RAVINA, Jacopo Amedeo
– Nacque il 30 marzo 1788 a Gottasecca, nel Cuneese, da Carlo Francesco Amedeo, medico di antica famiglia borghese, morto quando il figlio era bambino, e da Francesca Achino di Saliceto.
Tra i suoi fratelli, Filippo (1783-1858) fu dal 1832 vicario generale dell’arcidiocesi di Torino retta dall’intransigente Luigi Fransoni, incarico che ricoprì anche dopo la condanna del prelato all’esilio nel 1850 in seguito ai gravi conflitti insorti intorno alla politica ecclesiastica del Regno di Sardegna.
Dopo gli studi nei collegi di Ceva e Mondovì, Jacopo Amedeo Ravina si laureò in giurisprudenza a Torino nel 1810. Già autore di carmi latini, intraprese studi di belle lettere e nel 1816 conseguì anche il titolo di professore di retorica, dapprima sotto la guida di Giuseppe Biamonti e dal 1814 di Carlo Boucheron, al quale all’avvio della Restaurazione dovevano legarlo non solo affinità estetico-letterarie, ma anche giudizi ambivalenti sull’eredità napoleonica e inquietudini politiche. Ben introdotto nei circoli aristocratici della capitale favorevoli a moderate riforme anche grazie all’amicizia di Carlo Emanuele Asinari di San Marzano, figlio del segretario di Stato per gli Affari esteri Filippo, nel luglio 1818 fu nominato sottosegretario in quel dicastero. Si avvicinò così ai protagonisti del tentativo costituzionale del 1821, Ludovico Sauli d’Igliano, Guglielmo Moffa di Lisio, Santorre di Santa Rosa.
Alle speranze liberali e di guerra all’Austria nei mesi precedenti l’insurrezione diede forma poetica nelle 173 terzine dei Canti italici. Diffusi manoscritti dall’autunno 1820, mandati a memoria tra i Federati, declamati durante gli scontri (di qui l’epiteto di ‘Tirteo subalpino’ venuto all’autore) furono pubblicati con l’indicazione Italia marzo 1821. Li stampò a Torino Giuseppe Pomba, chiamato a renderne conto nelle successive vicende giudiziarie.
Per contenuti, circolazione, varietà di utilizzi in contesti politici (a Giuseppe Mazzini ne fu rinvenuta una copia manoscritta durante una perquisizione; Scritti editi ed inediti, XIX, Imola 1914, p. 290), l’opera meriterebbe di figurare in quello che è stato definito il «canone» della letteratura nazional-patriottica risorgimentale (A.M. Banti, La nazione del Risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini dell'Italia unita, Torino 2000, pp. 3-53). Accanto a temi più usuali – invettive contro gli oppressori stranieri e appelli a una guerra voluta da Dio, evocati con larghezza di riferimenti classici ed echi di Dante, Petrarca, Alfieri, secondo uno stile che in seguito connotò anche la sua oratoria in Parlamento – entrava nei versi di Ravina la narrazione dell’attualità politico-diplomatica, con le vicende spagnole, di Napoli, Palermo, il congresso di Troppau, l’apostrofe a Vittorio Emanuele I (i liberali confidavano che il re avrebbe accettato la costituzione una volta proclamata) e le speranze di orientamento del Vaticano in senso patriottico indirizzate a Pio VII, nel quadro di una lettura decisamente machiavelliana della secolare divisione italiana.
La polizia piemontese non inserì il nome di Ravina nelle sue liste di carbonari, ma in una delle note ai Canti egli elogiò l’associazione segreta (e le restò vicino negli anni seguenti). Quanto al tema che divideva l’universo settario, si situò tra quanti guardavano alla più democratica Costituzione di Cadice del 1812 e non alla Carta francese del 1814. Un’opera ritenuta incendiaria e irreligiosa, i contatti coi Federati – dai capi del moto ai ripetitori del Collegio delle province –, la complicità nelle vicende seguite all’insurrezione di San Salvario, la collaborazione al foglio costituzionale La sentinella subalpina gli valsero il 28 settembre 1821 la condanna alla confisca dei beni e alla pena capitale per lesa maestà e fellonia, eseguita 'in effigie' il 2 ottobre: da sei mesi era riparato in Spagna. Le avventurose circostanze della fuga travestito, dell’arresto a Savona su nave spagnola, del presunto tentativo di liberarlo e delle mediazioni per il suo rilascio hanno nutrito capitoli di aneddotica patriottica assai noti nel Piemonte del secondo Ottocento.
