Vedi Italia dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
L’Italia costituisce il quarto stato dell’Unione Europea (Eu) in termini di popolazione e ricchezza economica. In virtù della propria collocazione geografica, inoltre, la penisola si pone all’intersezione di due aree regionali strategicamente rilevanti: l’Europa continentale a nord e il Mediterraneo a sud. La posizione geopolitica del paese ha così contribuito a plasmarne le linee guida della politica estera. In particolare, quantomeno a partire dal secondo dopoguerra, l’Italia ha seguito tre assi principali, rivolti rispettivamente agli Stati Uniti, all’Europa e a quelli che un tempo erano definiti paesi del Terzo mondo.
Il rapporto con gli Stati Uniti si è definito a partire dalla ‘scelta occidentale’ dell’Italia, ossia l’ingresso nell’Alleanza atlantica nel 1949. Nelle relazioni con Washington la posizione strategica del paese – posto esattamente sul confine tra i due ‘blocchi’ – si tradusse in una rilevanza geopolitica destinata a perdurare per tutto il periodo della Guerra fredda. D’altra parte, la protezione garantita dall’alleato americano comportò l’installazione di basi militari sul territorio della penisola e, cosa forse più importante, ricadute non trascurabili sulla politica interna – che si sostanziarono nell’esclusione del Partito comunista dalle coalizioni di governo. Terminata la Guerra fredda, e svanita la minaccia sovietica, l’Italia ha mantenuto negli Stati Uniti un partner fondamentale e nella Nato la principale alleanza strategica, come testimoniato dalla partecipazione alle maggiori operazioni dell’Alleanza, in particolare l’attuale missione Isaf in Afghanistan e la più recente Unified Protector in Libia.
La seconda priorità nella politica estera italiana è testimoniata dalla propensione del paese a sostenere (seppur con alcuni limiti) il progetto di integrazione europea. L’Italia non è solo tra i sei membri fondatori delle originarie comunità europee, ma vede nell’Eu lo strumento principale per amplificare la propria influenza internazionale. Nonostante alcune inevitabili tensioni con Bruxelles, negli ultimi anni si è assistito a una sostanziale convergenza con le istituzioni comunitarie. Fanno eccezione due brevi (ma acute) tensioni nel 2009: la prima ha riguardato la politica dei respingimenti degli immigrati provenienti dalla Libia, la seconda la richiesta presentata dall’Italia alla Commissione europea di rivedere gli impegni comunitari relativi alla riduzione delle emissioni nocive.
Per quanto concerne la terza linea d’azione della politica estera, l’Italia ha sviluppato una serie di rapporti bilaterali, in particolare con i paesi del Mediterraneo, del Medio Oriente e dei Balcani. In relazione ai vicini meridionali, la diplomazia italiana si è prodigata per rinsaldare i propri legami con la Libia, con la quale nel 2008-09 sono stati firmati importanti accordi di natura commerciale, di cooperazione sui flussi migratori e sulle risorse energetiche, su cui gravitano però le incognite derivanti dalla crisi libica del 2011. Altrettanto importante è l’asse con la Turchia, paese con cui l’Italia intrattiene intense relazioni economiche (solo nel 2009 le imprese italiane si sono aggiudicate appalti pubblici in Turchia per un valore di 626 milioni di euro). L’Italia è uno dei maggiori sostenitori dell’ingresso di Ankara nell’Unione Europea e vede nel paese un importante partner per la posizione strategica a cavallo tra Europa e Asia.
di Sergio Romano
Quando Alcide De Gasperi e Carlo Sforza decisero di sottoscrivere, nel 1949, il Trattato per la creazione dell’Alleanza atlantica, il maggiore ostacolo non fu l’opposizione social-comunista, largamente scontata, ma quella di una parte della Democrazia cristiana (l’ala ispirata da Giuseppe Dossetti) e di alcuni esponenti dei piccoli partiti democratici, molti dei quali sinceramente convinti che l’Italia avrebbe dovuto rifiutare la logica dei blocchi e fare una politica estera neutrale. De Gasperi riuscì a superare queste resistenze spiegando ai suoi compagni di partito che l’Italia sarebbe entrata nell’Alleanza insieme alle maggiori democrazie europee e che il Patto atlantico sarebbe stato quindi un passaggio necessario, quasi una sala d’aspetto, sulla strada dell’integrazione politica ed economica del continente.
Per alcuni anni quindi l’Italia poté essere contemporaneamente, senza troppe difficoltà, atlantica e europeista. La Nato, vale a dire l’America, garantiva la sua sicurezza, mentre l’Europa della Ceca, della Ced e del Mercato comune dava soddisfazione alle sue ambizioni federaliste e le garantiva una sorta di parità, nonostante la sconfitta, con gli altri maggiori paesi dell’Europa occidentale. Questo doppio binario della politica estera nazionale divenne ancora più facilmente percorribile dopo la morte di Stalin, l’avvento di Chrušˇcëv e il clima di prudente coesistenza pacifica che s’instaurò, con qualche sussulto, nei rapporti fra i due blocchi. Con una politica che fu definita ‘micro-gollista’ l’Italia poté comprare il petrolio russo, commerciare con l’Unione Sovietica e creare una fabbrica d’automobili a Togliattigrad, ma continuare a essere la maggiore delle portaerei americane nel Mediterraneo.
Il gioco divenne un po’ meno facile quando il generale De Gaulle, nel 1966, ritirò la Francia dalla struttura militare integrata del Patto atlantico e dimostrò in tal modo che la Nato e l’integrazione europea non erano due volti di una stessa medaglia. Anche a Washington, qualche anno dopo (il presidente era Richard Nixon, il suo principale consigliere per la politica estera Henry Kissinger), l’Europa cominciò a essere percepita diversamente. Per molti americani era un potenziale concorrente, per altri un terzo incomodo, per altri ancora un peso morto. Prima delle fine della Guerra fredda vi furono divergenze e screzi politici, come la costruzione di un gasdotto per il trasporto di gas sovietico in Europa occidentale all’inizio degli anni Ottanta. Dopo la fine della Guerra fredda i contrasti furono soprattutto economici, ma sempre più frequenti, con alcuni ricorsi all’Organizzazione per il commercio mondiale (Wto) e qualche memorabile decisione di Bruxelles, come quella del commissario Mario Monti che nel 2001 bocciò, perché contraria ai principi della libera concorrenza, la fusione tra due grandi aziende degli Stati Uniti: General Electric e Honeywell. Non è tutto. Mentre l’Europa si proponeva obiettivi ambiziosi (il mercato unico, la moneta unica, il Trattato costituzionale), la Nato aveva perduto la sua funzione originale ed era alla ricerca di un ruolo. Ma restava pur sempre un simbolo dei rapporti euro-americani e il principale legame organico esistente fra le due sponde dell’Atlantico.
La rottura della Nato e dell’Europa è stata sfiorata nel 2003, quando gli Stati Uniti s’imbarcarono, con l’invasione dell’Iraq, in una guerra che era visibilmente disapprovata da Francia e Germania, ma sostenuta dall’Italia e dalla Spagna. I guasti sono stati riparati dopo la costituzione del governo Merkel in Germania e l’elezione di Nicolas Sarkozy in Francia. L’Italia, nel frattempo, ha continuato a considerare la Nato, vale a dire gli Stati Uniti, come un cardine indispensabile e l’Europa come un obiettivo irrinunciabile della propria politica estera. Ma con qualche variazione d’accento, che è dipesa dalla composizione dei suoi governi. Quelli di centro-sinistra sono stati complessivamente più europei che atlantici, quelli di Silvio Berlusconi più filo-americani che europei. Ma anche nel caso di Berlusconi la politica estera italiana ha avuto un altro polo: il rapporto con la Russia di Putin, che ha perpetuato sotto altre forme il micro-gollismo degli anni della Guerra fredda.
