Italia
(XIX, p. 693; App. I, p. 742; II, ii, p. 72; III, i, p. 913; IV, ii, p. 243; V, iii, p. 1)
Geografia umana ed economica
di Claudio Cerreti
Questioni territoriali
Le trasformazioni territoriali cui è andata soggetta l'I. nel corso degli ultimi anni, se ci si attiene al profilo formale, possono essere considerate relativamente modeste. All'istituzione (1991) di alcune nuove province, la cui vitalità è apparsa, nel breve periodo, assai difforme da caso a caso, non è infatti seguita né l'attuazione pratica delle istituite aree metropolitane, per la maggior parte delle quali gli studi preliminari non sono stati completati, né il previsto riassetto delle circoscrizioni comunali. La definizione areale delle nuove circoscrizioni metropolitane si è scontrata con problemi di natura teorica, e in particolare con la difficoltà di individuare le funzionalità sulle quali si dovrebbe fondare l'efficacia operativa delle aree metropolitane; inoltre, una serie di resistenze locali (dai Comuni alle Regioni) sembra aver paralizzato le possibilità di mutamento, mentre ha indirizzato di fatto le prospettive verso il semplice calco delle partizioni provinciali esistenti, vanificando così, almeno in questa fase, il senso reale dell'innovazione. In molti casi sono parsi inadeguati gli stessi strumenti di analisi messi in campo (troppo spesso orientati alla considerazione delle sole funzionalità economiche), nonché, talvolta, le competenze tecniche e politiche alle quali sarebbe spettata la proposta di delimitazione; queste, il più delle volte, si sono rivelate sensibili più alle componenti normative, produttive e progettuali delle previste circoscrizioni, che non a quelle sistemiche territoriali, e hanno finito per non tenere nel debito conto, per es., né le multiformi relazioni di ordine storico e culturale che in I. caratterizzano i rapporti fra le città e i rispettivi ambiti di diffusione, né le peculiarità intrinsecamente geografiche dei territori che si sarebbero dovuti assegnare alle singole aree metropolitane, né le vocazioni ambientali che sarebbe opportuno utilizzare e potenziare nella prospettiva della costituzione di territori omogenei.
A queste probabili debolezze del procedimento si sono aggiunte, con un'incidenza anche più determinante, le opzioni generate dagli equilibri di potere locali. Questi ultimi sono all'origine, anche, del persistere degli assetti comunali consolidati, per i quali era prevista una profonda revisione; è inoltre il caso di aggiungere, tuttavia, che le critiche rivolte alla congruità e all'efficienza dell'attuale ritaglio comunale si fondano prevalentemente sulla dimensione territoriale della maggior parte dei comuni italiani, ritenuta eccessivamente minuta: di conseguenza, la soluzione che di fatto si prospetta, in questo senso, è l'abolizione di un gran numero di circoscrizioni che verrebbero aggregate fra loro o ad altre esistenti, per costituire unità più estese. In questi termini, è ben comprensibile che siano forti le resistenze locali alla perdita di forme di autonomia e autogoverno piuttosto importanti, prevalentemente di antica tradizione e comunque molto sentite dalla popolazione. D'altro canto, il richiamo a una presunta maggiore razionalità dell'assetto comunale in altri paesi europei è del tutto infondato: Francia e Germania, per es., presentano comuni che per taglia media sono molto meno estesi di quelli italiani; in effetti, però, in altri paesi sono assai più diffuse che in Italia forme di collaborazione consortile fra comuni che rendono più efficace la gestione del territorio (nel campo dei trasporti, dell'istruzione, della sanità, dell'approvvigionamento idrico e così via). È facile ipotizzare che la situazione non evolverà in maniera apprezzabile finché l'unico strumento adottato sarà la soppressione dei piccoli comuni, in base all'obiettivo della riduzione della spesa, senza tener conto di assetti territoriali consolidati, che possono essere considerati, per taluni versi, ben rispondenti alle esigenze delle popolazioni locali ed efficienti malgrado le piccole dimensioni.
Ancora a proposito dell'assetto territoriale dell'I., è opportuno segnalare che le infrastrutture stradali e ferroviarie continuano, sia pure assai più lentamente che nel recente passato, a progredire, specialmente nel senso di garantire migliori collegamenti con il resto d'Europa e fra le regioni italiane economicamente più sviluppate (trascurando, in linea generale, quelle meridionali). Continua anche, in un senso evidentemente tutt'altro che positivo, la serie di disastri territoriali (generalmente definiti naturali, ma spesso nient'affatto tali) che funestano in particolare le aree montane e pedemontane d'I.: sarà sufficiente ricordare le esondazioni che hanno a più riprese colpito il Piemonte meridionale e la Liguria (con decine di morti e danni ingenti nel 1995) o la tragica combinazione di movimenti franosi ed esondazione che ha provocato in Campania (1998) centinaia di morti. In entrambi questi casi, e in molti altri di minore gravità, non è stato difficile individuare nella cattiva gestione delle aree montane e nell'edificazione incontrollata le cause principali e dei disastri e delle loro conseguenze.
Altro evento calamitoso dalle conseguenze oltremodo gravi è stato il succedersi di scosse sismiche, alcune delle quali di fortissima intensità, che ha interessato una vasta area fra Umbria e Marche a partire dal 26 settembre 1997 e per diversi mesi dell'anno successivo. Le conseguenze dell'insieme di eventi sismici sono state della massima rilevanza: dal punto di vista insediativo, con migliaia di persone costrette ad abbandonare le abitazioni, interi agglomerati resi inabitabili, lesioni alle vie di comunicazione e alle reti di erogazione; dal punto di vista economico, con la temporanea paralisi delle attività produttive, ma soprattutto con l'indebolirsi dei flussi turistici in un'area che da lungo tempo vede una gran parte delle proprie attività basarsi sul turismo; dal punto di vista artistico-monumentale, con il grave danneggiamento di un ampio numero di edifici di grande importanza storica e culturale, a cominciare dalla basilica di San Francesco in Assisi, parzialmente restaurata alla fine del 1999.
Principali componenti del movimento demografico. - Proseguendo una tendenza ormai evidente almeno dai primi anni Settanta, la popolazione italiana ha dapprima sostanzialmente arrestato e quindi invertito (a partire dal 1993) la sua crescita naturale, ma non presenta ancora un saldo globale negativo, grazie all'apporto fornito dall'immigrazione e dagli ormai modestissimi rimpatri di persone già residenti all'estero. Rispetto ai 56.556.911 ab. registrati al censimento del 1981, saliti nel 1991 a 56.778.031, nel 1998 in I. risiedevano (secondo le risultanze anagrafiche) 57.612.615 persone, con incrementi, rispettivamente, dello 0,4‰ annuo (1981-91) e dell'1,9‰ (1991-97). Ma il tasso d'incremento naturale, come si accennava, è ormai negativo: a una natalità che era del 9,9‰ nel 1991, e che è scesa al 9,2 nel 1997, ha fatto riscontro un tasso di mortalità più stabile, di circa il 9,8‰ nel 1991, quindi attestato sul 9,5÷9,6, sicché il saldo naturale (1997) è arrivato a segnare un −0,4‰.
Si tratta, con evidenza, di un calo assai limitato, in termini assoluti (lo sbilanciamento comporta una riduzione di circa 30.000 unità per anno), e in ogni caso strettamente in linea con il comportamento demografico della maggior parte dei paesi economicamente avanzati; tuttavia il fenomeno si è manifestato, in I., in termini alquanto netti e soprattutto in tempi oltremodo rapidi, raggiungendo la fase conclusiva della cosiddetta transizione demografica in un periodo assai più breve di quanto si fosse verificato in altri paesi e probabilmente avviando già la fase post-transizionale, che dovrebbe comportare una leggera ma progressiva ripresa, per qualche anno, della mortalità (dovuta alla scomparsa degli individui di età avanzata particolarmente più numerosi oggi che in passato). Se, infatti, la mortalità infantile è scesa nel 1997 al 5,7‰ (un terzo del valore di 25 anni prima), e la speranza di vita è salita nel 1998 a circa 75 anni per i maschi e a circa 82 per le femmine (valori fra i più ragguardevoli a livello mondiale), è però evidente che l'allungamento della durata della vita incontra pur sempre dei limiti biologici, raggiunti i quali scompariranno contingenti di popolazione via via più numerosi. Esaurita quella fase, presumibilmente intorno al 2020, se la natalità non avrà ripreso a crescere in maniera consistente e se l'immigrazione non comporterà afflussi più numerosi di quelli attuali, la popolazione italiana registrerà un calo alquanto sensibile e costante, fino a stabilizzarsi, intorno al 2050, sui 50 milioni di abitanti.
L'andamento naturale della popolazione italiana, a ogni modo, segna tuttora vistose differenziazioni regionali: in sintesi, mentre nelle regioni del Centro-Nord (eccetto Trentino-Alto Adige e Lazio) il decremento è anche molto vistoso, fino al −7‰ della Liguria, nell'insieme delle regioni meridionali si hanno valori positivi, fino al 5‰ di incremento in Campania: tuttavia, anche al Sud abbiamo regioni praticamente stazionarie, come la Sardegna, e altre in lieve regresso (Abruzzo, Molise, Basilicata).
Quest'ultima circostanza appare, fra le altre, particolarmente degna di nota, poiché sembra confermare per queste quattro regioni un comportamento discretamente diverso da quello tipico del Mezzogiorno italiano, come è possibile verificare anche in campo sociale ed economico, e sempre più simile a quello dell'Italia centrale. La dinamica demografica di queste regioni, cioè, appare più controllata e moderata, rispetto sia alla contrazione che si verifica al Nord, sia all'aumento che ancora caratterizza il Sud, indicando nella stabilità - e non necessariamente nella stagnazione - un carattere distintivo che può risultare determinante sotto il profilo sociale ed economico. Per altro verso, i comportamenti demografici differenziati che si riscontrano, raffrontando le grandi circoscrizioni territoriali del paese, possono solo in modesta misura giustificare le interpretazioni che vorrebbero la popolazione italiana in via di costante 'meridionalizzazione'. Va innanzitutto rilevato che i valori dell'incremento demografico (di origine meridionale) sono decisamente esigui. È tuttavia vero che è ancora in atto (benché si stia probabilmente concludendo) il processo secolare che ha visto le dinamiche demografiche delle regioni meridionali prevalere su quelle delle regioni settentrionali; in altri termini, almeno alcune delle regioni del Mezzogiorno non sembrano aver ancora concluso la transizione demografica e dispongono di quantità proporzionalmente maggiori di popolazione giovane, in età riproduttiva, che presumibilmente continueranno per qualche tempo a incidere sulla dinamica complessiva.
Benché la senilizzazione sia all'incirca doppia al Nord rispetto al Sud, il fenomeno sta interessando ormai l'intero paese e a un ritmo che negli ultimi anni è bruscamente aumentato: in media, gli ultrasessantacinquenni costituivano l'8,2% della popolazione nel 1951 e il 12,3% nel 1991, ma addirittura il 16,8% nel 1996, realizzando, in pratica, in cinque anni lo stesso aumento di incidenza percentuale che avevano cumulato nei quaranta precedenti. Nel 1995, per la prima volta, si rilevava il 'sorpasso' della popolazione più giovane (con meno di 15 anni di età) a opera di quella più anziana (con oltre 65 anni).
Poiché non si mostrano ancora segni di una ripresa della natalità, la principale componente del movimento demografico italiano dovrebbe rimanere, come è già dall'inizio degli anni Novanta, quella migratoria, che ha finora assolto una funzione di compensazione della contrazione naturale. Il movimento migratorio alimentato da cittadini italiani è da tempo assai ridotto e ben diverso rispetto alla sua composizione tradizionale: già nel corso degli anni Settanta si era talvolta riscontrato un numero di rimpatri superiore a quello degli espatri, ma dal 1989 in poi i rientri appaiono stabilmente e di gran lunga più numerosi degli espatri. Durante gli anni Novanta, mantenendosi i valori già constatati per gli anni immediatamente precedenti, si sono avuti 55.000÷60.000 espatri per anno (con destinazioni per circa quattro quinti europee), a fronte di rimpatri più numerosi, ma anch'essi in via di riduzione dopo aver segnato i valori massimi proprio all'inizio del decennio Novanta; dai circa 167.000 rimpatriati nel 1990, infatti, si è scesi ai 100.000 del 1993 (per un saldo positivo, nello stesso anno, di quasi 40.000 unità). Nello stesso tempo, però, è aumentato il numero di immigrati stranieri, all'incirca nella misura dell'1‰ annuo.
La popolazione straniera in Italia. - Gli stranieri censiti in I. nel 1981 erano appena 211.000, in larga parte provenienti da altri paesi europei occidentali e dall'America Settentrionale: si trattava allora di un fenomeno di modestissima incidenza numerica, in larga misura tradizionale in un paese attrattivo come l'I. e che, inoltre, quasi non poneva problemi di convivenza nei confronti di persone provenienti da culture sostanzialmente affini a quella italiana e da situazioni socioeconomiche generalmente anche più avanzate. Dieci anni più tardi, mentre il numero dei residenti provenienti da quelle regioni risultava di poco aumentato, si registravano però 862.977 stranieri provvisti di permesso di soggiorno annuale: non si trattava quindi più solo di europei o nordamericani più o meno agiati, ma prevalentemente di asiatici (Vicino Oriente, regione indiana, Asia di Sud-Est), africani (Africa mediterranea, paesi del Golfo di Guinea, Africa orientale), sudamericani (area andina), tutti o quasi immigrati per lavoro. Già nel corso del decennio precedente, il fenomeno aveva preso a manifestarsi in forme vistose, suscitando preoccupazioni o, più propriamente, allarmismi. Negli anni seguenti, gli arrivi di stranieri extracomunitari si sono ulteriormente diversificati, con l'apporto dei paesi ex socialisti dell'Europa orientale, e sono leggermente cresciuti: secondo il Ministero dell'Interno, 923.625 nel 1992, 922.706 nel 1994, 891.416 nel 1998. Tali dati si riferiscono ai permessi di soggiorno rilasciati agli immigrati 'regolari', mentre solo stime possono essere avanzate sulla consistenza dell'immigrazione clandestina. D'altro canto, però, il numero dei permessi di soggiorno è cumulativo (si tratta del numero di permessi rilasciati ogni anno) e non dà alcuna certezza che gli intestatari non siano partiti per altre destinazioni dopo aver ottenuto o rinnovato il permesso. In definitiva, mancano dati attendibili sul fenomeno nel suo insieme: l'ISTAT, in base a verifica dei dati del Ministero dell'Interno, valuta rispettivamente in 648.935 (1991), 589.457 (1992), 677.791 (1994) gli stranieri forniti di permesso di soggiorno (mentre non ritiene di poter eseguire stime valide per anni più recenti). Per altro verso, sono esenti dal permesso di soggiorno, e dunque non vengono registrati, i figli minori. In queste condizioni, le stime che vogliano tenere conto anche dell'immigrazione clandestina sono, comprensibilmente, le più varie; si può tuttavia fondatamente ritenere che nell'insieme gli stranieri residenti in I. (comprese tutte le provenienze e tutte le modalità di ingresso) siano 1,2÷1,3 milioni di persone, vale a dire poco più del 2% della popolazione italiana. Il fenomeno ha assunto senz'altro una dimensione degna di nota; ma, per valutare realisticamente l'incidenza dell'immigrazione in I., è bene confrontare il caso italiano con quello di altri paesi: anche non considerando il Lussemburgo (circa il 30% di stranieri), gli stranieri residenti in Svizzera comportano poco meno del 20% della popolazione totale; intorno al 9% sono quelli residenti in Gran Bretagna, in Germania e in Belgio; superano il 5% nei Paesi Bassi e in Francia. In questo quadro l'immigrazione in I., come negli altri paesi mediterranei da pochi anni divenuti meta di arrivi, può ben essere definita modesta. Dalla metà degli anni Novanta, del resto, se si escludono eventi particolari e vistosi (ma poco rilevanti sotto il profilo numerico), come l'arrivo di profughi dall'Albania o dalla Turchia (Curdi), l'immigrazione in I. si è attenuata, anche per effetto di norme più restrittive adottate a livello di Unione Europea. Gli ingressi che ancora è dato registrare, quando si riferiscono a provenienze extracomunitarie, sono prevalentemente dovuti a ricongiungimenti di nuclei familiari, fenomeno che denota una relativa stabilizzazione della situazione degli immigrati.
In questo senso, molte comunità stanno gradatamente riequilibrando le componenti maschile e femminile che, inizialmente, erano fortemente sbilanciate: sia, come il più sovente accade, nel senso di un eccesso di maschi (all'inizio del decennio, gli uomini immigrati dall'Africa erano oltre 4 volte più numerosi delle donne, i Pakistani 9 volte), sia anche, all'inverso, di un eccesso di donne (è il caso delle comunità filippina, polacca, romena, capoverdiana e di quelle sudamericane). Il formarsi o riformarsi in I. di famiglie composte da stranieri extracomunitari è fenomeno troppo recente per poter incidere in maniera consistente sui tassi demografici naturali della popolazione dell'I.: è però lecito attendersene un apporto demografico significativo nel giro di qualche anno, specie se si considera la giovane età media degli immigrati, che per circa due terzi sono compresi fra i 18 e i 39 anni di età.
