italiano popolare
L’espressione italiano popolare, attestata già nell’Ottocento (si trova, per es., negli Opuscoli sulla lingua italiana di Giovanni Romani, Milano, Silvestri, 1827, p. 407), deve il suo successo negli studi linguistici italiani a Tullio De Mauro, il quale definì l’italiano popolare come il «modo di esprimersi di un incolto che, sotto la spinta di comunicare e senza addestramento, maneggia quella che ottimisticamente si chiama la lingua ‘nazionale’, l’italiano» (De Mauro 1970: 49). Successivamente Manlio Cortelazzo, offrendo una descrizione sistematica della ‘grammatica’ dell’italiano popolare, lo presentò come «il tipo di italiano imperfettamente acquisito da chi ha per madrelingua il dialetto» (Cortelazzo 1972: 11): definizione un po’ diversa, perché mette in risalto gli aspetti di devianza rispetto alla norma più che gli scopi comunicativi, ma non incompatibile con quella demauriana.
Grazie a questi due studi (accanto ai quali deve essere ricordato anche il volume di Spitzer del 1921, tradotto in italiano nel 1976), l’espressione si è stabilizzata nella linguistica italiana per indicare una precisa varietà di lingua marcata in basso lungo l’asse diastratico (Berruto 1987 e 1993; Berretta 1988; ➔ variazione diastratica). C’è anche una definizione alternativa, quella di «italiano dei semicolti» (Bruni 1984; D’Achille 1994), che intende sottolineare, sulla base del fatto che la varietà è documentata prevalentemente da testi scritti (lettere, diari, autobiografie), la sia pur limitata competenza scrittoria di coloro che si esprimono in italiano popolare, caratterizzati dal punto di vista sociolinguistico proprio per il loro basso grado di istruzione.
De Mauro e Cortelazzo sono concordi nell’affermare il carattere sovraregionale di questa varietà: l’aggettivo unitario è aggiunto a popolare nel titolo stesso dell’articolo di De Mauro (1970), il quale ritiene che questa varietà sia nata ‘dal basso’, ad opera delle stesse classi popolari, al di fuori dei processi di standardizzazione ufficiali (primo fra tutti l’insegnamento scolastico); pertanto, l’italiano popolare è stato poi talvolta contrapposto all’➔italiano regionale, marcato invece in diatopia (➔ variazione diatopica), e considerato proprio della borghesia.
Ma l’impressione di unitarietà – accentuata dal fatto che lo scritto (dove l’italiano popolare è stato prevalentemente documentato e studiato) lascia trasparire solo in parte la soggiacente realtà fonetica e omogeneizza i testi nelle devianze rispetto alla norma ortografica – è stata poi molto ridimensionata negli studi successivi (cfr. Ernst 1981; Berruto 1983a), che hanno rilevato come la componente locale (a cui fa implicitamente riferimento Cortelazzo col suo richiamo alla dialettofonia) sia presente anche nell’italiano popolare e anzi cresca in rapporto alla diastratia (cfr. anche Sabatini 1985, che parla di «italiano regionale delle classi popolari», contrapposto all’«italiano regionale delle classi istruite»), pur riconoscendo che, soprattutto a livello morfosintattico, i testi popolari presentano una serie di tratti comuni.
Ma i lavori più recenti (cfr. Vanelli 2009, che esamina testi di area friulana del primo Novecento) hanno individuato la componente locale un po’ a tutti i livelli di analisi, confermando la collocazione dell’italiano popolare all’interno dell’italiano regionale. Tanto l’italiano popolare quanto quello regionale derivano fondamentalmente dall’incontro tra lingua e dialetto e quindi presentano entrambi fenomeni di ➔ interferenza, che hanno reso possibile la loro interpretazione come ‘interlingue’ caratterizzate da processi analoghi a quelli propri dei pidgins e delle lingue creole (➔ italiano come pidgin; ➔ acquisizione dell’italiano come L2; cfr. Telmon 1993 e 1994 per le varietà regionali e Berruto 1983b per l’italiano popolare, della cui fenomenologia viene proposta una convincente interpretazione in chiave di ‘semplificazione’, che per alcuni aspetti avvicina questa varietà ad altre varietà semplificate, come l’italiano degli stranieri e il foreigner talk: Berruto 1987).
