco l'ex segretario dei DS, W. Veltroni. Le tornate elettorali del 1996 e del 2001 avevano sancito un profondo mutamento nella costituzione materiale del Paese: le elezioni politiche individuavano infatti un premier, il cui nome figurava ora nel simbolo della coalizione, risultando così dotato di un mandato popolare e in seguito solo formalmente incaricato dal presidente della Repubblica di costituire il nuovo esecutivo. Il governo Berlusconi si insediò a giugno, con G. Fini vicepresidente del Consiglio e Bossi ministro per le Riforme istituzionali. Sostenuto da una larga maggioranza, il governo accentuò la propria iniziativa legislativa provvedendo a far approvare una serie di leggi delega: si trattava di una scelta politica e operativa, non nuova, volta ad accorciare i tempi parlamentari e a rafforzare il ruolo dell'esecutivo, ma che non si sottraeva alle lunghe procedure per la messa a punto dei decreti attuativi. Così, per es., la delega per la riforma del diritto societario dell'ottobre 2001, che comprendeva le discusse norme sull'attenuazione delle pene per il falso in bilancio, destinate secondo l'opposizione ad alleggerire, fra l'altro, le pendenze giudiziarie del presidente del Consiglio, aveva trovato attuazione nell'aprile 2002. Nel settore dell'istruzione fu cancellato il riordino dei cicli scolastici adottato dal precedente governo di centrosinistra e nel marzo 2003 venne approvata una legge delega, contestata da larga parte del mondo della scuola, contenente norme generali sull'istruzione e la formazione professionale (la riforma Moratti), mentre i decreti attuativi furono completati nell'ottobre 2005. In altri campi, invece, il governo e la maggioranza procedettero con maggiore rapidità approvando, nell'arco di un anno, diversi importanti provvedimenti. Fra i più significativi si ricordano le disposizioni relative all'abolizione della tassa sulle donazioni e sulle successioni (ott. 2001), quelle che introducevano la procedura della cartolarizzazione per la vendita degli immobili in mano pubblica, quelle per il rientro o per la regolarizzazione, fiscalmente protetti e anonimi, dei capitali illecitamente tenuti all'estero, quelle per rendere politicamente più controllato il rapporto fra il governo e l'am-ministrazione con la revoca automatica, salvo rinnovo, degli incarichi dirigenziali pubblici (il cosiddetto spoil system). A esse si aggiungeva, infine, l'aumento delle pensioni minime fino alla concorrenza di 516 euro. Su due altri provvedimenti il contrasto fra maggioranza e opposizione fu particolarmente acceso: si trattava di materie controverse ma cruciali per la maggioranza perché, nel primo caso, riguardavano i sistemi di raccolta delle prove a opera di organismi giudiziari non italiani investendo, di riflesso, alcuni procedimenti giudiziari in cui erano coinvolti esponenti di Forza Italia e perché, nel secondo caso, toccavano alcuni punti programmatici irrinunciabili per la Lega e per AN. Furono così riformate in senso retroattivo le norme sulle rogatorie internazionali (ott. 2001), nonostante il parere contrario di ampi settori della magistratura, e fu varata (luglio 2002) una nuova legge sull'immigrazione (legge Bossi-Fini) che restringeva le possibilità di ingresso, vincolava rigidamente la permanenza dell'immigrato al possesso di un contratto di lavoro e rendeva più rigorosi i criteri di espulsione. Veniva introdotta una sanatoria per le collaboratrici domestiche e per le figure dei 'badanti', gli addetti ai malati e agli anziani. Questa normativa, destinata nelle intenzioni a ridurre il diffuso allarme legato ai frequenti episodi di criminalità attribuibili agli immigrati, prevedeva inoltre la rilevazione delle impronte digitali al momento della concessione o del rinnovo del permesso di soggiorno, ridotto a due anni. La proposta Bossi-Fini aveva suscitato, fin dal suo apparire, perplessità e proteste non solo nelle formazioni politiche della sinistra, ma anche nel mondo dell'associazionismo cattolico, tradizionalmente aperto all'accoglienza, e in vasti settori delle imprese che facevano largo impiego di manodopera extracomunitaria. Le realizzazioni del governo confermavano il contenuto innovatore e di rottura delle proposte del centrodestra, anche se su singoli temi la maggioranza registrava tensioni e dissensi al suo interno.