La distribuzione territoriale degli immigrati in I. vede nettamente prevalere l'insieme delle regioni settentrionali (poco più della metà del totale) sul Centro (un terzo del totale) e sul Mezzogiorno (circa il 15%). In linea generale, perciò, si potrebbe anche concludere che l'afflusso migratorio, secondo una dinamica perfettamente comprensibile, si presenta in proporzione inversa rispetto ai saldi naturali: è maggiore nelle regioni deficitarie, minore in quelle eccedentarie. In buona misura, l'immigrazione si è rivolta alle città e alle province fortemente urbanizzate: di gran lunga preferita è Roma (oltre 140.000 permessi), seguita da Milano (circa 90.000), Firenze, Torino e Napoli (circa 23.000 ciascuna); altre province ospitano comunità meno consistenti (11.000÷16.000 persone): Vicenza, Bologna, Verona, Perugia, Genova, Catania e Trieste. In queste 12 province (che assommano circa un terzo della popolazione totale italiana) risiede oltre la metà degli stranieri. Il livello di integrazione della popolazione straniera è ancora modesto e soprattutto assai variabile in conseguenza non tanto dei comportamenti degli stranieri stessi, quanto del clima sociopolitico italiano.
La presenza di stranieri extracomunitari è stata, infatti, in moltissime occasioni colta come elemento di disturbo, reale o preteso, da parte di componenti della popolazione italiana, dando luogo a un gran numero di episodi - prevalentemente circoscritti - di insofferenza o intolleranza, quando non di aperto razzismo. Non è difficile, al di là delle strumentalizzazioni, far risalire questi episodi a condizioni di disagio sociale vissuto così dagli Italiani come dagli stranieri, e a fenomeni di 'concorrenza' (sul lavoro, nell'accesso ai servizi, sul territorio) fra le comunità nazionali e quelle immigrate. Non è neppure difficile rilevare come, del resto, la concorrenza in ambito lavorativo sia alquanto ridotta, posto che gli immigrati vengono adibiti in assoluta prevalenza a mansioni che i cittadini italiani spesso ricusano di svolgere, quando non ad attività extralegali o illegali. Quella che si potrebbe definire concorrenza territoriale è probabilmente la più vistosa e più sentita, specialmente nelle aree urbane, dove maggiori e più compatte possono essere le concentrazioni di immigrati. Senza che si siano verificate ancora vere e proprie condizioni di segregazione spaziale, infatti, gli immigrati hanno la tendenza, in I. come altrove, ad aggregarsi in aree e quartieri relativamente circoscritti, che finiscono così per assumere, a torto o a ragione, una specifica connotazione etnica o almeno sociale (generalmente intesa in senso negativo dai residenti italiani). L'indubbia diffusione di microcriminalità fra gli immigrati, come fra le comunità meno garantite della popolazione nazionale, porta a esacerbare la popolazione urbana e a renderla ostile agli immigrati nel loro insieme.
È da sottolineare, però, che fenomeni di progressiva integrazione si vanno pure manifestando: è significativo, per quanto la circostanza riguardi ancora piccole quantità di persone, che il numero di matrimoni concernenti stranieri sia in nettissimo aumento: circa 11.000 matrimoni, vale a dire il 3,8% del totale dei matrimoni celebrati nel 1994 (valore esattamente doppio rispetto al 1986), hanno visto almeno uno dei coniugi straniero; solo nel 13% dei casi entrambi i coniugi erano stranieri, ma anche la scelta coniugale fra immigrati appare sintomatica di una certa fiducia nelle prospettive di inserimento del nuovo nucleo familiare. Vale la pena sottolineare che la frequenza di matrimoni misti sembra correlata semplicemente alla quantità di stranieri presenti nelle varie parti d'I., e non a particolari propensioni regionali: così, la quota di matrimoni riguardanti stranieri sale al 4,7% nelle regioni del Nord-Ovest, al 5,4% in quelle del Nord-Est e al 5,8% nel Centro, secondo una certa proporzionalità con le presenze di stranieri nelle stesse circoscrizioni.
Bisogna tener conto di un altro elemento che consente di parlare di un processo, seppur faticoso, di integrazione: è la scolarizzazione, che nell'anno scolastico 1995-96 ha interessato oltre 50.000 studenti stranieri nell'insieme dei vari ordini di scuole. In questo caso, l'apporto fornito dalle comunità immigrate non è proporzionale, se non in parte, alla rispettiva consistenza numerica: ai primi posti per numero di alunni figurano le comunità provenienti dall'insieme dei paesi ex iugoslavi, i quali rappresentano, per numerosità, la seconda provenienza migratoria, registrando 9266 iscritti a fronte di circa 74.000 presenze complessive; e la comunità proveniente dal Marocco (7655 iscritti, rispetto a oltre 81.000 presenti: quella marocchina è da tempo la comunità immigrata più numerosa); seguono gli iscritti originari dell'Albania (4147, ma solo circa 30.000 presenze), i Cinesi (2941) e i Peruviani (1524), le cui comunità sono assai meno numerose di quelle, per es., dei Filippini o dei Tunisini (che si attestano intorno alle 30.000 unità). Anche in questo caso, la ripartizione regionale delle frequenze corrisponde abbastanza alla ripartizione delle presenze di immigrati sul territorio. (v. tabb. 3A, 3B, 3C, 4, 5).
Distribuzione e caratteri socioeconomici della popolazione. - La maggiore presenza di stranieri nelle regioni settentrionali si somma ai residui, pur modesti, flussi migratori interni, facendo raggiungere all'I. settentrionale un saldo migratorio positivo di circa il 3‰ annuo; negativo è invece il bilancio migratorio del Mezzogiorno. Dal complesso di questi andamenti e dalle differenti dinamiche naturali ricordate risultano leggeri spostamenti nella distribuzione della popolazione in Italia. A fronte di una densità media nazionale di circa 190 ab./km², già raggiunta nel decennio Ottanta, alcune regioni vedono addensarsi ulteriormente la popolazione: è il caso, in specie, della Campania, che nel periodo 1986-98 ha visto aumentare la sua popolazione da 5.690.431 ab. (418 ab./km²) a 5.792.580 (432 ab./km²); come esempio di segno opposto, la Liguria è passata da 1.758.961 ab. (pari a 325 ab./km²) a 1.632.536 (301 ab./km²). La tendenza d'insieme vede comunque una leggera perdita di popolazione dell'I. settentrionale (con la parziale eccezione del Nord-Est), una discreta stabilità dell'I. centrale e una crescita selettiva nel Mezzogiorno, con spostamenti non cospicui dei pesi demografici, rispecchiati da piccole variazioni delle densità. In gran parte, come appare ovvio, queste variazioni derivano dai diversi comportamenti demografici. In effetti, la mobilità interna è molto diminuita, nel corso degli anni Novanta (ma già in precedenza), rispetto ai decenni precedenti. Se alcune regioni presentano ancora un saldo positivo abbastanza sensibile (così l'Emilia-Romagna per circa 18.000 unità nel 1998, il Veneto per circa 8400, la Toscana per circa 6000, e le Marche per quasi 5000) e se altre, al contrario, vedono partire contingenti ancora cospicui (in specie la Campania con oltre 27.500 unità, la Sicilia con oltre 17.500, la Puglia con 14.600 e la Calabria con circa 8700), è evidente che non si tratta più di esodi e di arrivi di massa. La maggior parte delle variazioni di residenza avviene ormai a breve-medio raggio, prevalentemente a scapito delle città e a vantaggio delle circostanti aree un tempo rurali.
Una così forte riduzione degli spostamenti interni può essere riguardata, almeno per taluni versi, come sintomo di un'evoluzione positiva e di un nuovo atteggiamento delle giovani generazioni (quelle di norma coinvolte nei fenomeni migratori). Per quanto, infatti, l'offerta di lavoro non mostri più forti differenze tra le varie aree, disincentivando quindi gli spostamenti interregionali, il mancato ricorso all'emigrazione sembra anche indicare un innalzamento di fatto delle condizioni di vita nelle regioni meridionali: è aumentata la capacità di sostentare, con risorse locali e prevalentemente familiari, quote anche ampie di disoccupati, sia pure facendo ricorso spesso a impieghi informali. Ma è anche emerso, da una serie ormai numerosa di indagini, che i giovani meridionali, più istruiti e consapevoli oggi che in passato, dichiarano la volontà di perseguire un miglioramento delle proprie condizioni nelle aree di origine e che sempre meno sono disposti, in linea generale, ad abbandonarle per cercare lavoro altrove.
Un tale cambiamento in comportamenti pure consolidati e ormai tradizionali, tuttavia, non può non colpire, specialmente se lo si valuta nella prospettiva del differenziale di reddito che distingue le regioni settentrionali da quelle meridionali. Rispetto a un reddito medio mensile per famiglia, che in I. è di 3,5 milioni di lire (1995), le regioni del Nord-Ovest presentano un valore di 3,9 milioni (con un massimo in Lombardia di 4,2); quelle del Nord-Est una media di 4,0 (con un massimo di 4,1 in Emilia-Romagna); le regioni del Centro un valore di 3,6 (3,7 in Toscana); ma le regioni meridionali hanno mediamente un reddito di appena 2,9 milioni mensili per famiglia, con un minimo di 2,6 in Calabria. Il reddito medio di una famiglia calabrese, dunque, non arriva ai due terzi di quello di una famiglia lombarda: e per le altre regioni meridionali la differenza è di poco minore. Se poi si considera che le famiglie meridionali hanno mediamente un numero di componenti superiore a quello delle famiglie centro-settentrionali, si avrà che le disponibilità di reddito per abitante risultano ancora più divaricate: così, un calabrese dispone di un reddito che è poco più della metà (55÷56%) di quello di un lombardo o di un emiliano-romagnolo. Va aggiunto che i dati disponibili per il 1996 sembrano mostrare un ulteriore lieve peggioramento della divaricazione, anche se, al contrario, il numero complessivo di famiglie e individui poveri subisce un leggero regresso (ma non, appunto, nell'insieme delle regioni meridionali). L'insieme degli Italiani che vivono al di sotto della soglia di povertà, valutata in 1.190.000 lire al mese per ogni famiglia di due persone, è pari a 6,6 milioni di persone (1996), delle quali 4,9 milioni vivono nel Sud.
Altri indicatori segnalano, però, miglioramenti strutturali importanti nella popolazione italiana. Fra questi, il grado di istruzione: il tasso di analfabetismo è sceso al di sotto del 2% (anche se rimane più alto che nella maggior parte dei paesi economicamente avanzati) ed è aumentata la proporzione di studenti delle scuole secondarie superiori. Il numero di alunni della scuola dell'obbligo, in assoluto, si va contraendo in conseguenza del calo demografico nelle rispettive classi di età, ma nelle scuole superiori la contrazione è assai minore, poiché un maggior numero di ragazzi prosegue gli studi. L'istruzione universitaria, dal canto suo, registra aumenti anche assoluti di iscrizioni: nell'anno accademico 1997-98 si sono immatricolati 289.388 studenti, rispetto ai 241.340 di dodici anni prima (con un aumento di circa il 40%); per oltre un terzo, gli immatricolati provengono dalle regioni meridionali. L'insieme degli immatricolati è pari al 68,4% degli studenti maturati nell'anno scolastico precedente (uno dei valori più elevati fra i paesi occidentali); anche sotto questo profilo emergono differenze regionali consistenti, tra il 59,7% delle regioni meridionali e l'84,5% di quelle centrali, in questo caso quelle che presentano il dato più alto. Complessivamente iscritti a corsi di laurea erano, sempre nel 1997-98, 1.587.549 studenti; poco più di un terzo degli immatricolati, tuttavia, conclude gli studi e consegue la laurea, per un insieme di circa 100.000 laureati l'anno. Si può sottolineare, a proposito degli effetti dell'aumento della scolarizzazione, che è ormai pienamente operante anche in I. il rapporto diretto fra grado di istruzione e rinvio della formazione di una famiglia (e, di conseguenza, numero di figli per famiglia): quanto più alto è il livello di istruzione, tanto più tardi (fin verso i 29 anni in media per i laureati) ci si sposa. Ma si noti che la tendenza è solo in parte imputabile al prolungamento degli studi in sé: anche fra chi è provvisto di sola licenza elementare o media è riscontrabile una tendenza a differire l'età matrimoniale. (v. . e tab. 6)
Riassetto insediativo
Il comportamento territoriale della popolazione è elemento e motore di un generale riassetto del paese. L'insieme del territorio italiano sembra possa, nella fase attuale, essere scomposto in almeno quattro macroaree, i cui assetti potrebbero corrispondere ad altrettanti livelli evolutivi lungo una linea comune all'intero paese.
Le regioni del Nord-Est presentano un impianto insediativo reticolare; la ristrutturazione produttiva vi è già avvenuta o è in corso di completamento; la popolazione non diminuisce o aumenta leggermente. Le regioni del Nord-Ovest e del Centro conservano un impianto insediativo in gran parte polarizzato su grandi centri poco numerosi; la ristrutturazione produttiva è stata avviata, ma non ancora portata a compimento; la popolazione tende a diminuire secondo il progresso della ristrutturazione: dove questa è più avanzata, il calo è evidente; dove la ristrutturazione ancora non opera appieno, la popolazione rimane stabile o aumenta leggermente. Le regioni meridionali, per una parte (Campania, Puglia, Calabria, Sicilia) sono polarizzate, appaiono ben poco investite dalla ristrutturazione e mantengono una dinamica demografica positiva, anche se in via di rapida evoluzione. Altre regioni meridionali (Abruzzo, Molise, Basilicata, Sardegna), infine, poco polarizzate, registrano effetti marginali della ristrutturazione produttiva e mostrano una relativa evoluzione che si realizza nella stabilità demografica e territoriale: non vi appaiono necessarie trasformazioni radicali, e l'evoluzione segue canali tradizionali, o per meglio dire endogeni, non dipendenti dalla diffusione di modelli messi a punto in altre aree del paese. Sembra, così, essere ormai divenuto insufficiente lo schema delle 'tre Italie'; la situazione territoriale italiana si è fatta più sfumata e pare ragionevole attendersi ulteriori sviluppi, in base a uno schema a quattro tipi, dove l'ultimo tipo ipotizzato indica un'interessante possibilità di evoluzione autonoma del Mezzogiorno.
Determinanti per queste dinamiche differenziate e, al tempo stesso, caratteristiche degli assetti territoriali proposti, sono la ristrutturazione del sistema urbano e le forme assunte dalla rilocalizzazione produttiva. Le città italiane, in linea con quanto sta avvenendo anche in altri paesi del mondo occidentale, vedono ormai ridursi le rispettive popolazioni residenti. Il fenomeno era già avvertibile nei decenni Settanta e Ottanta, quando appariva chiaro l'esaurimento della spinta alla crescita urbana che aveva segnato soprattutto i venti anni precedenti; ma, molto più nettamente, nel corso degli anni Novanta le città hanno denunciato (perdendo popolazione e attività produttive) un ridimensionamento di quei vantaggi localizzativi che dapprima ne avevano favorito la crescita e poi ne avevano prodotto la progressiva congestione. La maggior parte dei centri capoluogo di regione ha perduto abitanti: si possono escludere solo Perugia, L'Aquila e Campobasso, che hanno presentato leggeri saldi positivi, e Potenza e Reggio di Calabria, che sono rimaste sostanzialmente stabili. In molti casi il calo demografico è massiccio: Milano ha ridotto i suoi residenti, fra il 1986 e il 1996, di circa 190.000 unità (oltre il 12% in meno); Roma di oltre 165.000 (con una contrazione di quasi il 6%); Napoli di poco meno di 160.000 (−13% circa); Torino di circa 115.000 ab. (−11% circa): questa la situazione delle più popolose città italiane. Benché in presenza di quantità assolute più contenute, il calo demografico è analogo, o anche più consistente, in proporzione, per città come Bari (−7,5%), Bologna (−11%) o Cagliari (addirittura −22% nell'intervallo 1986-96). Dopo una prima fase che aveva coinvolto quasi esclusivamente le città di più ampia taglia, consentendo di imputare la contrazione prevalentemente all'effetto delle diseconomie da congestione che caratterizzano i grandi centri rispetto a quelli meno popolosi, la tendenza negativa si è estesa anche alle città medie, che hanno finito per risentirne con un'incidenza che appare anche più sensibile. È sufficiente richiamare l'esempio delle 'città medie' per antonomasia e cioè, nel caso italiano, la massima parte dei capoluoghi di provincia. La sola Latina presenta un incremento, nello stesso decennio, degno di nota (oltre il 13% in più), mentre non arrivano a 20, su un totale di 103, i capoluoghi di provincia che registrano un saldo sia pure debolmente positivo: fra questi, Trento, Reggio nell'Emilia, Prato, Caserta e Siracusa hanno una crescita appena sensibile (4000÷7000 ab. nel decennio); pochi altri (Grosseto, Viterbo, Rieti, Brindisi, Matera, Agrigento, Ragusa e Sassari) presentano incrementi ancora minori; una decina, infine, conserva in pratica lo stesso numero di abitanti. All'altro estremo, abbiamo casi come quello di Cosenza, che perde 29.000 ab. (oltre −27%), di Taranto (−13,5%) o di Catania (−8% circa). Il quadro può essere completato, ancora nella stessa direzione, se si considera che anche le altre, non poche, città che per dimensione possiamo considerare almeno medie, ma che non rivestono ruoli amministrativi di rango, presentano la stessa tendenza negativa: in altri termini, il fenomeno del decongestionamento urbano tocca la grandissima maggioranza dei centri italiani con popolazione superiore ai 50.000 abitanti. Fanno parziale eccezione alcune città medie non capoluogo nel Lazio, in Campania e in Puglia: regioni che si presentano ancora non ristrutturate - o almeno non completamente - sotto il profilo economico-produttivo e prevalentemente polarizzate sotto il profilo dell'assetto territoriale. Come conseguenza statistica d'insieme, la popolazione urbana italiana (67% nel 1997) appare in calo; questo è tuttavia lieve, perché gran parte della popolazione che lascia gli agglomerati urbani più popolosi tende a trasferirsi in centri dimensionalmente molto più modesti, ma non certo privi di caratteri e servizi di tipo urbano (e quindi spesso censiti ugualmente come 'centri urbani'). Le conseguenze territoriali del calo demografico delle città sembrano assai rilevanti. Innanzitutto, non è corretto parlare di 'disurbanizzazione' se con ciò si intende una ripresa della ruralità o almeno un rifiuto del genere di vita urbano: il decongestionamento delle città maggiori e il conseguente rafforzamento dei piccoli centri sembrano avere, quasi al contrario, l'effetto di diffondere spazialmente l'urbanizzazione, rendendo, cioè, urbani, quanto a stile di vita, funzioni, servizi e attività, centri che per dimensione non potrebbero facilmente essere considerati tali. In tal modo, il territorio italiano sembra riorientarsi verso un assetto di tipo reticolare, contrastando la preminenza e talvolta l'egemonia che i grandi centri erano in grado di esercitare su territori anche molto estesi e rudemente polarizzati; ma è interessante aggiungere che quelle regioni in cui una forte polarizzazione non si era di fatto mai realizzata sembrano orientate a un assetto reticolare senza transitare per una fase di polarizzazione. È anche evidente che la produzione industriale ha, in un certo senso, guidato o almeno rafforzato questa tendenza, avviando per tempo forme di delocalizzazione e di frammentazione delle unità produttive, che hanno progressivamente abbandonato le città e le cinture urbane industrializzate, preferendo piccoli centri o aree semirurali. È così venuta a mancare una delle componenti di attrazione demografica delle città. La particolare diffusione della popolazione già urbana che si va così realizzando ha preso a investire non più solo, come in passato, le aree immediatamente contigue alle grandi agglomerazioni urbane o metropolitane, ma anche regioni relativamente lontane. A questo fenomeno va unito un incremento dei flussi pendolari: gli spazi in cui si effettuano le nuove localizzazioni si sono certo molto estesi, ben al di là delle città vere e proprie, e le aree verso cui si dirigono i pendolari risultano perciò molto ampliate; ma la deconcentrazione produttiva è meno radicale della dispersione degli abitanti che abbandonano le città. Le residenze, così, finiscono con il trovarsi spesso ben più lontane oggi che in passato rispetto ai luoghi di lavoro e di studio.
bibliografia
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ISTAT, Annuario statistico italiano 1999, Roma 1999.
