Jainismo
Verso la metà del I millennio a.C. l'India settentrionale è teatro di importanti cambiamenti economici e politici. Quando i membri delle tribù vediche partite da nordovest arrivano al bacino del Gange, si intensificano gli scambi e i movimenti di popolazione e si costituiscono regni che superano i clan e i piccoli principati, e i cui sovrani e notabili sembrano prendere interesse alle speculazioni di molti pensatori e maestri religiosi. Grandi testi brahmanici come le antiche Upaniṣad testimoniano questo fermento intellettuale che determina infine una sorta di rivoluzione ideologica: alla sua conclusione l'intera India sembra abbandonare gli ideali vedici di lunga vita e prosperità per adottare la dottrina della ricompensa delle azioni (karman), che comporta innumerevoli reincarnazioni nell'oceano delle esistenze (saṃsāra), e per prefiggersi da quel momento come ideale la 'liberazione' (mokṣa) dal mondo fenomenico. È questa la base comune di quasi tutte le scuole di pensiero che si esprimeranno d'ora in poi.
Escluse quelle istituite per iniziativa dei brahmani, le scuole più vivaci hanno come maestri, verso il V-IV secolo a.C., due pensatori quasi contemporanei, il Jina, 'vincitore' delle passioni, e il Buddha, 'risvegliato' alla Verità. Dotati di capacità organizzative, essi riescono a strutturare le masse dei loro fedeli che costituiscono rapidamente le comunità jaina e buddhiste. In questo modo i due maestri pongono le basi del jainismo e del buddhismo, due grandi movimenti filosofico-religiosi che contestano l'ortodossia brahmanica.
Sembra che gli inizi dei due movimenti siano stati paralleli e il loro successo subito considerevole. Poi il buddhismo si diffonde in Asia e sparisce dall'India, diversamente dal jainismo che, non avendo lasciato il subcontinente prima del XX secolo, riesce a mantenervisi fino ai nostri giorni.
Secondo la tradizione, la dottrina e l'organizzazione della comunità jaina si conformano all'insegnamento dispensato da Vardhamāna Mahāvīra, l'ultimo dei 24 profeti che si dice abbiano vissuto nella fase attuale del ciclo del tempo. Egli sarebbe morto (entrato nel nirvāṇa) a 72 anni, nel 527 a.C., punto di partenza di una delle cronologie cui i jaina amano riferirsi. I dettagli della sua biografia sono relativamente precisi, generalmente verosimili (nonostante la loro storicità non sia ovviamente sempre accertata) e conformi d'altronde allo schema che modella quella degli altri 'Salvatori' jaina, i Tīrthaṃkara, 'costruttori del guado' (tīrtha) che permette di attraversare l'oceano del saṃsāra per accedere alla liberazione. Il Buddha storico, Gautama Śākyamuni, sarebbe stato ugualmente preceduto da una successione di Buddha Tathāgata, le cui biografie sono, nelle loro linee essenziali, comparabili tra loro. Tutti questi profeti presentano i segni particolari che, caratteristici del 'Grande Uomo' (Mahā-puruṣa), si presume si trovino anche nel sovrano universale, l''imperatore della ruota' (cakra-vartin). In effetti sia nei Buddha che nei Jina si ravvisano molti attributi della sovranità.
La vita di ogni Jina è segnata da cinque grandi momenti, celebrati ancora oggi con grandi festeggiamenti: concepimento, nascita, rinuncia al mondo, risveglio alla Verità, ingresso nel nirvāṇa. Come il Buddha e come i precedenti Tīrthaṃkara, anche il ventiquattresimo proviene da una famiglia principesca: il Jina e il Buddha nascono in due 'capitali' del Bihar settentrionale, il primo forse a Vaiśāli, l'altro a Kapilavastu, da genitori che pare fossero stati conquistati dalla dottrina predicata dal ventitreesimo Tīrthaṃkara, Pārśva. In seguito il Jina, diversamente dal Buddha, sarà visto più come un riformatore e un riorganizzatore che non come un fondatore, e presto si potranno distinguere due correnti all'interno del jainismo. Ciò nonostante gli itinerari spirituali del Buddha e del Jina sono simili per molti aspetti.
Sogni premonitori, spesso raffigurati nell'arte jainica, annunciano la concezione e la nascita del bambino, segnate dalla felicità e da una generale prosperità, tanto che gli viene dato il nome di Vardhamāna, 'Prospero'. In seguito, ammirando il suo coraggio di fronte alle prove, gli dei gli conferiranno quello di Mahā-vīra, 'Grande Eroe', e come ogni asceta è naturalmente chiamato anche śramaṇa. La tradizione śvetāmbara vuole che Vardhamāna, desideroso di risparmiare ogni pena ai suoi genitori, abbia dapprima vissuto come ogni giovane nobile, si sia sposato e abbia generato una figlia, la quale sposerà più tardi un uomo di piccola nobiltà, futuro responsabile del primo scisma della chiesa jaina. Alla morte dei genitori Vardhamāna, trentenne, ottiene dal fratello maggiore il permesso di abbandonare il mondo, distribuisce con pompa tutti i suoi beni e un anno dopo abbraccia la vita del religioso errante. Tredici mesi dopo, al culmine della stagione fredda, decide di non indossare più vestiti. In questo modo, mentre si distingue dai seguaci di Pārśva (che non vanno nudi), manifesta anche la sua fiducia nell'efficacia ultima delle pratiche ascetiche, alle cui virtù invece il Buddha, che predica la 'via di mezzo', non crede affatto.
