Roma, italiano di
Tra le varietà regionali italiane, quella di Roma presenta alcune caratteristiche specifiche: da un lato si tratta, ormai da molti decenni, della varietà con cui tutti gli italiani vengono più spesso a contatto – data la sua massiccia presenza nel cinema (anche le principali cooperative di doppiaggio hanno sede nella capitale; ➔ cinema e lingua; ➔ doppiaggio e lingua), alla radio, alla televisione e anche nel mondo della politica – e che dunque ha un notevole peso nelle dinamiche dell’italiano contemporaneo (Renzi 2007); dall’altro, si trova in una posizione del tutto particolare rispetto allo standard nazionale e al dialetto locale.
Nell’italiano di Roma, come in quello di altre città, è possibile distinguere tra una ➔ varietà alta, una media e una bassa; tuttavia esse formano qui un continuum non facilmente segmentabile e dai confini alquanto sfumati non solo all’interno (con conseguenti parziali sovrapposizioni tra la ➔ variazione diastratica e la ➔ variazione diafasica), ma anche all’esterno, rispetto sia all’➔italiano standard di base toscana sia al dialetto locale (Stefinlongo 1985; De Mauro & Lorenzetti 1991; D’Achille & Giovanardi 2001).
La prossimità della varietà romana alta con lo standard, in passato considerata maggiore perfino di quella della varietà toscana per l’assenza della gorgia (➔ gorgia toscana), è stata consegnata all’espressione lingua toscana in bocca romana (➔ norma linguistica) ed è uno dei motivi per cui durante il fascismo il modello scelto per la pronuncia radiofonica (➔ fascismo, lingua del; ➔ radio e lingua) fu quello dell’«asse linguistico Roma-Firenze», con preferenza per «la bella e calda pronunzia romana» (Bertoni & Ugolini 1939: 27) nei casi, relativamente ridotti, di divergenza. La contiguità col dialetto è dovuta invece alla storia linguistica di Roma (De Mauro 1989; Trifone 2008): il romanesco medievale (giudicato negativamente da ➔ Dante) era un volgare di tipo meridionale, ma subì in epoca rinascimentale – e soprattutto dopo il sacco del 1527, in seguito a immigrazioni dall’Italia centrale – una profonda toscanizzazione (che peraltro non impedì la persistenza di una valutazione negativa, che si coglie sia nella definizione datane da Giuseppe Gioacchino Belli di «lingua abietta e buffona», propria esclusivamente delle classi popolari, sia nella denominazione, affidata a suffissi ‘peggiorativi’: non romano, ma romanesco o, più di recente, romanaccio).
Il romanesco, che sembrava avviato a una definitiva italianizzazione (il «disfacimento» di cui parlava nel 1932 Migliorini; cfr. Migliorini 1948: 109-123), ha invece poi subito un processo di «neodialettalizzazione» (Bernhard 1998), che si coglie anche nel linguaggio dei giovani, specie nelle periferie e nelle borgate (D’Achille & Giovanardi 2001: 133-150); inoltre, i flussi immigratori che, dal 1870 in poi, hanno investito Roma – flussi provenienti un po’ dall’intera penisola (lo dimostra il patrimonio dei cognomi attualmente in uso nella capitale, rappresentativo di quasi tutta l’Italia: Caffarelli 2009), ma nel secondo dopoguerra soprattutto dal Sud (e più recentemente anche dai paesi extracomunitari) – hanno generato, accanto alla diffusione o alla riemersione di tratti meridionali nel dialetto, anche alcuni fenomeni di variazione nell’italiano locale, che mostra «una scarsa compattezza interna, almeno sotto vari aspetti» (D’Achille 2007: 27). Così, il gradimento che il dialetto di Roma riscuoteva in tutta Italia fino alla prima metà del Novecento è andato progressivamente scemando nella seconda metà del secolo (Serianni 2002: 89-109) e la stessa varietà romana di italiano, considerata da De Mauro (19702) quella dotata di maggior prestigio, sembra aver ceduto da tempo il primato alla varietà milanese, ritenuta quella più standardizzata (Galli de’ Paratesi 1984). In effetti, a Roma l’assenza di una netta percezione dei confini tra dialetto e lingua, unita a una certa «omologazione in basso» (Stefinlongo 1985: 55), porta i romani (anche di fasce sociali medio-alte) a un minor controllo di certi tratti fonetici, a una sorta di «demotivazione normativa» (Trifone 1992: 91), che determina spesso, non solo in diastratia (il ‘polo basso’ del continuum coincide, a Roma come in Toscana, con il dialetto; ➔ bilinguismo e diglossia), ma anche in diafasia, una risalita di tratti dialettali nella varietà locale di italiano, che è stata icasticamente definita come «italiano de Roma» (Vignuzzi 1994; D’Achille 1995).
