PICCININO, Jacopo
PICCININO, Jacopo (o Giacomo). – Nato a Perugia nel 1423 dal condottiero Niccolò Piccinino e probabilmente Gabriella di Bartolomeo Sestio, deve aver fatto parte della compagnia del padre e del fratello maggiore Francesco fin dagli anni dell’adolescenza.
La prima occasione per distinguersi gli venne offerta dal padre nel 1440, quando, diciassettenne, fu mandato a Bologna, allora controllata dai Visconti, a sostituire per pochi mesi il governatore Francesco Monaldeschi. Al fianco di Alfonso d’Aragona partecipò alle ultime fasi della guerra di successione nel Regno ed entrò in trionfo a Napoli il 26 febbraio 1443 con il nuovo re. Nel 1444, nella sfortunata campagna nelle Marche durante la quale il fratello Francesco era stato catturato dal nemico Francesco Sforza, Piccinino guidò insieme a Braccio Baglioni e a Malatesta Novello la ritirata dei bracceschi, si fece consegnare la rocca di Assisi e riuscì a preservare l’integrità della compagnia. Rientrato a Milano, dopo la morte del padre Niccolò, rimase con il fratello al servizio di Filippo Maria Visconti e prese parte alle azioni di guerra nelle Marche e attorno a Cremona.
Con la morte di Filippo Maria Visconti e l’instaurazione, il 14 agosto 1447, della Libertà ambrosiana a Milano, i fratelli Piccinino, forti dell’appoggio di Alfonso d’Aragona, re di Napoli, e dei bracceschi nel ducato di Milano diventarono gradualmente il punto di riferimento dei sostenitori della Repubblica contro le aspirazioni di Francesco Sforza. Il più giovane dei fratelli Piccinino, Angelo, morì nell’estate del 1447 nella difesa del castello di Vianino nei pressi di Piacenza. Tra i bracceschi più attivi alla corte viscontea e in seguito nei consigli repubblicani si erano segnalati in particolare Francesco Landriani e il cremonese Brocardo da Persico, conte di Sabbioneta, che sarebbe diventato cancelliere e stretto collaboratore di Jacopo. Fino all’ottobre del 1448, durante la guerra tra la Libertà ambrosiana e Venezia, i bracceschi combatterono per Milano al fianco di Francesco Sforza, con il quale misero a sacco Piacenza (dicembre 1447), ma dubbi sui reali propositi di questi seminavano nelle assemblee. Milano ottenne la maggiore vittoria militare contro Venezia a Caravaggio, il 14 settembre 1448, ma Jacopo Piccinino già contemplava un accordo segreto fra la Libertà ambrosiana e i veneziani per isolare lo Sforza, incontrando l’opposizione del fratello. Il 18 ottobre dello stesso anno, come sospettato dal Piccinino, lo Sforza tradì Milano e passò al servizio di Venezia. Poche settimane dopo, sulla base di un accordo segreto con i milanesi e Alfonso d’Aragona, i fratelli Piccinino passarono allo Sforza allo scopo di farsi pagare le stanze invernali, per poi ripassare a combattere per Milano il 1° maggio 1449. Una delle clausole del passaggio allo Sforza prevedeva il matrimonio di Jacopo con Drusiana Sforza, figlia illegittima di Francesco, già sposata brevemente al doge di Genova Giano Campofregoso: le nozze furono celebrate nell’accampamento e festeggiate nel castello di Pavia (che si era consegnata allo Sforza subito dopo la morte di Filippo Maria Visconti) durante il Carnevale del 1449.
Con la loro prevista defezione il 1° maggio seguente, i fratelli Piccinino si rimesero al servizio di un governo repubblicano divenuto radicale, popolare e guelfo, che aveva proscritto e condannato a morte importanti esponenti del ghibellinismo milanese, e che cercava allora un accordo con Venezia contro lo Sforza. Francesco Piccinino morì di idropisia il 16 ottobre 1449, mentre la città veniva stretta dall’assedio dello Sforza e dei fuoriusciti ghibellini. La pace tra le Repubbliche di Milano e di Venezia caldeggiata da Jacopo e da guelfi milanesi come Erasmo Trivulzio arrivò troppo tardi per fermare l’avanzata dello Sforza: con la caduta della Libertà ambrosiana, nel marzo 1450, Francesco Sforza e la moglie Bianca Maria diventavano duchi di Milano, mentre Piccinino rimaneva al servizio di Venezia e del re di Napoli.
