IUS COMMUNE / IURA COMMUNIA
L'inaugurazione del cosiddetto sistema del diritto comune medievale ‒ che affida a un'onnipresente diritto romano di svolgere funzioni sussidiarie di statuti e norme locali ‒ si fece attendere a lungo negli Studia e negli ambienti dotti, e fu più stentata di quanto in genere si dica. Di fatto, è vero, le leggi romane servivano da secoli, nei territori in cui l'Impero le aveva radicate stabilmente, a integrare il diritto longobardo e gli usi, ma le prime scuole, con in testa Bologna, si rivelarono sorde a quelle prassi. Fino al pieno Duecento rimasero attaccate alla lettera dei testi che studiavano e non diedero altro significato all'espressione ius commune se non quello ulpianeo di diritto naturale e delle genti (D. 1.1.6). Quanto poi ai meccanismi teorici del rapporto ius proprium-ius commune ‒ che sarà disegnato più tardi in chiave di dialettica tra species e genus del sistema ‒ colpisce l'indifferenza con cui i primi glossatori passarono sopra la constatazione della Omnes populi di Gaio (D. 1.1.9) che tutte le genti vivevano "partim suo proprio, partim communi omnium hominum iure", senza pensare di riferirla al problema della coesistenza dei sistemi normativi locali e del romano. L'unica etichetta appropriata ai libri giustinianei restò a lungo quella di ius civile (ordinamento positivo della civitas romana) sancita dalle fonti.
Anche fuori dalla scuola, per tutto il Duecento, nella Bologna mater legum gli elenchi statutari delle fonti normative cittadine si limitarono a ricordare in modo generico usus e iura; solo nel 1335 si risolsero a citare espressamente la legge romana e a qualificarla ius commune civile, affidandole le funzioni sussidiarie di prammatica (U. Santarelli, La gerarchia delle fonti secondo gli statuti emiliani e romagnoli, "Rivista di Storia del Diritto Italiano", 33, 1960, pp. 89 s. e n. 119). Fu allora che i giuristi finalmente si accorsero del potenziale teorico della Omnes populi di Gaio; nel 1343 Bartolo di Sassoferrato le dedicò a Perugia una repetitio famosa e spiegò che il diritto romano, essendo stato esteso a tanti popoli dell'Impero, aveva finito col diventare uno ius commune civile per tutti. Facendo propria l'espressione usata qualche anno prima dallo statutario bolognese ‒ un'espressione che doveva circolare nella prassi ‒ Bartolo, com'era suo costume, aveva gli occhi fissi ai meccanismi del suo microcosmo comunale e proponeva teorie di valore universale avendo in mente il mondo cittadino.
Sulla falsariga del disegno bartoliano, largamente accolto nelle scuole italiane tardomedievali, Francesco Calasso e Giuseppe Ermini delinearono negli anni Trenta e Quaranta del Novecento la loro immagine di un diritto comune la cui universalità sarebbe stata propiziata dall'universalità dell'istituzione di provenienza, ossia l'Impero; una visione, la loro, ovviamente premuta dai tanti idealismi che prima e dopo l'ultima guerra mondiale dilagavano. Quest'universalità, poi, congiungeva le sorti di Giustiniano con quelle del diritto canonico, anch'esso ignaro di sbarramenti e di frontiere (utrumque ius) ‒ un connubio peraltro voluto dalla Chiesa fin dall'epoca carolingia ‒, e ciò non mancava d'iniettare un forte potenziale ideologico nel concetto di diritto comune, lo intesseva di valori morali (aequitas) ed elevava tutto il fenomeno a 'fatto spirituale' (Calasso, 1948).
Tale visione, attraente se riferita a certi luoghi e a certi tempi, in altri stride. Stride in particolare nei nuovi Regni investiti di una sovranità territoriale negatrice dell'auctoritas sovranazionale dell'Impero. Tra tali Regni si annoverava quello di Sicilia.