La centralità di Roma rende il romanesco e l’italiano di Roma le varietà di prestigio nel Lazio (Stefinlongo 1999), dove però, date le diversità dei sostrati dialettali (D’Achille 2002; ➔ laziali, dialetti), compreso quello veneto a Latina e nell’agro pontino (Stefinlongo 2007), si stenta a individuare – soprattutto a livello fonetico – un’unica varietà di ➔ italiano regionale, a partire dall’➔intonazione (Troncon & Canepari 1989).
Sul piano prosodico, ci si limita qui a rilevare che a Roma, come a Bologna, le frasi assertive «‘sembrano’ imperative o viceversa» (De Dominicis 2002). Nel vocalismo tonico, recenti analisi spettroacustiche (Sorianello & Calamai 2005) hanno confermato la prossimità tra il vocalismo tonico romano e quello fiorentino circa la durata delle ➔ vocali, rilevando anche la leggera velarizzazione di /a/ (in passato era stata segnalato il frequente abbassamento con centralizzazione di /ɛ/, per cui problema era pronunciato a Roma quasi come pro[bːla]ma).
È ben nota la diversa distribuzione, rispetto allo standard, di /e/ e di /o/, in casi come trènta, sarébbe, colònna, dòpo, spórgere, Cèsare, Giòrgio, ecc., che suona come regionale almeno nei casi di accordo tra toscano e altre varietà (meridionali o, più spesso, settentrionali). Molto varia è poi la realizzazione della vocale del ➔ dittongo anteriore: di norma si ha una [ɛ], con gradi di apertura anche superiori allo standard (piède, sièdi, Piètro, ecc.), ma non mancano affatto realizzazioni della vocale come chiusa (D’Achille 2007), come avviene in gran parte del Lazio; nelle zone meridionali già campane entrambi i dittonghi vengono pronunciati alla napoletana (➔ Napoli, italiano di), con la chiusura delle vocali e la vocalizzazione delle semiconsonanti. La monottongazione del dittongo posteriore a Roma va considerata una risalita dialettale (bona notte al secchio!; ciao, core!), normalmente assente nella varietà regionale media e alta (tranne in parole come b[ɔ]na «fisicamente attraente», s[ɔ]la «fregatura»).
Nel vocalismo atono, a parte la possibile risalita di tratti dialettali, dalla chiusura di /o/ della negazione non alla conservazione di /e/ nella preposizione di e nei clitici protonici e postonici (sei de coccio!; nun ce vedo; damme retta), si segnala la possibile apertura della /e/ e della /o/ dello standard (b[ɛ]nfatto, Bol[ɔ]gna).
Nel consonantismo (Marotta 2005), numerosi sono i tratti comuni all’intera regione e anzi condivisi da gran parte dell’Italia centromeridionale. Si può rilevare anzitutto che la distribuzione di /ʦ/ e /ʣ/ si presenta abbastanza varia; la loro resa come intense in posizione intervocalica, comune peraltro allo standard tradizionale, può avere ripercussioni in grafie semicolte come azzalea, polizzia, vizzio, probabilmente più frequenti a Roma e nel Lazio che altrove. Quanto a /s/ e /z/ intervocaliche, alla generalizzazione delle sorde si contrappone da tempo «la tendenza a considerare standard le pronunce sonore, a prescindere dall’etimologia e dall’eventuale valore fonematico» (De Mauro & Lorenzetti 1991: 344). Ma la possibilità di avere la sonora anche in corrispondenza di un confine morfosintattico (questa sera reso come [ˈkwesta ˈzera]) porta a collegare il tratto non solo all’imitazione della ‘prestigiosa’ pronuncia settentrionale, ma anche al fenomeno, non certo esclusivo di Roma e del Lazio, ma qui particolarmente esteso (D’Achille & Stefinlongo 2008), della lenizione delle sorde /p/, /t/ e /k/, che tra due vocali (o tra vocale e /r/) suonano quasi come [b], [d] e [g] (ca[b]elli, anda[d]o, po[g]o) (➔ indebolimento; ➔ laziali, dialetti).