Tra il 1450 e il 1453 Jacopo Piccinino fu il catalizzatore di una rete di fuoriusciti milanesi guelfi e repubblicani, e combattendo nelle aree di confine della Ghiara d’Adda e del Bresciano costituì una serie di alleanze in senso antisforzesco, che andavano dal marchese Guglielmo del Monferrato a un tentativo di coinvolgere il Delfino di Francia Luigi. Nel maggio del 1453, poco prima della sospensione della guerra in Lombardia in seguito alla caduta di Costantinopoli, Piccinino diventò capitano generale delle armi veneziane, con uno stipendio di 120.000 ducati, il più alto mai ottenuto da un condottiero in Italia. Coinvolto come soggetto autonomo nelle negoziazioni che condussero alla pace di Lodi, egli figurava anche come protettore degli interessi di piccoli signori emiliani quali Tiberto Brandolini e Giberto da Correggio. Nell’ottobre 1454 Venezia comunicò a Piccinino che non avrebbe rinnovato la condotta ai bracceschi, e l’ansia sulle intenzioni del ‘conte Jacopo’ e sul futuro dell’enorme esercito braccesco circolò nelle cancellerie italiane per tutti i mesi invernali.
Dopo l’adesione di Alfonso d’Aragona alla Lega italica nel gennaio 1455, Jacopo fu contattato da emissari senesi della fazione dei Nove perché offrisse un sostegno militare ai fini di un rovesciamento del regime a Siena. Dopo intense negoziazioni, si diresse con i bracceschi verso il senese e s’impadronì nel giugno 1455 dei castelli di Cetona, Manciano, Montemarano e Montacutolo, subendo anche la sua prima ferita da arma da fuoco alla gamba nel corso dell’assedio di Sarteano. La sortita militare e il cambio di regime a Siena non ebbero successo e il Piccinino si ritirò con le truppe a Castiglione della Pescaia, terra controllata dal re di Napoli, mentre a Siena il tradimento del capitano Giberto da Correggio veniva punito con la morte e molti bracceschi esponenti dei Nove, come Ghino Bellanti, Francesco Patrizi e Antonio Petrucci sceglievano l’esilio. Alfonso protesse Jacopo Piccinino e gli permise di recarsi a Napoli, con l’intenzione di usare la forza militare dei bracceschi in una spedizione contro Sigismondo Malatesta, signore di Rimini, uno dei pochi potentati italiani non incluso nella Lega italica. Acquartierato in prossimità di Cesena nell’inverno del 1457, Jacopo condusse una campagna militare deliberatamente poco efficace e faticò a mantenere una collaborazione di facciata con l’altro capitano, Federico da Montefeltro. L’intenzione era di cogliere la prima occasione utile per rivolgersi contro i territori della Chiesa. La morte di Alfonso, il 27 giugno del 1458, poi di papa Callisto III, il 6 agosto, offrirono l’occasione desiderata e Jacopo si mosse verso Assisi, che prese il 15 agosto senza combattere, insieme a Gualdo, Bevagna e Nocera. Dalla sua base nelle terre un tempo paterne, fu coinvolto come possibile forza militare in appoggio al tentativo di riforma antimedicea, poi fallito, capeggiato a Firenze da Girolamo Machiavelli. Il fronte compatto presentato dalle potenze della Lega, e in particolare dal nuovo papa Pio II e dal nuovo re di Napoli Ferrante d’Aragona, convinse Jacopo a lasciare Assisi dopo soli cinque mesi.
La mancanza di uno stato, cioè di possedimenti territoriali e di un contratto di condotta stabile per il ‘conte Jacopo’ e i bracceschi preoccupavano a ragione le cancellerie italiane, e sfociarono nella decisione di Piccinino di sostenere la spedizione di Giovanni d’Angiò, figlio del deposto Renato, nel Regno di Napoli, insieme a una coalizione di guelfi filoangioini che comprendeva fiorentini come Piero de’ Pazzi, il duca di Modena Borso d’Este, influenti cardinali come Guillaume d’Estouteville, baroni romani come Everso Dell’Anguillara, una grande città come L’Aquila e potenti baroni del Regno come il principe di Taranto Giovanni Antonio Orsini Del Balzo. L’accordo concluso con Renato d’Angiò prevedeva per Jacopo Piccinino il matrimonio con la figlia del re, Bianca, con una dote di 50.000 fiorini oppure un corrispettivo in possedimenti territoriali di 100.000 fiorini. Egli si mosse da Bertinoro in Romagna il 28 marzo 1460 e con una manovra fulminea, dividendo le genti d’arme dalle munizioni e dai carri, passò il Tronto il 31 marzo. Il 22 luglio dello stesso anno Piccinino sconfiggeva a San Flaviano l’esercito di Federico da Montefeltro, aggiungendo una seconda vittoria a quella ottenuta a Sarno da Giovanni d’Angiò contro Ferrante d’Aragona. Nell’autunno del 1460 fu l’istigatore o il sostenitore di vari focolai di rivolta negli Stati della Chiesa, a cominciare dall’insurrezione guidata da Tiburzio Masci, nipote di Stefano Porcari, a Roma, poi a Tivoli e nella Campagna Romana e ad Ancona. La scelta di Giovanni d’Angiò di non dirigersi decisamente verso Napoli marcò tuttavia l’inizio del declino delle fortune angioine nel Regno.