Infeudato alla Chiesa ed exemptum ab imperio, tutti riconoscevano al suo re una potestas plena et rotunda che non ammetteva poteri e leggi che non derivassero da lui. Marino da Caramanico, nel suo proemio, lo dice chiaramente. E aggiunge che l'eredità di Roma non era in grado di accampare pretese di valenza universale: l'auctoritas dell'Impero antico poggiava infatti su conquiste fatte con la violenza e quindi condannate dal diritto di natura, e la forzata sottomissione dei popoli alla supremazia dei Cesari era stata sempre ispirata da una libido dominandi eticamente riprovevole. Insomma, se il diritto canonico poteva bene o male trovare posto nel Regno di Sicilia come 'diritto comune' in spiritualibus perché al magistero della Chiesa tutta l'Europa si era spontaneamente assoggettata, quanto al diritto romano non era certo un Impero tanto peccatore ad aver avuto l'autorità morale d'imporlo a tutti legittimamente. Le venerande leges erano sì vigenti nel Regno, ma solo per forza di lunga consuetudine e per tacito consenso del sovrano, ossia in virtù di una recezione. Una teoria, questa, che Marino escogitò per primo.
Se nel Liber Constitutionum si evita di richiamare il diritto 'comune' canonico che atteneva ad altra sfera di poteri, di diritto 'comune' temporale si parla invece a più riprese; anzi, nella famigerata Puritatem se ne presentano addirittura due, il longobardo e il romano. Una simile duplicità di regimi normativi nelle medesime materie appare oggi stravagante e comunque sconvolge quel concetto di diritto comune, logicamente imperniato in temporalibus sul solo Corpus iuris della romanità imperiale, che Calasso ha propagandato con passione. Egli non ha mancato di denunciare l'errore in cui sarebbe incorso chi, imperatore o interpolatore, aveva promosso un ordinamento immeritevole come il longobardo al rango augusto di diritto comune, un rango di alta responsabilità che certo non poteva competere a un complesso germanico rozzo e sorpassato. Come si poteva mai fargli svolgere la delicata funzione di riempire le lacune legislative nelle fattispecie difficili e di fornire rationes interpretative di buon conio? Con Gennaro Maria Monti, che gli opponeva fonti federiciane e angioine in cui le leggi longobarde erano visibilmente trattate da diritto comune, Calasso ingaggiò una memorabile contesa (Monti, 1939, 1940; Calasso, 1940).
Il diritto comune disegnato dalla Puritatem coi tratti di un'irregolare aquila romano-germanica a due teste ha dato fastidio anche ai giuristi antichi e, almeno dal tempo di Giannone e di Pecchia, alla storiografia. Le spiegazioni tuttavia non sono mancate: scettica sull'esistenza stessa del problema quella di Friedrich Karl von Savigny (18342) il quale, avendo scoperto che la frase incriminata era una interpolazione, finì col darle poco peso e, fermandosi sul "prout qualitas litigantium exegerit" che governava la scelta dell'uno o dell'altro diritto, disse che la disposizione si limitava a constatare che il longobardo era un diritto personale. Asettica e di buon senso la spiegazione di Bartolomeo Capasso (1884, p. XXXI) che il diritto romano fosse comune "nei paesi viventi generalmente con quelle leggi, il longobardo nei paesi che a questo erano generalmente soggetti"; un po' più articolata quella di Enrico Besta che il diritto romano fosse il vero diritto comune generale e il longobardo lo fosse in territori particolari (Storia del diritto italiano, a cura di P. Del Giudice, I-III, Milano 1923-1927 [Firenze-Frankfurt a.M. 1969]: I, 1, p. 404; I, 2, p. 731), ove però il longobardo faceva la figura di 'diritto comune speciale' ch'era una contraddizione in termini. In definitiva la storiografia meno remota, assumendo angoli visuali dogmatici moderni, ha orientato il problema o verso la negazione dell'ipotesi stessa che il longobardo fosse stato un diritto comune, o verso l'individuazione di