Gli esordi del governo non erano stati brillanti. Il vertice del G8 tenuto a Genova il 20-22 luglio 2001, pur preparato con grande cura e dovizia di mezzi, si risolse in un danno di immagine per il Paese: ai gravi incidenti e alle distruzioni provocati dalle frange violente dei dimostranti antiglobalizzazione (i no global), largamente prevedibili ma che le forze dell'ordine non erano riuscite a controllare e arginare, si erano aggiunte la morte di un giovane manifestante ucciso da un colpo di pistola sparato da un carabiniere e successive ingiustificate violenze compiute dalla polizia. Nei mesi che seguirono, Berlusconi e il ministro degli Esteri R. Ruggiero, già direttore della WTO (World Trade Organization) e molto apprezzato nel mondo internazionale, riuscirono a rafforzare il ruolo dell'Italia schierando decisamente il Paese a fianco degli Stati Uniti, colpiti dai gravissimi attentati dell'11 settembre. Un episodio vissuto in I. con grande partecipazione e spirito di solidarietà. Il governo decise di partecipare, anche con l'invio di un contingente militare, alla guerra contro il regime dei Ṭālibān in Afghānistān ottenendo l'appoggio del centrosinistra. Tra la fine del 2001 e gli inizi del nuovo anno emersero nella maggioranza dissapori, diversità di vedute e spunti di scetticismo sulla politica europeista proprio nell'importante fase di avvio dell'introduzione della moneta unica. Ai primi di gennaio Ruggiero rassegnò le dimissioni mentre il presidente del Consiglio assumeva l'interim degli Esteri. Berlusconi puntò a rafforzare i legami, politici e personali, con il premier britannico T. Blair e lo spagnolo J.M. Aznar e avviò un rapporto privilegiato con il presidente russo V. Putin. Questa politica, che mirava a un nuovo protagonismo dell'Italia, culminò nel vertice NATO di Pratica di Mare del 28 maggio 2002 in cui la Russia venne associata nel NATO-Russia Council, un organismo di consultazione e cooperazione dell'Alleanza atlantica. In quella stessa primavera erano venuti in primo piano i problemi della riforma del diritto del lavoro al fine di ridurre la disoccupazione e allentare i vincoli alle imprese. Per la maggioranza il passaggio decisivo era quello della modifica dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori che impediva alle imprese con più di quindici addetti il licenziamento dei dipendenti senza giusta causa. Su questo tema i sindacati avevano promosso un sciopero generale (16 aprile) che aveva raccolto larghissimi consensi, mentre la CGIL aveva mostrato la sua capacità di mobilitazione in una grandiosa manifestazione tenuta a Roma il 23 marzo. Di lì a poco si sarebbe prodotta una profonda spaccatura nel fronte sindacale. Se la CGIL considerava la rinuncia del governo alla revisione dell'art. 18 (non più modificato in seguito) la condizione irrinunciabile per accettare la discussione sui problemi del lavoro, CISL, UIL e altre formazioni sindacali erano invece disposte ad avviare comunque le trattative. Erano in gioco due concezioni profondamente diverse della funzione del sindacato, legate anche al ruolo che la CGIL e il suo segretario S. Cofferati avevano assunto come punto di riferimento per tanta parte dei militanti di sinistra. Si giunse così, ai primi di luglio, a sottoscrivere senza la CGIL un impegno fra governo e parti sociali, il cosiddetto patto per l'Italia, che prevedeva riduzioni fiscali per i redditi più bassi, investimenti per l'occupazione nel Mezzogiorno e un'estensione degli ammortizzatori sociali. Le tensioni sulle questioni del lavoro e dell'occupazione si erano intrecciate in quei mesi con le preoccupazioni derivanti dall'uccisione, il 19 marzo a Bologna a opera delle nuove Brigate rosse, del giurista M. Biagi, consulente del ministro del Welfare e impegnato nella definizione degli aspetti tecnici derivanti dalle modifiche alle normative sul lavoro. Il ritorno del terrorismo, per quanto potesse apparire circoscritto, non era meno allarmante