Le corrispondenze diplomatiche mostrano un Piccinino che, con grande lucidità, considerava l’intera penisola italiana come un sistema politicamente interdipendente, e conscio della necessità di attaccare contemporaneamente i regimi che sostenevano la Lega italica, in particolare Francesco Sforza, i medicei e Pio II, per arrivare a rovesciare la dinastia aragonese a Napoli. Durante la grave malattia di Francesco Sforza nell’inverno 1461-62, Piccinino fu contattato dai bracceschi di Milano, Parma, Piacenza, Lodi e Firenzuola; a Piacenza una grande rivolta contadina fu almeno in parte organizzata da uomini di fazione che intendevano collegarsi a lui. Anche Bianca Maria Visconti scrisse al condottiero ricordandogli il rapporto di fedeltà intercorso tra i loro padri. La guarigione di Francesco Sforza nella primavera del 1462 mise fine, temporaneamente, a tali movimenti. Il 18 agosto Piccinino e Giovanni d’Angiò furono sconfitti dall’esercito della Lega italica a Troia, in Puglia, e riuscirono a malapena a evitare la cattura. Si diressero verso l’Abruzzo e, prese Celano e Sulmona, si disposero ad aspettare la fine dell’inverno, ancora sostenuti dagli aquilani.
Jacopo Piccinino aveva tuttavia perso fiducia nelle capacità del pretendente angioino e cercò indipendentemente un accordo con Alessandro Sforza, con il quale ebbe un incontro ad Archi il 7 agosto 1463. Tra le condizioni dell’accordo Piccinino otteneva la carica di viceré degli Abruzzi, uno stipendio di 90.000 ducati annui, il controllo delle terre abruzzesi da lui già occupate (Sulmona, Caramanico, Francavilla, Bucchianico, Villamaina, Guardiagrele, Atessa, Penne, Città Sant’Angelo) e i feudi appartenuti al conte di Campobasso. Gli fu inoltre garantito il buon esito del matrimonio, mai consumato, con Drusiana Sforza, con una dote di 25.000 ducati e la restituzione dei feudi di Niccolò Piccinino in Lombardia. Jacopo intraprese il viaggio verso Milano, senza la compagnia braccesca al seguito, il 22 giugno 1464 e vi arrivò il 12 agosto, dopo aver ricevuto accoglienze festose a Perugia, Firenze, Bologna, Reggio Emilia, Parma e Piacenza. Il 13 agosto completò il matrimonio con Drusiana, allora ventisettenne, e la coppia fu ospite di Bianca Maria Visconti a Pavia.
In questi mesi prese forma la congiura tra Francesco Sforza e Ferrante d’Aragona che sfociò, forse con la complicità di Brocardo da Persico, nell’assassinio di Piccinino. Invitato da Francesco Sforza a riconciliarsi con il re di Napoli, Piccinino ripartì da Milano il 27 aprile 1465 ed entrò a Napoli il 4 giugno, accolto dal re mezzo miglio fuori dalle mura. Passò i giorni seguenti in compagnia degli oratori fiorentini Luigi Guicciardini e Pandolfo Pandolfini. Il re lo fece imprigionare in Castelnuovo, insieme al figlio Francesco, ai segretari Alvise Terzaghi e Brocardo da Persico, e al figlio di quest’ultimo, Ziliolo, la sera del 24 giugno, mentre il duca di Calabria Alfonso veniva mandato a Sulmona a disperdere o catturare i bracceschi lì acquartierati. Il 12 luglio fu comunicata la notizia della morte di Jacopo, ufficialmente per una caduta e una frattura. Le voci sulla sua morte furono raccolte da un gran numero di cronache locali, da Brescia a Firenze, Perugia, L’Aquila, e il duca di Milano fu universalmente sospettato di aver cospirato con il re di Napoli, nonostante Francesco Sforza avesse condotto la negoziazione con estrema discrezione.