Tale lenizione, che avviene anche in fonosintassi (hai capito? è realizzato come [ajgaˈbido]) e che può arrivare a compromettere alcune opposizioni fonologiche, non è appoggiata al sostrato dialettale tradizionale e forse anche per questo sfugge spesso al controllo dei parlanti, compresi quelli di livello medio e medio-alto, specie nel ‘parlato allegro’ (➔ lingua parlata).
In alcune zone del Lazio, viceversa, le sonore intervocaliche possono essere rese come sorde (arma[t]io). Come in Toscana, inoltre, a Roma e nel Lazio non sono gradite le consonanti in fine di parola e quindi, a livello basso, sono frequenti pronunce come bare «bar», gasse «gas», stoppe «stop», filme «film».
Da segnalare, ancora in comune con la varietà toscana, oltre che con quelle meridionali, la resa dell’affricata sorda come fricativa in posizione intervocalica (dice è reso come [ˈdiʃe]) e, come in tutte le varietà meridionali, la pronuncia intensa di /b/ e di /ʤ/ intervocaliche (su[bː]ito, ra[dːʒ]one), con perdita delle non numerosissime opposizioni fonologiche proprie dello standard (libra/libbra; agio/aggio; regia/reggia). Entrambi i tratti sono diffusi anche in parlanti di livello medio e medio-alto; lo stesso vale per la resa di /s/ con [ʦ] dopo /n/, /l/, /r/ (pen[ʦ]o, fal[ʦ]o, bor[ʦ]a, questa talvolta realizzata anche con la sonora), possibile anche in fonosintassi (il [ʦ]indaco, non [ʦ]i sente, per [ʦ]icurezza), che può neutralizzare opposizioni fonologiche e determinare errori ortografici (via Portuen[ʦ]e o, per ➔ ipercorrettismo, pomodori San Mar[s]ano). Nel Lazio orientale e meridionale, con sfumature diverse da zona a zona, è diffusa anche la lenizione delle sorde post-nasali, che può arrivare fin quasi alla sonorizzazione (tem[b]o, tren[d]a, an[g]ora, can[ʤ]ello e anche pen[ʣ]o); il tratto affiora anche a Roma, ma è considerato ‘burino’ e dà spesso luogo a reazioni ipercorrettistiche, sia a livello basso (arran[ʧ]iarsi «arrangiarsi»), sia a livello alto (pranzo è pronunciato di norma con la sorda). Nell’italiano di Roma, inoltre, il nesso /st/ è spesso reso come [sː] (so s[sː]ato «sono stato») e dalla capitale la tendenza si va espandendo un po’ dovunque; in molte zone del Lazio si ha invece la palatalizzazione in [ʃ] di /s/ preconsonantica, fenomeno che a Roma «si ha solo in pronunce enfatiche o espressive, ad es. in un insulto come [ʃ]tupido!» (Trifone 1992: 84) o in che [ʃ]chifo!
Notevoli, comunque, alcuni tentativi di resa grafica del tratto in scritte spontanee giovanili (basctardo, shtupidi; Romiti 1998).
Caratterizzano il parlante romano con una decisa marca sociolinguistica ‘bassa’ altri fenomeni consonantici molto noti, che hanno qualche possibilità di risalita anche in diafasia: lo sviluppo /ʎː/ > [jː] > [j] e addirittura fusione con [i] (tre mi[j]oni, f[i]o «figlio»; è viceversa pronunciata intensa la [j] di maiale); lo scempiamento di /rː/ (te[r]a; nella varietà media il fenomeno appare limitato alla posizione protonica, in a[r]ivare); la resa con [ɲ] di /nj/ in [ɲ]ente (più dialettale è magnare); soprattutto, in particolari condizioni sintattiche, il dileguo di /l/ in articoli, clitici, dimostrativi (’a casa «la casa», ’o so «lo so», qu[oː bː]ono «quello buono») e preposizioni articolate (è daa Lazio «è della Lazio»; ma in questo caso si può avere anche solo lo scempiamento: è dela Lazio; sul fenomeno si veda da ultimo Loporcaro 2007, che postula un «allungamento di compenso» della vocale precedente). Inoltre è propria dell’italiano parlato a Roma la tendenza alla pronuncia intensa di /m/ in nu[mː]ero (in altre voci, come ca[mː]era, sto[mː]aco, po[mː]odoro, il raddoppiamento è più marcato come dialettale), di /d/ in lune[dː]ì, ecc., e, viceversa, lo scempiamento di /tːʃ/ in pia[ʧ]iono. Altri fenomeni (il rotacismo di /l/ preconsonantica, per es. a[r]to «alto»; l’assimilazione di /nd/ in /[nn]/, per es. qua[nn]o «quando»; ecc.) vanno considerati decisamente come dialettali.