Vardhamāna si impone digiuni severi, vive in solitudine, dedito alla meditazione e alla riflessione, e quindici anni dopo perviene all'onniscienza. Partito verso l'est, percorre la pianura del Gange fino al Bengala, affronta con equanimità i rigori della natura e le persecuzioni di popolazioni ostili, d'altronde ben presto conquistate dal suo eroismo e dall'eloquenza della sua predicazione, formulata in un linguaggio che egli vuole accessibile alla gente comune. Sembra, del resto, che Vardhamāna abbia beneficiato - come Buddha - della benevolenza di parenti e amici e del sostegno di molti sovrani. I suoi ascoltatori diventano numerosi, i discepoli seguono ogni suo passo: egli spiega e trasmette la sua dottrina e organizza la comunità dei suoi fedeli che sarà quadruplice: composta di religiosi e laici, di uomini e donne.
Sembra che essa sia stata unita da legami durevoli di solidarietà che l'hanno forse aiutata a perdurare in India, nonostante le tensioni interne, gli antichi scontri con comunità rivali (che riecheggiano nelle scritture jainiche) e, dopo il X secolo, gli attacchi degli indù e dei musulmani. I testi antichi denunciano in particolare gli errori (il determinismo assoluto) e i tradimenti di Makkhali Gośāla, capo della comunità degli ājīvika che, forse potente un tempo, oggi è conosciuta quasi solo per gli attacchi dei suoi avversari. Non si dice mai che il Buddha abbia incontrato il Jina, sebbene siano stati contemporanei, abbiano percorso le stesse regioni e sembrino in qualche modo indissociabili.
Il Jina sarebbe entrato per primo nel nirvāṇa, a 72 anni, in una data che, come nel caso del Buddha, ha dato luogo a controversie. I jaina ritengono che tale data sia il 527 a.C., mentre gli studiosi occidentali hanno oscillato a lungo tra il 468 e il 477, data che però si ritiene troppo anticipata se si pensa, come molti oggi, che il nirvāṇa del Buddha si è prodotto molto più tardi. Recentemente è stata proposta la data del 400 a.C. con una incertezza di circa dieci anni.In conclusione, lungi dall'essere un fatto isolato, la predicazione di Mahāvīra risponde, come molte altre, alle aspirazioni di una società in via di trasformazione, alla ricerca di una ideologia meno esclusiva di quanto non fosse l'ortodossia brahmanica. Parallelamente alle evoluzioni economiche e politiche che sfociano nella costituzione di grandi regni e imperi come quello dei Maurya, si sono sviluppati importanti movimenti di pensiero, abbozzi di religioni universali.
Si dice che Mahāvīra abbia diviso i religiosi jaina in 11 compagnie (gaṇa) composte da 300-500 monaci, ciascuna sotto la responsabilità di uno dei suoi grandi discepoli (gaṇa-dhara) incaricati di trasmettere e spiegare la parola del Jina. I loro nomi figurano alla testa delle genealogie spirituali, esplicite soprattutto a partire dalla sesta generazione dopo Mahāvīra, quando domina il grande patriarca Bhadrabāhu, forse contemporaneo dell'imperatore maurya Candragupta (IV-III secolo a.C.).
Due avvenimenti segnano quest'epoca: un grave dissenso, forse conseguente alla migrazione di una parte della comunità verso l'ovest e il Deccan, e in parallelo il primo grande sforzo di collezione dei testi sacri nel corso di un concilio tenuto a Pataliputra, oggi Patna: è precisamente a Bhadrabāhu che si attribuiscono i primi commenti delle scritture śvetāmbara. Nei secoli successivi le controversie si inaspriscono al punto che, nel 79 d.C., la comunità si scinde in due chiese, quella dei 'bianchi mantelli' (śvetāmbara) e quella di coloro che sono 'vestiti di cielo' (digambara), così chiamati perché i più anziani tra i loro monaci rifiutano i vestiti.
D'altronde pare che la comunità sia stata ben vista dai Maurya e dalle dinastie successive e abbia - come il potere politico - esteso la propria influenza verso est, nel Kalinga (l'attuale Orissa), e soprattutto verso ovest, dove le iscrizioni di Mathura provano la presenza dei jaina dal II secolo a.C. fino al V secolo. Si capisce così l'importanza che essa ha avuto nel Gujarat.
Iniziata diversi secoli prima della nostra era, l'espansione del jainismo nell'India centrale e a sud dei Vindhya non è delimitabile con certezza. Attraverso le testimonianze di pellegrini cinesi sappiamo che ricchi e brillanti nuclei di digambara partecipano alla vita economica nel Deccan e nell'India meridionale (per esempio a Kanchipuram). Qui si organizzano quattro raggruppamenti strutturati (saṃgha) e la comunità conta tra i suoi fedeli e mecenati alcuni sovrani. Si dice che i jaina abbiano contribuito alla gloria dell'Accademia di Madurei e, certamente, alla nascita e allo sviluppo della letteratura kannara. Parallelamente essi disseminano queste regioni di templi (per esempio a Mudbidri), grotte scolpite (come a Badami), statue (tra cui il colossale monolito di Bāhubali, eretto nel 981 a Śravaṇa Beḷgoḷa). Molti di questi monumenti sono tipicamente digambara, come lo sono anche le opere degli eruditi. Il declino dei digambara inizia nell'XI-XII secolo con le vittorie della dinastia Cola (che sfrutta i commercianti), e poi con la scomparsa degli Hoysala e, d'altronde, con i successi - accompagnati spesso da persecuzioni - delle sette e dei maestri indù, viṣṇuiti e śivaiti.