Evoluzione della rete urbana
di Marina Faccioli
La rete urbana nazionale si è andata definendo nel corso degli anni Novanta secondo processi fortemente articolati che richiedono una lettura puntuale di realtà locali sempre più caratterizzate e diversificate: da un lato si è accelerata l'evoluzione degli spazi urbani da una conformazione lineare verso forme areali più estese e diffuse; dall'altro si è accentuata la specializzazione dei sistemi urbani, in particolare di dimensione media e piccola e, conseguentemente, l'interconnessione fra essi, in funzione della valorizzazione e dello sfruttamento di diverse potenzialità locali. Questi processi si sono andati consolidando soprattutto sulla base di un'ampia diffusione dei servizi, anche di rango elevato, della segmentazione produttiva e spaziale dell'industria (in ragione di una progressiva selezione dei cicli produttivi), dell'affermarsi di comparti industriali ad alta tecnologia in grado di competere a livello globale e di un complessivo riassetto del sistema delle comunicazioni. Si sono dunque modificate le dimensioni e le forme degli insediamenti e, ancor più, le strutture spaziali dei flussi e delle interazioni che li connettono: ciò è avvenuto contemporaneamente alla scala delle relazioni internazionali, negli ambiti regionali e nei diversi contesti urbani.
Accanto a sistemi metropolitani e aree urbane di diverso rango demografico e funzionale, si sono affermati sistemi e trame regionali contraddistinti da diversi livelli di coesione interna e con diverse capacità relazionali di carattere interregionale. In particolare, i sistemi urbani si vanno definendo come nodi di reti regionali, tanto più significativi e operativi quanto più dotati di coesione interna, legati fra loro da tessuti insediativi articolati mediante diverse funzioni e da rapporti gerarchici e complementari, così da costituire regioni urbano-metropolitane di primaria importanza nell'assetto del paese: spiccano fra queste la zona padano-veneta che si estende da Novara a Trieste, quella emiliano-romagnola, in particolare fra Parma e il Mare Adriatico, e quella del Valdarno nella Toscana settentrionale.
Un'analisi della realtà odierna del paese in termini di dualismo Nord/Sud pare sempre meno in grado di fornire una chiave interpretativa adeguata a spiegare la varietà di contenuti che contraddistingue la rete urbana nazionale: infatti molti aspetti della vitalità socioculturale e territoriale dell'I. contemporanea trovano riferimento, in ogni regione del paese, proprio in un tessuto insediativo riconoscibile a diverse scale, prevalentemente articolato su centri medi e piccoli messi in relazione tra loro da reti di infrastrutture e da aree produttive e di servizio specializzate. Nella maggior parte dei casi, inoltre, il dinamismo dei sistemi urbani di dimensioni intermedie si è affermato sulla base di eredità e tradizioni locali, che hanno agito nei confronti dei medesimi sistemi urbani costituendone un potente e originale fattore di sviluppo. Infatti alcune tipiche attività dell'economia nazionale - l'utilizzazione dei beni culturali, il turismo e altre attività che sfruttano risorse tradizionali - si sono dimostrate non tanto settori maturi, quanto piuttosto soggetti idonei a processi innovativi di riqualificazione, altrettanto promettenti e competitivi dei settori ad alta tecnologia.
Le partizioni territoriali di carattere gerarchico si ripresentano, reimpostate sulla base di questi contenuti, come risultato dell'integrazione fra reti regionali forti, dominate e organizzate da sistemi di livello metropolitano. Se infatti negli anni Settanta e Ottanta la crescita metropolitana era avvenuta attraverso processi di redistribuzione di risorse e riqualificazione dei centri minori situati intorno ai grandi poli urbani, negli anni Novanta la prossimità delle metropoli ha rafforzato la divisione del lavoro fra i nodi delle reti regionali, promuovendo sviluppo a diversi livelli della gerarchia urbana. Di conseguenza, in particolare in regioni a sviluppo fortemente articolato come la Lombardia, le tipologie monocentriche ad assetto gerarchico e quelle reticolari-policentriche si sono andate sovrapponendo e combinando fra loro mediante relazioni di complementarità e sinergia, di significato decisivo per la realizzazione di politiche d'intervento a scala regionale e subregionale e, su altri piani, per l'impostazione di connessioni reticolari d'interesse internazionale.
Nella maggior parte delle regioni italiane si vanno individuando strutture sempre più interconnesse al proprio interno, tuttavia organizzate in funzione di capoluoghi 'forti': sono evidenti i casi del Piemonte, dove la dominanza di Torino viene riequilibrata da processi territoriali centrifughi e, analogamente, dell'Emilia-Romagna e della Toscana settentrionale, dove complesse trame urbane locali si articolano sui poli dominanti rispettivamente costituiti da Bologna e dal sistema territoriale Firenze-Prato; trame urbane forti si sono andate confermando, ad altra scala, in sistemi regionali policentrici, lungo l'asse lombardo-veneto, fra Brescia, Verona, Vicenza, Padova e Venezia; nel Centro-Sud la diffusione di effetti urbani ampiamente incisivi ha determinato intorno a Roma la formazione di un sistema multipolare fortemente connesso a scala interregionale e nazionale, e in Puglia e in Campania l'approfondirsi di relazioni territoriali legate alla valorizzazione di potenzialità locali, proprio sulla base del progressivo arricchimento delle funzioni metropolitane dei rispettivi capoluoghi. Per contro, la debolezza dell'integrazione delle reti regionali, a causa di condizioni di crisi sociodemografica, urbana, infrastrutturale e produttiva, ha costituito un potente fattore limitativo nei riguardi della stabilità di alcune aree metropolitane, come nei casi della Liguria o delle isole.
Gli attuali assetti territoriali di carattere reticolare richiedono, a loro volta, dal punto di vista delle politiche d'intervento, un controllo basato sulla cooperazione fra soggetti pubblici dotati di diversa competenza, che guardino agli apparati economico-territoriali locali e alle possibilità di potenziarne la produttività economica e sociale. In questi termini, interventi legislativi come la l. 8 giugno 1990 nr. 142, relativa all'Ordinamento delle autonomie locali - cui si deve l'istituzione delle aree metropolitane di Torino, Milano, Genova, Venezia, Bologna, Firenze, Roma, Napoli e Bari - hanno funzionato come misure operative scarsamente attuali e piuttosto conformi agli assetti territoriali strutturatisi in Italia fino agli anni Sessanta e Settanta, fondati sulla presenza di concentrazioni politico-produttive, poli di sviluppo e agglomerazioni metropolitane sviluppatisi a macchia d'olio. L'inadeguatezza di questi tipi d'interpretazione e d'intervento è apparsa nel corso degli anni Novanta proprio in relazione al consolidarsi di processi di organizzazione regionale non riconducibili a interventi di zonizzazione, ma piuttosto da interpretare come processi strettamente integrati fra loro, anche a scala interregionale, secondo la diversa capacità di creare collegamenti a distanza, spesso d'interesse internazionale. Di conseguenza, le metodologie d'intervento ancorate alla suddivisione delle partizioni amministrative e dei piani di governo locale non sembrano in grado di cogliere la variabilità delle problematiche regionali e degli squilibri che continuano a caratterizzare, spesso aggravandosi, aree del paese, soprattutto nel Sud, a causa della discontinuità del tessuto urbano e della mancanza di coesione sociale.
A questo proposito risultano notevoli disomogeneità fra regioni e subregioni diversamente in grado di intrattenere rapporti in ambito europeo, tuttavia spesso legate da caratteri di complementarità. La rete urbana italiana è infatti organizzata secondo alcune strutture principali, allineate, sotto molteplici aspetti, alle maggiori direttrici dello sviluppo urbano europeo: infatti i sistemi regionali centrati su Milano, Bologna, Firenze, Roma e Napoli creano un asse collegato a nord, al di là della frontiera alpina, con la direttrice di sviluppo 'megalopolitano' che collega Zurigo a Rotterdam, nell'ambito di una potente costellazione urbana che si connette, a ovest, a Parigi e Londra, in un contesto d'interesse mondiale.
Lo sviluppo delle reti urbane nazionali si fonda dunque su due diversi ordini di necessità. Da un lato si presenta l'esigenza della definizione di direttrici relazionali transfrontaliere rivolte all'Europa centro-settentrionale e al di là del Mediterraneo, in vista dell'affermarsi di forme di centralità metropolitana a scala nazionale e internazionale, nell'ambito di una fitta rete di scambi di capitali, servizi, tecnologie e patrimoni culturali. Dall'altro lato rimane l'esigenza di un potenziamento e di un riequilibrio delle funzioni e della dotazione di strutture territoriali in ampie aree del paese, soprattutto nel Mezzogiorno: qui, infatti, la disorganicità dei piani di riassetto territoriale e la mancanza di adeguati livelli di coesione regionale riconducono a carenze di fondo che riguardano l'efficienza economica e sociale delle strutture, la valorizzazione di risorse locali spesso competitive, la costituzione di reti urbane integrate, l'intermodalità dei trasporti, il potenziamento e la ridefinizione delle dinamiche di coesione sociale.
Condizioni economiche
di Marina Faccioli
Nel corso degli anni Novanta l'economia italiana ha presentato un andamento complessivamente positivo, pur se contraddittorio (v. oltre: Politica economica e finanziaria), registrato dall'incremento medio annuo del PIL, che è stato in media dell'1,1% fra 1990 e 1994, del 2,9% nel 1995 e dell'1,2% fra 1996 e 1998: l'I. si colloca al quinto posto nella graduatoria mondiale dei paesi industrializzati, con un prodotto lordo pro capite che ammontava nel 1998 a oltre 20.000 dollari annui. L'effettiva distribuzione della ricchezza all'interno del paese, al di là del dato medio, presenta divari notevoli: nel 1996 si è stimato che il reddito a disposizione di quel 10% della popolazione che comprende le famiglie più ricche fosse circa otto volte maggiore di quello disponibile per il 10% costituito dalle famiglie più povere; la sperequazione reddituale è tuttavia minore di quella registrata nella gran parte dei paesi a economia avanzata; tali dati risentono però di notevoli diseguaglianze a scala regionale, soprattutto fra Centro-Nord e Sud.
L'apparato produttivo, con particolare riguardo ai complessi equilibri fra secondario e terziario, si è andato progressivamente riorganizzando: si sono consolidate reti territoriali fortemente articolate, mentre è andata sempre più emergendo l'importanza dei sistemi produttivi locali come nodi funzionali e territoriali in grado di esercitare un ruolo significativo nell'ambito dei processi di riqualificazione urbano-metropolitana e di coesione sociale.
Un forte impatto territoriale è stato prodotto dalla ristrutturazione funzionale di aziende e di intere filiere produttive attraverso i vari processi di automazione, il riassetto dimensionale degli impianti, l'approfondimento della divisione del lavoro mediante cicli di subfornitura e, in forme estremamente incisive, mediante la delocalizzazione di imprese e fasi di produzione in I. e all'estero, processo, quest'ultimo, che ha generato squilibri occupazionali, redistribuzione degli investimenti e riassetto delle strategie commerciali.
La crescente produttività industriale ha trovato un sostegno decisivo, in particolare fra l'autunno del 1992 e il 1996, nella crescita delle esportazioni legata alla sottovalutazione della lira, così da realizzare fin dal 1992 un modestissimo surplus commerciale, in seguito cresciuto notevolmente. La quota del commercio mondiale detenuta dall'I. è rimasta complessivamente stabile, mentre la composizione dell'import-export ha visto una progressiva contrazione dell'interscambio con gli Stati Uniti e una crescente diversificazione dei paesi - anche extraeuropei - con cui l'I. intrattiene rilevanti rapporti commerciali (ben 20 paesi, infatti, assommano appena il 75% dell'interscambio). Riguardo alle condizioni di equilibrio stabilitesi fra i diversi settori produttivi, nel 1996 il primario contribuiva solo per il 2,9% alla composizione del PIL, assorbendo invece il 7,4% del totale dell'occupazione, a dimostrare livelli di scarsa produttività, tuttavia in netto aumento rispetto agli anni precedenti; il settore secondario partecipava per il 31,5% al PIL, con una quota di occupati del 32,4%, mentre il terziario contribuiva per il 65,6% al PIL e per il 60,2% al totale della forza lavoro, con un considerevole incremento della produttività, che ha riguardato in larga misura il settore privato.
D'altro lato, la disoccupazione ha raggiunto livelli preoccupanti (11,1% nel luglio 1999), in particolare nel Sud, dove si toccano frequentemente tassi di disoccupazione doppi del valore medio nazionale: 25,8% in Campania e 24,3% in Calabria e Sicilia (1997). Per altro verso le rilevazioni statistiche non sono in grado di valutare l'incidenza del lavoro informale e le dimensioni di una vasta economia 'sommersa' che costituisce una considerevole risorsa nazionale, a giudicare da stime che alla metà degli anni Novanta individuavano nell'ambito informale circa un quarto del lavoro del Sud, rispetto a poco meno di un quinto nelle regioni del Nord.
Agricoltura
In questo settore l'organizzazione aziendale ha proseguito sulla via della razionalizzazione, con un forte aumento del numero delle aziende di dimensioni maggiori, a fronte di un decremento di quelle di taglia media, e di una crescente diffusione di forme giuridico-economiche più complesse e stabili, con positivi effetti nei confronti dell'accesso al credito e delle politiche commerciali. Si va contemporaneamente confermando una tendenza alla contrazione dell'occupazione agricola e della superficie coltivata, anche in relazione alle politiche comunitarie orientate al contenimento delle eccedenze.
Interventi selettivi vengono applicati, in linea con altri paesi europei, per una riqualificazione del settore, con particolare riguardo alla tutela di alcuni comparti di produzione (vino, formaggi, ortaggi, frutta, coltivazioni biologiche), che realizzano incrementi di produttività grazie a interventi legislativi e, in più casi, mediante l'attuazione di forme consortili in grado di agevolare la promozione e la commercializzazione dei prodotti. La produttività del settore agricolo è dunque andata aumentando, anche nel caso delle aziende di piccole e piccolissime dimensioni, frequentemente a conduzione part-time. L'abbandono delle terre continua, soprattutto nelle aree montane appenniniche e in alcune zone di pianura in cui le colture estensive non consentono soddisfacenti incrementi di redditività. L'allevamento è stato interessato da razionalizzazione e modernizzazione di impianti, contemporaneamente alla ripresa di tradizionali forme estensive facilitate dal regresso colturale che ha interessato vaste aree. Anche il bosco va rioccupando i terreni abbandonati e si estende su una superficie di circa 7 milioni di ettari (1996).
