MANCINI, Italo
Nacque a Schieti, frazione di Urbino, il 4 marzo 1925, primo di tre figli maschi, da Adelmo, minatore, e da Elena Guidi, casalinga di famiglia contadina.
Della sua terra e delle sue origini popolari - Schieti nel secondo dopoguerra fu centro di intense lotte operaie e contadine - il M. parlò sempre come di un contesto e di un orizzonte entro il quale avevano trovato significato le indagini filosofiche apparentemente più astratte del suo quarantennale itinerario di filosofo e di teologo.
Nel 1937 intraprese gli studi ginnasiali e liceali presso i seminari di Urbino e di Fano, completandoli nel 1945. Entrato nel seminario regionale di Fano per compiervi gli studi teologici, il M. fu ordinato sacerdote nel 1949. Come vincitore di una borsa di studio, nello stesso anno si iscrisse all'Università cattolica di Milano nel corso di laurea in filosofia, ed ebbe come docenti, fra gli altri, F. Olgiati, Sofia Vanni Rovighi, A. Masnovo e G. Bontadini, che considerò il suo vero maestro. Durante gli studi universitari svolse anche un'intensa azione pastorale nella parrocchia milanese di Mombello.
Il M. conseguì la laurea in filosofia nel novembre del 1953 con una tesi, il relatore fu Bontadini, dal titolo "Il non-essere. (Ricerche sulla filosofia di Platone)".
Alla scuola neoscolastica - dichiarava il M. a un giovane intervistatore - rimase sempre "idealmente fedele" e per molti anni anche "istituzionalmente fedele", "soprattutto nella tipica apertura di Bontadini che ha fatto parlare più che di filosofia neoscolastica, di filosofia neoclassica", nel senso che "il campo medievale tomistico è stato inserito nel solco costante delle domande e delle risposte che potremmo chiamare classiche, lungo l'arco del filosofare" (Cristianesimo e culture, a cura di L. Lestingi, Manduria 1989, p. 16).
Dopo la laurea il M. restò per alcuni anni all'Università cattolica di Milano come borsista e come assistente volontario e iniziò a collaborare con la Rivista di filosofia neoscolastica, dove apparvero i primi saggi di argomento ontologico sino alla pubblicazione di Ontologia fondamentale (Brescia 1958) che fu preludio al conseguimento della libera docenza in filosofia teoretica (1959).
L'intenso periodo di ricerche ontologiche del M. è caratterizzato dapprima dallo studio del pensiero platonico, nel quale aveva individuato un duplice movimento, quello idealistico e quello trascendentale, considerando il semantema "non-essere" l'artefice del passaggio dal primo al secondo momento. Alla luce di questa dialettica, entro la vasta produzione platonica, il M. aveva studiato la funzione metodologica, ontica e cosmologica del "non-essere" stesso, per poi allargare la ricerca epistemologica al concetto di essere nella sua anormalità logica, nella sua valenza trascendentale e nella sua possibilità di concettualizzazione.
Al M. fu affidato l'incarico dell'insegnamento di filosofia della religione presso l'Università Cattolica; nel 1959 fu chiamato a insegnare storia del cristianesimo nella facoltà di lettere e filosofia dell'Università di Urbino e, successivamente, nel 1967 filosofia della religione nella facoltà di magistero. Il M. prese domicilio a Urbino, dove fu nominato canonico teologo della cattedrale e inaugurò una serie di omelie domenicali che, per rigore e profondità, attirarono la presenza di centinaia di giovani studenti universitari. In quegli anni il M. venne maturando quella che egli chiamava "la svolta ermeneutica", nel confronto con le questioni del mito e del kerygma sollevate dalle opere dei teologi protestanti R. Bultmann e K. Barth. Il senso della "svolta" è stato delineato nel volume Linguaggio e salvezza (Milano 1964), mentre i vasti studi sui teologi protestanti sono stati raccolti in Novecento teologico (Firenze 1977).