A nord dei Vindhya il dinamismo dei jaina non è minore, anche se non se ne conoscono con precisione i dettagli. È certo che uno di loro, Hīravijaya, fu chiamato alla corte di Akbar, nel XVI secolo, per rappresentarvi la religione jainica. A ovest, nel Gujarat, la comunità sembra essere stata a lungo fiorente e ben organizzata. Lì, nella penisola di Kathiawar, a Valabhi, dopo un primo concilio tenuto a Mathura si tengono due concili, l'ultimo dei quali nella seconda metà del V secolo. Questo concilio ha un'importanza fondamentale: i religiosi riuniti per l'occasione ordinano, completano, fissano e diffondono i testi che costituiscono finalmente il canone śvetāmbara. I jaina ricordano anche l'influenza da loro esercitata in questo regno nell'XI e XII secolo, quando il loro pontefice Hemacandra (1089-1172), grande erudito, era anche consigliere di due sovrani e si sforzava di instaurare uno Stato jaina. Ancora nel XIII secolo, malgrado le minacce dall'esterno, alcuni dignitari fanno erigere numerosi santuari, tra cui i celebri templi di marmo bianco del Monte Abu.
Fino al X secolo abbiamo solo informazioni frammentarie sulla vita interna della comunità jaina. Ai saṃgha meridionali corrispondono, al nord, delle 'compagnie' (i gaṇa, in seguito chiamati gaccha) divise in 'famiglie' e 'rami' e dirette da sūri. Alcune esistono ancora oggi, come la Tapā-gaccha, il cui fondatore si è segnalato all'inizio del XIII secolo per il rigore dei suoi digiuni. La tradizione ricorda l'apparizione periodica di movimenti di protesta contro pratiche giudicate lassiste. Dopo numerose altre sette e frazioni di sette compare, a metà del XVII secolo, quella degli sthānakvāsī che, riprendendo argomenti enunciati due secoli prima, rifiutano il culto delle immagini del Jina e tollerano le pratiche cultuali solo in luoghi profani (sthānaka). Inoltre, pur essendo śvetāmbara, essi denunciano come apocrifi 13 dei 45 trattati del canone e, cosa sorprendente, proprio quelli che sembra siano stati composti in epoca più tarda. Forse, dunque, queste nuove sette hanno in realtà conservato antichi tratti perduti da altre sette.
Così, al nord come al sud, la vita della comunità è percorsa da correnti impetuose o effimere mentre si moltiplicano le distruzioni e i saccheggi da parte dei nemici esterni, tanto che in epoca moderna i jaina hanno mostrato a lungo la tendenza a farsi estremamente discreti.
Si contano oggi circa tre milioni di jaina in India, cifra che però essi giudicano molto inferiore alla realtà. Vivono per la maggior parte nelle regioni occidentali e sono proporzionalmente piuttosto numerosi nel Maharashtra, nel Rajasthan e nel Gujarat, mentre gli uomini d'affari śvetāmbara non esitano a stabilirsi in tutte le grandi città del paese. Complessivamente tuttavia gli śvetāmbara vivono di preferenza a nord dei Vindhya, dove coabitano con pochi digambara, mentre nel Deccan i jaina sono tutti di ceppo digambara, generalmente agricoltori e di condizioni relativamente modeste. La reputazione di commercianti di successo di questa frazione della popolazione indiana vale dunque più che altro per i jaina del nord, a cui appartengono alcune caste mercantili (i baniyā) fra le più conosciute.Sebbene sotto il profilo dottrinario il perfezionamento spirituale sia indipendente dalla nascita e dall'appartenenza sociale, la società jaina è chiaramente non meno legata del resto della società indiana al sistema delle caste, anche se su alcuni punti essa sembra meno intransigente di quanto non siano comunemente gli indù. Le divisioni di casta possono coincidere o no con l'appartenenza geografica e di setta. Alcune caste, per esempio quella degli ag(a)rawala, sono miste (jaina e indù). Del resto i jaina reagiscono evidentemente alle stesse pressioni economiche degli altri indiani.
Soprattutto dall'inizio del secolo, alcune famiglie, rispondendo alle esigenze del commercio e dell'industria o fuggendo la fame e la povertà, sono emigrate prima verso l'Africa orientale (circa 10.000 nel 1969) e di lì, in seguito a persecuzioni, verso il Regno Unito. Più recentemente altre ondate si sono dirette nel Canada e negli Stati Uniti, dove i jaina hanno creato associazioni e organizzato manifestazioni collettive grazie alle quali cercano di conservare la loro identità in terra straniera. Secondo loro stime i jaina stabilitisi fuori dell'India sarebbero circa 150.000.