Quanto alla fonetica sintattica, nella varietà romana di italiano è frequente l’➔aferesi, specie dell’articolo indeterminativo (Floquet & Bonucci 2005), mentre nel ➔ raddoppiamento sintattico Roma (ma non tutto il Lazio) segue sostanzialmente Firenze (a [kː]asa, è [vː]ero, ho [fː]ame, come [tː]e); le divergenze si hanno in casi come da vero, come va?, ah [nː]o!; ci sono però oscillazioni dipendenti dal ritmo del parlato. A Roma si tende inoltre a pronunciare sempre intensa la /l/ in ce [lː]’ho e l’iniziale di parole come [pː]iù, [kː]iesa, [sː]edia, ecc.
A cavallo tra fonetica e morfologia va collocata l’apocope degli infiniti (frequentissima anche in contesti ‘italiani’, al pari della forma so’ per sono, sia alla prima persona singolare sia alla terza plurale) e quella degli allocutivi (compresi i nomi propri), preceduti poi spesso da a (a dottó!, a Francé!; D’Achille & Giovanardi 2001: 29-42). Nel parlato giovanile, in alternativa al troncamento nelle allocuzioni, si può avere un nuovo picco accentuale sulla vocale finale (Màrió, come del resto càpó: Stefinlongo 1999).
Sebbene anche la ➔ morfologia possa rivelare tratti locali, non c’è dubbio che a questo livello di analisi le strutture di tutte le varietà regionali si orientino verso lo standard. Nell’italiano regionale romano di livello basso, nella morfologia nominale si registra la fedeltà al paradigma tradizionale dei maschili in -o / -i, con plurali come auti «autobus» e euri «euro»; anche l’aggettivo pari tende a perdere l’invariabilità (l’ho copiato paro paro; le pagine pare).
Nel sistema dei pronomi (➔ personali, pronomi), la varietà romana presenta spesso te come soggetto, e non solo dopo il verbo o in frasi ellittiche (questo lo sai pure te; io sto bene, e te?; te che dici?); risalgono dal dialetto l’uso di si anche come riflessivo di prima persona plurale (andiamo a sedersi), di ci invece di lo (in espressioni come ci sei o ci fai?; se non sei pazzo, prima o poi ti ci fanno diventare), e soprattutto di ci ‘attualizzante’ davanti al verbo avere non ausiliare (ci ho fame); questo tratto è ormai proprio del neostandard, ma pare effettivamente di origine romana o comunque centrale.
In generale, a Roma sono particolarmente presenti verbi accompagnati da clitici che ne modificano il significato, come fregarsene, piantarla o farla finita «smetterla», farci (o metterci) la firma, marciarci «approfittare di una situazione», ormai entrati nel neostandard, e, più tipicamente locali, ammollargliela «essere superiore a qualcun altro, essere valido», farci nel senso di «gradire» (coi faggioletti non ci faccio «i fagiolini non mi piacciono»), ecc. Tipico anche l’uso degli avverbi meglio e peggio col valore aggettivale di «migliore» e «peggiore» (resti sempre la meglio; le peggio cose).