dal momento che erano passati quasi tre anni senza che fossero stati individuati i responsabili dell'uccisione (avvenuta a Roma il 20 maggio 1999 e rivendicata dalle BR) di M. D'Antona, giurista e consulente del governo di centrosinistra per i problemi del lavoro. Ai primi di luglio la questione delle mancate scorte per la protezione di Biagi, nonostante le sue pressanti richieste, e alcune inopportune affermazioni sul giurista sfuggite al ministro degli Interni C. Scajola (già discusso per i fatti di Genova) imposero le sue dimissioni e la sua sostituzione con G. Pisanu. Nonostante i casi Ruggiero e Scajola e quelli meno rilevanti dei sottosegretari C. Taormina degli Interni e di V. Sgarbi dei Beni culturali, entrambi protagonisti di atteggiamenti politicamente inopportuni e allontanati dai loro incarichi, il governo era riuscito a mantenersi sostanzialmente unito grazie alla funzione egemone di Berlusconi, ma anche per l'intervento riequi-libratore delle piccole formazioni di centro, CCD e CDU (unificate dal dic. 2002 nell'Unione dei democratici cristiani e di centro, UDC). L'opposizione, che pure poteva vantare, in virtù della ritrovata unità di tutte le sue componenti, un significativo successo nelle amministrative parziali di primavera (con la conquista di città come Verona, Piacenza, Gorizia), era attraversata da permanenti divisioni e scontava i problemi derivanti da una leadership debole, mentre una parte della sinistra era attratta dalla tentazione di una radicalizzazione dello scontro politico sull'onda del consenso popolare alla linea della CGIL. Si trattava di scelte destinate a mettere in difficoltà soprattutto i DS (guidati da P. Fassino) la cui scelta riformista era di fatto messa in discussione da una parte dell'elettorato di sinistra pronto a mobilitarsi in nuove forme (come i 'girotondi') a difesa della magistratura, puntando sulla contestazione della maggioranza e del suo leader. Berlusconi a sua volta, ancora indagato in alcuni procedimenti, continuava nelle dichiarazioni volte a delegittimare la magistratura, definendolo organismo corporativo, politicizzato, non elettivo. La riforma dell'ordine giudiziario (approvata nel luglio 2005 dopo che Ciampi aveva rinviato alle Camere una precedente versione della legge delega) e la correlata separazione della carriera della magistratura requirente da quella giudicante (separazione osteggiata dalle associazioni dei magistrati e poi sospesa nell'ott. 2006 dalla nuova maggioranza), continuarono a dividere l'opinione pubblica e le forze politiche per tutta la legislatura. Sul fronte giudiziario, con due sentenze della Cassazione, del nov. 2003 e dell'ott. 2004, giunsero a termine con l'assoluzione definitiva i processi che avevano coinvolto l'ex presidente del Consiglio G. Andreotti.
L'ormai annosa questione del conflitto di interessi rimase aperta nonostante l'approvazione di una legge regolatrice nel luglio 2004. Si rimproverava al centrosinistra di non essere riuscito a legiferare quando era maggioranza in Parlamento forse nell'illusione di tenere in scacco Berlusconi, ma il problema era obiettivamente di difficile soluzione trattandosi di intervenire dopo l'ingresso in politica dell'imprenditore milanese in modi che non fossero lesivi dei suoi diritti politici e proprietari. La legge (proposta nel sett. 2001 dal ministro F. Frattini) che stabiliva l'incompatibilità con la gestione, ma non con la mera proprietà, respingendo le ipotesi di vendita o di gestione fiduciaria delle imprese e affidando il possibile emergere del conflitto di interessi a un'apposita autorità, continuò a dividere l'opinione pubblica. E quanto il tema fosse rilevante per la democrazia italiana, soprattutto in relazione al controllo politico esercitato anche sulla televisione pubblica da parte del proprietario delle maggiori reti televisive private, veniva confermato dagli interventi del presidente Ciampi in difesa del pluralismo nell'informazione.