Questi movimenti sociali vanno naturalmente di pari passo con sforzi di riflessione e di adattamento in campo spirituale cui hanno largamente partecipato gli sthānakvāsī. Proprio da questa setta è uscito nel XVIII secolo il fondatore del gruppo dei terāpanthī che, lottando contro l'idolatria, esortano allo studio delle fonti scritturali. Dal 1936 il loro superiore è l'ācāraya (maestro spirituale) Tulsi, notevole per carisma e intelligenza e fondatore nel 1949 del movimento anuvrat, che si sforza di offrire un ideale etico di portata universale. Desideroso di elevare il livello intellettuale dei jaina, Tulsi crea una università nel suo centro di Ladnun, nel Rajasthan, raccomanda la meditazione spirituale, incoraggia allo studio le giovani monache, di cui si sforza di migliorare le condizioni, crea infine ordini religiosi intermedi che, beneficiando di dispense, possono viaggiare anche oltreoceano. L'iniziativa è certo particolarmente opportuna in un'epoca che ha visto aumentare notevolmente il numero dei jaina emigrati. Un altro riformatore illuminato si era interessato a loro: lo swami Kanji, nato nel Kathiawar nel 1889 da una famiglia sthānakvāsī e ordinato monaco di questa setta nel 1913. Nel 1921 egli scopre l'opera del grande maestro digambara Kundakunda e si converte al suo misticismo così sinceramente che nel 1934 a Songadh, nel Kathiawar, si proclama fedele laico digambara. Il movimento da lui fondato apprezza, più del ritualismo, lo studio e la meditazione e manifesta uno zelo missionario e riformatore: lo stesso Kanji non ha esitato a recarsi a Mombasa per parlare ai jaina che avevano lasciato l'India. Gli emigrati venerano anche colui che è chiamato con reverenza Śrimad Rajacandra (1867-1901), jaina da parte di madre e visnuita da parte di padre, ammiratore di Kundakunda e della Bhagavadgītā (antico poema mistico), e celebre per le sue lettere e per la sua amicizia con Gandhi.
La nostra epoca attesta dunque la vitalità del jainismo e la capacità di adattamento di un movimento che è stato tendenzialmente presentato come immutabile, mentre si sforza in realtà di conciliare il rispetto per una tradizione ancestrale con quanto è stato prodotto dai rivolgimenti mondiali.
Poiché i movimenti riformistici jaina si sono spesso concentrati sugli aspetti pratici, raramente i dibattiti hanno riguardato i fondamenti della dottrina. L'essenziale era già acquisito all'inizio circa dell'era cristiana, quando la comunità si è scissa tra śvetāmbara e digambara.
I primi affermano che i 45 testi che costituiscono il loro canone riportano le parole di Mahāvīra; i digambara invece ne rifiutano l'autenticità, mentre riconoscono la validità degli insegnamenti dispensati dai trattati composti all'incirca all'inizio dell'era cristiana, o poco dopo, dai loro maestri Vaṭṭakera, Kundakunda e Umāsvāti. Le due chiese sono peraltro d'accordo nel ritenere irrimediabilmente perduta la serie dei 14 libri antichi (Pūrva), dei quali l'una dice che la sostanza ne è stata incorporata nella prima sezione del canone śvetāmbara, l'altra che diversi frammenti - sulla teoria del karman - sono stati raccolti da due libri digambara per lungo tempo tenuti segreti e rimasti inaccessibili (in particolare il Ṣaṭkhaṇḍâgama, la 'dottrina in 6 sezioni'). Resta il fatto che l'insegnamento di base è, nei suoi principî, molto simile in tutti i testi, tanto che si sono potute osservare concordanze precise tra quelli più antichi. È dunque lecito, come si fa spesso per comodità, fare riferimento sia al canone dei jaina śvetāmbara, sia agli scritti dei dottori digambara.Così com'è oggi, il canone si compone di 45 testi ripartiti in 6 sezioni: 11 Aṅga ('membra'; un dodicesimo che si ritiene riassumesse alcuni Pūrva, sarebbe andato perduto), 12 Upāṅga ('membra secondarie'), 6 Chedasūtra ('aforismi sul ritiro spirituale'), 4 Mūlasūtra ('aforismi di base'), 10 Prakīrṇaka ('miscellanee'), 2 Cūlikāsūtra ('appendici [propedeutiche]'). Le prime due sezioni - che si suppone si corrispondano - trattano vari soggetti (dogmatici, etici, principî della vita religiosa); la terza, più tecnica, raccoglie i più antichi compendi di regole del monachesimo jaina; la quarta raggruppa alcune delle più celebri antologie di scritti sulla vita religiosa; la quinta, più eterogenea, contiene un nucleo di prescrizioni disciplinari; il contenuto della sesta è di tipo epistemologico. Nonostante questa classificazione in apparenza metodica, la materia è piuttosto dispersa all'interno del canone, che è stato spesso paragonato a un mosaico. Inoltre si fa volentieri riferimento a due antichi testi più sistematici, che sono la premessa di successivi compendi: da una parte il Pravacana-sāra, 'essenza della dottrina', trattato in 275 stanze composto dal digambara Kundakunda (che si fa risalire tradizionalmente al I secolo dell'era cristiana), dall'altra il Tattvārthādhigama-sūtra, 'sūtra dell'accesso al senso dei principî', 350 aforismi composti all'inizio dell'era cristiana da Umāsvāti, la cui autorità è riconosciuta da ambedue le chiese.
Scegliendo di utilizzare nello stesso tempo la forma del sūtra (brevi sentenze concatenate) e la lingua sanscrita - saṃskṛta, 'ben preparata' -, che sono l'una e l'altra fin dall'antichità appannaggio delle opere brahmaniche, Umāsvāti spinge in un certo senso il jainismo al di fuori della cerchia dei suoi adepti e lo prepara per le polemiche panindiane che dopo il V secolo si amplificheranno e utilizzeranno proprio il sanscrito come lingua veicolare.
Non è tuttavia il sanscrito la lingua del canone śvetāmbara o dei più antichi testi digambara. Seguendo l'esempio del Jina che, come il Buddha, si era rivolto ai suoi ascoltatori in una lingua 'naturale' (pràkṛta), il canone è redatto in pracrito, lingua che - pur discendendo dal sanscrito - è stata in origine più di questo vicina agli idiomi parlati nella pianura del Gange e nel Magadha: di qui il suo nome ardhamāgadhī ('mezzo māgadhī'). Essa si è peraltro fortemente occidentalizzata in seguito alle migrazioni dei jaina a ovest. L'enorme mole di letteratura esegetica relativa al canone è stata dapprima redatta in pracrito e in seguito - dopo l'VIII secolo - in sanscrito. Quanto ai digambara, i loro primi trattati (tra gli altri quelli di Kundakunda) sono redatti in un pracrito derivante dal paese dei Śurasena, vicino Delhi, detto perciò 'pracrito śaurasenī'. Nel Deccan essi hanno fatto presto ricorso al sanscrito, specialmente nelle dispute tra logici, alle quali prendono parte attivamente.