Industria
Gli anni Novanta hanno visto confermarsi forme di ristrutturazione del settore secondario essenzialmente legate alla diffusione di tecnologie e a processi di impiego di risorse immateriali, come informazione e ricerca: coerente con queste dinamiche è il ritorno di competitività della grande impresa, a sua volta riorganizzata attraverso l'acquisizione di originali formule di flessibilità. Si è andato progressivamente delineando un modello di sviluppo ancora differente, articolato, in forme sempre più selettive, sulla valorizzazione di potenzialità locali e sull'intreccio di dense trame relazionali, piuttosto che su interventi di zonizzazione. Infatti la ripartizione in tre grandi aree produttive (il Nord-Ovest, sede delle grandi concentrazioni urbano-industriali, il Nord-Est-Centro, organizzato sul modello dell'urbanizzazione diffusa e sullo sviluppo di sistemi di piccola e media impresa, e il Mezzogiorno, a economia marginale), ripartizione su cui si è fondata l'interpretazione dello sviluppo economico del paese a partire dagli anni Sessanta e Settanta, si va dimostrando inadeguata a cogliere nuove configurazioni di sviluppo, soprattutto per quanto riguarda la composizione della Terza Italia, sempre più articolata in subregioni con diverse fisionomie e specifiche potenzialità relazionali, spesso di portata internazionale. Le più notevoli differenziazioni interne riguardano il Veneto e l'Emilia-Romagna, dove all'industrializzazione organizzata in sistemi locali specializzati hanno fatto seguito forme di intensa terziarizzazione che hanno collocato le due regioni - il Veneto, in particolare - ai vertici dello sviluppo nazionale, a fianco del Piemonte e della Lombardia; anche le Marche continuano a guadagnare occupazione rispetto al dato medio del paese, presentando una considerevole tenuta, per lo più riconducibile alla competitività conservata dai propri sistemi produttivi locali. Una netta caduta dei livelli di produttività si conferma invece in Umbria, nel Friuli-Venezia Giulia e, in forme particolarmente gravi, nella Toscana, che fino agli anni Ottanta aveva mantenuto singolari e vivacissime forme di equilibrio fra modelli urbano-industriali di diversa taglia, soprattutto grazie alla presenza di alcuni 'distretti industriali' di grande successo, per primo quello pratese. D'altro lato, potenti trasformazioni produttive e organizzative si confermano nelle regioni industriali del Nord-Ovest, dove il Piemonte e la Lombardia, pur in condizioni di contrazione occupazionale, sono coinvolti in vaste e complesse dinamiche di ristrutturazione industriale e di crescente terziarizzazione; invece la Liguria prosegue in un irreversibile cammino di deindustrializzazione e contrazione del proprio apparato terziario-commerciale, logorato già da alcuni decenni dalla difficoltà di compensazione del crollo della grande industria e dalla perdita di centralità del porto genovese, così da toccare negli anni Novanta livelli di densità industriale vicini a quelli di alcune regioni del Sud (come il Molise). Nel Mezzogiorno permangono forti processi involutivi nell'occupazione del settore secondario, accanto a un irreversibile declino delle strutture e degli assetti del primario e a fronte della continua espansione di branche terziarie poco produttive, solo in alcuni casi coinvolte nella valorizzazione di comparti di servizio per le imprese. Le più gravi carenze del Mezzogiorno continuano peraltro a manifestarsi nella disomogeneità delle condizioni locali di sviluppo, nella provenienza spesso esogena e disarticolata di iniziative e investimenti e nella scarsa integrazione del tessuto regionale. Fra le regioni meridionali solo alcune presentano un andamento decisamente positivo: al primo posto si colloca l'Abruzzo, con un'occupazione crescente nell'industria e un'organizzazione regionale in buona parte articolata sullo sviluppo di alcuni ormai consolidati sistemi locali di produzione; in Basilicata, dove dal 1994 è in funzione il grande complesso dell'industria automobilistica impiantato dalla FIAT a Melfi, nell'ambito di uno dei più importanti interventi promossi negli ultimi decenni a favore del Mezzogiorno, continuano gli investimenti per lo sfruttamento dei giacimenti di petrolio scoperti nella valle dell'Agri, a sud di Potenza.
La principale formazione che emerge nel paese fra gli attuali modelli di sviluppo industriale è da identificare nella macroregione costituita da Piemonte, Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, che concentra un potenziale strategico di grande consistenza e complessità, fondato sull'impiego di risorse tecnologico-organizzative e fattori immateriali diversi, e su iniziative in grado di produrre coesione sociale e organizzare i relativi quadri ambientali, valorizzando la qualità dei contesti locali. La grande regione padano-veneta, che innesca processi di crescita di portata largamente transnazionale, così da inserirsi entro le più nuove direttrici di sviluppo di interesse internazionale, costituisce tuttavia la risultante di dinamiche complesse e in alcuni casi contraddittorie, specie sotto l'aspetto delle potenzialità relazionali che le caratterizzano. In questo contesto il Veneto emerge per incrementi dell'occupazione industriale maggiori che nel resto del paese, rappresentando, in particolare attraverso alcuni sistemi locali di produzione specializzati nell'abbigliamento, nell'oreficeria, nell'ottica ecc., un campo di applicazione di metodologie produttive estremamente avanzate sotto l'aspetto manifatturiero e organizzativo, e di originali dinamiche di divisione del lavoro, che consentono l'ingresso in mercati globali di competenze ed esperienze peculiari dei medesimi ambiti locali.
Nel quadro dei processi di riassetto delle relazioni di subfornitura e dell'import-export hanno preso forma, soprattutto a partire dai distretti del Nord-Est, processi di delocalizzazione di fasi e cicli produttivi verso aree con minor costo del lavoro, per lo più nell'Europa dell'Est e in Asia orientale, ma anche nel Mezzogiorno, a configurare altre direttrici di rapporto fra 'centri' e 'periferie', di stampo non solo strettamente economico ma anche socioculturale e territoriale. A partire dagli anni 1992-93 i processi di delocalizzazione produttiva in paesi stranieri, con le relative conseguenze di una contrazione occupazionale nel nostro paese e di un incremento delle importazioni di semilavorati o prodotti finiti realizzati all'estero, hanno raggiunto livelli di notevole consistenza: per la prima volta, infatti, in quegli anni l'occupazione nelle filiali straniere delle imprese italiane è stata superiore a quella delle filiali controllate da imprese estere presenti in I., confermando ritmi estremamente rapidi dei processi di internazionalizzazione produttiva mediante operazioni 'in uscita' dal paese, rispetto ai flussi in entrata. Nel corso degli anni Novanta si è moltiplicato il numero dei gruppi multinazionali di media dimensione attivi nei comparti di produzione tradizionalmente più competitivi nel commercio internazionale (tessile, abbigliamento, alimentare, meccanico, siderurgico), a fronte del lento declino di grandi gruppi oligopolistici operanti all'estero. Questi gruppi, organizzati secondo modelli differenziati, sono risultati per lo più dall'espansione di imprese altamente specializzate e flessibili, con forte capacità di impiego di tecnologie importate e di messa a punto di marchi originali, design e strategie di marketing: le possibilità di realizzazione di forti economie di scala sono derivate da opportunità legate all'unificazione del mercato europeo, alla crescita industriale dell'Estremo Oriente (soprattutto della Cina) e all'apertura delle economie dei paesi dell'Europa centro-orientale. Ne sono derivate dinamiche contraddittorie, ovvero perdita occupazionale, definitivo trasferimento di aziende e fasi produttive a favore dell'espansione di mercati esteri, e aumento della concorrenza internazionale, accanto a fattori positivi come l'acquisizione di competenze, la diversificazione dei cicli e l'allungamento di filiere specializzate, un più facile accesso alle reti di subfornitura e di distribuzione commerciale e, in molti casi, l'opportunità di sviluppare reti di alleanze e strategie di integrazione a scala globale.
Terziario
Nell'ambito del terziario, complessivamente inteso, è stato creato un gran numero di imprese individuali spesso caratterizzate da notevoli capacità innovative, sebbene siano state registrate all'interno del medesimo settore pesanti perdite occupazionali. L'evoluzione recente ha infatti presentato processi molto diversi nei vari comparti delle attività di servizio: i settori tradizionali (pubblica amministrazione, commercio, trasporti) hanno espulso manodopera in forme massicce, mentre sono cresciute le attività connesse al turismo; tuttavia, è in particolare l'insieme dei servizi alle imprese e di quelli finanziari che ha registrato il più vistoso incremento di attività e di addetti. Nell'ambito del riassetto delle infrastrutture di comunicazione va evidenziata l'entrata in funzione, alla fine del 1996, del porto di Gioia Tauro, attrezzato per diventare, nel prossimo futuro, il principale centro del Mediterraneo per il trasbordo di merci attraverso container, sulla rotta fra l'Estremo Oriente, l'Europa settentrionale e il Nordamerica.
A partire dal 1993 l'interscambio commerciale nazionale ha risentito di una fase ciclica caratterizzata dalla svalutazione e dalla successiva, recente, rivalutazione della lira. Dal lato delle esportazioni gli incrementi annui del valore dell'export sono risultati pari al 15,7% nel 1994, al 23,7% nel 1995, all'1,5% nel 1996 e al 4,3% nel 1997; ancora nel 1997 le importazioni hanno registrato un incremento del 10,3% rispetto all'anno precedente. Riguardo alla composizione settoriale delle esportazioni, nel 1997 i prodotti della metalmeccanica costituivano il 35,8% del totale; le calzature e i prodotti del tessile-abbigliamento coprivano il 16,5%; il settore composto da legno, carta e gomma, il 12,8%. Quanto alle aree di destinazione delle esportazioni, è andato cambiando il peso dei paesi a economia avanzata, stabile nel periodo fra il 1993 e il 1995 e ancora in aumento (+3,6%) nel 1997, con un forte ridimensionamento della quota assorbita dai paesi dell'Unione Europea. Fra i paesi in via di sviluppo sono quelli di nuova industrializzazione - in particolare nell'Est e Sud-Est asiatico - che acquistano quote crescenti delle nostre esportazioni; analoghe tendenze si manifestano nei paesi dell'Europa centrale e orientale.
Fra le regioni italiane, quelle che hanno contribuito in misura crescente alle esportazioni nella fase 1992-97 sono il Veneto, l'Emilia-Romagna e la Toscana e, in secondo piano, l'Abruzzo, le Marche, l'Umbria e il Molise (questi ultimi in particolare fra il 1996 e il 1997). La dinamica dell'export pare dunque uniformarsi, confermandone per certi aspetti la caratterizzazione territoriale, al modello di sviluppo industriale che è andato prendendo forme originali e sempre più diversificate nel Nord-Est e lungo la direttrice adriatica settentrionale, sulla base di produzioni competitive, spesso di nicchia (soprattutto nella meccanica), che hanno consentito di valorizzare, anche grazie a opportunità aperte dalla svalutazione della lira, la già consolidata vocazione dell'industria italiana all'esportazione: nel 1997, infatti, i mercati esteri rappresentavano la meta principale per oltre il 30% delle imprese in funzione nei distretti industriali, mentre a quegli stessi mercati si rivolgeva meno del 20% del totale delle imprese manifatturiere del paese.
Un altro aspetto di notevole significato per lo sviluppo delle condizioni di internazionalizzazione in cui si svolgono le relazioni produttive e commerciali del nostro paese riguarda l'incremento dei rapporti economici con l'Est europeo, da ricollegare all'affermarsi dei processi di rilocalizzazione produttiva, cui si è già fatto cenno. Il Veneto, in particolare, ha presentato dinamiche estremamente vivaci di trasferimento all'estero di materie prime, tecnologie e/o filiali di aziende locali, con successiva reimportazione delle merci dopo la trasformazione: nell'intera regione i settori merceologici interessati riguardavano nel 1997 soprattutto calzature, prodotti del ramo tessile-abbigliamento e pellami, oltre a comparti tipici di alcune aree provinciali, come la lavorazione del legno e il mobilificio (Padova), produzioni poligrafico-editoriali e fotografiche (Verona), prodotti della meccanica automobilistica e di precisione (Venezia, Verona e Treviso). Le aree di destinazione erano, alla stessa data, soprattutto la Romania, la Croazia, l'Ungheria, la Slovenia, i paesi del Maghreb, quelli del Sud-Est asiatico, la Cina.
Il turismo ha confermato il suo ruolo essenziale nell'economia del paese. Nel 1998 la sua consistenza numerica (in notevole aumento rispetto ai primi anni Novanta) è stata stimata in quasi 173 milioni di presenze italiane e in oltre 117 milioni di presenze straniere. L'offerta turistica nazionale si basava su circa 1,8 milioni di posti letto in strutture alberghiere, circa 228.000 posti letto in alloggi privati e altri 1,3 milioni in campeggi.
bibliografia
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Politica economica e finanziaria
di Salvatore Rossi
Nel decennio conclusivo del 20° secolo l'evoluzione dell'economia italiana, e le politiche messe in atto per guidarne lo sviluppo, sono state dirette, pur con percorsi accidentati, al riequilibrio e al risanamento degli scompensi ereditati dai due decenni precedenti. Gli anni Novanta si sono aperti nel segno del rallentamento della crescita economica, di un'inflazione piegata ma non sradicata, di uno squilibrio crescente nei conti con l'estero e, soprattutto, di un impennarsi del debito pubblico a livelli e a ritmi tali da far dubitare della sostenibilità della posizione finanziaria del settore pubblico. Su tutto questo incombeva il maturare della crisi del sistema politico, quale si era andato formando dopo la fine della Seconda guerra mondiale. All'inizio del decennio l'I., proprio mentre sottoscriveva a Maastricht (1992) un solenne impegno di convergenza verso più virtuose condizioni finanziarie, in vista del completamento dell'Unione economica e monetaria europea, veniva colpita da una gravissima crisi valutaria, sfociata in crisi economica e di regime politico. Da allora lo sforzo di risanamento si è fatto più determinato e continuativo, guidato dagli impegni di convergenza europea, e ha ottenuto importanti risultati, soprattutto sul fronte del riequilibrio del bilancio pubblico, dell'abbattimento dell'inflazione e del conseguimento di una posizione esterna attiva.
Andamenti dell'economia italiana nello scorcio del secolo
La crisi valutaria del 1992 e le misure restrittive di politica monetaria e fiscale avevano innescato nei consumatori e negli investitori italiani una spirale di incertezza e di sfiducia, che dava luogo nel 1993 a una contrazione della domanda interna del 5%, causando la peggiore recessione economica dal dopoguerra: nonostante il cospicuo progresso delle esportazioni, il PIL diminuiva dello 0,9% (tab. 7). Il ciclo produttivo toccava il suo punto minimo nell'autunno del 1993. Grazie alla forza persistente delle esportazioni, stimolate dai guadagni di competitività di prezzo che la svalutazione della lira consentiva, oltre che dal rinvigorirsi della congiuntura internazionale, la produzione interna riprendeva a crescere nei due anni successivi, a tassi fra il 2 e il 3%. L'attività economica tornava a rallentare nel triennio 1996-98, registrando tassi di crescita intorno all'1%, per l'affievolirsi del vantaggio competitivo sui mercati di esportazione, e soprattutto per l'azione di freno alla domanda interna esercitata dalle ormai indifferibili politiche di correzione strutturale del bilancio pubblico, e dai connessi effetti di compressione del reddito disponibile corrente e di quello atteso.
Ritmi di sviluppo modesti, o addirittura negativi, non potevano non riflettersi sui livelli di occupazione. La fase ciclica sfavorevole innescava profonde ristrutturazioni in singole aziende e in interi comparti produttivi e, a differenza che in passato, anche nel settore dei servizi: ne risultava un drastico calo dell'occupazione, intorno al 4% fra il 1992 e il 1995 (un milione circa di posti di lavoro), recuperata in parte nei tre anni successivi (tab. 7).
La forte caduta della domanda interna nel 1993, insieme con gli andamenti cedenti dei prezzi internazionali delle materie di base, concorreva a impedire che la svalutazione della lira si traducesse in una fiammata inflazionistica. In un contesto recessivo e di occupazione cedente, anche l'accordo fra il governo e le parti sociali sul costo del lavoro del luglio 1993 (v. oltre: La politica dei redditi) giocava un ruolo fondamentale di contenimento dell'inflazione, limitando la reattività dei salari nominali ai rialzi nei prezzi causati dalla debolezza del cambio della lira: nel periodo 1992-95 le retribuzioni pro capite in termini reali diminuivano a un tasso medio annuale del 3,4% nel complesso dell'economia (tab. 8); restavano immutate nell'industria, dove però la produttività progrediva a un tasso medio del 3,6%. In termini nominali, il costo complessivo del lavoro per unità di prodotto nell'industria aumentava nel periodo solo di poco più dell'1%, consentendo ai margini di profitto di giungere a nuovi massimi storici. L'inflazione al consumo rimaneva fra il 4 e il 5,5% circa fra il 1992 e il 1996 (tab. 7); nel 1994-95 pericolosi spunti al rialzo, soprattutto dopo l'ulteriore caduta della lira in occasione della crisi finanziaria messicana (febbraio-marzo 1995), venivano contrastati dalla politica monetaria. Il tasso di crescita dei prezzi al consumo scendeva fra il 1997 e il 1998 sotto il 2%, in linea con gli obiettivi della Banca centrale e del governo. Si chiudeva così per l'economia italiana una fase inflazionistica di durata quasi trentennale.
Nella bilancia dei pagamenti di parte corrente dell'I., dopo l'effimero e modesto avanzo del 1986, si era subito riaperto un deficit crescente, giunto nel 1992 al 2,3% del PIL, il peggior risultato fra quelli registrati quell'anno nei principali paesi industriali, a eccezione del Canada. Il succedersi per quasi un quindicennio di ingenti disavanzi esterni aveva condotto l'I. ad accumulare un debito netto nei confronti del resto del mondo quasi pari, alla fine del 1992, all'11% del PIL. Ad aggravare lo squilibrio aveva concorso il combinarsi di una politica di bilancio espansiva con una politica monetaria e del cambio rigorosamente volta alla disinflazione dell'economia: la crescente generosità delle provvidenze nette a carico del bilancio pubblico aveva alimentato il reddito disponibile delle famiglie e, allo stesso tempo, ridotto la loro propensione al risparmio, stimolando così l'afflusso dall'estero sia di beni, di consumo e d'investimento, sia di risparmio, occorrente a finanziare gli investimenti interni; il risparmio estero era stato attratto dall'elevatezza dei rendimenti nominali in presenza di stabilità del cambio. La svalutazione della lira e, soprattutto, il brusco ridimensionamento, seguito da stagnazione, della domanda interna producevano, dopo il 1992, un capovolgimento nei conti con l'estero dell'I. di entità mai prima sperimentata. Il saldo delle partite correnti diveniva positivo e raggiungeva nel 1997 il 3,6% del PIL. Il debito estero netto veniva interamente annullato e trasformato in un credito netto nel 1998.