Nei confronti del Medio Oriente, la politica estera italiana ha mantenuto una posizione di sostanziale equidistanza nella disputa israelopalestinese (seppur con accenti diversi a seconda del colore del governo in carica), che le ha permesso di conservare rapporti amichevoli tanto con Israele che con i paesi arabi. In occasione della crisi di Gaza a cavallo tra il 2008 e il 2009, ad esempio, Roma ha sostenuto la legittimità dell’azione di Israele in quanto difensiva, riproponendo al tempo stesso l’idea di una sorta di ‘Piano Marshall’ per la Palestina. Oltre al conflitto israelo-palestinese, l’Italia è stata attiva in Libano, dove ha assunto un ruolo centrale all’interno della missione Unifil II delle Nazioni Unite, e verso l’Egitto, con cui ha avviato un rapporto privilegiato. Verso i Balcani, infine, la politica estera italiana è volta alla promozione della stabilità, in particolare al fine di stemperare le tensioni etniche e nazionali (soprattutto in Kosovo e Serbia) e combattere la criminalità organizzata. In questo teatro l’Italia ha mostrato un particolare interesse nei confronti della Serbia e del Montenegro, così come dell’Albania. Oltre ad essersi impegnata nel 2009 a dedicare sostanziosi investimenti in questi paesi, l’Italia si è fatta portatrice della domanda di ingresso della Serbia nell’Eu.
Infine, l’Italia mostra un’elevata propensione al multilateralismo, come testimoniatodall’appartenenza e dalla partecipazione attiva all’interno delle principali istituzioni internazionali, quali le Nazioni Unite, il G8, il Wto e le già citate Eu e Nato. In particolare, per ciò che riguarda le Nazioni Unite, di cui il paese è il sesto contributore mondiale con quasi 219 milioni di dollari nel biennio 2008-09, l’Italia si è impegnata nel difficile processo di riforma dell’organizzazione. La proposta avanzata da Roma, che sulla questione si oppone tanto a grandi potenze come la Germania e il Giappone quanto a stati emergenti come India e Brasile, è di incrementare il numero di seggi non permanenti all’interno del Consiglio di sicurezza.
Non diversamente, nell’ambito del G8, l’Italia si è prodigata per mantenere viva l’organizzazione quale vertice di comando dell’economia mondiale. Nel 2009 il paese ne ha detenuto la presidenza e ha dato ampia enfasi al summit organizzato all’Aquila (pochi mesi dopo il terremoto che ha distrutto parte della città). Tuttavia, di fronte all’ascesa dei cosiddetti Bric (Brasile, Russia, India e Cina), pare evidente che l’istituzione stessa sia destinata a cedere il passo verso forme alternative, come il G2 Usa-Cina, o il G20. Nonostante l’insistenza di Roma nel ribadire la centralità del G8 come concerto delle grandi potenze, è probabile che l’appello italiano sia destinato a cadere nel vuoto.
Dal 1946 l’Italia è una repubblica parlamentare. Le istituzioni principali comprendono il Presidente della Repubblica, che riveste un ruolo istituzionale e di garanzia (sebbene a volte politicamente rilevante), eletto dal Parlamento in seduta comune assieme ai rappresentanti delle regioni; il Parlamento, bicamerale perfetto, formato da una Camera dei deputati, composta da 630 rappresentanti, e da un Senato, comprendente 322 membri; il Presidente del Consiglio dei ministri, nominato dal Presidente della Repubblica, il quale è sovente il leader del partito che ha ottenuto più seggi alla Camera dei deputati. Il mandato elettorale di deputati e senatori è di cinque anni, mentre il Presidente della Repubblica rimane in carica per sette. Infine, la costituzione sancisce la divisione amministrativa del paese in 20 regioni e oltre 100 province.
La storia politica italiana del dopoguerra è contraddistinta da un momento di cesura, all’inizio degli anni Novanta, che ha portato alla transizione dalla cosiddetta ‘Prima Repubblica’ alla ‘Seconda Repubblica’. A trasformare il sistema politico italiano furono innanzitutto le ricadute interne dei mutamenti internazionali: a poco più di un anno dal crollo del Muro di Berlino il Partito comunista italiano (Pci), guidato dal segretario Achille Occhetto, venne infatti ufficialmente sciolto per dare vita al Partito democratico della sinistra (Pds). Sul piano interno, furono invece l’operazione giudiziaria ‘Mani pulite’ e i numerosi scandali che misero in luce un sistema ampiamente corrotto a spingere verso un netto ricambio della classe dirigente e dei principali partiti di governo: la Democrazia cristiana (Dc) e il Partito socialista (Psi) vennero ufficialmente sciolti, e nelle elezioni del 1994 emersero prepotentemente nuovi partiti e nuovi leader: tra questi, la Lega Nord di Umberto Bossi e Forza Italia di Silvio Berlusconi. Contestualmente, nel 1993, in seguito a un referendum popolare, si riformò il sistema elettorale, abrogando il principio proporzionale e sostituendolo con uno semi-maggioritario. Questa scelta era finalizzata a ridurre il numero dei partiti in Parlamento e assicurare così maggiore stabilità alle coalizioni di governo: dal 1945 a oggi si sono infatti succeduti più di cinquanta governi. Tuttavia, il nuovo sistema elettorale non ha portato i risultati sperati e nel 2005 è stato reintrodotto il sistema proporzionale, con una soglia di sbarramento e un premio di maggioranza: alla Camera il premio consiste in almeno 54 seggi al partito che ottiene più voti, mentre al Senato la vittoria in una data regione garantisce il 55% dei seggi disponibili per quella regione.
Persino individuare la data d’inizio del cammino delle riforme appare difficile. Probabilmente, il merito del lancio, se fu tale, va attribuito al segretario socialista Bettino Craxi che nel 1978 dichiarò indispensabile procedere a una non meglio precisata ‘Grande riforma’. Gli altri partiti politici risposero con grande titubanza. La prima vera svolta avvenne nel novembre 1983 con la costituzione della Commissione bicamerale per le riforme istituzionali presieduta dall’onorevole Aldo Bozzi, liberale. Alla fine dei lavori, gennaio 1985, il Parlamento non ne discusse neppure i risultati. Per anni le riforme fecero oggetto di dichiarazioni dei parlamentari per comparire sui mass media. Soltanto nel 1992 venne istituita una nuova Commissione parlamentare, detta De Mita-Iotti, poiché guidata prima dal democristiano Ciriaco De Mita, poi da Nilde Iotti, già comunista ed ex presidente della Camera dei deputati. Anche i lavori di questa Commissione, terminati all’inizio del 1994, si conclusero con un nulla di fatto.
Alcune significative riforme vennero conseguite dai cittadini con referendum che abrogarono diversi ministeri, alcuni dei quali resuscitati con altro nome, il finanziamento statale dei partiti, reintrodotto sotto nuove forme, intere sezioni delle leggi elettorali vigenti. Dal canto suo, in tutta fretta, per evitare il referendum, nel 1993 il Parlamento introdusse l’elezione popolare diretta del sindaco. La nuova legge elettorale, detta Mattarellum, con riferimento ironico al cognome del relatore, Sergio Mattarella, dispose l’elezione di tre quarti dei parlamentari con un sistema maggioritario in collegi uninominali e un quarto proporzionale. Nel 1996 sembrò che potesse addirittura nascere un governo, con la guida di Antonio Maccanico, per dare vita a una repubblica di tipo semi-presidenziale alla francese, con sistema elettorale a doppio turno. Fallì. Il tentativo successivo, con una Commissione presieduta da Massimo D’Alema, di giungere a una riforma organica sia della forma di stato, introducendo elementi di federalismo, sia della forma di governo, rafforzando i poteri del Presidente del Consiglio, si ebbe fra il 1997 e il 1998, ma rimase senza esito.
Più successo iniziale ebbe la maggioranza di centro-destra guidata da Silvio Berlusconi, che approvò sia un’ambiziosissima riforma di 56 articoli della Costituzione, sia la reintroduzione di una legge elettorale proporzionale, ma con soglia percentuale d’accesso al Parlamento e con premio di maggioranza per il partito o la coalizione che ottengono più voti alla Camera e regione per regione al Senato. Vinte molto risicatamente le elezioni dell’aprile 2006, il centro-sinistra chiamò l’elettorato a un referendum costituzionale che bocciò tutta la riforma costituzionale. Pure in seguito sottoposta a referendum, la legge elettorale rimase in piedi intatta a causa del non conseguimento del quorum del 50% più uno dei votanti. Costantemente criticata dagli opinionisti, in particolare del centro-sinistra, la legge elettorale che, grazie alle sue lunghe e bloccate liste di candidati, consente ai capi-partito di scegliersi i parlamentari graditi e ai candidati di farsi cooptare, appare molto difficile da riformare.
