Abstract
Nel diritto internazionale il termine ius cogens indica un nucleo di norme consuetudinarie a tutela dei valori fondamentali della comunità internazionale nel suo insieme. Le uniche diposizioni che si occupano espressamente di diritto cogente sono contenute nella Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969 e nel Progetto di Articoli sulla responsabilità internazionale degli Stati del 2001. Nella prassi giurisprudenziale sono rilevabili diversi approcci, non solo circa l’individuazione delle norme cogenti, ma anche e soprattutto in merito ai loro specifici effetti giuridici, a seconda che a pronunciarsi siano giudici statali o internazionali, e tra questi ultimi, a seconda delle loro rispettive competenze. È al fine di contribuire a chiarire i contorni di un concetto ancora assai controverso, quale è lo ius cogens, che la Commissione del diritto internazionale ha deciso nel 2015 di includerne la trattazione nei suoi lavori di codificazione e di sviluppo progressivo del diritto internazionale.
Il termine ius cogens trae origine dal diritto romano nel cui ambito indicava l’insieme dei principi dell’ordinamento giuridico, non necessariamente fondamentali, ma nondimeno ritenuti insuscettibili di deroga da parte dei consociati attraverso accordi (ius publicum privatorum pactis mutari non potest). Nel diritto internazionale sono considerate cogenti le norme che, oltre ad essere vincolanti per tutti gli Stati, al pari di qualsiasi altra norma di diritto consuetudinario (v. Consuetudine), tutelano valori fondamentali della comunità internazionale nel suo insieme. Benché non esista un documento giuridicamente vincolante che stabilisca quali siano nello specifico le norme appartenenti allo ius cogens, risulta da una ormai diffusa prassi giurisprudenziale, nazionale ed internazionale, che sono considerate tali il divieto della minaccia e dell’uso della forza armata, il divieto di tortura e di genocidio, di schiavitù, di discriminazione razziale e di apartheid, nonché il principio di autodeterminazione dei popoli e le norme fondamentali del diritto internazionale umanitario. Sarebbero inoltre da considerarsi cogenti, secondo alcuni autori, talune norme strutturali del diritto internazionale quale il principio pacta sunt servanda, o disposizioni convenzionali come l’art. 103 della Carta delle Nazioni Unite ai sensi del quale gli obblighi previsti dalla Carta, ritenuti a tutela di valori fondamentali della comunità internazionale, prevalgono su eventuali accordi con essi incompatibili. Più controversa è la questione delle conseguenze giuridiche deducibili dalla violazione dello ius cogens. Nel diritto positivo la Convenzione di Vienna del 23 maggio 1969 prevede l’inderogabilità mediante trattati, mentre il Progetto di Articoli sulla responsabilità internazionale degli Stati del 3 agosto 2001 sancisce l’inoperatività delle cause di esclusione dell’illecito internazionale rispetto a violazioni di norme cogenti, nonché la inviolabilità di queste ultime tramite il ricorso a contromisure. Secondo la dottrina più diffusa, se da un lato la natura imperativa di una determinata norma consuetudinaria avrebbe l’effetto di renderla prevalente in caso di conflitto con altre norme del diritto internazionale, siano esse di natura pattizia o consuetudinaria, dall’altro, essa implicherebbe una serie di conseguenze giuridiche non altrimenti deducibili dalla violazione di una norma consuetudinaria ordinaria. L’idea sottostante allo ius cogens è la sussistenza nell’ordinamento giuridico internazionale di un nucleo di norme ‘supreme’ in grado di imporsi sugli Stati a prescindere dalla loro volontà. Mentre cioè le fonti ‘ordinarie’ del diritto internazionale, riconducibili essenzialmente alle consuetudini e ai trattati, nonché agli atti vincolanti delle Organizzazioni internazionali, esistono se ed in quanto siano supportate dalla volontà degli Stati di ritenerle applicabili nei rapporti inter se, lo ius cogens costituirebbe una fonte ‘speciale’ del diritto internazionale nella misura in cui la sua attuazione da parte