L’aggettivo unitario è stato però anche interpretato in senso storico, per sottolineare la nascita dell’italiano popolare dopo l’unità nazionale (cfr. Sanga 1984, che parlava, per le fasi precedenti, di «italiano popolare preunitario») ed è indubbio che la piena emersione di questa varietà tra la fine dell’Ottocento e il pieno Novecento – che è riflessa anche nella letteratura, veristica prima e neorealistica poi – vada rapportata ai vari fattori di italianizzazione propri della nostra storia recente (De Mauro 1963).
I processi, tra loro strettamente legati, di alfabetizzazione e di italianizzazione hanno però un retroterra storico consistente (cfr. Bartoli Langeli 2000; ➔ analfabetismo e alfabetizzazione) ed esempi di testi di scriventi semicolti assimilabili all’italiano popolare, sia per le loro devianze rispetto alla norma, sia perché intenzionalmente non dialettali, si ritrovano nell’intero arco della storia linguistica italiana e sono distribuiti un po’ in tutte le regioni (cfr. i contributi raccolti in Bruni 1992 e 1984; per un quadro generale cfr. D’Achille 1994; 2008).
Dato il prevalente riferimento degli studi alla produzione scritta (cfr. Hans-Bianchi 2005), che comunque appare certamente legata alla sfera dell’oralità (sebbene la ricerca di un registro ‘alto’ comporti talvolta fenomeni di ipercorrettismo e di imitazione dei modelli di italiano scritto conosciuti), c’è stato chi ha negato la presenza dell’italiano popolare nel parlato. In realtà si deve senz’altro ammettere il ricorso dei dialettofoni a questa varietà, appresa nei pochi anni in cui si è frequentata la scuola, non solo per scrivere alla famiglia da cui sono lontani o per rivolgersi, sempre per iscritto, all’autorità pubblica o per tenere diari e memorie autobiografiche, ma anche nel parlato, in situazioni formali o nella comunicazione con persone che non condividono il loro stesso dialetto, ed è anche lecito ipotizzare l’esistenza di parlanti che hanno l’italiano popolare come propria madrelingua.
Il discorso sulla diamesia (➔ variazione diamesica) si collega ad altri due problemi interpretativi, tra loro connessi, che nello studio di questa varietà sono spesso stati posti: da un lato la contiguità tra l’italiano popolare e l’italiano parlato (➔ lingua parlata) nelle sue manifestazioni più colloquiali e trascurate; dall’altro il rapporto con lo standard e conseguentemente la sua interpretazione ora come «italiano avanzato» (Vanelli 1976), ora come «lingua selvaggia» (Bruni 1984).
Per impostare correttamente il problema bisogna ricordare che le ricerche sull’italiano popolare hanno preceduto quelle sul parlato (quest’ultimo, specie all’inizio, studiato in bocca a parlanti anche connotati diastraticamente; cfr. Sornicola 1981), nel quale sono stati individuati, a livello morfosintattico e testuale, tratti che già erano stati segnalati come tipici dell’italiano popolare in quanto lontani dallo standard di base scolastica che costituiva il termine di raffronto, e poi spiegati invece, appunto, come tratti di parlato.
Per alcuni fenomeni, come la frase relativa (➔ che polivalente; ➔ relative, frasi), italiano popolare, italiano parlato e italiano standard si dispongono lungo un continuum (Berruto 1987: 123-134) e in vari altri casi (per es., le cosiddette ridondanze pronominali e soprattutto gli anacoluti, nonché altri tratti substandard), solo l’aspetto quantitativo consente di caratterizzare, rispetto al parlato informale dei colti, l’italiano popolare (scritto o parlato che sia), che però presenta anche, dal punto di vista qualitativo, alcuni tratti esclusivi.
Quanto al distacco rispetto allo standard tradizionale di base letteraria, è indubbio che l’italiano popolare, poco soggetto alle prescrizioni normative, documenti per certi aspetti alcune tendenze ‘naturali’ della lingua a lungo tenute a freno e che almeno in parte sono state accolte nel neostandard (Berruto 1987; da ricordare a tal proposito anche l’espressione italiano tendenziale: Mioni 1983), ma per altri versi risulta su posizioni arretrate rispetto all’evoluzione del sistema linguistico.
Infine, il concetto di lingua selvaggia si lega alla preoccupazione che l’italiano popolare non sia più «frutto di una precoce emarginazione scolastica, ma […] prodotto della stessa istituzione scolastica» (Bruni 1984: 184), come documenterebbe la presenza di alcuni suoi tratti in elaborati scolastici (dai temi delle medie alle tesi universitarie). Che l’allargamento dell’uso dell’italiano (e il minore peso della grammatica normativa nell’insegnamento scolastico) abbia comportato anche uno ‘spostamento in basso’ della lingua pare innegabile, ma, a distanza di tempo, non sembra che ciò abbia significato una ‘promozione’ dell’italiano popolare all’interno del repertorio, come pure era stato ipotizzato.