Alla fine del 2010, anno quant’altri mai di conflitti politici e di migrazioni parlamentari (la classica malattia italiana chiamata trasformismo), le riforme istituzionali continuano a rimanere sullo sfondo, promessa o minaccia, entrambe difficili da tradurre in pratica. La Costituzione, autorevolmente difesa e interpretata dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, esibisce una straordinaria elasticità, tanto da fare pensare che le riforme dovrebbero essere indirizzate a migliorare la qualità della classe politica piuttosto che a incidere sui meccanismi e sulle strutture istituzionali. Naturalmente, c’è molto da temere qualora una classe politica conflittuale e inadeguata riesca a trovare accordi su riforme costituzionali che ciascuno dei suoi componenti vorrebbe esclusivamente se avvantaggiano la sua parte politica. Le non-riforme appaiono di gran lunga preferibili a riforme forzate, partigiane, malfatte.
Il nuovo sistema elettorale è stato adottato nelle elezioni del 2008, che sono state vinte dalla coalizione di centro-destra guidata da Berlusconi. Con 344 seggi alla Camera e 174 al Senato, Berlusconi ha ottenuto un’ampia maggioranza rispetto alla coalizione di centrosinistra, formata dal Partito democratico (Pd) e dall’Italia dei valori (Idv), che hanno ottenuto rispettivamente 246 e 132 seggi. Nel marzo del 2009 Berlusconi ha riunito in un solo partito, battezzato Il popolo delle libertà (Pdl), il proprio partito Forza Italia e l’alleato di destra, Alleanza nazionale. La Lega Nord, pur rimanendo parte della coalizione, ha deciso di rimanere un partito indipendente. La campagna elettorale del centro-destra si è concentrata principalmente sui temi della sicurezza, della lotta al crimine e dell’immigrazione. Le iniziative realizzate da Berlusconi nei primi due anni di governo sono state quindi contraddistinte dal tentativo di incrementare le misure repressive del crimine e dare maggiori strumenti alle forze dell’ordine. All’interno del cosiddetto ‘pacchetto sicurezza’ è stata introdotta una serie di disposizioni, alcune delle quali invero assai controverse, quali l’introduzione del reato di clandestinità, un trattato con la Libia in virtù del quale viene concesso all’Italia il diritto di respingere le navi dei migranti, l’istituzione delle ronde di comuni cittadini per il pattugliamento del territorio e l’utilizzo dei soldati in affiancamento alle forze di polizia per garantire l’ordine. Nel dicembre del 2010, infine, il Parlamento ha approvato la riforma del sistema universitario. Le modifiche introdotte dalla legge hanno suscitato un’ondata di proteste tra gli studenti e i ricercatori, che hanno organizzato manifestazioni (alcune sfociate in atti di violenza) nelle principali città italiane.
Nonostante i cospicui margini ottenuti nel 2008, nel 2010 la maggioranza è entrata in crisi per la tensione tra il leader del Pdl Berlusconi e il co-fondatore del partito, il presidente della Camera Gianfranco Fini. In parte per l’influenza (ritenuta eccessiva) della Lega Nord sulle scelte del governo, in parte per attriti personali, dopo le elezioni amministrative del 2010 Fini ha preso sempre più le distanze dal Pdl, fino a formare un gruppo parlamentare separato e poi un partito a sé stante, denominato Futuro e libertà per l’Italia (Fli), che nel novembre 2010 ha sostenuto una mozione di sfiducia contro il governo che non è stata approvata per pochissimi voti.
Il 2011 si apriva quindi con una situazione di profonda incertezza per la politica italiana; peraltro, le elezioni amministrative – in cui il Pdl ha perduto la tradizionale roccaforte di Milano – hanno manifestato un progressivo cambiamento nelle scelte elettorali della popolazione. Ma sono state soprattutto le gravi tensioni finanziarie nell’autunno 2011 a evidenziare come l’esiguità della maggioranza rendesse impossibile il governo del Paese. Nel novembre 2011, dopo il voto alla Camera dei Deputati sul rendiconto dello Stato, approvato per l’astensione delle opposizioni, Berlusconi si è dimesso dalla carica di presidente del Consiglio.
Il 9 novembre 2011 l’economista Mario Monti è stato nominato senatore a vita e il 13 dello stesso mese ha ricevuto dal presidente della Repubblica G. Napolitano l’incarico, accettato con riserva, di formare un nuovo governo per fronteggiare il grave momento di crisi finanziaria ed economica, interna e internazionale. Il 16 novembre Monti ha presentato un esecutivo con una forte caratterizzazione “tecnica”, privo di esponenti delle forze politiche, che nei giorni seguenti ha ottenuto una maggioranza parlamentare molto ampia.
Con 60 milioni di abitanti, l’Italia è il quarto paese più popoloso dell’Unione Europea dopo Germania, Francia e Regno Unito. La densità di popolazione è tra le più elevate del continente, anche se la distribuzione sul territorio risulta concentrata in alcune aree metropolitane. Nel corso degli ultimi anni la popolazione è leggermente incrementata, principalmente in virtù dell’elevata immigrazione. Il tasso di fecondità nel 2008 era pari a 1,41 figli per donna, inferiore alla media europea (pari a circa 1,5). Inoltre, disaggregando il dato per le sole donne italiane, tale valore scende a 1,33, mentre per le donne straniere è di 2,05. Parallelamente alla bassa crescita demografica si registra un incremento nella vita media degli italiani: se nel 2002 la speranza di vita alla nascita era di 77,1 anni per gli uomini e 83 per le donne, nel 2008 tale valore era cresciuto rispettivamente a 78,6 e 84 anni. Il risultato di questi due fattori è l’invecchiamento relativo della popolazione: prendendo come indicatore l’indice di vecchiaia, ovvero il rapporto tra la popolazione di età superiore ai 65 anni e la popolazione tra 0 e 14 anni, tale valore è cresciuto dal 127% nel 2000 al 144% nel 2008.
di Corrado Giustiniani
È uno scenario sbalorditivo, quello che gli esperti ci srotolano davanti agli occhi. Nel 2020 l’Italia, da cui un tempo partivano i bastimenti, potrebbe diventare il primo paese d’Europa quanto a numero di immigrati. Già nel 2010 eravamo sul podio continentale, dopo la Germania e poco dietro la Spagna, con i nostri cinque milioni di stranieri residenti. Al ritmo di 250.000 arrivi all’anno, che l’Istat considera realistico, diventeranno sette milioni e mezzo, escludendo gli irregolari. Vero che la Germania già oggi ne conta poco meno di sette milioni, ma questo paese trasforma gli stranieri in cittadini tedeschi a un ritmo superiore a noi, e inoltre per il futuro cerca lavoratori stagionali o manodopera molto qualificata.
Le fredde cifre non aiutano a cogliere in pieno la più sorprendente rivoluzione che abbia investito l’Italia repubblicana. Per rendere meglio l’idea, è come se, nel 2010, le quattro più importanti città italiane, Roma, Milano, Napoli e Torino, fossero state interamente abitate da stranieri. Per aggiungere poi alla lista nel 2020, Genova e Palermo, Bologna e Firenze, Bari e Venezia. Ma quando è iniziato ad accadere, tutto questo? E come mai non ce ne siamo quasi accorti?
Per comodità, il 1976 viene considerato l’anno di svolta tra esodi e ingressi. Perché consente il riferimento al 1876, anno della prima rilevazione ufficiale sugli espatri, e il calcolo conseguente, ufficializzato dal nostro Ministero degli esteri, che nell’arco di un secolo ben 27 milioni di italiani hanno lasciato la penisola in cerca di fortuna all’estero. In realtà, secondo alcune stime, l’inversione di segno sarebbe giunta quattro anni prima, nel 1972, con un saldo positivo di 14.000 arrivi.