dei giudici prescinderebbe dalla volontà degli Stati di considerarle applicabili nei loro rapporti reciproci, e si giustificherebbe piuttosto per la necessità di tutelare valori fondamentali condivisi a livello universale, e considerati radicati nella coscienza e nella morale di qualsiasi comunità di individui. In questo senso, il diritto cogente corrisponderebbe all’idea di un diritto naturale o morale (o ‘costituzionale’) da ritenersi insito in ogni ordinamento giuridico e da contrapporre al diritto positivo identificabile con le norme volute e create dagli Stati al fine di disciplinare i rapporti inter se. La gran parte della dottrina tende a considerare il concetto di ius cogens sostanzialmente coincidente con quello degli obblighi erga omnes, almeno per quanto riguarda le fattispecie che ricadrebbero nelle due categorie, benché non manchino dubbi sulla opportunità di una simile sovrapposizione. Secondo la definizione introdotta dalla Corte internazionale di giustizia nella sentenza Barcelona Traction (Belgio c. Spagna) del 5 febbraio 1970, sarebbero qualificabili come erga omnes gli obblighi assunti e dovuti da ciascuno Stato nei confronti della comunità internazionale nel suo complesso, in quanto volti a garantire il rispetto di norme particolarmente importanti del diritto internazionale, quali il divieto di tortura o di genocidio. La peculiare conseguenza giuridica ad essi ascrivibile consisterebbe nella possibilità che a far valere la loro violazione siano tutti gli Stati della comunità internazionale e non, come avviene rispetto agli obblighi assunti in base a rapporti di reciprocità, il solo Stato che ne abbia subìto direttamente gli effetti.
Le uniche disposizioni normative che nel diritto internazionale si occupano espressamente di diritto cogente sono previste nella Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969, e nel Progetto di Articoli sulla responsabilità internazionale degli Stati adottato nel 2001 dalla Commissione del diritto internazionale.
Ai sensi dell’art. 53 della Convenzione di Vienna è definita cogente una «norma di diritto internazionale riconosciuta e accettata dalla comunità internazionale degli Stati nel suo insieme come una norma dalla quale non è consentita alcuna deroga e che può essere modificata soltanto da una norma successiva di diritto internazionale generale che abbia lo stesso carattere». L’art. 53 aggiunge che è causa di invalidità assoluta del trattato la sua eventuale contrarietà ad una norma cogente preesistente mentre, secondo quanto sancito all’art. 64, la sopravvenienza di una norma di ius cogens è causa di estinzione del trattato il cui contenuto sia con essa incompatibile. Secondo quanto previsto dall’art. 66 della medesima Convenzione, in caso di controversia tra due o più Stati, l’accertamento del carattere cogente di una norma spetta alla Corte internazionale di giustizia. Altre disposizioni riguardanti lo ius cogens prevedono che in caso di conflitto con una norma cogente, il trattato è da considerarsi invalido o estinto nel suo insieme, e non in riferimento alla singola clausola che risulti incompatibile (art. 44, par. 5), e inoltre che l’invalidità o l’estinzione del trattato può essere fatta valere soltanto dagli Stati che ne siano parti (art. 65). La Convenzione dunque, oltre a stabilire i criteri che consentono l’individuazione delle norme cogenti, senza tuttavia individuarle nello specifico, ne disciplina altresì gli effetti limitatamente ai rapporti con norme convenzionali incompatibili. Nella sentenza del 10 settembre 1993 nel caso Aloboetoe v. Suriname, la Corte inter-americana dei diritti dell’uomo ha concluso, in riferimento ad un accordo del 1762 concluso dalla Germania con il popolo indigeno Saramakas, che non era necessario stabilire se si trattasse nel caso di specie di un trattato internazionale in senso giuridico in quanto, anche ad ammettere che lo fosse stato, avrebbe dovuto considerarsi estinto per la contrarietà del suo contenuto alla norma sopraggiunta di ius cogens che sancisce il divieto di schiavitù (§§ 56-57).