Come molti fuorusciti restò in Spagna, a Barcellona, Madrid e Bilbao, fino alla fine del Trienio liberal – non è accertato se sia frutto di più tarde agiografie la notizia che militasse nei corpi volontari italiani – e nel 1823 si stabilì a Londra. Si mantenne con traduzioni e collaborazioni letterarie (fra le altre con la Foreign Review), con l’insegnamento privato e grazie al sostegno finanziario del fratello Filippo. Al primo periodo londinese risalgono gli altri componimenti poetici: le Satire contro la Santa Alleanza (1824, inedite), dagli accesi toni antitirannici, e i canti In morte di Giorgio Canning (Londra 1828), in onore dell’uomo di governo tory la cui politica estera, in particolare riguardo alla Grecia, al Portogallo e alle ex colonie sudamericane accese le speranze liberali e antiaustriache di molti emigrati italiani conquistati al sistema parlamentare britannico – come Ravina che, seppur non incondizionatamente, lo elogiò nella lunga epistola dedicatoria del poema a Luigi Porro (al quale da allora fu vicino), attirandosi le critiche di fuorusciti radicali come Filippo Buonarroti. A fine 1829 passò in Francia e vi rimase vari anni, tra Parigi e Marsiglia, contribuendo ai tentativi di mediazione tra società patriottiche di orientamento diverso fiorite all’inizio della Monarchia di Luglio fra gli italiani. Mal sopportando le evoluzioni del regime orléanista e il maggior controllo esercitato sugli emigrati politici – così sostenne – nella seconda metà del decennio rientrò in Gran Bretagna e si dedicò a corpose e apprezzate traduzioni shakespeariane andate accidentalmente distrutte.
Nel febbraio 1839 Carlo Alberto accolse una supplica del fratello Filippo: la confisca dei beni a suo carico fu revocata e la pena capitale commutata in esilio. Ravina chiese allora alla legazione sarda di Londra un passaporto per viaggiare all’estero. Il caso creò un precedente: il governo riconobbe che il suddito era reintegrato nei suoi diritti civili e istruì gli agenti consolari a concedere passaporti in caso di analoghe richieste (prevedendo motivate eccezioni). Ancora grazie al fratello nel 1840 ottenne un salvacondotto per visitare l’anziana madre. Rientrò tre mesi a Gottasecca, dopodiché si stabilì a Firenze. Compreso nel 1842 nell’indulto per i condannati del 1821, non rientrò in Piemonte, nonostante iterate difficoltà con le polizie granducale e lucchese. Stimato negli ambienti studenteschi, fu indagato per le agitazioni all’Università di Pisa nel 1842 e sospettato per le frequentazioni di noti liberali e radicali. Nel 1847 nell’articolo Esposizione di una terzina di Dante (Rivista di Firenze, XXXI, pp. 121 s.; XXXII, pp. 125-127) si dichiarò apertamente a favore del regime costituzionale, prendendo però le distanze dal partito dei sedicenti moderati.
Con la concessione dello Statuto rientrò a Torino. Nell’aprile 1848 si candidò alla Camera e fu eletto in quattro collegi (Ceva, Cortemiglia, Dogliani, Torino VI). Poté contare sia sulle reti della Sinistra costituzionale (scrisse sulla Concordia di Lorenzo Valerio), sia sul potenziale di legittimazione che gli veniva dal lungo esilio e da un’opera ancora circondata da aura mitica (i Canti italici furono ristampati, proprio in vista del voto nei collegi del Cuneese, a Mondovì nel 1848). In quella prima tornata optò per il collegio torinese, per ragioni di prestigio e anche per gli attacchi ricevuti da alcuni candidati della Sinistra nella capitale: la polizia sequestrò manifesti inneggianti «Sineo, Valerio, Ravina, del Piemonte saran la rovina» e altri scritti «piuttosto violenti e scurrili» (Ravina, 1976-77, p. 96). Personaggio stravagante – nell’aspetto e nell’eloquio (facile ai sofismi, rivendicò il ruolo del sarcasmo nella dialettica parlamentare), nelle maniere e nelle abitudini personali (sospettato di ateismo, non formò mai una famiglia) – il liberale ultrademocratico Ravina amava ostentare attitudini radicali e disinteresse per forme e cerimoniali sociali, e talora politici, facendosi vezzo della nomea di repubblicano che gliene derivò. Ciò che non gli impedì di essere eletto costantemente alla Camera – in cinque collegi, nonostante un’inchiesta per irregolarità, nella II Legislatura, a partire dalla quale e fino alla V rappresentò Alba – e perfino di essere nominato nel dicembre 1848, su indicazione di Riccardo Sineo e Vincenzo Gioberti allora al governo, al Consiglio di Stato, ove sedette fino al febbraio 1852, quando fu improvvisamente collocato a riposo dopo il suo aspro attacco ai provvedimenti restrittivi della legge sulla stampa allora in discussione alla Camera.