una ratio logica capace di consentirgli di usurpare localmente a Giustiniano la funzione storica che gli era riservata. Un interessante tentativo di Karl Neumeyer (1901, cap. III, in partic. pp. 223-272) di sviluppare lo spunto savignyano, dimostrando la persistenza dell'antico meccanismo della personalità del diritto ‒ l'unico meccanismo che avrebbe consentito la contemporanea applicazione di più leggi ‒, ha urtato contro il diffuso pregiudizio della scomparsa di quel principio ovunque nel Duecento. In realtà esso vigeva ancora nel Mezzogiorno, ma in forme diverse dalle antiche: in particolare non usava più ripartire le leggi in quanto ereditariamente ossibus inhaerentes alle persone. Giuliana D'Amelio ha rilevato come allo status personale di un soggetto, magari vivente a legge romana, potesse contrapporsi un diverso status dei beni che facevano parte del suo patrimonio, regolati magari dal diritto longobardo o franco o feudale, e come l'appartenenza a un ceto potesse imporre l'adesione a un ordinamento e l'ingresso della famiglia in un particolare ordo potesse esigere, almeno per certi rapporti, di mutare la legge di riferimento: congegni complessi che già Carlo di Tocco aveva segnalato ed erano dovuti al sovrapporsi di leggi e consuetudini vecchie e nuove. Il tutto nella favorevole cornice della frammentazione feudale del territorio che agevolava la frammentazione degli ordinamenti (D'Amelio, 1978, pp. 372-389, in partic. p. 380 n. 24). Si aggiunga che, nell'ambito di uno stato al contempo feudale e centralizzato, il diritto longobardo non era soltanto un'anticaglia sopravvissuta nella consuetudine, ma attingeva auctoritas nuova e nuove mansioni dal Liber Augustalis. Da questo otteneva il rango di legge vigente e, anzi, una posizione di spicco non tanto per l'osservanza consuetudinaria di cui qua e là godeva (in tema di mundio sulle donne, per esempio), quanto perché costituiva la legge di riferimento del tipo più diffuso di feudi (cui conferiva in particolare il regime delle successioni). Il vincolo tra leggi longobarde e feudi si rivelò forte e tenace: basti pensare che l'applicabilità dei Libri feudorum nel Mezzogiorno fu a lungo legittimata proprio dai loro legami con la legge longobarda, e ciò anche dopo che essi ebbero conseguito, con l'inserimento nel Corpus iuris come X Collatio, una sorta di passaporto romanistico.
A parte la Puritatem, a ogni modo, molti dei richiami del Liber Augustalis allo ius commune si limitano a evocare la normale dialettica, attiva in qualunque sistema, tra norme di valore generale e norme speciali, senza chiamare in causa particolari ordinamenti. Anche quando il termine ius commune ha chiari riscontri in norme romane resta il dubbio che l'imperatore si sia limitato a rilevare che queste avevano efficacia generale anziché circoscritta, ma non abbia affatto inteso consacrare Giustiniano a fonte istituzionale di diritto comune nel Regno di Sicilia (Cortese, 1999, pp. 182 s.).
Mentre il richiamo al diritto romano è chiaro in talune costituzioni posteriori al 1231, come la Hii qui del 1240 e la Priusquam citatae partis (Postquam nelle vulgate), le leggi del 1231 sono in proposito più sfumate e incerte: così la Questiones iuris peritorum, la Exceptiones dilatorias, la Lite legitima, la Monomachiam, la Duram consuetudinem. Nella Violentias, appartenente anch'essa al nucleo originario di Melfi, colpisce poi l'opposizione del diritto romano al longobardo.
Quanto alla dottrina meridionale, essa non mancò qua e là di attribuire esplicitamente al romano la qualifica di 'diritto comune' per antonomasia. Impressiona anzi che uno degli episodi più antichi in assoluto, anteriore alle prime enunciazioni nell'Italia superiore, coinvolga Roffredo e la città di Benevento più o meno al tempo dell'emanazione delle leggi melfitane, e che lo spunto sia venuto al giurista da un capitolo della Lombarda.