Jacopo Piccinino fu l’ultimo dei grandi capitani della scuola braccesca in Italia, ma l’interesse primario della sua vicenda sta nella rete di sostegni politici che seppe associare ai bracceschi lungo tutta la penisola. Tale rete divenne, dopo la conclusione della Lega italica, il collettore di disparati tentativi di sovversione degli equilibri politici interni negli Stati che aderivano alla Lega, da Milano a Firenze o Siena, il più complesso e pericoloso dei quali fu la spedizione angioina nel Regno di Napoli degli anni 1459-64. Ciò che rimaneva della compagnia braccesca, ormai frammentata e ridimensionata, fu guidato dopo la sua morte dapprima dal luogotenente Silvestro da Lucino, più tardi da Carlo Fortebracci, capitano di Venezia.
Jacopo Piccinino ebbe cinque figli dalla compagna Rosata: Gabriella, Niccolò (morto a Sulmona nel 1464), Francesco (catturato a Napoli con il padre), Giangiacomo (morto combattendo nella battaglia del Taro nel 1498) e Angelo (vissuto nelle terre perugine della famiglia e ucciso dal signore di Camerino intorno al 1500). Drusiana Sforza partorì l’ultimo figlio, postumo, a Sulmona il 27 luglio 1465, battezzandolo Giacomo Niccolò Galeazzo, ma il bambino non sopravvisse oltre i sei mesi. Drusiana ritornò a corte a Milano e dopo le negoziazioni fallite per un terzo matrimonio con un Malaspina nel 1466, tentò la fuga dal convento di Sant’Agostino nel 1469. È possibile che Jacopo avesse anche adottato Deifobo Dell’Anguillara, figlio di Everso, talvolta chiamato Deifobo Piccinino. Un messer Piccinino Piccinini, cittadino perugino da cui discesero i Piccinino di Perugia, non era figlio di Jacopo, bensì cugino e coetaneo di Niccolò Piccinino padre.
L’assassinio di Piccinino divenne oggetto di un gruppo di poesie politiche in volgare, pubblicate da Antonio Medin nel 1887, di epigrammi latini anonimi e di una tragedia De captivitate Ducis Iacobi in rare strofe saffiche composta da Laudivio da Vezzano per il duca Borso d’Este a Ferrara. L’evento spinse anche l’unico biografo contemporaneo a Piccinino, il poeta-soldato Lorenzo Spirito, ad aggiungere un capitolo introduttivo al già concluso poema epico-storico in terza rima, L’Altro Marte, stampato a Vicenza nel 1489. Jacopo Piccinino, che appare frequentemente sia nelle corrispondenze sia nelle storie dell’epoca, era già stato il protagonista dei Commentarii sulle guerre di Lombardia del 1452-53, composti su commissione di Alfonso d’Aragona dall’umanista napoletano Porcellio de’ Pandioni ed editi dal Muratori. Nel 1541, Giovan Girolamo Rossi, vescovo di Pavia, scrisse durante la prigionia a Città di Castello un’interessante Vita di Jacopo Piccinino, parte di una collezione di vite di uomini illustri, dedicata a Cosimo I de’ Medici.
Fonti e Bibl.: L. Spirito, Altro Marte, Vicenza 1489; G. Porcellio de’ Pandoni, Commentaria comitis Jacobi Picinini, in RIS, XX, Milano 1731; G. Porcellio de’ Pandoni, Commentaria rerum gestarum a Jacobo Picinino, in RIS, XXV, Milano 1751; A. Medin, Serventese, barzelletta e capitolo in morte del conte J. P., in Archivio storico lombardo, XIV (1887), pp. 728-764; G. Simonetta, Rerum gestarum Francisci Sfortiae Mediolanensium Ducis commentarii, a cura di G. Soranzo, in RIS2, XXII, 2, Bologna 1932, passim; F. Forte, Atti del processo contro J. P., in Ad Alessandro Luzio gli Archivi di Stato Italiani. Miscellanea di studi storici, Firenze 1933, pp. 375-411.
A. Fabretti, Biografie dei Capitani Venturieri dell’Umbria, Montepulciano 1842; L. Banchi, Il Piccinino nello stato di Siena e la Lega italica, in Archivio storico italiano, s. 4, IV (1879), pp. 44-58; D. Giampietro, La morte di Giacomo Piccinino, in Archivio storico per le province napoletane, VII (1887), pp. 365-406; E. Nunziante, I primi anni di Ferdinando d’Aragona e l’invasione di Giovanni d’Angiò (1458-1464), Napoli 1898; L. Fumi, Francesco Sforza contro J. P. Dalla pace di Lodi alla morte di Callisto III, Perugia 1910; A. Giulini, Drusiana Sforza moglie di J. P., in Archivio storico lombardo, XXXIX (1912), pp. 17-52; S. Ferente, La sfortuna di J. P. Storia dei bracceschi in Italia, 1423-1465, Firenze 2005.