Un altro campo nel quale il governo di centrodestra accentuò le differenze con il quinquennio precedente fu la politica estera, ispirata in primo luogo da Berlusconi. Questi compì subito la scelta forte di allinearsi con le posizioni statunitensi e la politica del presidente G.W. Bush e di Blair, scontando inevitabilmente tensioni e attriti con altri membri dell'Unione Europea (come Francia e Germania) più critici nei confronti delle iniziative anglo-americane. Iniziative culminate nella guerra all'Irāq (marzo 2003): una decisione sostenuta dal governo italiano non con la partecipazione alle operazioni belliche, ma con l'invio di un contingente militare, stanziatosi a Nassiriyah, con funzioni di controllo e ristabilimento dell'ordine in quella provincia (giugno 2003-dic. 2006).
Al di là della profonda e diffusa commozione seguita all'attentato che a Nassiryiah, il 12 nov. 2003, fece 19 vittime (cinque soldati, dodici carabinieri e due civili), il Paese rimase diviso sull'opportunità della partecipazione italiana all'occupazione militare in ̔Irāq, soprattutto con l'affermarsi della convinzione che le giustificazioni dell'intervento anglo-americano - il possesso di armi di distruzione di massa - fossero infondate e che i fattori di crisi in Medio Oriente si fossero accentuati anziché ridursi. Altre divisioni si manifestarono nell'opinione pubblica e nel Paese sul tema della procreazione medicalmente assistita: divisioni trasversali, che non rispecchiavano esattamente gli schieramenti politici, fra chi sosteneva una liberalizzazione più ampia e chi invece riteneva necessario porre limiti stretti a una pratica ormai diffusa, richiamandosi anche al magistero della Chiesa cattolica. Approvata nel febbraio 2004, la legge sembrò scontentare molti, non solo a sinistra, ma il referendum promosso successivamente da radicali e diessini per abrogarne alcune parti (in particolare quelle relative al divieto della fecondazione eterologa e della ricerca scientifica sulle cellule staminali embrionali) non ottenne il quorum necessario (il 12-13 giugno 2005 i votanti furono poco più del 25%). La Conferenza episcopale italiana e molti movimenti cattolici invitarono all'astensionismo, mentre le forze politiche erano divise con PRC, PdCI, IdV e Verdi, oltre a DS e radicali, favorevoli al-l'abrogazione, Lega Nord, UDC e UDEUR astensioniste mentre AN, Forza Italia e La Margherita lasciavano liberi i loro elettori. Si trattò di un risultato previsto che testimoniava anche la difficoltà di chiamare i cittadini a dirimere con un 'sì' o con un 'no' complessi temi di natura etica e personali scelte di vita. Dal punto di vista politico veniva confermato il declino dello strumento del referendum abrogativo che dal 1995, in cinque diverse consultazioni, non aveva mai raggiunto la maggioranza degli aventi diritto al voto. Tuttavia, quando sarebbero venute in gioco questioni più evidentemente politiche, come nel caso della riforma istituzionale approvata dal centrodestra nel nov. 2005, il successivo referendum confermativo - una forma di consultazione che prescinde dal raggiungimento del quorum - vide invece (il 25-26 giugno 2006) una partecipazione al voto del 53,7%. In quell'occasione il 61,3% dei votanti si espresse contro una riforma che modificava profondamente la Costituzione del 1948 introducendo un Senato federale, riducendo i poteri del presidente della Repubblica e rafforzando quelli del presidente del Consiglio (conferendogli la facoltà di sciogliere le Camere), allargando fortemente le competenze delle Regioni (nel campo della sanità, dell'istruzione e della polizia am-ministrativa, per es.) ben oltre quanto stabilito nel 2001. Voluta fermamente dalla CdL, e soprattutto dalla Lega e da Forza Italia, e approvata dal Parlamento contro un'opposizione impotente a osta-colarla, la riforma fu osteggiata da molti costituzionalisti e non trovò sufficienti consensi nel Paese (salvo in Lombardia e nel Veneto). Su temi di minore rilevanza, alcune nuove leggi relative alle competenze dei tribunali e alla riduzione dei tempi di prescrizione dei reati continuavano a suscitare perplessità in larga parte dell'opinione pubblica. Si trattava di norme che sembravano volte a ottenere il risultato immediato di ridurre i rischi di punibilità del presidente del Consiglio e di altre personalità a lui collegate, ed erano inserite nel ricorrente aspro contenzioso tra Berlusconi e gli organismi rappresentativi della magistratura.