L’Italia è stata colta di sorpresa, perché i primi immigrati sono arrivati quasi silenziosamente, e in luoghi del tutto appartati. Tra i primi, i pescatori tunisini di Mazara del Vallo, periferici, separati, con il loro lavoro lontano dalla terraferma. Uno di questi, Bezine Hachemi, ha raccontato la sua storia sui giornali: era giunto in Sicilia nel 1969, l’anno dell’’autunno caldo’, e vi aveva già trovato una decina di paesani. Appartate sono le mura domestiche delle famiglie agiate di Roma e Milano, dove negli anni Settanta approdano le prime colf, dalle Filippine e da Capo Verde. Appartati i campi dove lavorano i primi raccoglitori di pomodori, studenti africani che impegnavano l’estate per mantenersi all’Università. E anche i venditori di stoffe e di pelli che giravano per le spiagge, davano un’idea esotica, di lontananza e di separazione. Poi, piano piano, anche l’industria comincia a impiegare lavoratori stranieri: nel novembre del 1977, il periodico Vita Nuova annuncia che a Modena la Fiat ha appena assunto 50 egiziani per le fonderie.
Negli anni Ottanta e Novanta l’immigrazione esplode, con la richiesta sempre più diffusa da parte delle imprese e delle famiglie, per posizioni che gli italiani non vogliono più occupare. Dall’industria conciaria all’edilizia, dalle pulizie negli uffici e negli alberghi ai servizi di ristorazione, alla cura degli anziani e dei bambini nelle famiglie. Nel primo decennio del nuovo secolo si assiste a una triplicazione delle presenze (nel 2000 gli immigrati erano ‘appena’ un milione e mezzo) e in un solo anno e per giunta di crisi, il 2010, un aumento di 388.000 stranieri iscritti in anagrafe viene registrato dall’Ismu, l’istituto che, assieme alla Caritas, studia con attenzione gli immigrati del nostro paese.
Nel tracciare l’identikit degli ‘immigrati all’italiana’ non si sfugge a tre aspetti essenziali: policentrismo geografico, religione prevalente cristiana e lavoro alle dipendenze delle famiglie ben più che in tutti gli altri paesi d’Europa. Lo straordinario allungamento della vita, che pone in primo piano il problema della cura degli anziani e l’endemica carenza di servizi sociali, fanno sì che, a ore o a tempo pieno, circa un milione di straniere vengano già impiegate nel lavoro domestico. Quanto alla religione, i fedeli di Allah sono a stento un terzo e, quanto a provenienza geografica, nella scuola italiana se ne contano ben 180 differenti. Nel primo decennio del 2000, tuttavia, è cresciuta enormemente la presenza dei romeni. Tra iscritti in anagrafe e non sono stimati in 1.200.000 e costituiscono la prima nazionalità degli immigrati in Italia.
Rilevante è anche il numero dei titolari di impresa stranieri: 213.000 a maggio del 2010. Persone venute non soltanto a cercare lavoro, ma anche a crearne, mostrando una voglia di integrazione che emerge da tanti altri segnali: ogni anno nascono in Italia quasi 100.000 bimbi stranieri; i matrimoni misti sono triplicati in tre lustri e ormai se ne conta uno ogni sette celebrati; i minori erano già un esercito di un milione nel 2010. Tutto questo pone all’Italia una doppia e complicata sfida: da un lato governare e selezionare i flussi, dall’altro creare solide strutture di integrazione per un processo che è ormai strutturale e contribuisce all’11% del prodotto lordo del nostro paese
I flussi migratori registrano una tendenza positiva: all’inizio del 2010 risultavano 4.235.059 stranieri legalmente residenti nel paese, a cui si stima vada aggiunto un altro milione di irregolari. Rispetto al 2007, quando figuravano poco meno di tre milioni, l’incremento è pari al 32% circa. L’effetto dell’immigrazione sulla crescita della popolazione è così duplice: oltre a portare nettamente in attivo il saldo migratorio, essa influisce positivamente anche sul saldo naturale (ovvero la differenza tra nascite e decessi).
Un’osservazione più approfondita dei flussi migratori mostra il sorpasso, a partire dal 2008, dei migranti provenienti da paesi extracomunitari rispetto a quelli provenienti dall’Unione Europea. Questo dato è in parte dovuto alla regolarizzazione massiccia di immigrati presenti già da tempo in Italia (perlopiù collaboratrici domestiche e badanti), ma anche al rallentamento degli ingressi dai paesi dell’Europa centro-orientale. All’inizio del 2010, con 887.000 persone, la comunità straniera più cospicua era quella rumena, seguita da quella albanese (466.000), marocchina (431.000), cinese (188.000), ucraina (174.000), filippina (129.000) e indiana (105.000). La maggior parte della popolazione straniera (87,5%) risiede nelle regioni centro- settentrionali, in particolare in Emilia Romagna, Lombardia e Umbria. L’incremento dei residenti non italiani ha generato nell’opinione pubblica la percezione di una maggiore insicurezza. Effettivamente, i dati relativi alla criminalità confermano almeno in parte la correlazione tra immigrazione e crescita del numero dei reati commessi, nonostante un significativo calo relativo agli omicidi. In particolare, la quota di detenuti non italiani cresce anno dopo anno in modo più che proporzionale rispetto alla crescita della popolazione immigrata.
La popolazione italiana si differenzia dalla maggior parte degli altri paesi europei per una disparità consistente nella dinamica dei redditi e una distribuzione territoriale disomogenea. In base alle rilevazioni Istat, il 40% delle famiglie vive in condizioni di relativa agiatezza; il 35% non rileva problemi economici, ma non riesce a risparmiare o stenta a sostenere le spese per il mutuo della casa; il 10% risulta potenzialmente vulnerabile; il 5% affronta difficoltà nell’affrontare le spese quotidiane e il 6,3% si trova in condizioni di deprivazione. In termini communità straniera più cospicua era quella rumena, seguita da quella albanese (466.000), marocchina (431.000), cinese (188.000), ucraina (174.000), filippina (129.000) e indiana (105.000). La maggior parte della popolazione straniera (87,5%) risiede nelle regioni centro- settentrionali, in particolare in Emilia Romagna, Lombardia e Umbria. L’incremento dei residenti non italiani ha generato nell’opinione pubblica la percezione di una maggiore insicurezza. Effettivamente, i dati relativi alla criminalità confermano almeno in parte la correlazione tra immigrazione e crescita del numero dei reati commessi, nonostante un significativo calo relativo agli omicidi. In particolare, la quota di detenuti non italiani cresce anno dopo anno in modo più che proporzionale rispetto alla crescita della popolazione immigrata. La popolazione italiana si differenzia dalla maggior parte degli altri paesi europei per una disparità consistente nella dinamica dei redditi e una distribuzione territoriale disomogenea. In base alle rilevazioni Istat, il 40% delle famiglie vive in condizioni di relativa agiatezza; il 35% non rileva problemi economici, ma non riesce a risparmiare o stenta a sostenere le spese per il mutuo della casa; il 10% risulta potenzialmente vulnerabile; il 5% affronta difficoltà nell’affrontare le spese quotidiane e il 6,3% si trova in condizioni di deprivazione. In termini comparativi, l’Italia è inoltre uno dei paesi europei in cui la proporzione di situazioni a basso reddito relativo è più elevata: il 20% delle famiglie dispone di un reddito inferiore del 60% rispetto al valore mediano. Tale disparità si riflette su base territoriale nelle differenze tra regioni del nord e del mezzogiorno: mentre in Emilia Romagna, Lombardia, Veneto, Piemonte e Toscana il reddito medio familiare è superiore del 10-15% rispetto alla media nazionale, in Calabria, Sicilia, Basilicata, Campania, Molise e Puglia questo risulta inferiore del 20-30%. Infine, la proporzione di famiglie a basso reddito, che a livello nazionale è pari al 18%, sale fino al 36% in Campania e Calabria e al 41% in Sicilia.