Oltre al diritto dei trattati, gli effetti della violazione di norme cogenti sono stati oggetto di codificazione nell’ambito della responsabilità internazionale degli Stati. Il Progetto di Articoli predisposto nel 2001 prevede anzitutto all’art. 26, che le cause di esclusione dell’illecito internazionale in esso previste non possano essere invocate per giustificare la violazione di una norma cogente. Gli Stati dunque non possono sottrarsi alla responsabilità internazionale derivante dalla violazione di una norma cogente neppure quando sia dimostrabile il consenso dello Stato leso (art. 20), il diritto di esercitare la legittima difesa (art. 21) o di attuare contromisure (art. 22), la forza maggiore (art. 23), l’estremo pericolo o distress (art. 24) e lo stato di necessità (art. 25). Quanto alle conseguenze della violazione di una norma di diritto cogente, l’art. 41 prevede che gli Stati cooperino allo scopo di porre fine alla violazione grave attraverso il ricorso a misure lecite (art. 41, par. 1), e il divieto, non solo di riconoscere la legittimità della situazione creata dalla violazione, ma anche di fornire assistenza al fine di consentirne la perpetuazione (art. 41, par. 2). Inoltre, ai sensi dell’art. 50, par. 1, lett. d), del Progetto, è esclusa la possibilità di violare, a titolo di contromisura, gli obblighi derivanti da norme cogenti del diritto internazionale. Nel parere consultivo sulle Legal Consequences of the Construction of a Wall in the Occupied Palestinian Territory del 9 luglio 2004, la Corte internazionale di giustizia, benché non abbia fatto espresso riferimento allo ius cogens, ha nondimeno osservato che, considerato il carattere e l’importanza dei diritti e degli obblighi coinvolti nel caso di specie, tutti gli Stati avevano l’obbligo di non riconoscere la situazione illegittima derivante dalla costruzione del muro da parte di Israele nei territori palestinesi occupati, e di non prestare assistenza finalizzata a consentirne il mantenimento.
Con l’obiettivo di contribuire a chiarire la natura e gli effetti delle norme cogenti, la Commissione del diritto internazionale ha deciso di inserire nel 2015 lo ius cogens nei suoi lavori di codificazione e di sviluppo progressivo del diritto internazionale (A/69/10, par. 3). La Commissione ha predisposto tre rapporti riguardanti, il primo del 2016, la questione della natura e la definizione del diritto cogente (A/76/10), il secondo del 2017, gli elementi identificativi di una norma cogente (A/72/10), e il terzo del 2018, le conseguenze e gli effetti giuridici dello ius cogens ma non ha sino ad ora prodotto documenti normativi.
I casi della prassi in cui i giudici statali hanno attribuito conseguenze giuridiche speciali a violazioni di norme cogenti sono piuttosto rari. Nella nota sentenza Ferrini (Cass., S.U., 11.3.2004, n. 5044) la Corte di cassazione italiana ha escluso il riconoscimento dell’immunità giurisdizionale alla Germania per le gravi violazioni dei diritti umani commesse a danno di cittadini italiani durante il secondo conflitto mondiale, sul presupposto che il carattere cogente delle norme violate dalle forze naziste (deportazione e costrizione ai lavori forzati) comportasse la prevalenza del loro rispetto sul (e dunque il venir meno del) riconoscimento dell’immunità giurisdizionale spettante agli Stati in base al diritto internazionale consuetudinario. In termini sostanzialmente analoghi si era pronunciata anche la Corte greca di Levadia nel caso Distomo con sentenza del 4 maggio 2000, poi annullata dalla Corte speciale suprema che ha invece accordato l’immunità alla Germania per le presunte violazioni dei diritti umani perpetrate nel territorio della Grecia durante il secondo conflitto mondiale. È tuttavia noto come la Corte internazionale di giustizia, nella sentenza Jurisdictional Immunties of the State (Germany v. Italy: Greece intervening) del 3 febbraio 2012, abbia escluso sulla base di una prassi generalizzata degli Stati, che allo stato attuale il diritto internazionale preveda un’eccezione all’immunità degli Stati quando siano ad essi contestate violazioni di norme cogenti.