Nel corso del 2004 si cominciarono ad avvertire segnali di una crisi di consenso del centrodestra. Nelle elezioni europee di giugno i partiti di centrosinistra superarono, seppure di poco, il risultato della CdL, mentre più significativo fu il successo conseguito nelle contemporanee consultazioni amministrative. Nelle elezioni regionali dell'anno successivo il centrosinistra avrebbe conquistato 12 delle 14 amministrazioni in palio (il Molise rimase al centrodestra nel 2006) lasciando alla CdL solo Lombardia e Veneto: queste due regioni rappresentavano del resto l'asse portante dell'alleanza tra Lega e Forza Italia. Ma il modo in cui venivano tutelati gli interessi e i valori espressi in quell'area di imprenditorialità diffusa da parte, in primo luogo, del ministro dell'Economia G. Tremonti scontentavano gli alleati di AN e dell'UDC che avevano il loro maggiore insediamento nel Centro-Sud. Tremonti si dimise nel luglio 2004 e venne sostituito da D. Siniscalco, ma le tensioni interne alla maggioranza non si attenuarono. Il tema costante e neppure troppo sotterraneo era la leadership del centrodestra, con il segretario dell'UDC M. Follini che contestava l'egemonia assoluta di Berlusconi nella CdL. Alla fine del 2004 gli esponenti più irrequieti, Fini e Follini, ottennero rispettivamente il ministero degli Esteri e la vicepresidenza del Consiglio. Dopo le regionali del 2005 la partita si riaprì e Berlusconi fu costretto a dimettersi e formare un nuovo governo. Fini mantenne le sue cariche, mentre Tremonti divenne prima vice-presidente del Consiglio poi riottenne il Ministero dell'Economia. Follini rimase invece fuori dal governo e l'UDC fu tra i maggiori sostenitori di una nuova legge elettorale a base proporzionale volta a dare maggior peso e visibilità alle singole formazioni politiche. La legge, approvata nel dic. 2005, univa il ritorno al proporzionale con un premio di maggioranza attribuito alla coalizione vincente, calcolato a livello nazionale per la Camera e su base regionale per il Senato. L'appartenenza alla coalizione neutralizzava lo sbarramento posto alle liste non collegate (il 4% alla Camera, l'8% al Senato) facilitando così la proliferazione delle piccole formazioni.
In previsione delle elezioni del 2006, come antagonista di Berlusconi si era venuta definendo una nuova candidatura di R. Prodi alla guida di una larga coalizione di centrosinistra (L'Unione). Il disegno di Prodi puntava alla graduale costituzione di una forza, più stabile di un aggregato elettorale, che unisse le diverse componenti riformiste (La Margherita e DS): il nuovo 'partito democratico'. Il progetto su-scitò e continuò a suscitare riserve più o meno esplicite da parte di quanti, nella Margherita, temevano un'egemonia dei DS e quanti, tra gli ex comunisti, paventavano una troppo accentuata perdita di identità (v. partiti politici). Dubbi suscitava anche la forma partito dopo il venir meno delle sue tradizionali forme di insediamento. Ebbe successo invece, al di là delle aspettative, la formula delle primarie, una con-sultazione per confermare la candidatura di Prodi come leader dell'Unione, che registrò la partecipazione di oltre 4 milioni di cittadini. Dal canto suo Berlusconi si era mostrato in grado di neutralizzare le tensioni interne alla sua alleanza emergendo, ancora una volta, come l'incontrastabile leader carismatico del centrodestra.