Per far fronte all’elevata incidenza delle situazioni a basso reddito, l’Italia adotta politiche distributive e redistributive in misura analoga agli altri membri dell’Eu. Rispetto agli omologhi, tuttavia, l’efficienza dei trasferimenti risulta minore: misurando il rapporto tra percentuale del prodotto interno lordo (pil) destinata alla spesa sociale (pensioni escluse) e riduzione della popolazione con redditi insufficienti si osserva in Italia un risultato pari al 17%, tra i peggiori in Europa insieme a Grecia e Spagna (per converso, a parità di spesa pubblica, i paesi scandinavi raggiungono un risultato prossimo al 70%). Il welfare italiano garantisce comunque una varietà di servizi, che pongono il paese nella media dei paesi più avanzati. Per quanto concerne ad esempio il servizio sanitario nazionale, la densità di personale medico in rapporto alla popolazione (3,7 medici e 6,8 infermieri ogni 1000 abitanti) e la percentuale della spesa complessiva rispetto al pil (8,7%) si pongono di poco al di sopra della media europea.
Infine, occorre segnale un male endemico che grava sulla società italiana: l’Italia è infatti terreno di incontro tra una serie di organizzazioni criminali di stampo mafioso, la cui portata trascende i confini nazionali. Oltre alle forme autoctone quali la camorra, la ‘ndrangheta, cosa nostra e la sacra corona unita, si sono insediate ormai da anni forme analoghe di associazione a delinquere di origine russa, cinese, albanese e nigeriana. Insieme, queste organizzazioni svolgono una serie di attività illecite altamente remunerative, dal traffico di armi al racket della prostituzione, fino allo spaccio di stupefacenti.
Con un pil pari a 2113 miliardi di dollari nel 2009, l’economia italiana risulta settima su scala mondiale e quarta in Europa. Nello stesso anno il pil pro capite ammontava a quasi 30.000 dollari a parità di potere d’acquisto. L’attuale condizione è il risultato dell’eccezionale crescita sperimentata in seguito al secondo dopoguerra, quando il paese passò da uno stato di semi-arretratezza e un’economia basata principalmente sull’agricoltura a un’economia industrializzata e con un terziario avanzato.
Ad oggi, il peso dell’agricoltura sul pil è pari soltanto al 2%. Inoltre, nonostante una netta diminuzione nel primo decennio del secolo, la produzione è frammentata in una miriade di aziende (perlopiù a conduzione familiare) di dimensioni ridotte. Questo comporta, rispetto ad altri paesi europei, una minore redditività e una serie di disfunzioni. Tra le piccole imprese, una percentuale crescente (circa il 6% del totale) svolge attività collaterali alla produzione agricola, come l’agriturismo e la lavorazione di prodotti agricoli. Nel 2008, dopo tre anni di flessione, il settore ha registrato una crescita pari al 2,4% e un incremento delle esportazioni del 4,4%. Ciononostante l’occupazione è calata rispetto all’anno precedente del 3,1%, portando la quota degli occupati nel settore al 4% della forza lavoro complessiva.
Per quanto concerne il settore secondario, l’industria rappresenta il 21, 6% del pil e dà lavoro a quasi cinque milioni di persone (cui si sommano circa due milioni di lavoratori nel comparto dell’edilizia). La composizione del settore comprende più di un milione di aziende, di cui il 95% è costituito da piccole e medie imprese, localizzate principalmente nelle regioni del nord. Dopo una relativa crescita nel 2006 e nel 2007, la crisi del 2008-09 ha comportato una contrazione significativa, pari al 10,4% in due anni, di gran lunga superiore alla media europea. A questa ha fatto seguito una riduzione nell’occupazione proporzionalmente inferiore, pari al 3,5% (molte imprese sono infatti riuscite a contenere il numero dei licenziamenti facendo ricorso alla cassa integrazione). L’Italia sembra essere uscita dalla fase recessiva dalla fine del 2009, ma la crescita che ne è seguita resta molto debole.
di Gianfranco Viesti
L’Italia è fra i paesi con le maggiori disparità regionali. Il fenomeno non è certo raro; ma in Italia presenta una particolare intensità e persistenza. Al Centro-Nord, il reddito è molto più alto; il tasso di occupazione, soprattutto femminile, assai maggiore; lo stesso accade per quantità e qualità delle imprese.
Come si è prodotta questa situazione? Che conseguenze provoca per l’economia italiana?
La differenza di reddito fra le regioni del paese era assai minore all’Unità, quando erano tutte prevalentemente agricole. È cresciuta molto con i primi processi di industrializzazione, che si sono concentrati nel “Triangolo Industriale” e poi diffusi verso il Nord-est e il Centro. Si è molto acuita durante il fascismo: al Sud la popolazione è cresciuta notevolmente, ha visto chiusa la strada dell’emigrazione ed è rimasta quasi esclusivamente legata all’agricoltura; le politiche economiche e i grandi salvataggi degli anni Trenta hanno cristallizzato la geografia dell’industria. Nel secondo dopoguerra, durante il ‘miracolo economico’ le differenze di reddito si sono significativamente ridotte. Il Sud si è modernizzato, ha ridotto un po’ il suo forte gap infrastrutturale rispetto al resto del paese, ha visto crescere l’industria. Questo è stato frutto di una intensa e determinata politica pubblica nazionale. Con la crisi petrolifera questa rincorsa si è arrestata: tutte le regioni hanno significativamente rallentato la crescita (quasi azzerata nell’ultimo decennio) ma le distanze sono rimaste immutate. Spiegarlo non è difficile: ancora troppo forte era (e rimane) la diversa convenienza nel “fare impresa” fra CentroNord e Sud in termini di dotazione di infrastrutture, disponibilità di servizi pubblici e privati, presenza di lavoratori ben qualificati; distanza dai mercati di sbocco, presenza di agglomerazioni produttive e connesse economie esterne. Negli ultimi 35 anni le politiche economiche non sono riuscite a mutare questo dato di fondo. Anzi, la qualità delle politiche pubbliche, dalla fine degli anni Sessanta, si è notevolemente ridotta; al Sud, in misura probabilmente più intensa che nell’intero paese. In particolare negli anni Ottanta, fino alla crisi fiscale del 1992, il Sud è stato parzialmente compensato da flussi di spesa pubblica corrente, che ne hanno sostenuto i redditi ma non promosso lo sviluppo.
Che conseguenze hanno queste forti disparità regionali per lo sviluppo dell’Italia? Certamente ne limitano il potenziale di crescita. Le regioni del Sud dispongono di un patrimonio di risorse, innanzitutto umane, ma anche ambientali e culturali, poco o male utilizzate. Il mancato utilizzo di queste risorse limita il tasso di crescita dell’economia. Con una maggiore occupazione al Sud, non solo il reddito nazionale, ma anche il gettito fiscale e contributivo sarebbe ben maggiori. Ma per ottenerlo è indispensabile uno sviluppo assai più ampio dell’impresa privata; e perché questo si possa realizzare occorre aumentare la convenienza del ‘fare impresa’ al Sud. La forte disparità crea anche importanti flussi economici interni al paese. La minore offerta al Sud fa sì - da sempre - che una quota rilevante dei suoi consumi sia destinata a beni e servizi ‘importati’ dal Centro - Nord, sostenendone l’economia. Al tempo stesso, l’azione pubblica svolge una simmetrica azione redistributiva. Dato che, a norma di Costituzione, la tassazione è progressiva e la spesa nazionale per servizi pubblici tendenzialmente proporzionale alla popolazione, il bilancio pubblico sposta implicitamente - come ovunque nel mondo -una parte del gettito fiscale dei cittadini più ricchi delle regioni più ricche verso i cittadini meno ricchi delle regioni meno ricche. Ciò negli ultimi anni ha suscitato accese discussioni politiche: ma è il naturale portato di un paese unitario con forti disparità di reddito interne. Questi flussi potranno essere ridotti solo attraverso un forte sviluppo del sistema delle imprese al Sud, e la conseguente crescita dell’occupazione.