Da Barth aveva derivato la persuasione che la religione fosse essenzialmente kerygma, rivelazione di Dio in senso forte, proposta radicale di salvezza. Ma non condivideva l'assunto secondo cui il kerygma entra nella vita dell'uomo, come voleva Barth nella seconda edizione del suo Commentario alla Lettera ai Romani (1922), attraverso la lacerazione di tutte le capacità umane. Per comprendere e giudicare il kerygma si esigeva - secondo il M. - un impegno con la ragione come "autenticazione cognitiva e come riconoscimento autentico della Parola di Dio". Si trattava di sapere "se Dio parla e può parlare"; per questo non bastavano la fenomenologia, la psicologia e il solo confronto storico. Si esigeva il discorso definitivo della filosofia della religione, intesa come teoria del riconoscimento attraverso il pensare, soprattutto ontologico. Di qui il primato dell'ermeneutica e il primato del verbo "riconoscere" sul suo antecedente, "il pensare". Il volume Filosofia della religione (Roma 1968; 3ª ed. riveduta e ampl., Torino 1986) raccoglieva i risultati di queste indagini.
Quello che sembrava un approdo definitivo per il discorso filosofico sulla religione, manifestava forti elementi di problematicità. Il M. ripropose perciò la sua prospettiva con alcuni notevoli spostamenti.
Il principale stava nel fatto che il compito di stabilire i limiti e le possibilità di senso e di valore del kerygma cristiano non veniva più attribuito a "una protologia filosofica e alla dottrina dell'essere", ma teneva conto soprattutto di quelle filosofie "più aderentemente epistemologiche, come la filosofia del linguaggio, della storia e della prassi", per cui si veda Teologia, ideologia, utopia (Brescia 1974, p. 7), in cui il M. ha dato una definizione complessiva di filosofia della religione: è un'ermeneutica del dato presuntivamente rivelato che si configura come passaggio dal dato medesimo al significato, attraverso il confronto con la teoria e con la prassi. La prassi etico-politica acquistava in tal modo grande rilievo. Il complesso filosofico che ha nome ermeneutica poteva risolvere per il M. la questione del metodo e del fondamento della filosofia della religione in termini che si sarebbero potuti estendere a tutte le scienze dello spirito.
Il M. sottolineava il fatto che la sua posizione prendeva congedo da una filosofia "asessuatamente teoreticistica che produce teoremi per partenogenesi", mentre continuava a indagare gli sviluppi delle grandi tradizioni filosofiche.
Per anni aveva tenuto lezioni su I. Kant commentando la Critica della ragion pura (cfr. Guida alla Critica della ragion pura, I-II, Urbino 1982-88), con l'attenzione rivolta al movimento di fondo tenuto da Kant nei confronti della metafisica e della teologia, persuaso che molte posizioni kantiane fossero in sintonia con le forme aperte della coscienza teologica più recente (Cfr. Kant e la teologia, Assisi 1975). Nella negazione della metafisica come scienza, ma non come disposizione naturale e come struttura pratica, basata sulla ragione e non sul sentimento, il M. aveva visto in Kant un buon maestro di teologia. Voleva provare che Kant era stato antimetafisico per amore della metafisica e che in tal modo poteva contribuire a sciogliere la questione di Dio, nella modernità avanzata, dall'abbraccio naturalistico.
Nel 1970, divenuto professore ordinario di filosofia della religione nella facoltà di magistero di Urbino, seguì con attenzione e partecipazione i movimenti di contestazione studentesca. Nel 1974 il M. passò alla cattedra di filosofia teoretica nella facoltà di magistero e nel 1978 fu eletto vicepresidente dell'Opera universitaria di Urbino (ERSU) sempre più a contatto con le culture che animavano l'impegno delle nuove generazioni. Entrò a far parte della rivista Bozze diretta da R. La Valle, espressione di un gruppo di intellettuali cattolici profondamente legati all'esperienza del Concilio Vaticano II.
Il M. fu per anni un punto di riferimento per le comunità cristiane impegnate nel rinnovamento della teologia e della prassi a partire dalle premesse indicate dal Concilio.
Nel 1978 dette inizio all'attività dell'Istituto superiore di scienze religiose da lui definito "centro di ricerca, documentazione, analisi e riflessione sul fatto religioso" con la finalità di riportare la teologia e le scienze delle religioni nell'Università pubblica. Nel 1981, infine, avviò la pubblicazione della rivista Hermeneutica, aprendola alla collaborazione di studiosi italiani e stranieri. Nel frattempo la sua prospettiva filosofica si orientava - di fronte alle sfide portate al cristianesimo - in direzione della "critica del sapere storico": ermeneutica filosofica come filosofia della cultura. Da questa impostazione era nato negli anni Settanta - gli anni del trionfo e del declino delle grandi ideologie - il confronto con le forme attuali del pensiero. L'aperto riconoscimento della dignità delle ideologie (ciascuna era vista come grande ipotesi per la vita e la prassi dell'uomo) non gli impedì di passarle al vaglio della critica per coglierne il grado di approssimazione "alla verità e alla dignità". Nascevano così le indagini dedicate dapprima al marxismo e successivamente a quello che egli amava chiamare "il pensiero negativo".