Nella seconda metà del 2005, mentre giungevano a conclusione, in un clima di tensione, le riforme istituzionali, dell'università, della legge elettorale, l'opinione pubblica fu scossa per mesi dalle rivelazioni e dalle polemiche su scalate e fusioni bancarie che mettevano in luce gli intrecci, al limite della correttezza, tra politica e finanza, nonché un atteggiamento non neutrale del governatore della Banca d'Italia A. Fazio, il cui impegno a difendere l'italianità di alcuni istituti bancari sembrava nascondere discutibili scelte di parte. Fazio, nonostante pressanti sollecitazioni, si dimise solo a dicembre e immediatamente dopo furono varate norme che stabilivano il mandato a termine per il governatore e sottraevano alla Banca d'Italia, attribuendole all'autorità antitrust, le competenze in materia di concentrazioni bancarie.
Agli inizi del nuovo anno la scena politica cominciò a essere dominata dall'avvicinarsi delle elezioni del 9-10 aprile. Berlusconi era già da mesi in campagna elettorale accentuando la sua presenza sugli schermi televisivi prima dell'avvio delle norme restrittive previste dalla par condicio. I sondaggi davano in vantaggio il centrosinistra, ma Berlusconi non si diede per vinto annunciando senza tregua una ripresa del consenso e riproponendo con grande energia tutti i temi propa-gandistici (l'anticomunismo, il timore di nuove tasse) che altre volte gli avevano assicurato la vittoria. I risultati elettorali diedero la vittoria al centrosinistra per meno di 25.000 voti alla Camera, mentre al Senato lo scarto favorevole di due seggi fu dovuto all'apporto del voto degli italiani all'estero (v. tab. 9). Forza Italia rimaneva il primo partito (con il 23,7%) seguito dai DS (17,5% al Senato) che, insieme alla Margherita, ottenevano il 31,3% alla Camera con la lista dell'Ulivo. Più netto fu il successo del centrosinistra nelle successive elezioni amministrative (28-29 maggio) che confermarono le difficoltà del centrodestra di trovare consensi per il ceto politico locale.
Il 29 aprile furono eletti F. Bertinotti (PRC) e F. Marini (La Margherita) rispettivamente alla presidenza di Camera e Senato. Il 17 maggio, dopo l'elezione del nuovo presidente della Repubblica, il diessino G. Napolitano, Prodi formò il nuovo governo. Al Ministero dell'Interno andò Amato, all'Economia T. Padoa-Schioppa, alla Giustizia C. Mastella, ai Beni culturali Rutelli, agli Esteri D'Alema, che nell'estate promosse una forte partecipazione italiana al contingente di pace promosso dall'ONU in Libano.
Nell'esecutivo, molto numeroso, erano presenti, appena temperate dal programma condiviso dell'Unione, marcate divergenze su molte questioni. Questo apparve uno dei nodi cruciali dell'attività parla-mentare, con un governo che solo alla Camera disponeva di una larga maggioranza. Così apparve faticoso il percorso della legge finanziaria (lo strumento per regolare gli innumerevoli impegni dell'ammini-strazione) che, per rientrare nei parametri europei riducendo il deficit di bilancio e garantendo agevolazioni alle imprese e interventi sociali, ricorreva tra l'altro all'aumento del prelievo fiscale sui redditi medi e alti. Sulle nuove tasse puntò l'opposizione mobilitando il popolo del centrodestra in una grandiosa manifestazione di protesta (2 dic.) a Roma. In realtà il governo Berlusconi non aveva contenuto il deficit con interventi strutturali, ma soprattutto non era riuscito a liberalizzare l'economia, a ridurre la spesa pubblica, a rilanciare la competitività come era nei presupposti delle sue opzioni liberiste. Il governo Prodi aveva l'arduo compito di rimodellare il welfare affrontando il nodo del sistema pensionistico, dare certezze al lavoro precario e rilanciare l'economia. Emergevano tutte le difficoltà derivanti dal tentativo di riconciliare nell'azione di governo le diverse culture politiche che vi erano rappresentate. Difficoltà aveva anche il centrodestra, prigioniero della vocazione populista del suo leader e privo di un'immediata capacità di rinnovare il suo messaggio. Più in generale nessuna forza politica sembrava in grado di offrire certezze a un Paese stanco della lunga transizione seguita al crollo del sistema dei partiti, mentre si affacciava la necessità di ridefinire gli ambiti d'azione della politica e dello Stato di fronte all'iniziativa culturale e ideologica della Chiesa e di parte dell'opinione pubblica che denunciavano l'insufficienza della risposta laica ai temi posti dalla bioetica e dalle diffuse forme di convivenza etero e omosessuale. Rimaneva ancora incerta la capacità del Paese di disciplinare l'esplosione dei particolarismi e degli interessi contrapposti e di misurarsi con i problemi del confronto di civiltà senza cedere all'intolleranza e ai pregiudizi, difendendo non solo i meccanismi, ma anche i valori della democrazia.