Passando infine al settore terziario, esso genera circa il 70% del pil occupando il 67% della forza lavoro. Rientrano in questa categoria le imprese commerciali, quelle turistiche e di servizi alle persone e alle imprese. Secondo le rilevazioni Istat, anche il terziario ha subito una battuta d’arresto in seguito alla crisi: seppur limitata allo K0,3%, la contrazione del settore in Italia risulta in controtendenza rispetto alla media europea, che ancora nel 2008 registrava un +1,5%.
Per quanto concerne i flussi commerciali con l’estero, i principali partner commerciali sono gli stati europei e, in misura inferiore, gli Stati Uniti. Nel 2009 il valore delle esportazioni ha raggiunto la cifra di 405 miliardi di dollari, segnando un calo del 17,3% rispetto al 2007. Allo stesso modo, le importazioni sono calate del 18,7%, per un valore assoluto di circa 410 miliardi di euro. La bilancia commerciale registra così un deficit di 5,6 miliardi di euro. Questo valore è ampiamente inficiato dall’incremento nei prezzi delle materie prime, la cui incidenza sulle importazioni è passata in un anno dal 15,7% al 19,4%. Al netto dei prodotti energetici il saldo import-export risulta in attivo.
A più di due anni dall’inizio della crisi, diversamente dai vicini dell’Europa settentrionale, l’economia italiana porta ancora i segni della recessione del 2008-09. Nel 2010, secondo le stime dell’Oecd il tasso di crescita si è attestato a un mero 1% e secondo l’Istat la disoccupazione è salita allo 8,4%. Particolarmente elevato è il tasso di disoccupazione tra i giovani, che alla fine dell’anno aveva raggiunto la cifra record del 28,9%. La principale sfida del governo consiste quindi nel ridurre il debito e il disavanzo pubblico con misure restrittive, senza minare la fragile ripresa economica. Finora, per quanto il governo abbia gestito le finanze pubbliche con cautela e rigore, poco è stato fatto per migliorare le prospettive di crescita nel medio e lungo periodo, poiché permangono vincoli strutturali alla produttività del paese, come ad esempio un mercato del lavoro relativamente meno flessibile rispetto ai partner commerciali, una scarsa concorrenza nei servizi non commerciabili, un’eccessiva frammentazione della produzione in piccole e medie imprese e un’elevata pressione fiscale.
di Franco Bruni
La crisi è cominciata nel 2007 sul mercato del credito ipotecario statunitense, e si è allargata nel mondo con un’accelerazione nell’autunno del 2008, dopo il fallimento di una grande banca internazionale. L’Europa è stata molto coinvolta nella crisi, che si è propagata per la caduta della fiducia nei pagamenti internazionali e nei rapporti interbancari. L’aumento dell’avversione al rischio ha bloccato il credito alle imprese facendo crollare la produzione, l’occupazione e, soprattutto, il commercio internazionale, che per sua natura richiede molto credito. La caduta delle esportazioni è stata la principale cinghia di trasmissione della crisi all’Italia, il cui sviluppo conta molto sul commercio internazionale. L’attività economica è precipitata nel 2009 e stenta ancora a riprendere. Da questo punto di vista, l’Italia ha sofferto della crisi anche più di altre economie europee. Hanno pesato anche le difficoltà strutturali che da anni rendono la crescita italiana lenta e fragile. L’Italia ha invece limitato l’impatto diretto della crisi tramite le banche, che si sono mostrate più liquide e solvibili che altrove in Europa. Il merito è di un sistema bancario prudente, che negli ultimi lustri si è ben riorganizzato, e di una vigilanza che la Banca d’Italia ha saputo mantenere severa e proattiva. Poiché non è stato lo stesso in altri paesi dell’Eu, l’Italia è particolarmente interessata al successo della riforma della vigilanza finanziaria europea avviata nel 2011, che mira a rendere rigorosi e uniformi i comportamenti delle vigilanze nazionali e a mettere in comune le informazioni sui rischi presenti nei singoli stati membri. Le peculiarità dell’Italia nella crisi si sono accentuate quando, nel 2010, è scoppiato - col caso greco - il problema dei ‘debiti sovrani’, cioè i debiti dei governi, i titoli di stato che essi collocano presso gli investitori privati nazionali e internazionali. È un problema globale, non certo confinato nell’area dell’euro. Ma in questa assume un profilo speciale, perché i paesi dell’area non hanno la possibilità di far stampare a una propria banca centrale la moneta necessaria a rimborsare i titoli in scadenza, anche a costo di creare inflazione. La moneta è creata dalla Banca centrale europea, indipendente e sovranazionale. Il rischio teorico di insolvenza di un governo che non può creare moneta è maggiore. Il problema dei debiti sovrani è una conseguenza della crisi finanziaria che, facendo cadere l’attività economica, ha ridotto i ricavi fiscali e aumentato le spese pubbliche, dirette a sostenere imprese, banche e famiglie in difficoltà. Sono quindi aumentati i deficit pubblici, accumulati in stock di debiti crescenti che i mercati assorbono solo a tassi di interesse sempre più elevati, comprendenti un ‘premio’ per il rischio di insolvenza del paese. Questi tassi, che complicano la sopportabilità dei debiti, possono venir esasperati da violenti attacchi speculativi. Avendo l’Italia, da decenni, uno dei debiti pubblici più elevati in rapporto al Pil, non è certo estranea alle tensioni dei debiti sovrani nell’area dell’euro. Ma ci sono almeno due ragioni che, nel 2010, le hanno permesso di non risultare in prima fila fra i paesi in pericolo. Intanto è riuscita a controllare l’aumento del deficit pubblico durante la crisi, anche limitando gli aiuti agli operatori in difficoltà. In secondo luogo, l’abbondanza del risparmio e della ricchezza del settore privato e il suo grado di indebitamento minore che in altri paesi hanno consentito di far fronte al debito del settore pubblico senza ricorrere troppo a debiti con l’estero, che rendono più drammatico il problema dei debiti sovrani. L’Italia è però interessata al successo dei modi con cui il problema è affrontato dall’EU, anche ricorrendo a meccanismi di solidarietà, dove i paesi finanziariamente più forti ‘aiutano’ quelli più in crisi, e avanzando forse qualche passo verso la costruzione di una finanza pubblica comunitaria.
Per far fronte alle componenti di lungo periodo della debole ripresa il governo ha discusso una serie di riforme per la liberalizzazione del mercato del lavoro e dei servizi, da includere eventualmente nel pacchetto di austerity del maggio 2010. Tuttavia, trattandosi di misure altamente impopolari, il governo ha preferito escluderle dall’agenda politica e concentrarsi sulle leve fiscali. Come gli altri paesi dell’area euro, anche l’Italia si è ripromessa di adottare politiche restrittive nel biennio 2011-12. Per garantire la stabilità e prevenire eventuali attacchi speculativi è infatti necessario ridurre il disavanzo pubblico, che nel 2009 e nel 2010 ha superato il 5% del pil, e limitare il debito pubblico, che nello stesso periodo è passato dal 115% al 118% rispetto al pil. Per stimolare la crescita economica sarà tuttavia opportuno affiancare la politica macroeconomica a misure di sostegno delle imprese italiane verso i mercati che sono stati meno toccati dalla crisi (in particolare in Estremo Oriente). Nonostante l’economia italiana prima della crisi abbia testimoniato un maggior grado di internazionalizzazione, l’import-export si concentra sulle aree geograficamente più prossime.
Il consumo interno lordo di energia in Italia ammontava nel 2010 a oltre 176 milioni di tonnellate equivalente di petrolio (mtep). Nonostante una lieve flessione nell’ultimo biennio, questo valore conferma una tendenza positiva, che negli ultimi venti anni ha visto aumentare il fabbisogno energetico di quasi il 20%. Il settore che registra il consumo più elevato è quello civile (34,9%), seguito dai trasporti (32%), quindi dall’industria (22,5%) e in misura marginale dall’agricoltura (2,5%). Rispetto ai consumi di fonti energetiche primarie, il mix energetico nazionale registra una netta preponderanza di utilizzo di petrolio e gas. Confrontato con gli altri paesi industrializzati, questo mix energetico risulta sbilanciato: rispetto alla media Oecd, la dipendenza dal petrolio è di diversi punti superiore, mentre l’utilizzo del carbone e dei combustibili solidi.