Nella sentenza del 17 gennaio 2017 della Supreme Court del Regno Unito nel caso Belhaj v. Straw e Rahmatullah (No. 1) v. Ministry of Defence, se da un lato è stato riconosciuto alle norme internazionali cogenti un ruolo di stimolo (stimulus) per i giudici interni al fine di stabilire i casi in cui sia opportuno escludere la dottrina dell’act of State, ovvero il principio della insindacabilità degli atti di Stati esteri (v. le dichiarazioni di Lord Mance, § 107) dall’altro, pur attribuendo una maggiore rilevanza allo ius cogens internazionale ai medesimi fini, è stata comunque accertata la contrarietà delle violazioni del diritto internazionale anche ai princìpi fondamentali dell’ordinamento interno, sul presupposto che non tutte le violazioni di norme cogenti valgono per ciò stesso ad escludere la dottrina dell’act of State (v. le dichiarazioni di Lord Sumption, § 257 ss.).
La Corte internazionale di giustizia, il cui compito consiste nell’accertamento del diritto internazionale per come esso vige nel momento in cui è chiamata a risolvere una controversia internazionale, ha in diverse occasioni accertato la natura cogente di alcune norme del diritto internazionale ma senza riconoscerne le specifiche conseguenze giuridiche che gli Stati avevano di volta in volta invocato al fine di ammettere effetti non altrimenti deducibili dalla violazione di norme consuetudinarie ordinarie. Nella prima sentenza in cui la Corte si è occupata espressamente di ius cogens, nel caso Armed Activities on the Territory of the Congo (Democratic Republic of the Congo v. Rwanda) deciso il 3 febbraio 2006, i giudici hanno riconosciuto il carattere cogente del divieto di genocidio sancito nella Convenzione del 1948, ma hanno escluso che ciò implicasse la competenza della Corte a pronunciarsi nel caso di specie, a prescindere dal consenso degli Stati tra i quali era insorta la controversia. Ad avviso della Corte in particolare, il carattere cogente del divieto di genocidio non comportava l’incompatibilità con l’oggetto e lo scopo della Convenzione contro il genocidio di una riserva con la quale il Ruanda aveva dichiarato di non ritenersi vincolato dall’art. IX, ovvero dall’obbligo di deferire alla Corte internazionale di giustizia eventuali controversie sorte con altri Stati parti in merito all’applicazione e/o interpretazione della Convenzione (§§ 64-65, 67). Il medesimo principio è stato ribadito dalla Corte nella sentenza Application of the Convention on the Prevention and Punishment of the Crime of Genocide (Croatia v. Serbia) del 3 febbraio 2015 (§§ 87-88). Anche nella sentenza Questions relating to the Obligation to Prosecute or Extradite (Belgium v. Senegal) del 20 luglio 2012, relativa al presunto obbligo del Senegal di perseguire o estradare l’ex Presidente del Ciad Hissène Habré per gli atti di tortura di cui era considerato responsabile dalle autorità belghe, la Corte internazionale di giustizia, pur affermando il carattere cogente della norma che li vieta, ha escluso che da ciò conseguisse l’obbligo degli Stati parti alla Convenzione contro la tortura del 1984 di perseguire i presunti responsabili per gli atti perpetrati anche prima che la Convenzione entrasse in vigore (§§ 99-100). Infine, come anticipato, nella sentenza Jurisdictional Immunties of the State (Germany v. Italy: Greece intervening) del 3 febbraio 2012 la Corte ha respinto il ragionamento della Corte di cassazione italiana nel caso Ferrini nel senso che l’immunità dovesse essere negata alla Germania per violazioni di norme di ius cogens. La Corte internazionale di giustizia non ha escluso che i presunti crimini contestati alle forze naziste durante il secondo conflitto mondiale appartenessero al diritto cogente, ma piuttosto che da ciò derivasse un’eccezione al riconoscimento dell’immunità giurisdizionale degli Stati, rilevando altresì l’insussistenza di un conflitto tra la norma sull’immunità e quella sui crimini, posta a tutela di valori fondamentali del diritto internazionale, attenendo la prima ad un aspetto procedurale e la seconda a questioni sostanziali.