Elenco dei ministeri dal 22 dicembre 1999
1. - (22 dic. 1999 - 25 apr. 2000): Presidente, M. D'Alema. Senza portafoglio: A. Maccanico (Riforme istituzionali), L. Balbo (Pari opportunità), F. Bassanini (Funzione pubblica), K. Bellillo (Affari regionali), L. Turco (Solidarietà sociale), A. Loiero (Rapporti con il Parlamento), P. Toia (Politiche comunitarie). Esteri, L. Dini. Interno (e incarico per Coordinamento della protezione civile), E. Bianco. Giustizia, O. Diliberto. Tesoro, Bilancio e Programmazione economica, G. Amato. Finanze, V. Visco. Difesa, S. Mattarella. Pubblica istruzione, L. Berlinguer. Lavori pubblici, W. Bordon. Politiche agricole e forestali, P. De Castro. Trasporti e Navigazione, P.L. Bersani. Comunicazioni, S. Cardinale. Industria, Commercio e Artigianato, E. Letta. Lavoro e Previdenza sociale, C. Salvi. Commercio con l'estero, P. Fassino. Sanità, R. Bindi. Beni e attività culturali (e incarico per Spettacolo e sport), G. Melandri. Ambiente, E. Ronchi. Università e Ricerca scientifica e tecnologica, O. Zecchino.
2. - (25 apr. 2000 - 11 giugno 2001): Presidente, G. Amato. Senza portafoglio: A. Maccanico (Riforme istituzionali), K. Bellillo (Pari opportunità), F. Bassanini (Funzione pubblica), A. Loiero (Affari regionali), L. Turco (Solidarietà sociale), P. Toia (Rapporti con il Parlamento), G.F. Mattioli (Politiche comunitarie). Esteri, L. Dini (dimissionario il 6 giugno 2001), G. Amato ad interim. Interno (e incarico per Coordinamento della protezione civile), E. Bianco. Giustizia, P. Fassino. Tesoro, Bilancio e Programmazione economica (con delega per Interventi straordinari nel Mezzogiorno), V. Visco. Finanze, O. Del Turco. Difesa, S. Mattarella. Pubblica istruzione, T. De Mauro. Lavori pubblici, N. Nesi. Politiche agricole e forestali, A. Pecoraro Scanio. Trasporti e Navigazione, P.L. Bersani. Comunicazioni, S. Cardinale. Industria, Commercio e Artigianato e Commercio con l'estero, E. Letta. Lavoro e Previdenza sociale, C. Salvi (dimissionario il 6 giugno 2001), L. Turco ad interim. Sanità, U. Veronesi. Beni e attività culturali, G. Melandri. Ambiente, W. Bordon (dimissionario il 6 giugno 2001), G.F. Mattioli ad interim. Università e Ricerca scientifica e tecnologica, O. Zecchino (dimissionario il 2 febbraio 2001), G. Amato ad interim.