Noto per gli interventi accesamente patriottici e per le ripetute petizioni di principio a difesa delle garanzie costituzionali dagli attacchi clericali e reazionari come dalle politiche dei governi a guida moderata a cui si oppose, nelle prime legislature sostenne la più immediata e larga attuazione delle leggi di fusione dei territori ex asburgici e ducali con il Regno e fu tra i primi deputati a interpellare il governo sull’andamento della guerra in corso e poi sull’armistizio e sulla mediazione anglo-francese. Ciò gli valse la nomina prima nella commissione per ricevere le comunicazioni dal governo sull’opportunità di riprendere la guerra – che caldeggiò – e poi in quella per l’esame del trattato di pace con l’Austria, di cui fu poco convinto relatore: ottenute almeno garanzie contro il rischio di estradizione degli accusati di delitti politici, nel novembre 1849 invitò la Camera a ratificarlo. In seguito avversò i governi di Massimo d’Azeglio e quelli di centro-sinistra a guida cavouriana, intervenendo soprattutto in materia fiscale e di trattati. Sorpresero tuttavia nel 1852 l’astensione sulla legge sul matrimonio civile e nel 1854 il voto contrario alla legge sull’attività anticostituzionale del clero, da parte di uno dei deputati che più avevano espresso propositi di laicizzazione dello Stato.
La salute declinante non impedì a Ravina di partecipare ai lavori parlamentari, più sporadicamente dopo il 1855, finché, aggravatosi, richiese una formale dispensa dalla deputazione. In omaggio alla sua figura, su proposta di uno dei colleghi che gli furono più vicini, Giorgio Asproni, la Camera gli concesse un permesso di due mesi per ristabilirsi. Dopo pochi giorni, il 13 giugno 1857, morì a Torino.
Fonti e Bibl.: Gottasecca, Archivio privato Ravina-Germano (contiene lettere familiari e manoscritti, in parte descritti o riprodotti in M.M. Ravina, Biografia di J.A. R., Tesi di laurea, Università di Torino, a.a. 1976-77); Archivio di Stato di Torino, Segreteria di Stato per gli affari interni, Alta polizia, bb. 54, 59, 63, 67-69, 183; G. Mongibello, Panorama politico ossia la Camera subalpina in venti vedute, Torino 1849, pp. 81-86; C. Beolchi, Reminiscenze dell’esilio, Torino 1852, p. 201; Profili parlamentari estratti dall’ "Espero". Numero venti. Senatori, deputati e ministri, Torino, 24 giugno 1853, pp. 73-76; F. Daneo, Piccolo panteon subalpino ossia Vite scelte di piemontesi illustri narrate alla gioventù, II, Torino 1858, pp. 86-104; F. Bosio, Ricordi personali, Milano 1878, pp. 209-241; S. Grosso, Lettere inedite, Novara 1897, pp. 11 s., 31 s.; L. Sauli d’Igliano, Reminiscenze della propria vita, a cura di G. Ottolenghi, I, Roma-Milano 1908, pp. 16, 67, 452, 503 s.; S. di Santa Rosa, Lettere dall’esilio (1820-1825), a cura di A. Olmo, Roma 1969, pp. 291, 369 s.; L. Valerio, Carteggio, a cura di A. Viarengo, III-V, Torino 1998-2010, ad indicem.
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