La giurisprudenza degli organi di controllo sui diritti umani in materia di ius cogens non offre soluzioni chiare ed omogenee, né circa l’individuazione delle norme cogenti, né in merito agli effetti giuridici da esse eventualmente derivanti. Nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani può rilevarsi l’orientamento a riconoscere il carattere cogente ad un nucleo ristretto di norme internazionali, e altresì ad escludere effetti giuridici che non siano chiaramente riscontrabili nella prassi degli Stati. Sul primo aspetto, mentre la Corte ha più volte ammesso la natura cogente delle norme che vietano il genocidio e la tortura, essa ha escluso che possa considerarsi cogente il diritto di accesso al giudice (C. eur. dir. uomo, 21.6.2016, Al-Dulimi c. Svizzera, § 136), e ciò contrariamente a quanto affermato, seppure in termini non del tutto chiari, dal Tribunale penale internazionale per il Libano in una ordinanza del 2010 (v. infra, § 3.4). Quanto alle conseguenze giuridiche, i giudici di Strasburgo sembrano propensi ad escludere effetti delle norme cogenti che non abbiano un riscontro oggettivo nella prassi degli Stati. Può ad esempio considerarsi consolidato l’orientamento della Corte ad escludere che il diniego di immunità per la violazione di una norma di ius cogens sia incompatibile con la Convenzione europea, dovendosi al contrario considerare quale limitazione giustificata e proporzionata del diritto di accesso al giudice ai sensi dell’art. 6 della Convenzione europea (C. eur. dir. uomo, 21.11.2001, Al-Adsani c. Regno Unito, § 66; Jones c. Regno Unito, 14.1.2014, §§ 193-195).
Rispetto alla giurisprudenza della Corte europea, la Corte inter-americana dei diritti umani annovera una cospicua giurisprudenza in materia di ius cogens, nel senso soprattutto di un più ampio riconoscimento delle norme ritenute corrispondenti al diritto cogente. La natura di ius cogens è stata accertata rispetto a norme che sanciscono il diritto alla vita (Huilca Tecse v. Peru, 3.3.2005, § 65), il divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti (Mendoza v. Argentina, 4.5.2013, § 199), il principio di eguaglianza dinanzi alla legge e di non discriminazione (Case of Expelled Dominican and Haitians v. Dominican Republic, 28.8.2014, § 264). È tuttavia da rilevare come in diversi casi la natura cogente di una determinata norma sia stata invocata per confermare o rafforzare effetti giuridici già di per sé ad essa ascrivibili. È ad esempio il caso in cui i giudici hanno rimarcato l’importanza dell’obbligo di condurre indagini e accertare le responsabilità individuali rispetto alla violazione di norme cogenti quali la pratica delle uccisioni extragiudiziali, della tortura, dello stupro e della schiavitù (Ríos Paiva v. Venezuela, 28.1.2009, § 283; Rio Negro Massacres v. Guatemala, 4.9.2012, §§ 114, 227), nonché delle sparizioni forzate (La Cantuta v. Peru, 29.11.2006, § 160; Alvarez v. Guatemala, 20.11.2012, §§ 192, 232), precisando tuttavia che l’obbligo era ricavabile non soltanto da norme convenzionali vincolanti per gli Stati coinvolti ma anche dalle loro rispettive legislazioni interne.
Seppure manifestatasi attraverso atti non vincolanti, degna di nota è altresì la prassi del Comitato dei diritti umani istituito dal Patto sui diritti civili e politici del 1966. Nel Commento generale n. 29 del 31 agosto 2001 il Comitato ha affermato che la clausola di deroga di cui all’art. 4, par. 2, del Patto, non potrebbe essere invocata, oltre ai casi espressamente ivi previsti, al fine di giustificare la violazione di norme del diritto umanitario o del diritto cogente, quali la presa di ostaggi, l’imposizione di punizioni collettive, le privazioni arbitrarie della libertà o la violazione dei princìpi fondamentali dell’equo processo, inclusa la presunzione di innocenza (§ 11). Può notarsi come il Comitato non abbia attribuito alle sole norme cogenti l’effetto di essere inderogabili anche quando non siano espressamente previste all’art. 4, par. 2, avendo al contrario esteso la medesima conseguenza alle norme applicabili nell’ambito di un conflitto armato. Anche nel Commento n. 24 del 4 novembre 1994, pur affermando che le riserve contrarie al diritto cogente sono da considerarsi incompatibili con l’oggetto e lo scopo del Patto sui diritti civili e politici del 1966, il Comitato ha ammesso che il medesimo ragionamento vale per qualsiasi norma di diritto consuetudinario codificata nel Covenant (§ 8). A parte i dubbi sollevati da un simile ragionamento, considerando che la riserva ad un trattato consiste proprio nella facoltà attribuita agli Stati di sottrarsi ad un regime, anche consuetudinario, purché compatibile con l’oggetto e lo scopo del trattato, può notarsi come in ogni caso il Comitato abbia individuato conseguenze giuridiche non ascrivibili in via esclusiva alle norme di diritto cogente.