La politica del bilancio pubblico
Negli anni Ottanta lo squilibrio di fondo della finanza pubblica italiana, quale si era andato delineando nel decennio precedente, aveva mostrato un allarmante peggioramento. Negli anni Novanta si avviava l'azione riequilibratrice, dapprima incerta, poi più decisa ed efficace. Il saldo primario diventava positivo nel 1991. Un primo surplus primario di qualche consistenza (quasi il 2% del PIL) lo si otteneva nel 1992 (tab. 9). Quel risultato veniva consolidato nel 1993 (2,6%), pur in presenza di una fase ciclica molto avversa; veniva eroso nel 1994 (1,8%). L'ordine di grandezza di questi avanzi era comunque ancora insufficiente: il rapporto debito pubblico/PIL continuava a crescere, da poco più del 100% del PIL alla fine del 1991 a quasi il 125% alla fine del 1994. Infatti, i pagamenti di interessi raggiungevano ormai il 12% del PIL (nel 1993), anche a causa del rialzo dei tassi di interesse connesso con la crisi valutaria. Nel 1995, in presenza di un nuovo cedimento del cambio della lira, l'avanzo primario veniva comunque portato a un valore pari al 3,4% del PIL, ma ciò non consentiva una riduzione del rapporto debito/PIL (125,3% alla fine dell'anno).
Alla fine degli anni Novanta, l'I. si è impegnata in uno sforzo di consolidamento dei risultati ottenuti, anche allo scopo di ottemperare agli impegni di stabilità finanziaria assunti nel quadro dell'Unione economica e monetaria europea. Nel 1996, la correzione del bilancio continuava (l'avanzo primario saliva fino al 4% del PIL) e, per la prima volta nel decennio, il rapporto debito/PIL si riduceva, anche se meno di un punto percentuale. Nel 1997 e nel 1998 l'azione correttiva riprendeva vigore, al fine di allineare il bilancio pubblico italiano agli standard europei. Il progresso da un saldo primario sostanzialmente nullo nel 1991 a un surplus di 4,8 punti percentuali di PIL nel 1998 è il risultato di un aumento delle entrate di circa 3 punti e di una riduzione delle spese primarie di circa 2 punti.
L'azione più incisiva riguardava la spesa pubblica per prestazioni previdenziali. Sebbene l'ammontare complessivo della spesa sociale in I. non fosse negli ultimi anni fuori linea rispetto al resto d'Europa, ne appariva del tutto anomala la composizione: quasi due terzi erano assorbiti dalle prestazioni previdenziali, contro una quota pari a meno della metà nel resto d'Europa. Era invece di gran lunga minore la spesa destinata alla disoccupazione e all'occupazione, alla famiglia, alla casa, ai poveri. La composizione della spesa era inoltre orientata, in misura molto maggiore che nella media europea, a favorire i lavoratori autonomi e gli appartenenti (attuali o passati) al mercato 'regolare' del lavoro dipendente. Una tale struttura della spesa, oltre ad essere in contrasto con le tendenze demografiche e finanziariamente insostenibile, appariva socialmente ingiusta e ostacolava la competitività e lo sviluppo del sistema produttivo nel suo complesso.
La politica dei redditi
Un primo esperimento di politica dei redditi era già maturato nel paese nei primi anni Ottanta, ma altri schemi di politica dei redditi hanno trovato nuovo e più forte impulso nel corso degli anni Novanta.
Nel 1992 il governo, anche facendo leva sull'impegno di stabilità del cambio, favoriva un'intesa fra le parti sociali sulla definitiva cessazione della scala mobile e sui principi di una riforma del sistema di contrattazione. Nel luglio del 1993, nonostante il cedimento del cambio e l'emergere di connessi rischi inflazionistici, l'intesa veniva completata e ratificata. Essa ha stabilito che la contrattazione sindacale sia articolata in due livelli, uno accentrato (nazionale, di categoria), l'altro decentrato (territoriale, aziendale); che il contratto nazionale abbia durata biennale per gli aspetti retributivi, quadriennale per quelli regolamentari; che la crescita salariale nel biennio successivo sia legata al tasso 'programmatico' dell'inflazione futura, cioè a quello ufficialmente indicato come obiettivo della politica macroeconomica. Alla scadenza del biennio, ove l'inflazione effettivamente osservata abbia ecceduto quella 'programmatica', le parti ne tengono conto in sede di contratto nazionale, valutando la discrepanza anche alla luce delle eventuali 'perdite nella ragione di scambio' del paese. Il contratto aziendale, a sua volta, remunera essenzialmente i miglioramenti di produttività, possibilmente prevedendo forme di partecipazione dei lavoratori agli utili d'impresa.
La politica monetaria
Già nella prima metà degli anni Ottanta erano state poste le basi di una svolta nell'assetto istituzionale della politica monetaria, soprattutto in virtù del cosiddetto divorzio fra Banca d'Italia e Tesoro (v. italia: Politica economica e finanziaria, App. V). Nel decennio successivo l'assetto istituzionale della Banca d'Italia si è evoluto verso la completa autonomia dal governo e la definitiva separazione funzionale fra la politica monetaria e quella del bilancio pubblico: è stato formalmente rimesso alla sola Banca centrale il potere di variare i tassi 'ufficiali' d'interesse sulle operazioni di sconto e di anticipazione; nel quadro degli adempimenti connessi con l'avvio dell'Unione economica e monetaria europea è stato vietato il finanziamento monetario del bilancio pubblico. La politica monetaria guarda ora in misura crescente a indicatori direttamente concernenti la dinamica dei costi e dei prezzi, in aggiunta a quelli tradizionali (base monetaria, moneta, credito e attività finanziarie, tassi d'interesse).
Dagli ultimi mesi del 1992, e fino a metà del 1994, la Banca d'Italia, muovendo dall'altissimo grado di restrizione monetaria raggiunto al culmine della crisi valutaria, assecondava una graduale ma continua discesa dei tassi d'interesse a breve termine. Nello stesso tempo scendevano anche i tassi a lungo termine e i differenziali con gli altri paesi più industrializzati.
Nel giugno 1994 divenivano però evidenti alcuni segni premonitori di un prossimo rialzo dell'inflazione al consumo. Constatata l'insufficienza degli effetti di contenimento della domanda interna che dovevano provenire dalla politica di bilancio, la Banca d'Italia tornava ad acuire la restrizione monetaria, innalzando in agosto i tassi ufficiali. Nel febbraio del 1995, come si è già rammentato, la crisi finanziaria che scuoteva il Messico perturbava i mercati valutari di tutto il mondo. Il valore esterno della lira subiva un nuovo tracollo, di entità appena inferiore a quella sperimentata nel settembre del 1992, prospettando un rischio di forte rialzo dell'inflazione. La politica monetaria accentuava ancora il suo orientamento restrittivo, sventando quel rischio. Rallentata l'inflazione, stabilizzate le aspettative, la Banca centrale ha potuto avviare dall'autunno del 1996 una cauta politica di allentamento delle condizioni monetarie.
La politica di ammodernamento del sistema finanziario
Sin dalla metà degli anni Ottanta, anche sotto la spinta dell'integrazione internazionale (in particolare di quella europea), si era iniziato a porre mano all'ammodernamento del sistema finanziario italiano, attardato da vari punti di vista: relativa chiusura alle transazioni internazionali; limitatezza dei servizi offerti; dominanza di un'intermediazione bancaria caratterizzata da scarsa concorrenza ed estesa proprietà pubblica.
Nel sistema bancario veniva innanzitutto soppressa la tradizionale segmentazione in due distinte categorie di banche, specializzate l'una nel credito a medio e a lungo termine e l'altra nel credito a breve termine; aumentava il grado di concorrenza, grazie a una serie di innovazioni regolamentari introdotte dalla Banca d'Italia, come la liberalizzazione dell'apertura di sportelli bancari e la possibilità di costituire nuove banche. La l. 10 ott. 1990 nr. 287, volta a sanzionare i comportamenti lesivi della concorrenza, affidava alla stessa Banca d'Italia il compito di tutelare la concorrenza nel mercato del credito. La trasformazione del sistema bancario si consolidava con l'introduzione del nuovo Testo unico (d. legisl. 1° sett. 1993 nr. 385) in materia creditizia. Incontrava difficoltà e lentezze la correzione dell'altra indesiderata caratteristica delle banche italiane, vale a dire la loro prevalente appartenenza alla sfera pubblica. Era invece coronata da successo l'opera di liberalizzazione delle transazioni finanziarie con l'estero. Alti argini regolamentari avevano infatti impedito fin dai primi anni Settanta il deflusso all'estero dei capitali italiani. Nell'arco di cinque anni, dal 1986 al 1990, il blocco veniva totalmente smantellato. La liberalizzazione era accompagnata da innovazioni negli strumenti e nelle strutture del mercato finanziario nazionale.
Gli interventi legislativi, attuati nei primi anni Novanta per riformare il mercato azionario, costituivano infine i primi passi nella direzione di una maggiore trasparenza del mercato e di una più efficace tutela degli azionisti di minoranza, anche se l'imprenditoria italiana rimaneva in generale ostile e diffidente nei confronti di un moderno mercato azionario.
L'ingresso nell'Unione economica e monetaria europea e le nuove priorità della politica economica
Gli accordi attuativi del Trattato di Maastricht stabilivano che le prestazioni dei paesi desiderosi di far parte dell'Unione monetaria europea fossero misurate, e rapportate ai parametri di ammissibilità, con riferimento all'anno 1997. Alla vigilia di quella scadenza l'I. giungeva attardata. Nelle due principali grandezze di bilancio delle amministrazioni pubbliche - il saldo annuo fra entrate e spese e la consistenza del debito accumulato - i risultati del 1996 eccedevano largamente i parametri: il disavanzo raggiungeva il 6,5% del PIL, contro una soglia del 3; il debito alla fine dell'anno era pari al 124,6% del prodotto, contro una soglia del 60 (soglia peraltro superabile, a norma di Trattato, in caso di consolidata tendenza discendente). Nel confronto con gli altri paesi, l'I. era visibilmente distaccata dal gruppo centrale, in compagnia della sola Grecia. La situazione appariva migliore con riguardo alle altre due soglie di accesso all'Europa, quelle riferibili lato sensu alla stabilità monetaria: i tassi medi annui di crescita dei prezzi al consumo e di rendimento sui titoli a lungo termine erano, nella media del 1996, del 3,9 e del 9,4%, rispettivamente, a fronte di soglie, riferite allo stesso periodo, del 2,6 e del 9,1%. Quanto all'ulteriore criterio di ammissibilità all'Unione, quello della stabilità dei tassi di cambio, l'I. riusciva a conformarvisi all'ultimo momento utile, tornando ad aderire nel novembre del 1996 agli Accordi di cambio del Sistema monetario europeo (SME), da cui si era staccata quattro anni prima.
Quello stesso anno, veniva deciso dal governo, e approvato dal Parlamento, uno sforzo straordinario di correzione del bilancio pubblico, comprendente un prelievo tributario una tantum specificamente dedicato all''ingresso in Europa'. La manovra sortiva effetti di portata inusitata. Grazie al forte aumento dell'avanzo primario di bilancio, prima ricordato, il disavanzo complessivo in rapporto al PIL si contraeva fino a scendere sotto la soglia del 3%, al 2,6%. Il rapporto fra debito pubblico e PIL accelerava la sua discesa, portandosi al 122,4%. I criteri stabiliti nel Trattato di Maastricht venivano rispettati anche con riferimento al tasso d'inflazione e al tasso d'interesse a lungo termine, la cui convergenza verso i livelli più bassi prevalenti in Europa compiva passi decisivi. Il tasso di cambio della lira restava nel 1997 e nel 1998 sostanzialmente stabile, senza bisogno di interventi di sostegno da parte della Banca d'Italia. Il 2 maggio 1998 il Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo decideva di ammettere l'Italia fra i paesi che avrebbero adottato l'euro come moneta unica fin dal 1° gennaio 1999 (v. euro, in questa Appendice).
L'integrazione dell'economia italiana in quella europea, già avanzata sul terreno produttivo e commerciale, non esaurisce i compiti della politica economica. Questa deve volgersi in misura crescente alle questioni strutturali ancora irrisolte. Esse sono la generale questione dell'ammodernamento del sistema produttivo, con riguardo: al funzionamento del mercato del lavoro; alle politiche per il mercato e la concorrenza; al ridimensionamento e alla riforma del settore pubblico; alla competitività estera delle imprese italiane. Nel 1998-99, periodo caratterizzato da una crescita contenuta del PIL e da una lieve ripresa dell'inflazione, le politiche attuate hanno in generale prodotto risultati positivi ma di portata contenuta.
bibliografia
Oltre alle Relazioni generali sulla situazione economica del paese dei ministri del Bilancio e del Tesoro e alle Relazioni del Governatore della Banca d'Italia all'assemblea dei partecipanti, Roma, dal 1981, cfr.: Banca d'Italia, Bollettino economico, Roma, dal 1983, nr. 1-33.
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Storia
di Vittorio Vidotto
Le inchieste della magistratura milanese sulla corruzione nella vita pubblica, iniziate nel 1992, hanno avuto effetti dirompenti sul sistema politico italiano, innescando e accelerando una serie di trasformazioni che non si sono tuttavia tradotte in riforme istituzionali. Il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica, ripetutamente annunciato e per molti aspetti già visibile, dopo sei anni era ancora incompiuto. La repubblica dei partiti che il presidente del Consiglio, G. Amato, aveva dato per morta dopo i referendum dell'aprile 1993, ha invece dimostrato un'imprevista nuova vitalità a partire dal 1997, rallentando quella compiuta transizione al bipolarismo che era implicita nella scelta del sistema maggioritario come criterio delle competizioni elettorali.
Negli anni immediatamente successivi alla crisi del 1992-93 alcuni risultati politici apparivano definitivamente acquisiti. Le inchieste di 'Mani pulite' avevano infatti prodotto una larga delegittimazione della classe politica di governo (DC, PSI, PSDI, PRI, PLI) e soprattutto dei suoi vertici, mentre, sotto la spinta di un'opinione pubblica infiammata dalle ipotesi di cambiamento, il paese sembrava avviato a rovesciare radicalmente il sistema delle relazioni politiche, abbandonando l'immobilismo consociativo per imboccare la strada della conflittualità e dell'alternanza democratica. La rivelazione del sistema della corruzione aveva reso scarsamente credibili principi e progetti delle forze politiche, e aveva quindi contribuito a sgretolare anche le tradizioni su cui avevano continuato a fondarsi i partiti nell'età repubblicana. Il crollo dell'Unione Sovietica e la fine del bipolarismo delle superpotenze avevano reso inattuali scelte politiche guidate da contrapposizioni e appartenenze giustificate dal quadro politico internazionale. Ne era derivata una fase di depotenziamento dei partiti, delle loro organizzazioni e delle forme tradizionali di militanza, mentre veniva favorita dai nuovi meccanismi elettorali una marcata personalizzazione della politica.
Questo processo era stato avviato nel 1993 in occasione della prima tornata di consultazioni amministrative con l'elezione diretta del sindaco ed eventuale ballottaggio fra i due candidati più votati. In quella circostanza si erano avuti veri e propri duelli televisivi fra candidati contrapposti, come nel caso del confronto per il Comune di Roma fra G. Fini, leader del MSI, e F. Rutelli alla guida di uno schieramento di centro-sinistra, risoltosi a vantaggio di quest'ultimo. La personalizzazione della politica e un più forte ruolo della televisione nell'orientare l'elettorato erano stati ulteriormente rafforzati dall'ingresso in politica dell'imprenditore televisivo S. Berlusconi in occasione delle elezioni politiche previste per il marzo 1994.
Dopo il varo della nuova legge elettorale nell'agosto del 1993, nuove elezioni anticipate apparivano ormai inevitabili. Un Parlamento eletto con le nuove regole e formato da uomini non compromessi con il sistema delle tangenti era nelle attese dell'opinione pubblica. Per la vecchia maggioranza di governo si trattava di salvare quanto possibile della tradizione di partiti largamente coinvolti e ormai decimati nei loro vertici. Allontanatosi B. Craxi (non solo dal partito, ma dall'I.), il PSI aveva affidato a due ex sindacalisti, prima a G. Benvenuto, poi a O. Del Turco, la segreteria del partito, senza riuscire in tempi brevi a restituire credibilità alla sua immagine. La DC, guidata da M. Martinazzoli - un politico noto per la sua integrità morale -, aveva deciso di tornare alle origini e alla vecchia denominazione del primo partito cattolico (quello fondato da L. Sturzo nel 1919) riassumendo il nome di Partito popolare italiano. Ma quando l'Assemblea costituente varò la rinascita del PPI (gennaio 1994), un gruppo di dirigenti democristiani (fra cui P.F. Casini, F. D'Onofrio e C. Mastella), ostili al ruolo dominante delle sinistre nel nuovo partito, diede vita a una nuova formazione, il Centro cristiano democratico (CCD). Anche a destra si registrò un'accelerazione nel cambiamento. Il segretario del MSI G. Fini, sfruttando i successi ottenuti nelle elezioni comunali del 1993, puntò a ottenere una definitiva legittimazione per il suo partito, dando vita ad Alleanza nazionale, in cui oltre al MSI confluirono alcuni esponenti democristiani. Sollecitato a ridefinire i rapporti con il passato fascista, dopo aver ribadito la scelta compiuta a favore della democrazia, Fini dichiarò che il fascismo era finito definitivamente nel 1945, sbarazzandosi così del passato neofascista. Ricordò tuttavia la positività di un'epoca, quella fascista, e di Mussolini come uomo di Stato fino agli errori della politica razziale e della guerra.