Sintatticamente, è stato spesso segnalato come romano (ma è in realtà centromeridionale) l’indicativo al posto del congiuntivo in dipendenza dei verbi d’opinione (➔ psicologici, verbi), la cui diffusione nell’italiano contemporaneo è stata attribuita proprio all’influsso di Roma. A questo può piuttosto ricondursi l’espansione dell’imperfetto congiuntivo al posto del presente congiuntivo con valore esortativo (Serianni 1991; Renzi 2007), tipico della varietà romana come di quella napoletana (venisse pure «venga pure»; se hanno le prove, le tirassero fuori!). Tipica dell’italiano parlato a Roma e nel Lazio è inoltre la perifrasi stare a + infinito (tronco), corrispondente (ma con alcune particolarità) a stare + gerundio (sto a lavorà, sto ad arivà; D’Achille & Giovanardi 2001: 43-65; ➔ perifrastiche, strutture). Marcati regionalmente sono anche l’uso di che ad apertura delle interrogative polari (che ce l’avresti un biglietto da prestarmi?) e la formulazione dell’interrogativa retorica con che … a fare? (o a ffà?) nel senso di «perché?», di matrice dialettale, ma in grande espansione (D’Achille & Giovanardi 2001: 67-83). Il ➔ periodo ipotetico col doppio imperfetto indicativo, attestato in italiano già anticamente, a Roma e nel Lazio viene usato non solo con riferimento al passato, ma anche al presente (se andavo al primo [piano] non prendevo l’ascensore «se andassi ... non prenderei ...»); molto frequente, però, nella varietà bassa, è il condizionale nella protasi (se andrei ...; ➔ periodo ipotetico). Nella varietà bassa che accompagna spesso il siccome causale (siccome che ho fatto tardi).
Infine, nell’italiano di Roma è abbastanza frequente anche l’oggetto preposizionale (➔ accusativo preposizionale), non nella posizione postverbale, come nei dialetti e nelle varietà meridionali, ma nelle dislocazioni a sinistra e a destra: a Maria non l’ha vista nessuno; mi vuoi sentire a me? La preposizione a compare anche in esclamative (beato a te!, povero a te!).
La ricordata contiguità tra italiano di base toscana e romanesco facilita la risalita – che non richiede particolari adattamenti fonomorfologici – di voci dialettali nell’italiano regionale, dove queste convivono con voci italiane che hanno ormai sostituito voci locali e con altri ➔ geosinonimi di provenienza allotria (D’Achille 2007). Ma Roma ha diffuso molte voci dialettali (non tutte originariamente romanesche) nell’italiano, tanto che la distinzione tra ➔ regionalismi romani e ➔ dialettismi italiani di provenienza romana è spesso problematica (anche sul piano lessicografico: D’Achille 2009).
Tra i numerosi dialettismi di origine romana ci si può limitare a ricordare voci espressive o di base gergale come fasullo, bufala, burino, frocio e checca «maschio omosessuale», fico/figo con valore apprezzativo, paraculo «furbo», sgamare «accorgersi», e voci gastronomiche come stracciatella, fettuccine, saltimbocca, mazzancolla «gamberone», maritozzo, supplì (➔ gastronomia, lingua della).
Tra le parole che si caratterizzano come marcatamente locali (non tutte però ugualmente vitali presso le ultime generazioni) si possono invece citare voci relative al corpo umano, come capoccia «testa», barbozzo «mento», scucchia «mento prominente», sise o zinne «mammelle», pedicello «foruncolo», roscio «rosso di capelli»; voci riferite alla cultura materiale tradizionale (oggi un po’ in declino) come zinale o parannanza «grembiule», dindarolo «salvadanaio», pila «pentola», sgommarello «mestolo», erbetta «prezzemolo», puntarelle «catalogna», fusaglie «lupini», grattachecca «granita», ciriola «panino di forma allungata» o «persona poco affidabile» (entrambe le accezioni derivano dal significato originario di «anguilla»), pedalini «calzini», cinta «cintura», straccali «bretelle»; e ancora pizzo «bordo» (e in pizzo «in punta»), e aggettivi come impunito «sfrontato», sprocedato «ingordo», scrauso «scarso», quest’ultimo diffuso soprattutto nel gergo giovanile.
Tra i verbi si possono ricordate sgrullare «scuotere, scrollare», sbrillentare «allentare, sbrindellare», smucinare «rovistare» e, per i particolari valori semantici che assumono, menare «picchiare» (che, forse a causa della frequenza dell’oggetto preposizionale, può reggere il dativo: gli ho menato anziché l’ho menato), imparare «insegnare», sfasciare «rompere», rosicare «provare invidia», spicciare «mettere a posto». Invece di essere copulativo si trova spesso stare (mi sta simpatico).