L'interpretazione del marxismo (cfr. Con quale comunismo, Vicenza 1976) era volta a individuare "il principio di Marx", a partire dai Manoscritti economico-filosofici del 1844. Lo identificava con il principio della sistematica demolizione delle ideologie per mettere il soggetto umano, con il suo lavoro e i suoi bisogni, al posto dell'idea hegeliana e delle funzioni mistico-teoretiche. Il soggetto umano, alienato dalla logica del lavoro capitalistico, avrebbe potuto liberarsi solo attraverso la soppressione rivoluzionaria di tali condizioni rimettendo il lavoro nelle mani di tutti. Il M. indicava con un'espressione efficace del teologo tedesco J. Moltmann il carattere proprio del marxismo: una "religione in eredità"; vale a dire che Marx intendeva risolvere non religiosamente i problemi che sono propri della religione (quelli della condizione alienata dell'uomo e della necessaria riconciliazione), realizzando una forma di soteriologia senza cristologia. Per questa ragione il M. annoverava Marx tra gli "abitatori eretici" dell'area ebraico-cristiana, perché voleva occupare con la religione "dell'aldiqua" il posto che era stato della "religione dell'aldilà".
La crisi generalizzata del marxismo teorico, da una parte, e il progressivo venir meno del cosiddetto "dialogo" tra marxisti e cristiani, dall'altra, portavano il M. a individuare nel pensiero negativo un nuovo esigente interlocutore. All'inizio degli anni Ottanta andava affermandosi tra le nuove generazioni una forma di pensiero dominata dalla "logica della disgregazione" con la dichiarazione (ripresa da F. Nietzsche) dell'andare a zero del mondo delle idee e dei valori che per secoli avevano nutrito l'Occidente. Il gioco dell'immediatezza, lo "scialo delle sensazioni" chieste all'inconscio, il ritorno al politeismo, il recupero della diversità della morale (in mancanza dell'identità delle persone) prendevano il posto del primato del discorso, del concetto, dell'unità teologica, logica e ontologica. Il simbolo botanico del rizoma, messo in circolo da G. Deleuze e da F. Guattari, esprimeva con forza, per il M., un'apologia della frammentazione del pensiero, contro ogni pretesa sistematica e finalistica, che riattualizzava istanze nietzschiane. "Più ancora di Sade - scriveva il M. ne Il pensiero negativo e la nuova destra, Milano 1983 - è soprattutto Nietzsche prossimo nostro". Al diffondersi del pensiero negativo il M. ha contrapposto un "pensiero positivo" che faceva credito, accanto alla lezione di E. Bloch e di W. Benjamin, alla promessa e alla speranza teologica, e si è impegnato con i problemi che questo tipo di pensiero ha aperto nel mondo del diritto e della politica e con le sfide lanciate al cristianesimo.
Il M. riteneva che nei nuovi contesti culturali dovessero essere ripensati i temi del cristianesimo per rispondere alla domanda sulla possibilità di credere e di impegnarsi nella storia sotto l'impulso del kerygma cristiano, riformulando la professione di fede. In quattro volumi di saggi (Con quale cristianesimo, Roma 1978; Come continuare a credere, Milano 1980; Tornino i volti, Genova 1989; Scritti cristiani, ibid. 1991), il M. ha cercato di delineare il volto di un cristianesimo radicale e perciò paradossale, diverso dal sentire comune e dunque capace di ripresentare l'inaudito e lo straordinario. Nel M. rimase ben ferma la persuasione che la fede vada concepita come assoluto a priori divino nella sua origine e come discontinuo e liberante futuro.