Nella loro giurisprudenza, i Tribunali penali internazionali hanno fatto ricorso allo ius cogens a diversi fini, in alcuni casi per estendere la competenza a pronunciarsi sui casi ad essi sottoposti, in altri per affermare conseguenze giuridiche di principio la cui corrispondenza alla prassi degli Stati è tuttavia piuttosto dubbia.
Nell’ordinanza del 15 aprile 2010 nel caso El-Sayed, il Tribunale speciale per il Libano ha ritenuto di poter affermare che il diritto di accesso al giudice ha acquisito natura di norma cogente sulla base di una diffusa opinio juris degli Stati, ancorché non supportata da una prassi oggettiva (§§ 29-30). Eppure non sembrano potersi escludere dubbi circa la veridicità di una simile constatazione se solo si consideri che è stato lo stesso Tribunale a precisare in seguito che, quale che sia l’esatta conclusione sulla corrispondenza o meno allo ius cogens del diritto di accesso al giudice, è ‘assiomatico’ che il Tribunale non possa derogare o evitare di conformarsi a quest’ultimo (§ 35). Quanto agli effetti giuridici, l’accertamento della natura cogente del suddetto diritto ha consentito di ammettere la giurisdizione del Tribunale, altrimenti non sussistente, su un presunto caso di detenzione arbitraria nell’ambito dell’indagine condotta da una Commissione indipendente delle Nazioni Unite, al fine di individuare i responsabili dell’omicidio dell’ex Primo ministro libanese Hariri.
Al medesimo fine di estendere l’esercizio della competenza giurisdizionale è da segnalare una decisione della Corte penale internazionale del 4 gennaio 2017 nella quale la Trial Chamber ha affermato la propria giurisdizione rispetto ai presunti crimini di guerra di stupro e di schiavitù sessuale di bambini soldato commessi in Congo nell’ambito di una medesima forza armata parte al conflitto (Prosecutor c. Bosco Ntaganda, ICC-01/04-02/06). Mentre nel diritto internazionale consuetudinario un crimine di guerra è definito giuridicamente quale violazione grave del diritto umanitario commessa nell’ambito di un conflitto armato contro membri delle forze armate nemiche, la Corte penale internazionale ha concluso che il divieto di stupro e di schiavitù sessuale ha acquisito lo status di norma cogente del diritto internazionale con la conseguenza che simili condotte sarebbero vietate non solo in qualsiasi circostanza, in tempo di pace come nell’ambito di un conflitto armato, ma anche a prescindere dallo status delle persone che ne siano vittime e dunque anche quando, come nel caso di specie, le vittime appartengano al medesimo gruppo armato degli autori di simili condotte. Sembra che la Corte abbia invocato lo ius cogens ad abundantiam, per confermare e rafforzare una conclusione che a suo avviso poteva essere dedotta, anzitutto, dalla stessa ratio delle norme applicabili nell’ambito di un conflitto armato, ovvero dalla necessità di limitare il più possibile le sofferenze provocate inevitabilmente in simili contesti (§ 48), e inoltre dal Commentario predisposto dal Comitato della Croce Rossa Internazionale nel 2016 sulla I Convenzione di Ginevra del 1949 (§ 50). È su queste considerazioni preliminari che la Corte ha poi riscontrato ‘additional support’, ai fini della sua conclusione, nella corrispondenza al diritto cogente del divieto di schiavitù sessuale e di stupro (§ 51).
