italiano come pidgin
L’espressione lingua pidgin (forse da pitsin, versione in pidgin inglese della Cina dell’ingl. business «affari»: Shi 1992) designa le lingue che si sviluppano in situazioni di contatto di lingue e di culture (➔ contatto linguistico) in cui esista una lingua dominante. Le lingue pidgin si formano a seguito di processi di acquisizione di lingue seconde che non approdano alle varietà della lingua di arrivo, a causa dell’assenza o della drastica riduzione dell’input che può essere fornito dai parlanti nativi (➔ acquisizione dell’italiano come L2). La lingua di cui è impedita o pregiudicata l’acquisizione continua pur sempre a trasparire negli elementi lessicali coinvolti nel processo di pidginizzazione; viene per questo chiamata lingua lessicalizzatrice.
I fattori che innescano i processi di pidginizzazione sono di ordine sociale; oltre all’assenza o riduzione dell’input linguistico, i principali sono (Berruto 1991):
(a) l’assenza di una lingua condivisa nel contesto multilingue;
(b) la distanza linguistica e culturale tra i gruppi coinvolti nel processo di pidginizzazione;
(c) i rapporti asimmetrici tra i gruppi con diversa lingua prima;
(d) la necessità di instaurare e migliorare la comunicazione con i mezzi a disposizione della lingua dominante di cui è impedita l’acquisizione.
Per rispondere ai bisogni comunicativi si instaurano usi e combinazioni condivisi di elementi della lingua lessicalizzatrice che comportano un certo grado di complessità degli enunciati. I processi di pidginizzazione sono quindi ancorati all’origine a processi di acquisizione di L2, ma si differenziano da questi perché il codice che ne scaturisce non punta a replicare un modello fornito da parlanti nativi. Ciò significa anche che una lingua pidgin non ha parlanti nativi: è una lingua che si impara nel corso della propria vita, e che si estingue con le persone che la parlano.
Per l’italiano, lo snodo tra processi di acquisizione di L2 e processi di pidginizzazione è illustrato, per es., dal comportamento di un gruppo di immigrate peruviane a Torino con una rete comunicativa limitata, che comporta un certo grado di isolamento sociale. Il fatto che il loro modo di parlare italiano come L2 non sia orientato all’acquisizione dell’italiano è rivelato dallo sviluppo autonomo, forse derivato dalla L2 ma non copiato dalla L1, del pronome atono ce «(a) noi/ci», nel quale forme clitiche spagnole in -e si contrappongono a forme italiane in -i (Vietti 2005):
(1) si me dice decire: fermarsi qua ce fermiamo se no ... «se mi dice di fermarsi qua ci fermiamo, se no ...».
Per quanto riguarda l’organizzazione linguistica, la crescita di un idioma via via più complesso comporta la ➔ rianalisi e ristrutturazione del materiale lessicale a disposizione, oltreché la mescolanza di elementi tratti dalle diverse lingue coinvolte. La varietà linguistica che ne risulta è in generale incomprensibile per i parlanti nativi della lingua lessicalizzatrice, che devono imparare il pidgin come una qualsiasi L2.
Infine, la gamma di funzioni a cui il pidgin risponde è limitata al contesto in cui si è sviluppato: i pidgin sono sorti di solito nell’ambito marittimo (come il Russonorsk, nato a cavallo tra XIX e XX secolo attorno a Capo Nord), commerciale (così il pidgin cinese a base inglese, nato sulla costa della Cina, tra il XVIII e il XX secolo), militare (come il Nàmglish, pidgin del Vietnam a base inglese, XX secolo), lavorativo, come il Fanagalo, usato tra sudafricani bianchi e maestranze di colore nelle miniere (Arends, Muysken & Smith 1994).
Il pidgin viene abbandonato quando si dissolve il contesto multietnico e multiculturale che gli ha dato origine: ciò si osserva nel caso del Nàmglish, abbandonato dopo il ritiro delle truppe USA dal Vietnam nel 1975. All’inverso, può stabilizzarsi se si consolidano le condizioni sociali dei gruppi che lo usano: in tal caso le sue funzioni possono espandersi fino a comprendere anche quelle interpersonali, e la sua struttura può arricchirsi fino a distinguersi appena da quella di una lingua non nata per contatto.
In ognuno di questi stadi di sviluppo, il pidgin può essere la lingua della socializzazione primaria e diventare lingua nativa di gruppi di parlanti: in tal modo si formano i creoli (dal port. crioulo per via spagnola e francese, nel senso di «nato nelle colonie d’America»; designazione usata per la prima volta nel 1793, nella forma nederl. carriolsche, in riferimento al creolo a base nederlandese delle Isole Vergini, nelle Antille; cfr. Arends, Muysken & Smith 1994). Pidgin espansi e creoli possono diventare lingua ufficiale dei paesi in cui vengono parlati: tale è il caso del Tok pisin (dall’ingl. talk pidgin, pidgin a base inglese della Papuasia-Nuova Guinea), anche creolizzato; dell’haitiano, creolo a base francese, lingua ufficiale della Repubblica di Haiti (Mühlhäusler 1986).