3. - (11 giugno 2001 - 23 apr. 2005): Presidente, S. Berlusconi. Vicepresidenti, G. Fini, M. Follini (dal 3 dic. 2004 al 18 apr. 2005). Senza portafoglio: E. La Loggia (Affari regionali); G. Pisanu (Attuazione del programma di governo), dimissionario il 3 luglio 2002, C. Scajola, dal 28 ag. 2003; F. Frattini (Funzione pubblica), dimissionario il 14 nov. 2002, L. Mazzella, dimissionario il 2 dic. 2004, M. Baccini; L. Stanca (Innovazione e Tecnologie); M. Tremaglia (Italiani nel mondo); S. Prestigiacomo (Pari opportunità); R. Buttiglione (Politiche comunitarie); U. Bossi (Riforme istituzionali e Devoluzione), dimissionario il 19 luglio 2004, R. Calderoli; C. Giovanardi (Rapporti con il Parlamento). Esteri, R. Ruggiero (dimissionario il 6 genn. 2002), S. Berlusconi ad interim (fino al 14 nov. 2002), F. Frattini (dimissionario il 18 nov. 2004), G. Fini. Interno, C. Scajola (dimissionario il 3 luglio 2002), G. Pisanu. Giustizia, R. Castelli. Economia e Finanze, G. Tremonti (dimissionario il 3 luglio 2004), S. Berlusconi ad interim (fino al 16 luglio 2004), D. Siniscalco. Attività produttive, A. Marzano. Istruzione, Università e Ricerca, L. Moratti. Lavoro e Politiche sociali, R. Maroni. Difesa, A. Martino. Politiche agricole e forestali, G. Alemanno. Ambiente e Tutela del territorio, A. Matteoli. Infrastrutture e Trasporti, P. Lunardi. Salute, G. Sirchia. Beni culturali, G. Urbani. Comunicazioni, M. Gasparri.
4. - (23 apr. 2005 - 17 maggio 2006): Presidente, S. Berlusconi. Vicepresidenti, G. Fini, G. Tremonti. Senza portafoglio: E. La Loggia (Affari regionali); S. Caldoro (Attuazione del programma di governo); M. Baccini (Funzione pubblica), dimissionario il 5 maggio 2006; L. Stanca (Innovazione e Tecnologie); M. Tremaglia (Italiani nel mondo); S. Prestigiacomo (Pari opportunità); G. La Malfa (Politiche comunitarie); R. Calderoli (Riforme istituzionali e Devoluzione), dimissionario il 20 febbr. 2006; C. Giovanardi (Rapporti con il Parlamento); G. Miccichè (Sviluppo e Coesione territoriale). Esteri, G. Fini. Interno, G. Pisanu. Giustizia, R. Castelli. Economia e Finanze, D. Siniscalco (dimissionario il 22 sett. 2005), G. Tremonti (dimissionario il 5 maggio 2006), S. Berlusconi ad interim. Attività produttive, C. Scajola. Istruzione, Università e Ricerca, L. Moratti. Lavoro e Politiche sociali, R. Maroni. Difesa, A. Martino. Politiche agricole e forestali, G. Alemanno. Ambiente e Tutela del territorio, A. Matteoli. Infrastrutture e Trasporti, P. Lunardi. Salute, F. Storace (dimissionario l'11 marzo 2006), S. Berlusconi ad interim. Beni culturali, R. Buttiglione. Comunicazioni, M. Landolfi.
5. - (17 maggio 2006): Presidente, R. Prodi. Vicepresidenti, M. D'Alema, F. Rutelli. Senza portafoglio: L. Lanzillotta (Affari regionali e Autonomie locali); G. Santagata (Attuazione del programma di governo); L. Nicolais (Riforme e Innovazioni nella pubblica amministrazione); B. Pollastrini (Diritti e Pari opportunità); E. Bonino (Politiche europee e Commercio internazionale); V. Chiti (Rapporti con il Parlamento e Riforme istituzionali); R. Bindi (Politiche per la famiglia), G. Melandri (Politiche giovanili e Attività sportive). Esteri, M. D'Alema. Interno, G. Amato. Giustizia, C. Mastella. Economia e Finanze, T. Padoa Schioppa. Sviluppo economico, P.L. Bersani. Università e Ricerca, F. Mussi. Istruzione, B. Fioroni. Commercio internazionale, E. Bonino. Lavoro e Previdenza sociale, C. Damiano. Solidarietà sociale, P. Ferrero. Difesa, A. Parisi. Politiche agricole, alimentari e forestali, P. De Castro. Ambiente e Tutela del territorio e del mare, A. Pecoraro Scanio. Infrastrutture, A. Di Pietro. Trasporti, A. Bianchi. Salute, L. Turco. Beni e attività culturali, F. Rutelli. Comunicazioni, P. Gentiloni.