Si fornisce qui di seguito una schematica descrizione (tratta da D’Achille 20062: 220-223) delle principali caratteristiche dell’italiano popolare.
Sul piano fonetico, nel parlato dei semicolti si rilevano frequenti errori nell’accentazione (persuàdere, centrifùga) ed evitamenti di sequenze foniche complesse o estranee al sistema [pisːi]cologo, ga[sːe]. Nella scrittura, oltre a tratti dovuti a interferenze dialettali e regionali o a fenomeni di ipercorrettismo (Andonio, manciare, in semicolti meridionali), sono da segnalare:
(a) la mancata percezione dei confini delle parole (➔ rianalisi), con frequenti univerbazioni di articoli, pronomi clitici e preposizioni (lamico, tidico, avedere), e anche con alcune improprie segmentazioni (con torni, di spetto, in dirizzo, l’aradio, con concrezione dell’articolo);
(b) la difficoltà nella resa delle doppie (➔ doppie, lettere), spesso scempiate (fato «fatto») – ma a volte, per ➔ ipercorrettismo, le scempie vengono indebitamente raddoppiate (baccio «bacio»), specie da scriventi settentrionali – e la semplificazione dei nessi consonantici, nella grafia come spesso anche nella pronuncia (atro «altro»; particolarmente frequente è l’omissione della nasale: sepre «sempre», fidazzata «fidanzata»);
(c) la presenza di errori di ortografia, soprattutto in alcuni punti critici del sistema, come la ‹h›, omessa (anno visto, ance «anche») o usata a sproposito (chome), la ‹q›, indebitamente estesa (quore, qucina), i digrammi e trigrammi (celo «cielo», molie o mogle «moglie»);
(d) la scarsa e impropria utilizzazione dei segni paragrafematici: accenti e apostrofi omessi o inseriti indebitamente; uso casuale e a volte ‘reverenziale’ delle maiuscole, per le iniziali delle parole ritenute più importanti; punteggiatura per lo più assente o messa a casaccio.
A livello morfologico, i fenomeni più rilevanti sono:
(a) la tendenza a regolarizzare i paradigmi nominali e aggettivali, per lo più con l’adozione di maschili in -o / -i (l’agento «agente»; gli auti «autobus»; grando «grande») e femminili in -a / -e (la moglia «moglie»; le cimice «cimici»; inglesa «inglese»);
(b) gli scambi tra aggettivi e avverbi e il rafforzamento ‘analitico’ di comparativi e superlativi sintetici (il posto meglio «migliore»; guidare veloce «velocemente»; è tanta buona «tanto buona»; più migliore; molto ottimo);
(c) la sovraestensione del clitico dativo ci, che assume anche il valore di «a lui», «a lei» (anche come allocutivo di cortesia; ➔ cortesia, linguaggio della) e «a loro» (ci do un bacio; posso dirci una cosa?), che sembra marcato in diatopia come settentrionale o meridionale; al centro si generalizza piuttosto gli (come in genere nel parlato), ma spesso è sovraesteso anche al maschile le (ho incontrato tuo zio e le ho ridato i soldi), forse per ipercorrettismo, o per influsso dell’allocutivo di cortesia; notevoli anche sequenze di clitici contrarie all’ordine standard (non si ci vede «non ci si vede»);
(d) l’uso del possessivo suo anche per la III persona plurale, invece di loro (si hanno anche esempi come suo di lui, suo di loro);
(e) nel sistema verbale, gli scambi fra gli ausiliari dei verbi attivi (➔ ausiliari, verbi), in rapporto ai diversi sostrati dialettali (ho rimasto; sono mangiato; vi avete sbagliato), la presenza di forme improprie ‘analogiche’, specie nel congiuntivo (potiamo «possiamo», vadi «vada», facci «faccia», stasse «stesse»), nel passato remoto (misimo «mettemmo») e nel participio passato (faciuto «fatto»), nonché la generale riduzione dei tempi e dei modi.