Tra la fine del 1993 e gli inizi del 1994 l'elemento di maggior novità nella scena politica italiana fu l'ingresso in politica di S. Berlusconi. Proprietario, con la Fininvest, delle tre maggiori reti televisive private (Canale 5, Italia 1, Retequattro) e del Milan, la società di calcio più forte di quegli anni, industriale impegnato in molti altri settori, dall'edilizia alla grande distribuzione, alle assicurazioni, alla finanza, alla pubblicità, Berlusconi aveva manifestato a più riprese la sua intenzione di dar vita a un proprio movimento politico per il quale cercava adesioni e alleanze. Nel gennaio 1994 aveva annunciato la sua 'discesa in campo' e la nascita del movimento Forza Italia con l'obiettivo di arginare l'annunciato successo delle sinistre (e in primo luogo del PDS), di riaggregare un centro disperso e in gravissima crisi, di porsi infine come elemento costitutivo di un nuovo schieramento di centro-destra con vocazione liberista e orientamento liberal-democratico. Berlusconi intendeva far valere la grande notorietà legata ai successi di imprenditore fattosi da sé e puntava sull'appoggio esplicito e implicito delle sue reti televisive e su larghe risorse finanziarie. Il progetto di Berlusconi, che godeva del sostegno di intellettuali e uomini di cultura, riuscì a tradursi in meno di due mesi in un cartello elettorale con la Lega Nord nell'I. settentrionale (Polo delle libertà) e con Alleanza nazionale nel Centro-Sud (Polo del buongoverno). Confluirono nella coalizione anche i radicali di M. Pannella, il CCD e altri politici raccolti nell'Unione di centro. Alla capacità persuasiva di Berlusconi si sommò la scelta calcolata di tutto uno schieramento di centro-destra che non aveva la forza e le risorse per opporsi alla coinvolgente iniziativa dell'imprenditore milanese. Sul fronte opposto il PDS aggregò, nel cartello dei Progressisti, tutte le forze di sinistra, da Rifondazione comunista ai socialisti, dai Verdi alla Rete, ad Alleanza democratica, un nuovo gruppo della sinistra liberal-democratica. Isolati in un contesto che imponeva alleanze programmate (con scambio di voti e desistenze negoziate) apparivano il PPI e il gruppo raccolto intorno a M. Segni, collocati al centro fra i due schieramenti.
Le elezioni del 27-28 marzo 1994 (v. tabb. 10, 11, 12) decretarono il successo delle forze guidate da Berlusconi, che ottennero alla Camera 302 dei 475 seggi attribuiti dai collegi uninominali. Il centro-destra conquistava con largo margine la maggioranza assoluta alla Camera, mancandola di poco al Senato. Il sistema elettorale che distribuiva proporzionalmente il 25% dei seggi consentì tuttavia un recupero al PPI e al PDS. Nonostante che il movimento di Berlusconi avesse ottenuto percentualmente il maggior numero di voti in tutta I. (il 21% misurato sulla quota proporzionale della Camera) e avesse superato la Lega persino in Lombardia, i deputati della Lega furono più numerosi di quelli di Forza Italia: la presenza già definita di candidature della Lega nei numerosissimi collegi dell'Italia settentrionale riversò su di esse, in virtù dell'alleanza nel Polo delle libertà, anche i voti di Forza Italia. Sempre in base alla quota proporzionale, l'unica in grado di accertare i rapporti di forza fra i partiti, il PDS ottenne la seconda posizione (20,3%), seguito da Alleanza nazionale (13,5) e dal PPI (11,1). Nella distribuzione geografica dei seggi i Progressisti prevalsero in Emilia-Romagna, Toscana, Umbria, Marche, ma anche in realtà regionali meno prevedibili, come Abruzzo, Campania e Calabria. Nelle altre regioni settentrionali e meridionali la vittoria del centro-destra fu nettissima. Il successo di Berlusconi, un successo confermato e anzi accresciuto nelle elezioni europee di giugno (quando Forza Italia raggiunse il 30,6%), fu attribuito non solo al sostegno delle sue televisioni, ma soprattutto all'abilità nel proporsi come l'unico in grado di sostituire il ceto politico spazzato via dagli scandali di Tangentopoli (per un'analisi più dettagliata delle elezioni del 1994, v. partiti politici, App. V).
Dalle elezioni del marzo 1994, prima prova del maggioritario e del confronto fra due schieramenti contrapposti, discendevano alcuni risultati di grande rilievo per il sistema dei partiti: la scomparsa di un partito egemone come era stata la DC, la quasi scomparsa dei socialisti e dei partiti laici minori, lo sgretolamento del centro e del partito cattolico, la legittimazione dell'estrema destra rappresentata dal MSI-Alleanza nazionale, ma soprattutto la concreta possibilità dell'instaurarsi di un meccanismo di alternanza fra maggioranza e opposizione, ove si fosse proceduto alle riforme istituzionali e a introdurre qualche correttivo al meccanismo elettorale.
All'indomani delle elezioni le trattative avviate da Berlusconi, presidente del Consiglio incaricato, per giungere alla formazione del nuovo esecutivo misero in luce quanto fosse difficile tradurre in un coerente programma di governo gli accordi elettorali promossi da Forza Italia. Le profonde divergenze tra Alleanza nazionale e Lega Nord, già emerse nel corso della campagna elettorale, rimanevano sostanzialmente irrisolte, mentre il leader leghista U. Bossi vincolava la permanenza del suo partito all'interno della maggioranza all'attuazione di una riforma dello Stato in senso federalista e dimostrava di condividere le riserve del centro e della sinistra sul duplice ruolo di Berlusconi come presidente del Consiglio e titolare di ampi interessi economici, in particolare nel campo dell'informazione. Nonostante tali difficoltà e le perplessità suscitate a livello internazionale dalla presenza nella compagine ministeriale, per la prima volta dal dopoguerra, di esponenti di un partito diretto discendente della tradizione fascista, nel maggio 1994 Berlusconi formò un governo di centro-destra di cui entrarono a far parte, accanto a Forza Italia, Alleanza nazionale, Lega Nord, Centro cristiano democratico e Unione di centro, con l'appoggio esterno della Lista Pannella.
I risultati delle elezioni europee di giugno confortarono la coalizione di governo (essa ottenne il 49,7% dei voti), tuttavia il nuovo esecutivo fu ben presto minato da gravi contrasti interni, resi evidenti quando il ministro della Giustizia A. Biondi presentò (luglio) un decreto che prevedeva forti restrizioni ai poteri di arresto da parte dei giudici e aboliva di fatto la custodia cautelare per i reati di corruzione e concussione. La netta opposizione della Lega Nord, che pure aveva inizialmente approvato il testo presentato da Biondi, portò alla fine, dopo la minaccia di dimissioni dei magistrati del pool di Milano e le reazioni ostili dell'opinione pubblica, al ritiro del decreto.
Le questioni e le procedure giudiziarie rimanevano al centro del dibattito politico, mentre Berlusconi aveva assunto posizioni sempre più critiche nei confronti dell'operato della magistratura inquirente milanese, in particolare dopo il coinvolgimento delle sue società Fininvest e Publitalia in inchieste per falso in bilancio e frode fiscale (marzo). Anche la questione del conflitto di interessi limitava la capacità di azione del presidente del Consiglio che su questo tema incaricò un comitato di saggi di individuare una soluzione riconducibile a quella del blind trust presente nel sistema statunitense. Sul piano economico emerse, nel giro di pochi mesi, la fragilità del governo, che aveva presentato un programma teso a perseguire la ripresa produttiva e il risanamento della finanza pubblica attraverso una drastica riduzione della spesa sociale, una serie di sgravi fiscali alle imprese, un'ampia deregolamentazione del mercato del lavoro e l'accelerazione del processo di privatizzazione delle imprese pubbliche.
La presentazione della manovra finanziaria, che prevedeva 48.000 miliardi tra tagli ed entrate da condoni, il blocco delle assunzioni per sei mesi nel pubblico impiego e delle pensioni di anzianità (tale questione, su sollecitazione del presidente della Repubblica O.L. Scalfaro, fu poi stralciata dalla finanziaria e inserita in un complessivo progetto di riforma del sistema previdenziale), condusse, in autunno, a forti tensioni sociali in tutto il paese e a un inasprimento del clima politico. Dopo la rottura della prassi ormai consolidata che voleva assegnate alla minoranza la presidenza di una delle due Camere (presidenti della Camera dei deputati e del Senato erano stati eletti, rispettivamente, la leghista I. Pivetti e l'esponente di Forza Italia C. Scognamiglio) e di almeno alcune delle Commissioni parlamentari, il governo dimostrò una scarsa disponibilità al tradizionale dialogo con i sindacati. Di fronte a tale situazione, riprendeva slancio l'azione delle organizzazioni sindacali e dei partiti della sinistra, impegnati da mesi in un serrato dibattito interno (a giugno S. Cofferati era stato eletto segretario generale della CGIL al posto di B. Trentin, e il segretario del PDS A. Occhetto aveva rassegnato le dimissioni, sostituito da M. D'Alema, già coordinatore della segreteria e presidente del gruppo parlamentare alla Camera). Mentre Alleanza nazionale e Lega Nord, anche al fine di salvaguardare il consenso di ampi settori del loro elettorato, dimostravano di non condividere del tutto la radicalità delle proposte governative, il sindacato, interpretando un diffuso malcontento popolare, proclamò per il 14 ottobre uno sciopero generale contro la finanziaria, che vide scendere in piazza circa tre milioni di persone. La successiva manifestazione di protesta del 12 novembre a Roma, con la partecipazione di oltre un milione di persone, e la proclamazione di un nuovo sciopero generale per il 2 dicembre costrinsero infine il governo a riprendere le trattative con le parti sociali. L'accordo raggiunto il 1° dicembre con i sindacati (furono cancellate le restrizioni sulle pensioni di anzianità e si stabilì la limitazione del blocco dei trattamenti pensionistici anticipati fino al riordino del sistema previdenziale, e comunque non oltre il giugno 1995) non risolse però le difficoltà dell'esecutivo, stretto tra la debolezza della lira sui mercati finanziari e il riacutizzarsi dei problemi giudiziari di Berlusconi, raggiunto a Napoli, durante una conferenza internazionale, da un avviso di garanzia della Procura di Milano per concorso in corruzione, nel quadro di un'inchiesta sulla Guardia di Finanza (novembre 1994).
A decretare la crisi del governo fu la Lega Nord, che imputò al presidente del Consiglio di aver tradito gli accordi iniziali sulle riforme istituzionali in senso federalista, sulla privatizzazione del settore pubblico e sulla liberalizzazione dell'economia. La convergenza tra PDS, PPI (guidato dal luglio da R. Buttiglione) e Lega Nord fu il preludio all'uscita di quest'ultima dalla maggioranza di governo e alle inevitabili dimissioni di Berlusconi (22 dicembre). Nonostante le accuse da questi rivolte alla Lega di aver tradito la volontà popolare espressa con il voto del marzo 1994 e le richieste di un immediato ritorno alle urne, il presidente Scalfaro, ribadito il carattere parlamentare del nostro ordinamento, affidò l'incarico di formare un nuovo esecutivo a L. Dini, già ministro del Tesoro nel precedente gabinetto. Dini ottenne la fiducia delle Camere (gennaio 1995) grazie alla formazione di una composita maggioranza comprendente il PDS, il PPI, la Lega Nord, il Patto Segni, i Verdi, la Rete e Alleanza democratica; Forza Italia, Alleanza nazionale e il Centro cristiano democratico si astennero, mentre i soli voti contrari furono espressi dal Partito della Rifondazione comunista, guidato da F. Bertinotti. Anche in previsione di nuove elezioni anticipate il nuovo governo, composto esclusivamente da 'tecnici' non appartenenti direttamente a partiti politici, nacque con l'intento di allentare le tensioni fra gli schieramenti e realizzare un programma limitato ad alcuni obiettivi prioritari: nuove norme in materia di propaganda elettorale attraverso il mezzo radiotelevisivo in modo da garantire la parità di condizione fra i partecipanti alla competizione elettorale (un disegno di legge sulla cosiddetta par condicio fu approvato dal Consiglio dei ministri in febbraio), una nuova legge elettorale regionale con premio di maggioranza, interventi correttivi sulla finanza pubblica e l'avvio della riforma del sistema previdenziale. Nei mesi successivi il governo perse il suo originario carattere tecnico per divenire espressione della maggioranza di centro-sinistra che lo sosteneva, mentre Forza Italia e i suoi alleati passarono all'opposizione votando contro l'esecutivo già in marzo, quando Dini ricorse alla fiducia per ottenere l'approvazione di una manovra economica aggiuntiva (previsti 20.000 miliardi, di cui 15.000 di nuove entrate e 5000 di tagli alla spesa pubblica); a favore della manovra, oltre alle forze che sostenevano il governo, si schierò anche una minoranza di Rifondazione comunista, che in giugno sarebbe uscita dal partito per dar vita alla formazione dei Comunisti unitari. Intanto, già nel febbraio 1995 R. Prodi, economista, ex presidente dell'IRI, già ministro dell'Industria ed esponente del PPI, si era candidato, in una prospettiva bipolare, ad antagonista di Berlusconi e a leader di una nuova alleanza di centro-sinistra (l'Ulivo).
Una prima verifica dei rapporti di forza fra i due schieramenti si ebbe nelle elezioni regionali di aprile, che dimostrarono una certa mobilità del quadro politico. I risultati attribuirono 9 regioni al centro-sinistra e 6 al centro-destra. Una seconda, seppure indiretta verifica, venne dai referendum sulla riduzione delle reti concesse a un privato e sulla diminuzione della pubblicità nei programmi televisivi. I referendum miravano chiaramente a ridimensionare il potere televisivo di Berlusconi, e la sconfitta dei proponenti fu un successo politico dell'imprenditore milanese e della sua capacità di orientare, in questo campo, il grande pubblico. Fra i dodici referendum votati nella stessa tornata (11 giugno 1995) fu battuto quello che intendeva estendere a tutti i comuni la nuova legge elettorale fortemente maggioritaria, introdotta nel 1993 per i comuni fino a 15.000 abitanti, mentre ottennero successo quelli volti a ridurre le prerogative delle maggiori confederazioni nel godimento dei diritti sindacali.
Era continuato frattanto il rinnovamento dei partiti per adeguarsi alla nuova congiuntura. Nel gennaio 1995 Alleanza nazionale si era trasformata in un vero e proprio partito: a Fiuggi si era infatti celebrato l'ultimo congresso del MSI e il primo della nuova forza politica. Anche all'interno del PPI si erano verificati importanti cambiamenti: in primavera, gravi contrasti tra i sostenitori di un'intesa con le forze progressiste e i fautori di un'alleanza con quelle di centro-destra avevano portato a una scissione in due spezzoni contrapposti, guidati rispettivamente da G. Bianco e da R. Buttiglione (a luglio quest'ultimo avrebbe poi dato vita a un nuovo partito, denominato Cristiani democratici uniti, CDU). A sinistra, mentre dal novembre 1994 una parte dell'eredità del PSI e del suo personale politico si era raccolta in una nuova formazione politica denominata Socialisti italiani (SI), il PDS proseguiva la politica già avviata a livello amministrativo e volta a costruire un'alleanza di governo con i partiti di centro, dando a luglio il sostegno ufficiale alla candidatura di Prodi e allo schieramento dell'Ulivo. Rifondazione comunista, invece, continuava la politica di netta opposizione al governo Dini in nome di una rigida, e a tratti efficace, difesa delle consolidate tutele offerte dallo stato sociale, anche di quei meccanismi considerati ormai anacronistici da tutte le altre forze politiche. In particolare il PRC aveva contrastato fortemente, ricorrendo persino all'ostruzionismo parlamentare, il progetto di riforma previdenziale presentato in maggio dall'esecutivo, sul quale si era registrata una parziale convergenza tra le forze che sostenevano il gabinetto Dini e quelle del centro-destra. Dopo alcune modifiche, tra luglio e agosto il Parlamento approvò un disegno di legge che modificava soprattutto il sistema di calcolo delle pensioni, che si sarebbe riferito ai contributi versati durante l'attività lavorativa e non più invece alle retribuzioni percepite, passando così gradatamente dal sistema retributivo a quello contributivo, analogo a quello vigente negli altri paesi economicamente avanzati.
I mesi successivi furono caratterizzati dalle tensioni derivanti dagli irrisolti rapporti fra politica e giustizia. In ottobre tutti gli esponenti politici inquisiti nell'ambito del caso Enimont furono riconosciuti colpevoli dal Tribunale di Milano (tra gli altri vennero condannati, con pene diverse, B. Craxi, A. Forlani, C. Martelli, P. Cirino Pomicino e l'ex amministratore della DC, S. Citaristi) e le condanne furono confermate nei successivi processi d'appello. Mentre Berlusconi, rinviato a giudizio per le presunte tangenti pagate dal gruppo Fininvest alla Guardia di Finanza, accentuava la polemica contro la magistratura milanese, lamentando un atteggiamento persecutorio nei suoi confronti, sorgeva un aspro contrasto tra la Procura di Milano e il ministro di Grazia e Giustizia, l'ex magistrato F. Mancuso, in seguito alle ispezioni ministeriali e alle azioni disciplinari promosse da quest'ultimo nei confronti del pool di 'Mani pulite'. La vicenda sfociò in un'aperta crisi politica e istituzionale, che vide contrapposte le forze dell'opposizione, schierate con il guardasigilli, e quelle della maggioranza, che sostennero la mozione di sfiducia personale presentata dai Progressisti nei confronti di Mancuso, costretto infine alle dimissioni e sostituito ad interim dal presidente del Consiglio.