L’Italia è un grande importatore di energia: secondo i dati del Ministero dello sviluppo economico, nel 2009 le importazioni al netto delle esportazioni rappresentavano l’81% dell’energia complessivamente consumata nel paese. Particolarmente rilevante è l’ammontare di petrolio e gas importati, pari rispettivamente a 94.292 e 56.716 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio (mtep), ovvero l’86,4% delle importazioni complessive. L’elevata dipendenza dall’estero, in particolare da stati che adottano una politica energetica aggressiva (come la Federazione Russa), contribuisce a minare la sicurezza energetica dell’Italia. A questo si aggiungono altri due fattori di criticità: la considerevole quota di energia consumata dal trasporto su strada, specialmente per quanto concerne il petrolio (39.934 mtep, pari al 54,4% dell’ammontare complessivo di questa risorsa), e l’impiego massiccio di gas naturale per la generazione di energia elettrica (23.769 mtep, ovvero il 42,9% dell’energia elettrica complessivamente prodotta).
La necessità di diversificare l’approvvigionamento delle fonti e riequilibrare il mix energetico nazionale ha portato alla redazione, nel 2009, della Strategia energetica nazionale.
Oltre a fornire una visione strategica di lungo periodo, il documento indica una serie di obiettivi finalizzati a garantire la sicurezza energetica, tra cui: 1) la diversificazione delle aree di approvvigionamento; 2) l’incremento dell’efficienza energetica tramite la razionalizzazione dei consumi; 3) la promozione dell’energia rinnovabile; 4) lo sviluppo della ricerca e la costruzione di centrali nucleari. Quest’ultimo punto è stato definitivamente accantonato a seguito del referendum popolare del giugno 2011, in cui la popolazione ha espresso la volontà di annullare tale norma e abbandonare i progetti di sviluppo nucleare. Sul fronte internazionale, la ricerca della sicurezza energetica si è riflessa sul rinnovato attivismo delle compagnie italiane, in particolare l’Eni, nella ricerca di nuovi fornitori. Oltre alla sicurezza dell’approvvigionamento, le politiche energetiche del governo sono finalizzate all’abbattimento delle emissioni nocive per l’ambiente. Rispetto ai dati dei primi anni Ottanta, con la sola eccezione relativa al metano e all’anidride carbonica, si registra una sostanziale riduzione in diverse sostanze inquinanti, quali gli ossidi di zolfo (K90%), gli ossidi di azoto (K30%), il monossido di carbonio (K50%) e i composti organici volatili non metanici. L’anidride carbonica, principale responsabile dell’effetto serra, dipende principalmente dalle centrali di produzione elettrica (33%), dai trasporti su strada (25%), dall’attività industriale (16%) e dal riscaldamento domestico (15%).
Per quanto concerne la lotta all’inquinamento, l’Italia ha sottoscritto sia la Convenzione quadro delle nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfccc) del 1992 sia il Protocollo di Kyoto del 1997. In base agli obblighi assunti in questa sede, nel periodo 2008-12 il paese si è impegnato a ridurre i gas serra dell’6,5% in equivalente di anidride carbonica rispetto al 1990. Tale valore è tuttavia lungi dall’essere realizzato, poiché (contrariamente alla tendenza comune agli altri paesi europei), le emissioni hanno registrato un trend positivo fino al 2005. Solo a partire dal 2006 tale tendenza è stata invertita. Ciononostante, si stima che il paese eccederà il limite previsto del 12%. Per far fronte a questo problema, nel 2009 il governo ha pubblicato un Piano di azione per l’efficienza energetica, mirato a ricalibrare il proprio mix energetico in favore di tecnologie per la produzione di energia a basso tenore di carbonio.
Nonostante i valori non del tutto incoraggianti della qualità dell’aria, secondo l’Environmental Performance Index (Epi), la classifica stilata annualmente dall’Università di Yale, l’Italia si posiziona al 18° posto su scala mondiale. Questo risultato, in linea con la performance degli altri paesi Eu, è dovuto al fatto che, oltre alle emissioni inquinanti, l’indice Epi valuta una ventina di indicatori aggiuntivi, tra cui la vitalità dell’ecosistema e l’impatto dell’ambiente sulla salute degli individui – voci in cui il paese registra risultati molto positivi.
Secondo il rapporto Freedom in the World di Freedom House, l’Italia è un paese libero. Come la maggior parte degli stati democratici e industrializzati, il punteggio assegnato per i diritti politici è 1. Dal 2009, però, il valore attribuito alle libertà civili è sceso da 1 a 2. Sintetizzando i termini della questione, il paese ha ottenuto il miglior punteggio possibile in relazione al pluralismo politico, alla possibilità di partecipazione al processo elettorale e al funzionamento dell’apparato governativo. Non altrettanto si può dire, secondo l’organizzazione americana, in relazione alle libertà civili, ovvero libertà di espressione e di culto; diritti di associazione; rule of law; diritti individuali.
Per quanto concerne la libertà di parola e di stampa, essa è garantita costituzionalmente. Esistono molti quotidiani e periodici, la maggior parte dei quali su base locale, mentre le principali testate giornalistiche sono legate a grandi gruppi editoriali o ai partiti. Rimane tuttavia eccezionale e controversa l’influenza del primo ministro Berlusconi sui media nazionali, sia all’interno della tv di stato, sia tramite Mediaset, il gruppo privato da lui fondato e controllato dalla sua famiglia. Con poche eccezioni, negli ultimi due anni si è assistito a una polarizzazione della stampa attorno a due posizioni estreme: alcune testate hanno assunto una posizione di critica serrata all’operato e alla vita privata del premier; altre si sono palesemente schierate in difesa del Presidente del Consiglio. I rapporti tra governo e media sono diventati particolarmente tesi nell’estate del 2009, quando il giornale cattolico L’Avvenire ha criticato apertamente la condotta morale del premier nella vita privata. In tutta risposta, il quotidiano il Giornale, di proprietà della famiglia Berlusconi, ha dato avvio a una campagna volta a screditare il direttore dell’Avvenire, il quale alla fine è stato costretto alle dimissioni. Nello stesso periodo, il gruppo l’Espresso citò il premier per diffamazione, dopo che quest’ultimo aveva definito il quotidiano La Repubblica sovversivo e aveva incitato gli sponsor al boicottaggio.
Ancora nel 2009, ha sollevato un intenso dibattito la proposta di legge volta a vietare la pubblicazione delle intercettazioni ambientali senza permesso del giudice. Dopo quasi un anno di polemiche, a giugno del 2010 la Camera ha ratificato un emendamento che consente la pubblicazione di quelle intercettazioni che siano ritenute rilevanti dalla cosiddetta udienza filtro, oppure quelle utilizzate dal pubblico ministero per motivare ordinanze cautelari o decreti di perquisizione.
Passando alla libertà di religione, anch’essa è garantita dalla costituzione. Sebbene la confessione cattolica sia dominante e la Chiesa cattolica goda di benefici particolari, non esiste una religione ufficiale di stato. Il governo ha firmato accordi con diversi gruppi religiosi, ai quali fornisce aiuti in misura proporzionale alla loro diffusione; rispetto ad altri paesi, manca però una legge generale sulla libertà di religione. Inoltre, data l’influenza (non solo morale) del Vaticano nella vita pubblica del paese, alcune voci critiche si sono levate per affermare una più netta e sostanziale separazione tra stato e chiesa. Questo tema non sembra però incontrare il favore dell’opinione pubblica: ne è un esempio la reazione sostanzialmente negativa a una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che nel novembre del 2009 si è pronunciata contro l’esposizione dei crocifissi nelle aule scolastiche.
Anche la libertà di associazione e il diritto di sciopero sono garantiti dalla costituzione. Circa il 35% della forza lavoro è iscritta a un sindacato.