A livello sintattico, come fatti peculiari sono da segnalare:
(a) estensioni di concordanze a senso del tipo la gente applaudivano o qualche uomini;
(b) nella frase relativa, non solo la pressoché sistematica adozione del che polivalente, diffusa in generale nel parlato, ma anche la sovraestensione di dove (il giorno dove mi sono sposata), la commistione del modello analitico con quello sintetico (ho ricevuto la lettera che con la quale mi dici che stai bene), l’uso di la quale non preceduto da preposizione (la tua lettera la quale mi sono rallegrato), anche invece di che pronome e talvolta perfino congiunzione (capisco la quale stai bene);
(c) la ripetizione del clitico in perifrasi con i verbi modali (ti devo dirti);
(d) costrutti particolari come il periodo ipotetico col doppio condizionale (se saresti tu al posto mio, faresti la stessa cosa) o col doppio imperfetto congiuntivo (se potessi, lo facessi), diversamente distribuiti nelle varie aree;
(e) oltre alle sistematiche riprese clitiche degli elementi dislocati a sinistra del tipo a me mi piace (caratterizzanti, come si è detto, solo in rapporto allo scritto standard), va segnalata la frequenza delle frasi con tema sospeso e anche con l’➔accusativo preposizionale.
Nel lessico e nella formazione delle parole i fenomeni più rilevanti sono:
(a) lo scambio di suffissi (discrezionalità «discrezione») e di prefissi (indispiacente «dispiaciuto»; spensierato «pensieroso»); la produttività del suffisso zero e della sottrazione di suffisso (prolungo «prolungamento»; spiega «spiegazione»); la presenza di morfemi aggiuntivi (i tranquillizzanti «tranquillanti»);
(b) i cosiddetti malapropismi, cioè parole storpiate sul piano del significante per accostamento paretimologico ad altre più note (celebre «celibe»; debellare «cancellare»; fibrone «fibroma»; rimboccare «rabboccare»; altrite «artrite»; sodomizzare «somatizzare»), particolarmente frequenti con i nomi propri e le parole straniere (tic «ticket»);
(c) l’uso di popolarismi espressivi (botta, botto, macello);
(d) la preferenza per strutture lessicali di tipo analitico (fare sangue «sanguinare»; malato al cervello «pazzo»);
(e) il ricorso a ➔ dialettismi per riempire ‘vuoti oggettivi’ e ‘soggettivi’, nonché, in documenti di emigranti, fenomeni di interferenza con la lingua locale, evidenti anche ad altri livelli di analisi oltre a quello lessicale.
Accanto alla fenomenologia del parlato più trascurato, la lingua dei semicolti presenta anche particolarità spiegabili con riferimento ai modelli di lingua scritta conosciuti e sentiti come particolarmente prestigiosi, primo fra tutti quello della burocrazia, il cui influsso si rileva, per es., in stilemi come con la presente vengo a dirti …, o nell’uso di firmare (o anche semplicemente di presentarsi) prima con il cognome e poi con il nome, oppure ancora nell’adozione del tipo il sottoscritto per riferirsi allo scrivente, che però, prima o poi, passa alla I persona singolare.
Secondo alcuni studiosi (Cortelazzo 2001; Lepschy 2002) l’italiano popolare è ormai uscito dal repertorio e in effetti non sembra illecito sostenere che «non esiste più, né come creatura reale nel panorama linguistico italiano, né come oggetto attraente di descrizione di studi linguistici» (Berruto, in Lo Piparo & Ruffino 2005: 334). Le ultime pubblicazioni sul tema, infatti, si riferiscono a testi scritti del passato, più o meno recente (cfr., per es., Rabito 2008).
Che il concetto di italiano popolare vada storicizzato pare indubitabile: sarebbe difficile individuare oggi testi che presentano, sul piano sia quantitativo sia qualitativo, deviazioni dalla norma come quelle sopra descritte; d’altro canto c’è stata certamente una risalita di alcuni tratti tipici dell’italiano popolare in altre varietà del repertorio (Sobrero 2005: 214-215). L’assenza di testi contemporanei in italiano popolare potrebbe però essere solo apparente e spiegarsi anche, nello scritto, con la riduzione della corrispondenza epistolare in seguito alla diffusione del telefono. Ma negli ultimi decenni i semicolti sono divenuti sempre più spesso produttori di documenti di tipo burocratico-amministrativo (cfr., per es., Telmon 1990) e la loro presenza è stata colta, sulla base di nuovi elementi sintomatici, anche nelle nuove forme di scrittura in rete (Malagnini 2007; ➔ Internet, lingua di).
Fenomeni tipici dell’italiano popolare si registrano sistematicamente anche nel parlato (né si possono considerare esclusivi dei parlanti più anziani), ma la componente diatopica e quella diamesica tendono a prevalere su quella diastratica nelle analisi dei testi orali.
Paolo D’Achille
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