Un frammento inserito nel capitulare italicum come c. 143 di Carlomagno o come c. 40 di Pipino è costituito da un breve elenco delle materie in cui longobardi e romani usavano la propria legge personale; scritto da un anonimo italiano di età carolingia, probabilmente giudice, il pezzo conclude dichiarando che, fuori dai casi enumerati, tutti dovevano vivere secondo 'la legge comune' che Carlo aveva aggiunto all'Editto. Roffredo da Benevento reinterpreta il passo nel senso che ove "de iure scripto [scil. longobardo] aliquid non cavetur, communi iure, id est Romano, vivamus" (Libelli iuris civilis, pt. IV, rubr. de civili actione iniuriarum ex lege Cornelia, in fine; Avenione 1500 [Torino 1968], c. 99va). La parte IV dei Libelli di Roffredo, nella quale la frase è contenuta, risente con evidenza della prassi forense beneventana e si può datare intorno al 1230 (la parte successiva fu infatti redatta nel 1233 o poco dopo) quando Roffredo si trovava in effetti a Benevento e assisteva, tra l'altro, alla pubblicazioni degli statuti (S. Borgia, Memorie istoriche della pontificia città di Benevento, II, Roma 1764 [Bologna 1968], p. 428). Va rilevato che questa prima affermazione della qualità di diritto comune affibbiata al romano, che sarebbe stata straordinaria in ambiente romanistico, non lo era affatto nel giro dei longobardisti, ove l'aveva preceduta la celebre dichiarazione dell'Expositor ad Librum Papiensem che giustificava la funzione sussidiaria del diritto romano nei confronti del longobardo "quia lex romana est lex generalis omnium" (notizie in E. Cortese, Le grandi linee della storia giuridica medievale, Roma 2000, pp. 236 s.). Il ramo principale della tradizione longobardistica, dunque, ammetteva che il rapporto dogmatico tra diritto romano e longobardo corrispondesse a quello tra diritto comune e diritto speciale.
Le affermazioni apodittiche di questo tipo, però, non si adattavano bene all'intrico della realtà meridionale. Il contesto storico della Puritatem esibiva, al cospetto dell'autorità delle nuove costituzioni regie, da una parte consuetudini locali, dall'altra una coppia di iura scripta di eguale natura legislativa. Erano antichi ordinamenti ufficiali di pari dignità, per così dire, e oltre a costituire diritti talvolta personali e talvolta (localmente) territoriali, avevano di fatto già esercitato, seppure in misura diversa, funzioni integrative e sussidiarie delle consuetudini. Sicché chiamarli tutti e due diritti comuni nei confronti di quelle consuetudini e magari persino del Liber Augustalis ‒ si pensi al diritto longobardo in tema di feudi ‒, era sì una deviazione dall'autorevole magistero pavese aggiornato da Roffredo, ma costituiva tutto sommato un comprensibile omaggio a concrete situazioni locali. Non va escluso che all'interpolazione nella Puritatem della frase tanto discutibile e discussa abbia contribuito qualche ardito giudice beneventano.
Nella storia successiva l'accezione del diritto comune nel Regno di Sicilia si scinde in due rami distinti. Una posizione teorica congeniale ai longobardisti assegna il titolo al solo diritto romano tornando alla dottrina di Pavia e di Roffredo (così Andrea Bonello, Marino da Caramanico, Biagio da Morcone). Un'altra corrente, paradossalmente di non longobardisti, resta fedele all'interpretazione letterale della Puritatem e continua a predicare un diritto comune bicipite, in omaggio al fatto che la legge longobarda copre il regime di più d'una importante fattispecie (Matteo d'Afflitto). Fossero o non fossero due, quei diritti comuni di origine straniera non facevano comunque torto alla sovranità del re, perché era stato lo stesso Federico a invocarli.
Non così nei Regni d'Oltralpe. La concezione del diritto romano comune, e in particolare quella di marca bartoliana, incontrava resistenze perché celava lo spettro minaccioso di un Impero affamato di potere universale, sicché si preferì far rientrare sotto quell'etichetta contenuti innocui e vari a seconda dei tempi e dei luoghi (costituzioni regie, principi generalmente vigenti nelle consuetudini del Regno, talvolta, dietro pressione dei dottori, anche il diritto romano). Il che mostra come il concetto di 'diritto comune', al momento di venire trasposto dall'astratta dogmatica nella varietà della storia, finiva inevitabilmente col diventare proteiforme.
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