Per quanto concerne la rule of law, il sistema giudiziario è imparziale e indipendente, ma soffre per la cronica lentezza dei processi. Esiste una tensione latente, che spesso emerge nel dibattito politico, tra la magistratura e il Pdl, in larga misura per i numerosi processi giudiziari a carico di Silvio Berlusconi. La tortura è illegale, ma alcune organizzazioni per i diritti umani hanno accusato le forze dell’ordine di aver ecceduto in alcune circostanze nell’uso della forza, in particolare contro immigrati clandestini. A partire dal 2009, le misure adottate all’interno del cosiddetto ‘pacchetto sicurezza’ hanno introdotto una nuova fattispecie di reato, l’immigrazione clandestina. Per gli stranieri che entrano nel paese o si trattengono sul suolo nazionale in violazione delle norme sull’immigrazione è prevista non solo l’espulsione, ma anche la detenzione fino a sei mesi. Inoltre, agli immigrati sprovvisti di permesso di soggiorno sono stati negati alcuni diritti di base (come ad esempio quello di sposarsi).
La parità di genere è almeno formalmente garantita: l’indennità di maternità corrisponde solitamente a cinque mesi di astensione dal lavoro a stipendio pieno. Anche le opportunità di accesso all’istruzione e di ingresso nel mondo del lavoro collocano il paese ai primi posti tra i paesi industrializzati. Ciononostante, il tasso di disoccupazione tra le madri è significativamente più elevato rispetto alle donne senza figli e ancor più rispetto alle single: quasi il 20% delle donne lascia o perde il lavoro alla nascita del primo figlio. Rimane inoltre una notevole disparità di trattamento a parità di impiego rispetto agli uomini. Infine, la presenza femminile all’interno delle istituzioni politiche rimane limitata: alle ultime elezioni parlamentari, le donne costituivano solo il 21% dei deputati.
Un ultimo aspetto rilevante riguarda la corruzione, un problema costante nella politica italiana, nonostante il colpo di spugna alla classe dirigente della Prima Repubblica portato dall’inchiesta ‘Mani pulite’, e indipendentemente dal colore del governo in carica. Secondo la classifica annuale stilata nel 2010 da Transparency International, su 178 paesi l’Italia si classifica al 67° posto. Tra gli stati Eu solo Grecia, Bulgaria e Romania hanno registrato risultati peggiori.
Analogamente a quanto accade negli altri grandi paesi europei, l’Italia dedica alla politica di difesa una quota relativamente limitata del bilancio statale. A titolo esemplificativo, nel 2008 l’Agenzia europea di difesa rilevava come l’ammontare complessivo delle spese nel settore della difesa fosse pari a 22.631 miliardi di euro, corrispondenti all’1,44% del pil. Nonostante tale dato sia stato soggetto a una cospicua volatilità nel corso degli ultimi venti anni, l’Italia conferma la tendenza comune nel Vecchio Continente a privilegiare altri settori di spesa, principalmente quelli legati al welfare. Questa allocazione delle risorse riflette i benefici dell’appartenenza alla Nato e, più in generale, all’assenza di minacce dirette al territorio nazionale. Infatti, da una parte l’alleanza con gli Stati Uniti ha storicamente garantito la presenza dell’esercito americano sul suolo italiano; dall’altra, con il collasso dell’Unione Sovietica è venuta meno l’unica minaccia alle frontiere nazionali.
Il fatto che sia svanita la principale minaccia militare all’integrità del paese non ha tuttavia eliminato il bisogno di una capacità di difesa, ma ha imposto al contrario una profonda revisione strategica. Principalmente in seguito alla fine della Guerra fredda, e in particolare come reazione alla lezione appresa durante la prima Guerra del Golfo (1990-91), le Forze armate italiane hanno avviato un significativo processo di riforma, che finora si è sostanziato nella sospensione a tempo indeterminato della leva di massa. Il passaggio da un esercito di coscritti a uno di volontari ha comportato una cospicua contrazione nel numero delle forze, che rispetto alla metà degli anni Novanta si sono più che dimezzate, e ad un miglioramento qualitativo a livello di addestramento ed equipaggiamenti. Rimangono tuttavia alcuni limiti, come testimoniato dall’ingente porzione di risorse destinate al personale (63%) e, per converso, dalla trascurabile quota riservata alla ricerca e sviluppo (3,7%).
Parallelamente a questa tendenza, si è assistito a un accresciuto impegno in missioni internazionali: se negli anni Ottanta l’Italia partecipava in media a non più di dieci missioni all’anno, negli ultimi anni questo dato è triplicato: alla fine del 2010 il paese era impegnato con circa 8600 soldati in 33 missioni internazionali sparse in 21 paesi. Tra queste, le più importanti sono quelle in Afghanistan (Isaf), Kosovo (Kfor), Libano (Unifil II) e Bosnia (Althea), il cui onere finanziario complessivo su base annuale si attesta attorno a 1,4 miliardi di euro. A questi impegni si è aggiunto nel 2011 quello relativo alle operazioni di ‘no-fly zone’ della Nato in Libia. La presenza italiana in questi contingenti multinazionali è assai rilevante, poiché il paese costituisce il principale contribuente in Libano (dove ricopre anche la responsabilità per il comando militare), il secondo in Kosovo e il sesto in Afghanistan. In relazione alle Nazioni Unite, l’Italia figura al nono posto in termini di personale impegnato in missioni di peacekeeping.
La ragione dell’attivismo italiano – e conseguentemente della peculiare disponibilità ad accollarsi costi superiori alle proprie possibilità – sembra dipendere più da valutazioni politiche che non da considerazioni di sicurezza: il vantaggio principale in termini di interesse nazionale consiste infatti nell’incrementare la visibilità e il peso dell’Italia all’interno delle istituzioni internazionali. Sul fronte interno, nonostante la tradizionale polarizzazione dei partiti in Parlamento, la decisione di impegnarsi in missioni all’estero (solitamente edulcorate dall’eufemismo ‘missioni di pace’) raccoglie solitamente un consenso bipartisan. Così è stato, seppur non senza polemiche e formalismi, anche per la partecipazione dell’Italia alle operazioni in Libia. Ciò è giustificato dal fatto che la partecipazione italiana avviene all’interno di contingenti multinazionali formalmente legittimati dall’egida di istituzioni internazionali quali le Nazioni Unite, la Nato e l’Unione Europea.
Queste missioni si caratterizzano per una bassa intensità di violenza: con l’eccezione del teatro afghano, infatti, raramente i soldati italiani si trovano coinvolti in massicci scontri a fuoco. Tra le funzioni principali che il contingente italiano deve svolgere figurano: 1) la ricostruzione fisica, politica e infrastrutturale della zona interessata; 2) l’addestramento delle forze di polizia locali; 3) le operazioni militari per garantire la sicurezza e la stabilità.
Mentre in Kosovo e in Bosnia la dimensione della sicurezza è relativamente marginale, in quanto il processo di stabilizzazione dei due paesi sembra ormai concluso, in Libano e in Afghanistan la situazione è ben diversa. Nel paese dei cedri la missione Unifil II è riuscita a garantire per più di quattro anni una sostanziale cessazione delle ostilità, ma il quadro politico del paese e della regione rimangono altamente instabili.
Ancora più evidente, in Afghanistan la missione Isaf risulta ben lungi dall’aver raggiunto gli obiettivi preposti. Al contrario, nonostante l’incremento delle truppe americane, a partire dal 2009 gli insorti hanno ampliato il proprio raggio d’azione e incrementato la frequenza degli attacchi. Il contingente italiano è schierato nella zona occidentale del paese, che comprende le province di Herat, Badghis, Farah e Ghor. Dal primo dispiegamento di uomini sul campo al dicembre del 2010, le forze italiane hanno registrato 34 caduti, di cui 24 per attacchi a fuoco o imboscate con ordigni improvvisati. Oltre alle funzioni di stabilizzazione e di supporto alla ricostruzione, l’Italia è impegnata in Afghanistan all’interno della missione dell’Unione Europea Eupol Afghanistan, il cui obiettivo è l’addestramento e il rafforzamento delle istituzioni di polizia in tutte le aree del paese.
Infine, oltre alla partecipazione attiva alle missioni internazionali, negli ultimi anni l’Italia ha mostrato un rinnovato interesse per le iniziative lanciate in seno alla Politica europea di sicurezza e difesa, volte a dotare l’Eu di forze proprie per la gestione delle crisi.