A partire dal V-VI secolo i jaina - sia śvetāmbara che digambara - sviluppano una intensa attività letteraria. Compongono in molte lingue, a seconda del soggetto e del pubblico preso in considerazione: in sanscrito, pracrito, apabhraṃśa (una lingua intermedia tra pracrito e dialetti), lingue moderne, ivi compresi gli idiomi dravidici. Si devono ai jaina opere filosofiche e scientifiche (astronomia, medicina, grammatica, lessicografia, ecc.). Essi adattano alle esigenze delle loro convinzioni e controversie il ciclo dei Purāṇa e le epopee (il Mahābhārata e soprattutto il Rāmāyaṇa) e hanno altresì una profonda conoscenza della letteratura indiana classica, che i loro chierici copiano e commentano. Eccellono nel genere narrativo: il loro Vasudevahiṇḍi, sorta di romanzo, è anche la più antica versione conosciuta della celebre Bṛhatkathā; inoltre i commentari dei loro testi religiosi sono ricchi di racconti che si pensa servissero da illustrazione e che sono stati in seguito raggruppati in raccolte di kathā. I jaina creano il genere della 'storia universale', moltiplicano le biografie leggendarie dei 'Grandi uomini', compongono inni. Infine, creano importanti biblioteche, di cui si è a lungo ignorata la ricchezza sebbene esse abbiano conservato - come nel Rajasthan, nel Gujarat e nel Karnatak - collezioni di manoscritti talvolta antichi (su palma e su carta).
Oggi i jaina sono molto attivi nel campo dell'editoria: creano periodicamente nuove collane alla memoria di pii fedeli, e in questo modo si è potuta pubblicare nel XX secolo, per opera di alcuni loro grandi eruditi, una quantità di testi dimenticati. Si pubblicano anche numerosi opuscoli e opere di volgarizzazione. Va notato infine che i jaina emigrati si fanno promotori di questa politica di pubblicazione e diffusione. È questo uno degli scopi dell'Institute of Jainology recentemente creato in Inghilterra, divenuto la Jain World Foundation, che il 21 luglio 1994 ha annunciato solennemente una nuova traduzione del Tattvārthādhigamasūtra.
La dottrina jainica è simboleggiata da tre gioielli (tri-ratna): la retta conoscenza (samyag-jñāna), la retta visione o fede (samyag-darśana), la retta condotta (samyak-cāritra). Il nucleo essenziale della dogmatica si trova nelle Scritture canoniche e procanoniche e vale in generale per ambedue le chiese. Esse si contrappongono soprattutto su tre punti: la natura dell'onniscienza del Jina (di cui i digambara tendono a sottolineare il carattere sovrumano), l'importanza della nudità, lo statuto delle donne.Spesso definita come un 'dogmatismo condizionale', la logica originale elaborata dai jaina attira oggi l'attenzione dei filosofi. La conoscenza (jñāna), attributo essenziale dell'anima (jīva), è di cinque tipi, l'ultimo dei quali - che li ingloba tutti - è l'onniscienza (kevala-jñāna), assoluta, perfetta. La logica jainica si fonda sulle due teorie complementari del syād-vāda, 'dottrina delle (diverse) possibilità', e del naya-vāda, 'dottrina (dei metodi) di approccio'. La prima afferma che una predicazione è valida se tiene conto di 'condizioni molteplici' (da ciò l'altro suo nome anekānta-vāda), poiché un oggetto 'può essere' (syāt) sia siffatto, sia non siffatto, ecc., e dare così luogo a 7 tipi di asserzioni. Il nayavāda definisce 7 punti di vista (generico, specifico, ecc.) dai quali considerare l'oggetto.Il jainismo, che è sostanzialismo pluralista, insiste sulla realtà del cambiamento. Il mondo e il non mondo sono costituiti da cinque 'masse di essere' (astikāya). Si tratta da una parte dell'anima, che è vita caratterizzata dalla coscienza, dall'altra delle sostanze inanimate: materia, spazio, movimento, arresto del movimento (eventualmente, tempo). La materia è corporale, dotata di qualità sensibili, composta di atomi infinitamente piccoli (paramâṇu), e fornisce all'anima un corpo in cui alloggiare. Gli esseri che risultano da questa coabitazione sono più o meno sviluppati, dagli esseri con cinque sensi come l'uomo fino alle particelle infime e agli elementi immobili di natura vegetale e a quelli che hanno solo un senso, il tatto. Infimi o meno, tutti questi esseri animati da un jīva sono degni di rispetto.