Sullo sfondo delle ricorrenti tensioni rimaneva la prospettiva dell'inevitabile tornata elettorale anticipata. Ma le forze politiche non sembravano disposte a trovare un accordo sulla data delle nuove elezioni. La consultazione popolare veniva costantemente proposta e rinviata ricordando come prioritaria la necessità di mettere a punto le regole del nuovo sistema di alternanza, di modificare la legge elettorale, considerata insoddisfacente, di affrontare le linee di fondo delle riforme istituzionali fondandole su una larga intesa. Accanto a questi motivi, molti contavano sul prolungamento dei tempi per definire i difficili equilibri interni ai due cartelli elettorali e su un graduale ridimensionamento del fenomeno leghista. La Lega, infatti, staccatasi dal Polo e schieratasi con il centro-sinistra nella maggioranza che sosteneva Dini, appariva ai più come un fattore politicamente incontrollabile e sostanzialmente antisistema. Tra la fine del 1995 e gli inizi del 1996, dopo l'approvazione della legge finanziaria e le dimissioni del governo Dini (gennaio) che considerava esaurito il suo compito, anche gli ultimi tentativi di trovare un accordo politico fra maggioranza e opposizione si rivelarono inutili. Fallito un tentativo affidato ad A. Maccanico di formare un governo di 'larghe intese', che desse avvio a riforme istituzionali in senso semipresidenziale, a febbraio il presidente della Repubblica sciolse le Camere.
In vista delle elezioni politiche, fissate per il 21 aprile, lo stesso Dini decise di presentarsi con una propria formazione politica, Rinnovamento italiano, nell'alleanza dell'Ulivo. Dello schieramento di centro-sinistra, guidato da Prodi, facevano parte il PDS, il PPI, i Verdi e l'Unione democratica, gruppo di ispirazione laica fondato per l'occasione da Maccanico. Con Rifondazione comunista venne invece stipulato un accordo elettorale di 'desistenza', in base al quale l'Ulivo rinunciava, in alcuni collegi uninominali, a presentare propri candidati per sostenere quelli di Rifondazione, e da parte sua quest'ultima si impegnava a sostenere i candidati del centro-sinistra negli altri collegi.
Le elezioni (v. tabb. 13, 14, 15) videro il successo di misura della coalizione di centro-sinistra, che ottenne la maggioranza assoluta al Senato e quella relativa alla Camera dei deputati, dove diveniva determinante l'appoggio di Rifondazione. L'Ulivo conquistò alla Camera 284 seggi contro i 246 del Polo per le libertà, mentre Lega Nord e Rifondazione comunista ottennero rispettivamente 59 e 35 seggi. Per quanto riguarda il peso delle singole forze politiche, nella quota proporzionale per la Camera il PDS con il 21,1% dei voti risultò il primo partito del paese, seguito a breve distanza da Forza Italia con il 20,6% dei consensi. Tra gli altri partiti dell'Ulivo la Lista per Prodi (comprendente il PPI, l'Unione democratica, il PRI e la SVP) ottenne il 6,8%, Rinnovamento italiano il 4,3%, e i Verdi il 2,5% dei voti. Tra le forze del Polo per le libertà, ad Alleanza nazionale andò il 15,7% dei voti e il 5,8% al CCD e ai CDU, presentatisi con una lista comune. La Lega Nord, radicata nelle regioni settentrionali, riportò un inatteso e sorprendente successo che smentiva tutte le previsioni, conquistando il 10,1% dei voti su base nazionale e superando il 30% nel Nord-Est; Rifondazione comunista, dal canto suo, ottenne l'8,6% dei consensi.
Avviata la 13a legislatura con l'elezione del popolare N. Mancino alla presidenza del Senato e dell'esponente del PDS L. Violante a quella della Camera, a maggio Prodi formò un governo di centro-sinistra di cui entrò a far parte, dopo quasi cinquant'anni, il maggior partito della sinistra italiana, erede diretto del PCI. Tra i dirigenti del PDS chiamati a far parte dell'esecutivo furono tra gli altri W. Veltroni, vicepresidente del Consiglio e ministro dei Beni culturali, e G. Napolitano, ministro degli Interni. Figure di spicco del nuovo governo erano, poi, gli ex presidenti del Consiglio Dini e Ciampi, ai quali furono assegnati rispettivamente gli incarichi di ministro degli Esteri e di ministro del Tesoro e del Bilancio (accorpati in una sorta di ministero dell'Economia).
Un incarico di grande impatto sull'opinione pubblica fu quello dei Lavori pubblici affidato ad A. Di Pietro, ex magistrato, il più popolare dei pubblici ministeri impegnati nelle inchieste milanesi di Tangentopoli. Quest'ultimo, dopo le dimissioni dalla magistratura (aprile 1995), era rimasto al centro dell'attenzione generale per il suo ventilato ingresso in politica con una collocazione autonoma di centro, ma segnata da accenti populisti, e insieme per il coinvolgimento in diverse vicende giudiziarie con l'accusa di abuso d'ufficio e concussione, dalle quali era stato però prosciolto. Di Pietro, che continuava a suscitare larghi consensi e simmetrici dissensi, nuovamente indagato in un procedimento giudiziario, nel novembre successivo si sarebbe dimesso da ministro.
Il governo Prodi si trovava di fronte una serie di problemi mai radicalmente risolti, ma che potevano essere affrontati con la inusuale tranquillità consentita a un esecutivo destinato a durare (secondo previsioni destinate poi a essere smentite) un'intera legislatura. Si trattava, in primo luogo, di trovare un punto di equilibrio tra l'indispensabile politica di rigore finanziario e la tutela dei ceti meno protetti. Ma una prospettiva di lunga durata era ostacolata dai rischi e dai diversi obiettivi perseguiti da una maggioranza eterogenea che si estendeva dal centro all'estrema sinistra.
La prima tappa, dettata anche dagli impegni internazionali assunti dall'I., fu quella di ridurre il deficit del bilancio statale entro il rapporto del 3% con il PIL: si trattava del più importante dei parametri fissati a Maastricht per l'ammissione nel sistema della moneta unica europea. Del resto, i vincoli esterni indotti dagli obblighi europei si erano già dimostrati come i correttivi più efficaci della politica finanziaria. Sotto la guida di Ciampi, una serie di interventi fiscali e di tagli alla spesa pubblica consentivano all'I., grazie anche al progressivo calo dell'inflazione fino a valori insolitamente bassi (1,5% circa), di rientrare nel Sistema monetario europeo alla fine del 1996, di attestarsi, alla fine del 1997, al di sotto dell'obiettivo del 3%, di entrare ufficialmente nel maggio 1998, superando le riserve di alcuni partner europei, nell'Unione monetaria (v. sopra: Politica economica e finanziaria).
Questi risultati furono raggiunti al termine di un percorso segnato da tensioni interne ed esterne alla maggioranza. Dopo una prima manovra economica aggiuntiva di 16.000 miliardi (luglio 1996), il governo varò una legge finanziaria pari a 62.500 miliardi. Nei mesi successivi il dibattito fu particolarmente acceso. I sindacati confederali giudicarono eccessivi i tagli alla spesa sociale previsti dalla finanziaria e criticarono le misure fiscali sulla casa e sul reddito, ritenute penalizzanti nei confronti dei lavoratori dipendenti; anche Rifondazione comunista manifestò dissenso da questi aspetti della manovra, condizionando il proprio sostegno a un maggiore impegno dell'esecutivo sui temi dell'occupazione. L'opposizione più aspra fu, a ogni modo, quella del Polo per le libertà, che si schierò nettamente contro la politica fiscale del governo e contro provvedimenti che avrebbero colpito i lavoratori autonomi e danneggiato la ripresa produttiva. Critico in particolare nei confronti della tassa regionale sul patrimonio e della cosiddetta Eurotassa (un'imposta una tantum che avrebbe fatto incassare allo Stato 12.500 miliardi), il Polo in novembre promosse una vasta manifestazione di protesta che mobilitò, per la prima volta in modo così massiccio, ampi settori del ceto medio, accentuando il dissenso in Parlamento fino a disertare l'aula in occasione del voto sulla finanziaria. L'approvazione di quest'ultima (dicembre), modificata in alcuni punti ma invariata nella sua entità complessiva, non risolse però in maniera definitiva il problema della coesione della maggioranza, al cui interno Rifondazione comunista continuava spesso a differenziare la propria posizione da quella dell'esecutivo. Problemi analoghi si ripresentarono nell'autunno 1997 quando il governo Prodi, nel settembre, avviò un confronto con le parti sociali per la riforma del sistema previdenziale e presentò la legge finanziaria per il 1998, che contemplava tagli per 25.000 miliardi. Particolarmente netta fu l'opposizione di Rifondazione comunista, critica nei confronti della manovra economica del governo e più in generale della sua azione rispetto al problema dell'occupazione. L'annuncio del voto contrario alla legge finanziaria da parte del PRC indusse Prodi, il 9 ottobre, a rimettere l'incarico nelle mani del presidente della Repubblica. Una fitta serie di incontri tra le forze del centro-sinistra e Rifondazione comunista permise tuttavia di evitare che la crisi di governo giungesse alle estreme conseguenze: il 14 ottobre tutte le componenti della maggioranza approvarono la legge finanziaria, sulla base dell'impegno del governo a presentare un disegno di legge che consentisse, a partire dal 2001, la riduzione dell'orario di lavoro a 35 ore.
Le difficoltà dei rapporti con Rifondazione si manifestarono anche in tema di politica estera, in occasione di un ennesimo acuirsi della crisi albanese che da tempo comportava dirette conseguenze anche per il nostro paese, le cui coste pugliesi erano meta di ricorrenti sbarchi di immigrati clandestini. La decisione di inviare, con l'autorizzazione delle Nazioni Unite, una missione di pace in Albania per garantirvi il ripristino della legalità e libere elezioni (aprile 1997) fu apertamente osteggiata dal PRC che, giudicando negativamente l'invio di forze militari, espresse alla Camera un voto contrario alla proposta del governo, approvata quindi con i voti determinanti del Polo per le libertà. Le divergenze maggiori rimanevano, comunque, sulle questioni relative alla revisione del welfare state. In particolare una vera, grande riforma del sistema previdenziale, oggetto di ampie discussioni e tesi contrastanti soprattutto fra le forze di sinistra, non appariva più dilazionabile, non solo per ragioni immediatamente finanziarie, ma per gli effetti sociali di lungo periodo. Si trattava di evitare di caricare sulle generazioni future il costo, alla lunga insostenibile, di un numero elevato di pensionati di cui, a partire dagli anni Settanta, era stata favorita, attraverso la pratica dei prepensionamenti, un'uscita precoce dal mondo del lavoro. Il prolungamento dell'età media, legato al miglioramento complessivo delle condizioni di vita, sommato alla riduzione numerica delle classi giovanili e degli occupati, rischiava infatti di far collassare il sistema. I correttivi proposti dal governo, resi necessari dall'eccessiva gradualità della riforma Dini, determinavano le resistenze dei sindacati e la risoluta opposizione di Rifondazione comunista. In un contesto di generale scarsità delle risorse e di riduzione della spesa appariva difficile trovare nel paese e fra le forze politiche, anche di opposizione, i consensi necessari per ridurre i privilegi diffusi e già acquisiti a vantaggio di un rilancio dell'occupazione.
Problemi non meno delicati erano quelli legati alla giustizia. Le inchieste sul sistema delle tangenti, che avevano avviato il crollo del sistema politico della prima Repubblica, pur essendosi tradotte in numerosi processi, seppure concentrati in un numero limitato di procure, erano ben lungi dall'essere concluse, non solo per la lentezza dei vari gradi di giudizio, ma per il continuo affiorare di nuovi casi che vedevano coinvolti politici, imprenditori, funzionari pubblici e anche magistrati. Erano andate quindi deluse le aspettative di chi riteneva di poter chiudere in tempi brevi la stagione delle illegalità con la definizione delle responsabilità relative. Né pareva percorribile la via di una qualche soluzione politica del problema, sentita da larga parte dell'opinione pubblica come un'ingiustificata sanatoria. Nessuna forza politica osava dar corso fino in fondo a proposte concrete in questo senso. La situazione era resa ancora più complessa dal contemporaneo svolgimento dei processi di mafia (primo fra tutti quello che vedeva coinvolto G. Andreotti) e dall'uso in questi e in altri procedimenti delle dichiarazioni dei 'pentiti'. Rimaneva infine aperto un contenzioso spesso assai aspro fra settori dell'ordine giudiziario e settori della classe politica, che criticavano il ruolo protagonistico assunto dopo Tangentopoli dalla magistratura inquirente: il contrasto era ulteriormente alimentato dal coinvolgimento in alcune inchieste del leader dell'opposizione, Berlusconi. Si tentò così di inserire la questione giudiziaria nell'ambito più vasto delle riforme istituzionali. Qui il governo cedette il passo all'iniziativa parlamentare. L'intesa fra Berlusconi e il segretario del PDS, D'Alema, aveva portato alla costituzione di una Commissione bicamerale (febbraio 1997) per delineare un progetto organico di riforme istituzionali (v. anche stato: Riforme istituzionali, in questa Appendice). La Commissione, presieduta da D'Alema, giungeva, nel corso del 1997, attraverso una serie di complessi negoziati e delicati compromessi con tutte le forze politiche, a definire una serie di modifiche costituzionali. La proposta della Bicamerale, destinata a essere discussa dalle Camere nel 1998, prevedeva l'istituzione di un sistema semipresidenziale, caratterizzato dall'elezione popolare diretta del presidente della Repubblica e da un capo del governo designato contestualmente dalla maggioranza; l'introduzione di una serie di elementi di federalismo, e infine maggiori garanzie per gli imputati nei procedimenti giudiziari. In seguito, nuove tensioni fra i due schieramenti sulla questione del presidenzialismo avrebbero tuttavia imposto la rinuncia a ogni progetto consensuale. In realtà gli accordi raggiunti nella Bicamerale non erano riusciti a sciogliere né la questione giudiziaria, elemento dirimente per Berlusconi, né quella, rimasta sullo sfondo ma in realtà determinante, della riforma della legge elettorale. Su quest'ultimo tema si misuravano gli interessi del folto personale politico sopravvissuto alla crisi dei partiti e ormai suddiviso in molti gruppi disposti all'interno di uno schema bipolare tutt'altro che consolidato. Il bipolarismo italiano non era fondato su grandi partiti contrapposti secondo il modello delle maggiori democrazie occidentali, ma si caratterizzava per il confronto fra cartelli elettorali assai compositi.
Decisiva diveniva dunque la capacità di aggregazione dei singoli schieramenti e la credibilità dei candidati. Proprio una certa superiorità in questi ambiti, legata a una più lunga tradizione politica, aveva consentito allo schieramento di centro-sinistra di riconquistare, nelle elezioni amministrative della primavera-autunno 1997, la guida di molti grandi centri come Torino, Roma, Napoli, Palermo, mentre il centro-destra riusciva a sottrarre Milano alla Lega. Proprio l'ampiezza degli schieramenti riproponeva i problemi del peso relativo, dell'autonomia, delle prospettive delle singole forze politiche operanti al loro interno. Nel centro-sinistra rimanevano in gioco le dimensioni dell'egemonia del PDS e i rapporti con l'Ulivo, nel centro-destra le questioni relative alla tenuta della leadership di Berlusconi e al ruolo di Alleanza nazionale, mentre da singoli esponenti politici venivano rilanciate ipotesi di rafforzamento della componente centrista rappresentata nei due campi dai partiti derivati dalla frantumazione della DC.
Nel febbraio del 1998, con la convocazione a Firenze dei cosiddetti stati generali della sinistra, fu avviato il processo di formazione dei Democratici di sinistra (DS) guidati da D'Alema e comprendenti, oltre al PDS, la Federazione laburista, i Comunisti unitari, i Cristiano sociali ed esponenti della sinistra repubblicana. Nel centro-destra un lungo confronto interno portò alla nascita (luglio) di una nuova formazione politica (UDR), promossa e guidata dall'ex presidente della Repubblica F. Cossiga, al cui interno confluirono, tra gli altri, esponenti di Forza Italia, dei CDU e del CCD. Sorto con l'obiettivo di ricostruire una forza moderata in grado di collocarsi al centro tra i due schieramenti e di dialogare autonomamente con essi, il nuovo movimento suscitò le perplessità di quanti vedevano minacciato il consolidarsi del bipolarismo. All'interno della maggioranza, intanto, rimanevano irrisolti i motivi del contrasto tra l'Ulivo e Rifondazione comunista, che assunse con il passare dei mesi un atteggiamento sempre più critico, destinato a sfociare in contrasto aperto alla fine di settembre, ancora una volta al momento della presentazione della legge finanziaria. Gli interventi per il Sud e per l'occupazione previsti dalla manovra approvata dal governo furono infatti ritenuti inadeguati da Rifondazione che contestava l'impianto stesso della legge, in quanto priva delle riforme di struttura, giudicate necessarie per uscire dalla depressione, e dei provvedimenti per affrontare le questioni dell'equità sociale. In realtà la proposta di Bertinotti di votare contro la finanziaria e di ritirare la fiducia al governo non era condivisa da un'ala dissidente che si era raccolta intorno ad A. Cossutta. Questi, dopo che la maggioranza degli esponenti del PRC aveva approvato la linea del segretario, decise di uscire dal partito dando vita al Partito dei comunisti italiani (PdCI).