Nel nuovo "areopago di cultura e di costume" dominato dal pensiero negativo era emerso anche il rifiuto di conferire valore fondativo agli strumenti del mondo del diritto e di far coesistere vita morale e diritto. Tra i promotori di questa vicenda il M. individuava ancora una volta il pensiero di Nietzsche, che ha posto una pesante ipoteca sul mondo penale con la tesi della "innocenza del divenire": tesi formulata per ritrovare il sentire innocente senza più l'idea di colpa e di peccato, di espiazione e di pena, per celebrare tutti i dinamismi della terra e della vita. Per dare senso a una civiltà del diritto il M. - che dal 1973 teneva per supplenza la cattedra di filosofia del diritto presso la facoltà di giurisprudenza e che, nel 1990, fu chiamato come titolare della medesima cattedra - riattualizzò falde del pensiero giuridico e morale messe ai margini e talvolta ghettizzate dal pensiero ufficiale (in particolare "il principio femminile" come categoria alternativa capace di introdurre "un'ispirazione dal basso" al diritto di natura; il principio di resistenza e l'affermazione del nesso tra diritto e rivoluzione) e mostrò come l'idea di giustizia "vero portento e anima dell'Occidente", considerata non solo sotto il profilo esclusivamente formale, ma nella sua ipotiposi, vale a dire nell'agire dell'uomo giusto, è il fondamento morale del diritto. Secondo il M., Agostino di Ippona ha lasciato nel libro XIX del De Civitate Dei tracce decisive per la delineazione della "giustizia dell'uomo giusto", abbandonando la strada delle definizioni astratte e dei programmi normativi.
Questa ricca messe di ricerche di filosofia del diritto e di filosofia della politica (cfr. Filosofia della prassi, Brescia 1986; L'ethos dell'Occidente, Genova 1990) aveva una forte radicazione teologica. Tra le ricerche dei primi anni e queste ultime dedicate alla teoria della terra, il M. vedeva questa differenza: se prima era "il mondo dell'alto" che veniva proiettato su "questo mondo", ora accadeva il contrario. Avvertiva come decisivo per sé, il venire in primo piano delle questioni riguardanti la città dell'uomo sotto il profilo giuridico e sociale, viste sempre in connessione con la questione teologica, cui ritornò a dedicarsi negli ultimi anni della sua esistenza. La riflessione si concentrò sull'elaborazione di una teologia che egli chiamava "dei doppi pensieri" (l'espressione era tratta da L'idiota di F.M. Dostoevskij) capace di esprimere la condizione normale del pensare umano: la compresenza in esso di istanze tra loro opposte e inconciliabili. Il M. faceva proprie molte delle critiche portate alla metafisica dalla filosofia contemporanea; mostrava come nelle filosofie posthegeliane (da Bloch, a M. Heidegger, da P. Rosenzweig a E. Levinas) il tema della differenza non fosse pienamente declinato nel senso dell'alterità e della trascendenza; dava valore infine alla teologia simbolica perché in essa signoreggiava la figura retorica dell'ossimoro. L'ossimoro restituiva la vera natura del discorso umano su Dio, facendo di necessità coesistere i contrari per impedire che la trasbordante ricchezza di Dio fosse ridotta a un termine univoco. "Questa teologia simbolica è [(] al tempo stesso, teologia del concetto, perché aspira a parlare di Dio e teologia della speranza perché sa che questa aspirazione è destinata a non acquietarsi" (A. Aguti, Il frammento su Dio, in Riv. di teologia "Aprenas", I [2003], p. 60). Le ricerche su Dio furono pubblicate postume con il titolo Frammento su Dio, Brescia 2000 ("Frammento - scriveva il M. nel suo Diario - è un discorso organico, ma incompleto").
Il M. morì a Roma il 7 genn. 1993.
Fonti e Bibl.: G. Rognini, Metafisica e sofferenza. Un itinerario critico con I. M., Verona 1983; A. Milano, Barth, Bultmann, M., Urbino 1988; P. Grassi, Intervista a I. M. sulla teologia contemporanea, Urbino 1992; G. Ferretti, I. M. filosofo della religione e interprete del cristianesimo, in Filosofia e teologia, VII (1993), pp. 629-665; La filosofia politica nel pensiero di I. M., a cura di M. Cangiotti - E. Moroni, Urbino 1994; Kerygma e prassi. Filosofia e teologia in I. M., in Hermeneutica, 1995 (numero speciale dedicato al M., a cura di P. Grassi, con bibl. 1950-92, a cura di S. Miccoli, pp. 227-268); I. M. dalla teoresi classica alla modernità come problema, a cura di G. Crinella, Roma 2000; I. M. tra filosofia e teologia, in Riv. di teologia "Asprenas", I (2003), numero monografico dedicato al M., a cura di A. Pitta; Filosofia, teologia e politica. A partire da I. M., in Hermeneutica, n.s., 2004 (numero speciale dedicato al M., a cura di P. Grassi, con bibl. a cura di S. Miccoli, pp. 285-300).