I più persistenti processi di pidginizzazione e di formazione di creoli tuttora parlati (Turchetta 2009) si sono sviluppati nell’ambito del lavoro. Ciò è accaduto soprattutto nel corso dell’espansione coloniale europea, nelle sue due principali aree: sull’Oceano Atlantico, in connessione con la deportazione di schiavi dall’Africa alle Americhe tra il XVI e il XVIII secolo; sull’Oceano Pacifico, in connessione con contratti di lavoro a lungo termine tra il XVIII e il XX secolo.
A differenza di portoghese, francese, nederlandese e inglese – lingue lessicalizzatrici di numerosi pidgin e creoli sorti in seguito all’espansione coloniale europea in tutti i continenti (fig. 1), – l’italiano è stato coinvolto solo marginalmente in processi di pidginizzazione, che hanno dato origine a varietà intermedie tra varietà di apprendimento dell’italiano come L2 con input molto ristretto e pidgin veri e propri (con l’unica probabile eccezione della Lingua franca, classificata come «pidgin stabilizzato» nella lista di Arends, Smith & Norval 1994: 355; ➔ lingua franca, italiano come). A parte la Lingua franca (§ 5), le varietà parzialmente pidginizzate, riportate in fig. 1, sono il Fremdarbeiteritalienisch («italiano dei lavoratori migranti») dei cantoni tedeschi della Confederazione Elvetica (abbreviato in FAI; § 3), l’Italiano semplificato di Etiopia (abbreviato in ISE, riportato nella lista di Arends, Muysken & Smith come pidgin senza ulteriore specificazione; § 4) e il Cocoliche in Argentina.
Il Cocoliche (denominazione spregiativa data dai nativi ispanofoni in Argentina) è il più prossimo alle varietà di apprendimento di L2. Rilevato in Argentina negli anni 1880-1950, è costituito da lessico spagnolo inserito in una morfosintassi italiana, in forme adattate alla fonologia italiana: per es., vieco < spagn. viejo «vecchio» (Giunchi 1986; ➔ emigrazione, italiano dell’; ➔ ispanismi).
Per il cocoliche non si sono innescati veri processi di pidginizzazione a causa di diversi fattori:
(a) l’assenza di un vero contesto multilingue, essendo coinvolte solo varietà di due lingue;
(b) la vicinanza culturale dei due gruppi coinvolti, accomunati da un retroterra di emigrazione;
(c) la vicinanza tipologica delle due lingue coinvolte, che permette una relativa sovrapponibilità degli elementi lessicali e in parte morfosintattici, limitando la possibilità di drastiche ristrutturazioni e semplificazioni;
(d) l’input non ridotto di parlanti nativi spagnolo, che costituivano la maggioranza della popolazione (Whinnom 1971).
Condizioni sociali diverse hanno caratterizzato l’emergere di FAI e ISE. Queste varietà condividono con le varietà iniziali di apprendimento dell’italiano in Italia l’uso di c’è (in realtà [ʧɛ] inanalizzato) con funzione di predicato di possesso:
(2) a. italiano L2 in Italia: [non hai fratelli e sorelle?] sì sì, non c’è «no, non ne ho»
b. FAI: albanesi non c’è una repubblica sua «gli albanesi non hanno una loro repubblica»
c. ISE: iyo non ce [c’è] makkina «non ho l’auto» (accanto a aβere «avere»)
L’uso di ténir come predicato di possesso (ténir paoura «avere paura») differenzia la Lingua franca da FAI e ISE, oltre che dall’italiano L2, accomunandola ai pidgin e creoli a base spagnola e portoghese, dove lo stesso verbo ha anche funzione di predicato di esistenza al pari di c’è.
Le varietà iniziali di italiano L2 in Italia e FAI, ISE e Lingua franca sono accomunate anche dalla struttura del sistema verbale, che consta di due forme:
(a) una indifferenziata dal punto di vista funzionale, che copre tutti i tempi a esclusione del passato perfettivo;
(b) passato perfettivo espresso da un’altra forma in -to che corrisponde al participio passato dell’italiano.
Per la forma indifferenziata, FAI, ISE e Lingua franca ricorrono a una forma che riflette l’infinito:
(3) a. FAI: prima, io lavorare na-a ristorante «prima lavoravo in un ristorante»
b. ISE: loro stare addis abeba «abitano ad Addis Abeba»
c. lingua franca: cascar agoua «piove»
Nelle varietà di apprendimento di L2 invece si ritrova prevalentemente la terza persona:
(4) io cina fa tècnica di labolatolio […] qua fa cameriere «in Cina facevo il tecnico di laboratorio, qua faccio la cameriera»
La presenza sistematica dell’infinito come forma funzionalmente indifferenziata è indizio di input ridotto; la riduzione delle forme verbali al solo infinito è infatti una delle caratteristiche del ➔ foreigner talk, il modo in cui i nativi si rivolgono a stranieri che non capiscono la lingua (Berretta 1990).