Nonostante i voti garantiti da Cossutta il governo non riuscì a ottenere la fiducia e Prodi fu costretto a rassegnare le dimissioni (9 ottobre). Le trattative tra i partiti per un nuovo governo misero contemporaneamente in luce la disponibilità dell'UDR ad appoggiare il centro-sinistra, respingendo tuttavia il disegno dell'Ulivo, considerato pregiudizievole per la ricostruzione di un centro cattolico. Prodi, a cui il presidente della Repubblica aveva affidato un incarico esplorativo, decise quindi di ritirarsi. L'incarico fu così affidato a D'Alema che riuscì a formare un ministero DS-PPI-PdCI-Verdi-UDR, che ottenne senza difficoltà la fiducia in Parlamento, e contro il quale si schierarono il Polo per le libertà, la Lega e Rifondazione comunista. Nel governo entrarono esponenti dell'UDR e del PdCI, ma molti ministri (fra cui Ciampi e Dini) conservarono i dicasteri precedenti. Agli Interni andò per la prima volta una donna, R. Jervolino Russo, mentre all'ex presidente del Consiglio Amato fu affidato il delicato incarico delle Riforme istituzionali. Veltroni, lasciato il governo, passò alla segreteria dei DS, abbandonata da D'Alema.
La decisione dell'UDR di appoggiare un governo di centro-sinistra scatenò le reazioni del Polo per le libertà (al cui interno erano stati eletti i parlamentari UDR) e riaprì il dibattito sulle riforme istituzionali, ritenute indispensabili per garantire il bipolarismo e arginare le ricorrenti tentazioni trasformiste. In realtà il confronto su tali questioni, dopo gli esiti negativi della Commissione bicamerale, era tornato a imporsi soprattutto in seguito all'iniziativa referendaria promossa da Di Pietro, Segni e Occhetto per ottenere l'abrogazione della quota proporzionale nelle elezioni della Camera dei deputati. Così ancora una volta, come nel 1991 e nel 1993, l'ipotesi referendaria si proponeva come l'unica via possibile per introdurre correttivi al sistema politico: riforme circoscritte ai meccanismi elettorali (di per sé ritoccabili per legge ordinaria) che si rivelavano, nell'incompiuta transizione italiana, il vero punto conflittuale per una classe politica riluttante ad affrontare senza garanzie il problema del riassetto dei poteri e degli equilibri istituzionali.
In realtà lo sviluppo delle vicende politiche non avrebbe consentito, nel corso del 1999, il riattivarsi di quei meccanismi che, negli anni precedenti, avevano imposto, sotto la spinta delle consultazioni referendarie, un'accelerazione alle trasformazioni del sistema politico. Il 18 aprile 1999, infatti, non venne raggiunto il quorum per convalidare il referendum sulla quota proporzionale: solo il 49,6% degli aventi diritto si era recato a votare e così, nonostante il 91% dei votanti fosse favorevole all'abrogazione, cadeva ogni ipotesi di ritocco della legge elettorale. Questo risultato rifletteva la difficoltà di coinvolgere una significativa maggioranza di cittadini intorno a una questione tecnicamente complessa e suggeriva anche una lettura diversa dei precedenti referendum, espressione più di un rifiuto generico delle modalità tradizionali della politica che esplicita indicazione a favore di un nuovo sistema elettorale. Così questa volta l'astensionismo non testimoniava la volontà di mantenere una normativa favorevole alla frammentazione partitica, ma più semplicemente attestava una divaricazione fra la dimensione politica e la partecipazione dei cittadini. A questo esito contribuiva, oltre alla scarsa leggibilità del quesito, anche l'eccessivo ricorso all'istituto referendario ormai trasformato da strumento eccezionale in pratica usuale e ricorrente, spesso dai contenuti e dagli obiettivi difficilmente comprensibili. Comunque motivato, il graduale allentamento della partecipazione, sintomo palese del mutato atteggiamento dei cittadini nei confronti della politica, veniva confermato dalle elezioni europee del 13 giugno. (v. tab. 16)
Se confrontiamo, infatti, le percentuali di affluenza al voto si può notare che nel ventennio 1979-99 i votanti erano passati dall'85,3 al 70,8% (e dall'85,7 al 69,8% se si comprende anche l'apporto dei votanti italiani nell'Unione Europea). Le elezioni europee fornivano anche una serie di altre indicazioni. In primo luogo il fallimento di quel disegno di semplificazione del sistema partitico che era parte integrante del passaggio al maggioritario: se le liste che riportarono seggi erano 11 nel 1979, 13 nel 1989 e 14 nel 1994, nel 1999 salivano a 18. Non era un risultato derivante semplicemente dal sistema proporzionale adottato nelle europee, ma dalla necessità sempre più impellente per vecchie e nuove formazioni politiche di misurare la loro forza in rapporto alle altre e di far valere quindi il loro peso o di consentire ai raggruppamenti meno forti di rendere in qualche modo visibile la loro presenza. I dati elettorali confermavano innanzitutto l'egemonia di Berlusconi e del suo movimento, Forza Italia, sullo schieramento di centro-destra in virtù non solo del numero complessivo dei voti ottenuti, ma del larghissimo successo personale dello stesso Berlusconi che, presentatosi capolista in tutte le cinque circoscrizioni, riportò quasi tre milioni di preferenze; inoltre registravano una netta divaricazione percentuale tra Forza Italia e i DS, rovesciando a vantaggio della prima la piccola supremazia ottenuta dal PDS nelle elezioni politiche del 1996 e indebolendo il partito del presidente del Consiglio sceso nettamente sotto il 20%. Nel centro-destra si rivelava improduttivo l'accordo elettorale fra Alleanza nazionale e Patto Segni, mentre otteneva un significativo successo la lista della radicale E. Bonino, che col sostegno del partito di Pannella e grazie a una tambureggiante campagna elettorale (seconda solo a quella di Berlusconi) faceva valere la sua notorietà di commissario europeo raccogliendo molti suffragi anche di diversa provenienza. Nel centro-sinistra si affermava, sottraendo voti al PPI, la nuova formazione de I Democratici - fondata da Prodi (poi chiamato alla guida della Commissione europea) e in cui erano confluiti, fra gli altri, Di Pietro e i sindaci di alcune grandi città, come F. Rutelli di Roma, E. Bianco di Catania, M. Cacciari di Venezia - e un discreto risultato ottenevano i Socialisti democratici italiani (nelle cui liste veniva eletto Martelli) e l'Unione democratici per l'Europa (UDEUR) di C. Mastella, nata dall'abbandono dell'UDR da parte di Cossiga e dei cossighiani.
Nel complesso, il risultato del centro-destra superava quello del centro-sinistra: lo schieramento di governo confermava in questa occasione un indebolimento che pareva legato alle sempre nuove divisioni interne e a una certa insoddisfazione per la sua azione politica. L'elettorato, con la scarsa partecipazione e con il voto, seppure in una prova non decisiva, non sembrava premiare né la positività dell'indicazione di C.A. Ciampi (allora ministro del Tesoro) per la carica di presidente della Repubblica, alla quale era stato eletto con larghissimo consenso del Parlamento il 13 maggio, né la capacità con cui il governo aveva guidato, trovando l'appoggio dell'opposizione, il paese nella grave crisi del Kosovo che aveva visto l'Italia partecipare, in sintonia con gli alleati della NATO, alla guerra aerea contro la Iugoslavia (anche se limitandosi prevalentemente ad operazioni di supporto). Un ulteriore segnale negativo per il centro-sinistra veniva anche dalla storica sconfitta subita dai DS a Bologna dove, per la prima volta dal dopoguerra, non veniva eletto un sindaco della sinistra ma il candidato del Polo, l'indipendente G. Guazzaloca.
Nella seconda metà del 1999 il quadro politico era segnato nel centro-destra dall'allineamento di tutte le componenti intorno alla leadership di Berlusconi, mentre nel centro-sinistra si accentuava la conflittualità di uno schieramento composito in costante ridefinizione. Alcune forze, eredi soprattutto della DC e del PSI, alla ricerca di una completa rilegittimazione politica e del recupero in positivo della loro tradizione, denunciavano all'opinione pubblica l'assenza di equità nell'accertamento delle responsabilità collettive per i fenomeni di Tangentopoli. Altra questione aperta, che si aggiungeva ai nodi non ancora sciolti dei correttivi alla legge elettorale e alla riforma delle pensioni, era quella della leadership dello schieramento di centro-sinistra nella prospettiva non lontana delle consultazioni politiche generali e della più vicina scadenza delle elezioni regionali. L'ipotesi di un possibile consolidamento della posizione di D'Alema, erede di una tradizione in cui non si poteva riconoscere l'intera alleanza ed esponente di un partito forte ma in evidente difficoltà elettorale e propositiva, accentuava le inquietudini di alcune forze politiche. Si aprì così una crisi dai contorni difficilmente afferrabili per un'opinione pubblica affaticata dai giochi della politica, ma chiarissima per le forze che intendevano riequilibrare i pesi e le posizioni nello schieramento. Nel dicembre 1999 D'Alema si dimetteva, riottenendo l'incarico per la formazione di un nuovo governo di centro-sinistra. Il nuovo esecutivo riconosceva maggior peso ai Democratici che ottenevano il Ministero degli interni e quello dei Lavori pubblici, attribuiti rispettivamente a Bianco (allora sindaco di Catania) e a W. Bordon. Alla vigilia di Natale il governo riceveva la fiducia delle Camere con l'astensione della nuova formazione del Trifoglio che riuniva socialisti, repubblicani e il gruppo legato a Cossiga.
Alla chiusura del secolo molte delle alternative aperte dalla crisi del 1992-93 apparivano ancora non risolte. La polarizzazione del sistema politico era incompiuta così come non trovava consensi quella riformulazione delle regole che da molte parti si auspicava. Si era riaffacciata con forza la tradizione del trasformismo e si era consolidata, soprattutto grazie alla vicenda esemplare di Berlusconi, una fortissima personalizzazione della politica. La personalizzazione mirava a cancellare definitivamente quella repubblica dei partiti che cercava invece in ogni modo di sopravvivere e di riproporsi. Vecchie e consolidate tradizioni continuavano a mescolarsi a nuove pratiche politiche senza riuscire a offuscare il senso del passaggio cruciale attraversato dal paese, che nell'apertura e nel confronto con l'Europa aveva trovato, seppure solo a tratti, la capacità di dare avvio al cambiamento.
bibliografia
La politica italiana. Dizionario critico 1945-95, a cura di G. Pasquino, Roma-Bari 1995.
M.L. Salvadori, Storia d'Italia e crisi di regime, Bologna 1996; P. Ginsborg, L'Italia del tempo presente. Famiglia, società civile, Stato. 1980-1996, Torino 1998.
G. Mammarella, L'Italia contemporanea (1943-1998), Bologna 1998.
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Storia d'Italia, 6° vol., L'Italia contemporanea. Dal 1963 a oggi, a cura di G. Sabbatucci, V. Vidotto, Roma-Bari 1999. M.L. Salvadori, La Sinistra nella storia d'Italia, Roma-Bari 2000.
Elenco dei ministeri dall'11 maggio 1994
1. - (11 maggio 1994 - 17 genn. 1995): Presidente, S. Berlusconi; Vicepresidenti, G. Tatarella, R. Maroni; Senza portafoglio, G. Ferrara (Rapporti con il Parlamento), S. Berlinguer (Italiani nel mondo), F. Speroni (Riforme istituzionali), G. Urbani (Funzione pubblica e Affari regionali), A. Guidi (Famiglia e Solidarietà sociale), D. Comino (Politiche comunitarie); Esteri, A. Martino; Interni, R. Maroni; Grazia e Giustizia, A. Biondi; Bilancio e Programmazione economica, G. Pagliarini; Finanze, G. Tremonti; Tesoro, L. Dini; Difesa, C. Previti; Pubblica Istruzione, F. D'Onofrio; Lavori pubblici, R.M. Radice; Risorse agricole, alimentari e forestali, A. Poli Bortone; Trasporti e Navigazione, P. Fiori; Poste e Telecomunicazioni, G. Tatarella; Industria, Commercio e Artigianato, V. Gnutti; Lavoro e Previdenza sociale, M.C. Mastella; Commercio Estero, G. Bernini; Sanità, R. Costa; Beni culturali e ambientali, D. Fisichella; Ambiente, A. Matteoli; Università e Ricerca scientifica e tecnologica, S. Podestà.
2. - (17 genn. 1995 - 17 maggio 1996): Presidente, L. Dini; Senza portafoglio, G. Motzo (Riforme istituzionali), F. Frattini (Funzione pubblica e Affari regionali), A. Ossicini (Famiglia e Solidarietà sociale); Esteri (con incarico per gli Italiani nel mondo), S. Agnelli; Interni, A. Brancaccio (dimissionario l'8 giugno 1995), G.R. Coronas; Grazia e Giustizia, F. Mancuso (destituito il 19 ott. 1995), L. Dini ad interim; Bilancio e Programmazione economica (e incarico per le Politiche comunitarie), R. Masera; Finanze, A. Fantozzi; Tesoro, L. Dini; Difesa, D. Corcione; Pubblica Istruzione, G. Lombardi; Lavori pubblici, P. Baratta; Risorse agricole, alimentari e forestali, W. Luchetti; Trasporti e Navigazione, G. Caravale; Poste e Telecomunicazioni, A. Gambino; Industria, Commercio e Artigianato, A. Clò; Lavoro e Previdenza sociale, T. Treu; Commercio Estero, A. Clò; Sanità, E. Guzzanti; Beni culturali e ambientali, A. Paolucci; Ambiente, P. Baratta; Università e Ricerca scientifica e tecnologica, G. Salvini.
3. - (17 maggio 1996 - 21 ott. 1998): Presidente, R. Prodi; Vicepresidente, W. Veltroni; Senza portafoglio, A. Finocchiaro (Pari opportunità), F. Bassanini (Funzione pubblica e Affari regionali), L. Turco (Solidarietà sociale); Esteri (con incarico per gli Italiani all'estero), L. Dini; Interni (e incarico per il Coordinamento della protezione civile), G. Napolitano; Grazia e Giustizia, G.M. Flick; Bilancio e Programmazione economica, C.A. Ciampi ad interim; Finanze, V. Visco; Tesoro, C.A. Ciampi; Difesa, B. Andreatta; Pubblica Istruzione, L. Berlinguer; Lavori pubblici (e incarico per le Aree urbane), A. Di Pietro (dimissionario il 20 nov. 1996), P. Costa; Risorse agricole, alimentari e forestali, M. Pinto; Trasporti e Navigazione, C. Burlando; Poste e Telecomunicazioni, A. Maccanico; Industria, Commercio e Artigianato (e incarico per il Turismo), P.L. Bersani; Lavoro e Previdenza sociale, T. Treu; Commercio Estero, A. Fantozzi; Sanità, R. Bindi; Beni culturali e ambientali (e incarico per lo Spettacolo e lo Sport), W. Veltroni; Ambiente, E. Ronchi; Università e Ricerca scientifica e tecnologica, L. Berlinguer ad interim.
4. - (21 ott. 1998 - 22 dic. 1999): Presidente, M. D'Alema; Vicepresidente, S. Mattarella; Senza portafoglio, G. Amato (Riforme istituzionali fino al 13 maggio 1999), A. Maccanico (dal 21 giugno 1999), L. Balbo (Pari opportunità), A. Piazza (Funzione pubblica), K. Belillo (Affari regionali), L. Turco (Solidarietà sociale), G. Folloni (Rapporti con il Parlamento), E. Letta (Politiche comunitarie); Esteri (con incarico per gli Italiani all'estero), L. Dini; Interni (e incarico per il Coordinamento della protezione civile), R. Jervolino Russo; Grazia e Giustizia, O. Diliberto; Tesoro, Bilancio e Programmazione economica, C.A. Ciampi (dimissionario il 13 giugno 1999 dopo l'elezione alla Presidenza della Repubblica), G. Amato; Finanze, V. Visco; Difesa, C. Scognamiglio; Pubblica Istruzione, L. Berlinguer; Lavori pubblici (e incarico per le Aree urbane), E. Micheli; Risorse agricole, alimentari e forestali, P. De Castro; Trasporti e Navigazione, T. Treu; Poste e Telecomunicazioni, S. Cardinale; Industria, Commercio e Artigianato, P.L. Bersani; Lavoro e Previdenza sociale, A. Bassolino (dimissionario il 21 giugno 1999), C. Salvi; Commercio Estero, P. Fassino; Sanità, R. Bindi; Beni e attività culturali (e incarico per lo Spettacolo e lo Sport), G. Melandri; Ambiente, E. Ronchi; Università e Ricerca scientifica e tecnologica, O. Zecchino.
5. - (22 dic. 1999): Presidente, M. D'Alema; Senza portafoglio, A. Maccanico (Riforme istituzionali), L. Balbo (Pari opportunità), F. Bassanini (Funzione pubblica), K. Belillo (Affari regionali), L. Turco (Solidarietà sociale), A. Loiero (Rapporti con il Parlamento), P. Toia (Politiche comunitarie); Esteri, L. Dini; Interni (e incarico per il Coordinamento della protezione civile), E. Bianco; Giustizia, O. Diliberto; Tesoro, Bilancio e Programmazione economica, G. Amato; Finanze, V. Visco; Difesa, S. Mattarella; Pubblica Istruzione, L. Berlinguer; Lavori pubblici, W. Bordon; Politiche agricole e forestali, P. De Castro; Trasporti e Navigazione, P.L. Bersani; Comunicazioni, S. Cardinale; Industria, Commercio e Artigianato, E. Letta; Lavoro e Previdenza sociale, C. Salvi; Commercio Estero, P. Fassino; Sanità, R. Bindi; Beni e attività culturali, G. Melandri; Ambiente, E. Ronchi; Università e Ricerca scientifica e tecnologica, O. Zecchino.