Esistono cinque varietà di corpi, delle quali almeno due si ritrovano in ogni essere vivente: il corpo ardente, che assicura per esempio la funzione digestiva, e il corpo 'karmico', formato da particelle di materia che si sono infiltrate nell'anima come risultato di azioni anteriori. L'invasione del jīva da parte del flusso karmico causa la servitù, l'incarnazione e la migrazione dell'anima, miserie da cui il devoto jaina si sforza di liberarsi imponendosi una disciplina rigorosamente codificata. Quando si è esaurita la vita del corpo in cui alloggia, l'anima lo abbandona ed entra in un corpo nuovo, fino a quando, liberatasi della materia karmica (arrivata ormai a maturazione ed esaurimento), quest'anima, perfetta (siddha) e libera, ascende verso il soggiorno supremo della siddhi. Il processo si sintetizza in uno schema di sette categorie, che sono insieme ontologiche e morali: 1) jīva; 2) a-jīva; 3) flusso di materia karmica; 4) servitù del jīva; 5) arginamento del flusso; 6) espulsione della materia karmica; 7) liberazione. Alcuni aggiungono altre due categorie e cioè: 8) merito e 9) demerito. La teoria del karman è dunque fondamentale nel jainismo, che la svilupperà considerevolmente in trattati specialistici, i karmagrantha. Essa è stata talvolta riassunta nella formula 'irrevocabile factum'. La soteriologia messa a punto dai jaina per riscattare la miserevole condizione umana si basa su un codice di condotta adattato allo statuto di ciascuna delle quattro componenti della comunità.
Mentre i buddhisti hanno elaborato una cosmologia per molti versi originale, la rappresentazione che i jaina si fanno del cosmo (loka) differisce solo leggermente dalle descrizioni brahmaniche.
Racchiuso nel non mondo (a-loka) e composto da tre volumi sovrapposti e ineguali, il cosmo è talvolta rappresentato come un 'uomo cosmico' dalla vita minuta e la base molto larga. Il mondo mediano, di gran lunga il più piccolo, non è che un disco sottile ma ha una grande importanza: è proprio in alcune delle sue regioni centrali che abitano gli uomini e regna il tempo (kāla), e dunque la legge della ricompensa delle azioni, condizione della liberazione. Al di sotto, nei sette enormi piani degli inferi, soffrono i cattivi, mentre le buone azioni danno accesso ai piani del mondo superiore abitato dalle divinità, tanto più pure quanto più in alto sono insediate. Al culmine dell'universo si trova, in forma di un ombrello rovesciato, il luogo cui accedono le anime perfette (siddha) degli uomini che hanno raggiunto la liberazione. Il mondo mediano è composto da un continente centrale, il Jambūdvīpa, circondato da una innumerevole successione di oceani e continenti ('isole', dvīpa) a forma di anello. L'India, Bharata, è situata a sud del Jambūdvīpa, al cui centro si innalza il Monte Mandara (Meru). Intorno al Meru girano, ciascuno alla propria altezza, gli dei astrali. I jaina annoverano due soli, due lune, ecc., che ruotano distanziati di 180° l'uno dall'altro.Il jainismo, come tutti gli altri sistemi religiosi indiani, concepisce il tempo come ciclico. Il suo movimento, paragonato a quello di una ruota, è diviso in kalpa, periodi di lunghissima durata che si ripetono indefinitamente. Ogni giro si divide in due fasi inversamente simmetriche, l'una discendente, l'altra ascendente, con una suddivisione in 6 stadi che scandiscono la discesa da ere di grandissima e poi grande prosperità fino allo stato di miseria e poi di grandissima miseria, e l'ascensione inversa dalla grandissima infelicità alla grandissima beatitudine.Nel corso di ciascuna delle due fasi vivono 24 Tīrthaṃkara, insieme a tutto un corteggio di grandi personaggi che ricordano il repertorio leggendario brahmanico. I più antichi sono colossali, i più recenti hanno dimensioni più umane: le rappresentazioni plastiche mostrano fino a qual punto essi abbiano tratti stereotipati.
Ci troviamo attualmente nel quinto stadio - di miseria - di una fase discendente. Alla fine del terzo stadio è nato Ṛṣabha, 'il primo Signore' (Ādinātha), che è all'origine della civilizzazione dell'umanità. Nel quarto sono vissuti gli altri 23 profeti, tra cui Pārśva (che è rappresentato con la testa sormontata dal settuplo cappuccio di un cobra) e Vardhamāna Mahāvīra, il cui nirvāṇa avrebbe avuto luogo 75 anni e 8 mesi e mezzo prima dell'inizio del quinto stadio.
La tradizione vuole che Vardhamāna abbia avuto seguaci religiosi e laici dei due sessi, con le donne da due a cinque volte più numerose degli uomini. La comunità che egli instaura conserva questa doppia divisione, dà la preminenza agli uomini, come nella società brahmanica, e si piega a regole che per molti versi ricordano le norme insegnate dai testi che hanno forza di legge presso gli indù.I più antichi testi jainici trattano essenzialmente della vita dei religiosi, perché è quella che può condurre alla liberazione; su di essa si modella la vita del laico, di cui il canone tratta solo piuttosto tardi. Il vero religioso si deve 'svincolare da tutti i legami', materiali e spirituali: questo significa il termine tecnico nirgrantha, che lo designa negli antichi compendi di regole. Quando rinuncia al mondo, il fedele abbandona solennemente tutti i suoi beni, riceve da un religioso l'equipaggiamento monastico, compie un breve noviziato e prende infine i cinque 'grandi voti' nel corso della consacrazione (dīkṣā) che lo rende monaco a tutti gli effetti. Entra quindi in un gruppo di confratelli sotto l'autorità di maestri (ācārya e altri) che vegliano su di loro. Anche le compagnie di monache con le loro superiore dipendono da maestri religiosi.L'equipaggiamento monastico è ridotto: un pezzo di stoffa per evitare che la nudità offenda la vista, un piumino con cui allontanare con delicatezza i piccoli animali, una ciotola per la questua (talvolta due), un pezzetto di mussola per evitare di ingoiare polvere e insetti, un bastone. La vita è itinerante, salvo durante i monsoni, le giornate rigidamente regolate, con ore fisse per lo studio, la meditazione, il sonno, la questua e la consumazione delle elemosine sottoposte a prescrizioni rigorose. Come nelle tradizioni brahmaniche e buddhistiche, i libri jainici di disciplina enumerano in una lista le infrazioni ai doveri monastici e le relative espiazioni.