Per quanto concerne le conseguenze giuridiche derivanti più in generale dalla violazione di una norma cogente quale è ad esempio il divieto di tortura, nel caso Furundžija deciso dal Tribunale per i crimini commessi nella ex Jugoslavia il 10 dicembre 1998, i giudici hanno affermato una serie di effetti che, se in alcuni casi risultano previsti da norme già esistenti del diritto internazionale – quali ad esempio l’obbligo di perseguire i responsabili, o anche il divieto per gli Stati di prevedere leggi di amnistia che ne precludano la punizione (§ 155) –, in altri, oltre a non avere un riscontro oggettivo nella prassi, riguardano obblighi degli Stati sul cui adempimento il Tribunale non sarebbe neppure competente a pronunciarsi, essendo la sua giurisdizione limitata alla repressione dei crimini individuali. Si tratta ad esempio dell’obbligo, da intendersi ad avviso dei giudici a carico di tutti gli Stati, di predisporre tempestivamente le misure necessarie a livello interno per conformarsi al divieto di tortura, obbligo la cui violazione comporterebbe di per sé la responsabilità sul piano internazionale (§§ 149-150).
La sussistenza di norme fondamentali del diritto internazionale è stata invocata anche al fine di individuare precisi limiti all’azione del Consiglio di sicurezza, nel senso cioè che il Consiglio non potrebbe adottare misure ai fini del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale secondo quanto previsto dalla Carta delle Nazioni Unite, laddove queste si traducano in violazioni del diritto cogente. Si tratta di una questione essenzialmente teorica, non soltanto considerando le affermazioni di alcuni giudici internazionali circa la presunzione che il Consiglio non imponga misure che comportino violazioni di norme cogenti, ma anche tenendo conto dell’assenza, nel sistema delle Nazioni Unite, di un organo giurisdizionale in grado di pronunciarsi nel merito, e al fine di annullare risoluzioni eventualmente contrarie al diritto cogente. Nella prassi sono da segnalare le pronunce dei giudici dell’Unione europea nel caso Kadi nel quale la questione della incompatibilità con i diritti della difesa di specifiche misure decise dal Consiglio di sicurezza per contrastare il terrorismo internazionale si è posta in riferimento ad un regolamento dell’Unione europea adottato al fine di recepirle. Nelle decisioni Yusuf e Kadi del 21 settembre 2005 (cause T-306/1 e T-315/1) il Tribunale di prima istanza aveva considerato insindacabili i regolamenti attuativi delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza ritenute in violazione dei diritti fondamentali della difesa. Le decisioni sono state annullate dalla Corte di giustizia dell’Unione europea la quale, con sentenza del 3 settembre 2008 (cause riunite C-402/05 e C-415/05, Kadi e Al Barakaat International Foundation v. Consiglio e Commissione), ha escluso che il controllo giurisdizionale sulla legittimità di un regolamento dovesse considerarsi precluso per il fatto di contenere misure predisposte sì dal Consiglio di sicurezza ma da attuarsi nell’ordinamento dell’Unione. La Corte ha nel merito accertato il contrasto delle suddette misure con le garanzie della tutela giurisdizionale e ha disposto l’annullamento del regolamento che le aveva recepite (v. nella medesima direzione, la sentenza del 18 luglio 2013 nel caso Kadi, cause riunite C-585/10 P, C-593/10 P e C-595/10 P).
Rispetto ad una prassi non univoca, particolare rilevanza assumono nel dibattito sullo ius cogens, i diversi approcci metodologici utilizzati nella dottrina e nella giurisprudenza al fine di individuare le norme imperative del diritto internazionale, nonché i diversi significati e soprattutto il ruolo attribuiti più in generale alle norme cogenti nel diritto internazionale.