Oltre a FAI, ISE e Lingua franca si ha menzione di altre potenziali varietà sorte per effetto di processi di pidginizzazione dell’italiano. Nessuna di queste parrebbe rientrare nella categoria di pidgin come delineata nel § 1, per quanto è possibile desumere dalle scarne fonti: si tratta del fazendeiro, a San Paolo in Brasile, e del lanzi (o anche lanzichenecchi o todesche) dei mercenari tedeschi in Italia nel XVI secolo (Berruto 1991).
È plausibile che processi di pidginizzazione siano occorsi a cavallo tra XX e XXI secolo nelle campagne napoletane tra i lavoratori stranieri impiegati nel raccolto di ortaggi, per le condizioni socioeconomiche svantaggiate, la presenza di multilinguismo e dell’italiano regionale (o del dialetto) come varietà dominante. I riflessi linguistici di questa situazione non sono stati studiati per la difficile natura del contesto.
Il termine Fremdarbeiteritalienisch «italiano di lavoratori stranieri» fu coniato da Berruto (1991) per designare la varietà rilevata nella Confederazione Elvetica (Canton Zurigo) negli anni Ottanta del XX secolo. È una varietà di italiano con forti tratti di ➔ semplificazione, adottata in una situazione plurilingue da parlanti non nativi con più lingue materne diverse, che in parte lo apprendono da altri parlanti non nativi.
Il FAI copre la ridotta gamma di funzioni comunicative legate ai domini del lavoro ed è utilizzato tra immigrati di diversa provenienza: tra questi e italiani e ancora, in parte, tra questi e la popolazione locale al posto dello svizzero tedesco. Si veda per es., dalle interviste riportate in Berruto (1991):
(5) no, [io] parla italiano [con gli iugoslavi] … capo anche, parlo capo svissera e italiano «no, parlo italiano [con gli iugoslavi], anche col capo parlo [tedesco] svizzero e italiano»
Il FAI si aggiunge come L2 al repertorio degli immigrati, che comprende la L1, il tedesco svizzero (ed eventualmente rudimenti di tedesco standard) come L2, insieme ad altre L2 apprese nel paese di origine.
Le condizioni per lo sviluppo di un pidgin vero e proprio sono parziali:
(a) i fenomeni di pidginizzazione non colpiscono la lingua della comunità indigena (il tedesco);
(b) la lingua imparata non è quella del gruppo dominante, ma di un gruppo di cui si condivide la posizione sociale di immigrati con cui si hanno forme di comunicazione simmetrica;
(c) l’input potenziale, pur ridotto rispetto all’Italia, non è drasticamente limitato. Infatti l’italiano, lingua ufficiale della Confederazione Elvetica, è presente nei contesti istituzionali in forma parlata e soprattutto scritta.
Lo sviluppo dell’italiano come lingua interetnica in questo contesto è favorito dal fatto che gli italiani sono il gruppo di immigrati maggioritario e di più antico insediamento nel Canton Zurigo, dove ricoprono una posizione sociale non svantaggiata (dati della fine del 1988: 73.732 italiani, pari al 37% del totale di 196.752 stranieri, contro gruppi di altre lingue di dimensioni minori). Il FAI sembra occupare lo spazio funzionale di lingua dei lavoratori immigrati nel contesto svizzero tedesco, dove la situazione diglottica (➔ bilinguismo e diglossia) non favorisce l’apprendimento di tedesco standard o tedesco svizzero per assolvere quelle funzioni: il primo ha impiego prevalentemente scritto, il secondo è codice caratterizzante del ceto dominante.
Oltre che dalle proprietà comuni agli stadi iniziali dell’apprendimento dell’italiano come L2, il FAI è caratterizzato da:
(a) l’uso esteso dell’infinito come forma polifunzionale;
(b) l’uso di c’è come verbo di possesso, di esistenza e di posizione;
(c) il riflesso di troppo nel senso di «molto», senza il valore intensificativo del corrispondente lessema italiano (niente parlato troppo in italiano «non ho parlato molto in italiano»; troppo megliore «molto migliore»);
(d) quanto alla negazione, la tendenza alla generalizzazione di no rispetto a non (no avere problemi «non ho problemi») e riflesso di niente usato come particella negativa (niente piove «non piove»; niente venuto con noi «non è venuto con noi»; niente troppo distanza «non è molto lontano»); quest’ultimo tratto può essere il riflesso di input caratterizzato da ➔ foreigner talk.