Quanto ai laici, essi prendono voti dello stesso genere ma meno rigidi di quelli dei religiosi, dei quali possono peraltro abbracciare la regola per periodi limitati. Contribuiscono alla vita materiale di costoro con le loro elargizioni, che accrescono i meriti spirituali ma anche il prestigio sociale dei donatori. In cambio i religiosi dispensano insegnamenti e consigli, tanto più preziosi in quanto i laici sono tenuti anch'essi a riservare parte del loro tempo alla meditazione. Fin dall'antichità i laici hanno dato generosamente i loro contributi anche a opere sociali ed educative - ospedali, asili, scuole, biblioteche - come pure alla sistemazione dei luoghi sacri (tīrtha) e alla costruzione e manutenzione dei templi. Recentemente se ne sono edificati anche fuori dell'India, in Africa, Inghilterra, Nordamerica. Questi scambi consolidano l'unità della comunità donando una sensazione di sicurezza ai suoi membri. I jaina emigrati hanno quindi accolto con favore le recenti disposizioni che permettono ad alcuni religiosi di andare a dar loro sostegno in terra straniera.
I concetti metafisici del jainismo, specialmente la teoria del jīva, sono la base dei codici di condotta prescritti ai fedeli, costretti tutti all'osservanza dei voti (vrata) che, accompagnati dalla 'retta visione', guidano verso la liberazione.Ogni jaina rispetterà cinque divieti (i primi quattro dei quali, peraltro, valgono anche per gli asceti brahmanici e buddhisti): 1) non nuocere agli esseri viventi; 2) non mentire; 3) non appropriarsi di ciò che non è stato donato; 4) non violare la castità; 5) non possedere nulla dal momento in cui si diventa monaci. I religiosi aggiungono quello di non mangiare di notte. Essi rispettano tali divieti rigorosamente, prendendo così 'voti maggiori' (mahā-vrata), mentre i laici prendono 'voti minori' (aṇu-vrata), completati però da sette regole supplementari di moralità.
Numerosi esercizi aiutano il monaco ad arginare il flusso karmico (saṃvara): la triplice sorveglianza (delle attività mentali, verbali, corporali), le cinque precauzioni (per non danneggiare gli esseri viventi), la pratica delle dodici riflessioni (sulla transitorietà universale, il saṃsāra, ecc.); insomma la 'retta condotta' si modella fin dove è possibile sull'ideale predicato dal Jina. Agli sforzi miranti a respingere il flusso karmico si aggiungono quelli miranti a espellere il karman che è stato precedentemente accumulato (nirjarā). Questa purificazione si ottiene mediante l'ascesi (tapas), che è di due tipi, esterna e interna. La prima consiste soprattutto in digiuni e in molteplici restrizioni alimentari, di cui si fanno variare natura, durata, intensità, concatenazione. La seconda comprende: 1) confessione, pentimento e penitenza; 2) buona condotta religiosa; 3) assistenza ai membri della comunità; 4) studio; 5) raccoglimento; 6) concentrazione mentale o dhyāna (concentrazione nella Legge e nel Sé).
La letteratura jainica del Medioevo si è abbondantemente interessata al comportamento richiesto al laico, che si modella su quello richiesto al religioso. L'accento è posto sulla non violenza (a-hiṃsā), la sincerità (satya), l'onestà (asteya), la castità (brahma-vrata), il rifiuto dell'avidità (a-parigraha). I laici - in particolare le donne - si impongono digiuni talvolta lunghi e complicati, al punto che alcuni hanno potuto, come i religiosi, affrontare la prova suprema - la morte per digiuno (saṃlekhanā) - a cui sono autorizzati solo i jaina più esperti.
Una scala di 'qualificazione spirituale' a 14 livelli indica la distanza che separa l'anima dalla perfezione (siddhi), che si raggiunge solo dopo lungo tempo e sforzi considerevoli, cadute e ravvedimenti. Giunta al quattordicesimo stadio l'anima, in un lampo, abbandona il corpo che la teneva prigioniera per raggiungere il soggiorno supremo delle siddha.
Nonostante l'attrazione esercitata dal regno della perfezione, sembra tuttavia che molti jaina aspirino a rinascere tra gli dei piuttosto che nella siddhi. Del resto, sebbene i Tīrthaṃkara siano ormai senza rapporti con il mondo, e dunque non intervengano nella vita degli uomini, un gran numero di fedeli li venera, si inchina davanti alle loro statue, va in pellegrinaggio nei luoghi santificati dall'uno o dall'altro dei grandi avvenimenti della loro esistenza, ne frequenta i templi. Molti santuari, di ogni grandezza, sono stati costruiti anticamente, molti sono stati distrutti, molti costruiti di recente. Alcuni, celeberrimi, attirano i fedeli da tutta l'India, altri sono destinati solo ai jaina locali, altri ancora sono privati essendo costruiti all'interno delle abitazioni.