Nella formazione delle parole, l’origine romana di molte voci è riconoscibile grazie all’uso di particolari prefissi – come a- intensivo (specie davanti all’iterativo ri-: arieccolo!), s- intensivo (scancellare), in- in corrispondenza dell’a- dello standard (invitare «avvitare») o anche come semplice rafforzativo (insognare «sognare») – e suffissi (-aro/a e -arolo/a, corrispondenti ai fiorentino -aio/a e -aiolo/a: cravattaro anche nel valore di «strozzino», gattara «donna che accudisce i gatti randagi», fruttarolo; -arello/a per -erello/a in tintarella, musicarello «film musicale»; -one, che forma anche derivati da basi verbali a cui in italiano non si potrebbe legare, come piacione «vanitoso»; -ata in drittata, comparsata). Frequenti nell’italiano di Roma sono anche i ➔ parasintetici (incocciare e spizzare, divenuti anche tecnicismi sportivi, nel senso di «colpire di testa» e «colpire di striscio»), i derivati a suffisso zero (➔ conversione) come smorzo «luogo di vendita di materiali edilizi», le ➔ retroformazioni, diffuse soprattutto nel linguaggio giovanile, come spaghi «spaghetti», fascio «fascista», boro «burino», canotta «canottiera». Specie nel linguaggio giovanile (➔ giovanile, linguaggio) assumono valori semantici particolari parole ed espressioni come preciso, coatto, una cifra. Capace ha spesso il valore di possibile: dato il traffico, (è) capace che faccio tardi.
Almeno un cenno va dedicato alla fraseologia. Molte espressioni tipiche del romanesco o dell’italiano di Roma sono entrate in italiano (non ce ne pò fregà de meno, a volte goffamente italianizzato in non ce ne può fregare di meno; t’ha detto bene/male «ti è andata bene/male»; non ho capito «ma guarda!»), ma molte altre restano di circolazione locale, da consolarsi con l’aglietto «con poco» ad armare tre pinze e una tenaglia «essere avari», da fare il giro di Peppe «tornare al punto di partenza» a peggio mi sento! «peggio ancora», da stare ancora a carissimo amico «essere solo all’inizio di un’azione o di un lavoro da compiere», a espressioni ridondanti come dritto per dritto «sempre dritto» e capito come? «hai capito?».
Nell’italiano di Roma spicca la presenza, e non solo nella varietà bassa, dell’avverbio mo accanto ad adesso (è frequente anche da mo o da quel dì «da tanto tempo») e di pure (in dialetto puro), che compare più spesso che altrove rispetto al concorrente anche. Caratteristiche sono inoltre locuzioni come niente niente «per caso» (specie nelle interrogative) e tante volte «per caso» (specie nelle ipotetiche), a buon bisogno «all’occorrenza, nel caso».
Dal dialetto risale all’italiano regionale «il ricorso a un verbo fisso, dice, per segnalare i turni verbali anche in presenza di altri elementi introduttori» (Serianni 1996: 246; me fa, dice, Che te credevi?). Tra le interiezioni sono tipiche ahó! «ehi!», boh! «mah», ve’ (apocope di vero?) a chiusura delle interrogative (l’hai preso te, ve’?), nonché esclamazioni come ammazza!, ammappete! e ammappelo! (forme attenuate di ammazzete! e ammazzelo!), usate con valore ammirativo e ormai entrate nell’italiano colloquiale di tutte le regioni, al pari di pussa via! «vattene!».
Sul piano dell’organizzazione testuale del discorso, tra i tratti tipici del parlato romano si possono segnalare, a livello basso, l’aggiunta di che a solo (devi solo che starti zitto) e, anche a livello alto, il demarcativo secondo poi, che serve a introdurre una nuova argomentazione.
Infine, nel terreno, finora poco esplorato, della gestualità, si possono segnalare due gesti certamente marcati come popolari (accompagnano in genere enunciati in dialetto), documentati in film di ambientazione romana: quello del gabbio «prigione», realizzato da una mano aperta con il palmo rivolto verso la faccia, e la cosiddetta mano a cucchiara, che consiste nell’appoggiare al lato della bocca la mano destra, con le dita unite come a formare una paletta, per dare rilievo a un enunciato (o a una sua parte) pronunciato ad alta voce o gridato.
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