L’Italiano semplificato di Etiopia – detto anche Simplified Italian of Ethiopia in Habte-Mariam (1976), Asmara Pidgin Italian in Arends, Muysken & Smith (1994), restructured Italian of Eritrea in Holm (1989, 609-610), Ethiopian Pidgin Italian in Reinecke et al. (1975) – è la varietà usata negli anni Settanta del XX secolo in Etiopia e in Eritrea, allora formanti una stessa entità statale, intorno ad Addis Abeba e all’Asmara, da informanti locali nati prima dell’occupazione italiana dell’Etiopia (1935-1941), e anche più giovani (in questo caso il contatto con l’italiano era successivo al periodo di occupazione).
L’occupazione dell’Etiopia aveva segnato la ripresa dell’espansione italiana nel Corno d’Africa dopo la disastrosa sconfitta di Adua (1896), che l’aveva fermata al territorio eritreo. Il primo insediamento italiano in Eritrea si ebbe nel 1869, con l’acquisto del porto di Assab da parte della compagnia Rubattino. Nel primo anno di occupazione dell’Etiopia, la presenza italiana era di 131.000 unità; negli anni Settanta del XX secolo la presenza italiana in Etiopia-Eritrea era stimata sulle 18.000 unità, di cui 5000 all’Asmara e il resto, per la maggior parte, in Eritrea.
L’ISE è utilizzato nelle interazioni tra italiani (ed europei) e parlanti lingue etiopiche, ma anche tra parlanti lingue locali non intercomprensibili (per es., tigrino e kunama). Le caratteristiche dell’ISE sono le seguenti:
(a) fonologia: tendenza alla centralizzazione di vocali anteriori, soprattutto atone: r[ə]gaso «ragazzo», b[ə]duto «veduto», bicino «vicino»; ipodifferenziazione di /p b/: cfr. borta «porta»; ristrutturazioni sillabiche: tirobbo (< troppo) «molto», isbasola «spazzola»;
(b) morfosintassi: riduzione del sistema verbale a due forme, corrispondenti all’infinito e al participio passato dell’italiano: l[ə]wrare, l[ə]wrato «lavorare»; assenza di articolo: r[ə]gasi m[ə]njato «i ragazzi/bambini hanno mangiato»; assenza di accordo: kwesto due miyo sorella «queste due sono le mie sorelle»; uso del riflesso di per come marca di dativo: noy dato soldi b[ə]r loro «abbiamo dato loro il denaro»; ordinamento subordinata-principale e forme interrogative alterne: si lui b[ə]nire non b[ə]nire iyo non sabere «non so se verrà»; reduplicazione per esprimere distributività: dare due due bani b[ə]r tutti «da’ due pani a ciascuno»;
(c) lessico: sviluppo di significati particolari per alcuni lessemi: b[əʃ]dri «prete» (< padre); u[ʃ]ire «andarsene» (< uscire), tirobbo «molto» (< troppo, cfr. anche FAI); forme con fusione di articolo: losp[ə]dale «ospedale» (< l’ospedale).
Definire la Lingua franca come un pidgin (come già era suggerito nel classico lavoro di Schuchardt 1909: vedi commenti in Venier 2009) è reso in parte difficile dalla natura della documentazione disponibile (Minervini 1996), da cui si desumono fenomeni di contatto relativi a epoche e zone diverse del Mediterraneo. Che si trattasse di un pidgin, non intellegibile ai parlanti delle lingue che avevano contribuito a costituirla, si desume però dal Dictionnaire de la langue franque, corredato di un frasario (pubblicato a Marsiglia nel 1830, riedito in Cifoletti 1989). Dal frasario si possono rilevare le seguenti proprietà della lingua franca per quell’epoca e per il Mediterraneo occidentale:
(a) la riduzione del sistema verbale a due forme, corrispondenti a infinito e participio passato delle lingue lessicalizzatrici: andar, andato «andare» (dall’italiano), fazir, fazito «fare» (dal portoghese);
(b) lo sviluppo di una forma per l’espressione della modalità non-reale, derivata dall’italiano bisogno e posta prima del soggetto, che copre le funzioni di futuro, congiuntivo e imperativo esortativo: bisogno mi andar «andrò, che io vada», bisognio counchar accoussi «facciamo così» (traduzione nell’originale: fesons comme cela);
(c) estensione della preposizione di dativo per a marca di accusativo con nominali che si riferiscono a esseri umani: mi capir un poco per ti «la capisco un po’» accanto a qui star qouesto signor qué poco poco ablar per ti «chi è quel signore che le parlava poco fa?»;
(d) reduplicazione per esprimere intensità: andar poco poco «andare piano piano», bisognio andar mirar per ellou siéme siéme «andremo a vederlo (tutti) insieme».
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