Nell'insieme il tempio jainico somiglia a quello indù. Può sorgere in una corte chiusa da un muro di cinta; la statua del Tīrthaṃkara a cui è dedicato occupa la cella principale ed è in genere fiancheggiata da statue di altri profeti situate anche in numerose nicchie all'interno del santuario o nelle celle addossate al muro della corte, in modo che il fedele passa facilmente dall'una all'altra. Vi sono inoltre statue di divinità secondarie e simboli e diagrammi augurali, come la rappresentazione delle cinque 'entità supreme' enumerate nella formula rasserenante: "omaggio ai santi, ai perfetti, ai maestri, ai precettori, ai religiosi". Vi si vede anche la rappresentazione convenzionale dei continenti della cosmologia, dei luoghi santi, o del solenne raduno delle folle venute ad ascoltare il sermone del Jina (samavasaraṇa): il tempio jaina è quasi una replica di questa assemblea universale e dunque invita a ricordare e meditare l'insegnamento del profeta. Al mattino, dopo le abluzioni e indossando abiti puliti, i fedeli arrivano portando offerte (frutta, riso, ecc.) che dispongono secondo schemi rituali. Essi si raccolgono davanti ai Tīrthaṃkara, lavati e addobbati, e procedono a diversi riti, molti dei quali sono chiaramente ispirati al rituale indù.
Si noterà che ciò che si riferisce al tempio non è di competenza dei religiosi, e d'altra parte anche i laici - soprattutto le donne - si fanno un dovere di riservare alcuni momenti della loro giornata alla meditazione, cui si dedicano davanti a una sorta di piccolo pulpito che simboleggia il maestro e l'insegnamento.
L'arte jainica, come si è conservata fino ai nostri giorni, è soprattutto religiosa, e i templi e le statue ne sono le espressioni più spettacolari. I più antichi monumenti ancora esistenti risalgono al III secolo a.C., ma la maggior parte è stata eretta tra il V e il XV secolo. Dopo aver costruito anch'essi, come i buddhisti, alcuni stūpa (tumuli funerari) di cui rimangono dei resti a Mathura, i jaina hanno poi rinunciato a questo simbolo e ne hanno preferiti altri, ponendo all'interno o a fianco dei loro templi rappresentazioni del Monte Meru e del samavasaraṇa.
Le grotte, antichi rifugi di eremiti, sono state trasformate in santuari, in particolare nel Deccan dove una delle più celebri, a Ellora, è il 'piccolo Kailāsa', vicino al 'grande Kailāsa' śivaita.
La pianta dei templi jainici ripete pressappoco il modello brahmanico: uno o più atri portano in linea retta alla cella principale. Il numero di questi atri con colonnati (maṇḍapa) può variare, come pure quello delle colonne e dei motivi decorativi. I jaina preferiscono la costruzione 'a quattro facce' (caturmukha) in cui quattro porte, ai quattro punti cardinali, danno accesso al santuario.
I luoghi sacri celebri dell'India meridionale sono per la maggior parte piuttosto antichi: Śravaṇa Beḷgoḷa, Aihole (IX secolo), la 'Kanci jaina' (XI secolo). Al nord sono del VII-VIII secolo i semplici templi di Deogarh; i più famosi, di proporzioni imponenti, sono a Khajuraho (X secolo) o a Ranakpur (nel Rajasthan, XV secolo); i più splendidi, in marmo bianco delicatamente levigato e scolpito, sono sul Monte Abu (XI-XIII secolo).
I templi sono ornati da statue di varia grandezza e da oggetti di culto diversi, di pietra, marmo, bronzo o, più semplicemente, di terracotta. Le rappresentazioni più tipiche sono quelle dei Tīrthaṃkara, che però gli occidentali giudicano atteggiati in pose rigide e inespressive. Il fatto è che, seduti o in piedi, si tratta sempre di personaggi ieratici, impassibili, assorti nella contemplazione, simbolo di pace interiore, come richiedono i canoni ai quali si devono conformare le loro immagini. Le pareti dei santuari sono spesso ornate da bassorilievi e abbellite da dipinti.
È tuttavia soprattutto dalle miniature che possiamo conoscere il talento originale dei pittori jaina, che si esprime all'inizio, nell'XI-XII secolo, nei manoscritti su palma, e poi più liberamente e abbondantemente, quando si diffonde l'uso della carta. Nell'antico 'stile indiano occidentale' del Gujarat i soggetti, certo convenzionali, sono trattati senza sdolcinatezza: i colori sono vivi, audacemente accostati, i personaggi animati, con visi fortemente caratterizzati.Nell'India occidentale anche gli ebanisti e gli scultori in legno hanno fatto meraviglie, come attestano architravi, incorniciature di finestre, pilastri, nonché piccoli templi interamente e finemente lavorati, talvolta con motivi influenzati, a partire dal XV secolo, dall'arte moghūl.
In breve, ricordare del jainismo solo il rigorismo sarebbe fargli torto. Pur attribuendo valore alle pratiche ascetiche (strumento del dominio di sé), esso ha incoraggiato i suoi fedeli a sviluppare le loro doti intellettuali e morali, ha saputo tener conto della diversità dei gusti, delle aspirazioni e delle possibilità individuali, ha proceduto con saggezza agli opportuni adattamenti, di modo che in esso si riflette la maggior parte degli aspetti della civiltà indiana. I jaina insistono sul rispetto della vita - la non violenza ha sempre occupato un posto importante nel loro sistema - tanto che oggi si considerano i primi e più ferventi difensori dell'ambiente. Essi conducono con determinazione questa crociata ecologica, insieme alla lotta contro il consumo della carne e per un regime vegetariano, e moltiplicano i passi e le iniziative concrete che testimoniano la loro sincerità: la breve Jain declaration on nature, pubblicata nel 1990, riassumendo la loro dottrina è insieme un atto di fede e un appello alla solidarietà universale. (V. anche Induismo; Religione).
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