In base ad un primo orientamento, le conseguenze giuridiche da esse deducibili non richiederebbero di essere dimostrate attraverso la prassi degli Stati, dovendosi piuttosto considerare intrinseche alla peculiare caratteristica dello ius cogens di tutelare valori fondamentali della comunità internazionale nel suo insieme (Orakhelashvili, A., Audience and Authority-The Merit of the Doctrine of Jus Cogens, in NYIL, 2016, 115 ss.). È in questa accezione che il diritto cogente sembrerebbe assumere una sua autonoma rilevanza nel diritto internazionale, quale nucleo di norme in grado di imporsi sugli Stati a prescindere dalla loro volontà, e con la funzione di garantire la tutela di valori universali anche e soprattutto contro gli interessi particolaristici degli stessi Stati. Un simile approccio pone tuttavia il problema di stabilire chi sia competente ad individuare le norme poste a tutela dei valori fondamentali condivisi dalla comunità internazionale, e come riesca in concreto ad imporne il rispetto e gli specifici effetti giuridici ad esse riconducibili. Non potrebbe sottovalutarsi in questo senso, da un lato, il rischio di valutazioni soggettive e/o parziali sottese all’individuazione delle norme cogenti da parte degli organi cui una simile competenza venisse riconosciuta, a prescindere cioè dalla volontà della gran parte degli Stati, e dall’altro, la possibilità che le statuizioni circa il contenuto delle norme cogenti e i loro effetti non ottengano un riscontro oggettivo nella prassi dinanzi al rifiuto diffuso degli Stati di darvi concreta attuazione.
In base ad un secondo approccio, diffuso tra i giuristi positivisti oltre che, come si è visto, nella giurisprudenza della Corte internazionale di giustizia e della Corte europea dei diritti umani, tanto la natura cogente di una determinata norma consuetudinaria, quanto il suo esatto contenuto in termini di effetti giuridici, dovrebbero essere accertate attraverso un riscontro oggettivo nella prassi e nell’opinio juris della generalità degli Stati. Si tratta in questo caso di un orientamento più realistico, che tiene conto delle caratteristiche peculiari dell’ordinamento giuridico internazionale, e che in definitiva si preoccupa di individuare gli elementi che consentirebbero una oggettiva e concreta applicazione di eventuali effetti specifici dello ius cogens. Occorre nondimeno osservare come un simile approccio rischi di svuotare di significato lo stesso concetto di diritto cogente il quale, laddove strettamente ancorato alla prassi e all’opinio juris degli Stati, non risulterebbe chiaramente distinto dalle norme consuetudinarie ordinarie e soprattutto dalla volontà degli Stati. Anche le norme cogenti, in altri termini, ancorché volte a tutelare valori ritenuti più importanti di altri dalla comunità internazionale nel suo insieme, resterebbero condizionate nel loro contenuto così come nei loro effetti, da una precisa volontà degli Stati di ritenerle applicabili nei rapporti inter se.
Infine, in base ad un terzo orientamento, il ruolo del diritto cogente nel diritto internazionale sarebbe da collocare più opportunamente nella fase di creazione di nuove norme future, piuttosto che nell’ambito del diritto vigente. I giudici applicherebbero lo ius cogens per dimostrare la necessità che un certo effetto, ritenuto fondamentale per tutelare un valore comune alla generalità degli Stati e non ancora corrispondente ad una norma in vigore, trovi in futuro una regolamentazione nel diritto positivo. Se la gran parte degli Stati segue l’esempio, la norma o il suo effetto si formerebbe e lo ius cogens avrebbe esaurito la sua funzione di promuovere un nuovo diritto ritenuto più giusto. In questo senso lo ius cogens sarebbe anche provvisorio ed educativo, nella misura in cui i giudici che lo sostengono spingono gli Stati a conformare il proprio comportamento a valori percepiti come ‘superiori’ in quanto estranei alla prassi statale (Focarelli, C., Trattato di diritto internazionale, Milano, 2015, 525 ss.).
Dai diversi approcci elaborati in dottrina e seguiti nella giurisprudenza emerge la difficoltà di attribuire allo ius cogens un preciso ed univoco ruolo nel diritto internazionale, sia rispetto alla identificazione delle norme cogenti, sia con riferimento ai peculiari effetti giuridici che una loro eventuale violazione produrrebbe. Proprio i contorni poco chiari dello ius cogens ne hanno sollecitato l’inclusione nell’ambito dei lavori della Commissione del diritto internazionale, nel tentativo espressamente dichiarato, di contribuire a chiarire un concetto assai controverso del diritto internazionale.
Fonti normative
Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 23 maggio 1969: art. 44, par. 5; 53; 64-66.
Progetto di Articoli sulla responsabilità internazionale degli Stati del 3 agosto 2001: artt. 20-26; 41; 50, par. 1, lett. b).
Bibliografia essenziale
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