Rousseau, Jean-Jacques
Il teorico del contratto sociale
Il filosofo svizzero Jean-Jacques Rousseau fu uno dei massimi protagonisti dell’Illuminismo. La sua teoria politica propose una riforma radicale del patto sociale, modellata sull’ideale della città antica e su una stretta connessione tra educazione e vita pubblica. In ambito morale Rousseau sostenne la bontà originaria dell’uomo, reso malvagio dalla società
Il racconto autobiografico affidato alle Confessioni e ai dialoghi Rousseau giudice di Jean-Jacques mostra come le traversie della sua vita e la sua indole ipersensibile siano essenziali per comprendere il retroscena del suo «sistema triste ma vero».
Nato a Ginevra nel 1712 da una famiglia di artigiani, Rousseau non svolse studi regolari. Nella sua gioventù avventurosa fu apprendista incisore prima di lasciare la città ed essere accolto a Torino in un ospizio, dove si convertì dal calvinismo al cattolicesimo. Dopo varie peregrinazioni nel 1742 esordì a Parigi come compositore e insegnante di musica, per poi passare a Venezia come segretario d’ambasciata. Di ritorno a Parigi nel 1745, entrò in contatto con Denis Diderot e Jean d’Alembert dai quali ebbe l’incarico di scrivere gli articoli di teoria musicale per l’Encyclopédie.
Come scrittore esordì trattando il quesito bandito dall’Accademia di Digione: «Se il rinascimento delle scienze e delle arti abbia giovato a migliorare i costumi». La risposta negativa – che gli valse il premio – è contenuta nel Discorso sulle scienze e le arti (1750), nel quale riprese con vibrante pathos l’antica argomentazione retorica sulla vanità del sapere e sui danni che le scienze recano alla morale e alla politica. Il Discorso suscitò una serie di repliche, mentre andavano in scena con successo il dramma pastorale in musica L’ indovino del villaggio e la commedia Narciso o l’amante di se stesso. Ormai celebre, sostenne la superiorità della musica italiana su quella francese nella rovente Querelle des bouffons.
Mentre faceva il segretario dell’ambasciatore francese a Venezia, Rousseau poté osservare «i difetti di quel governo tanto vantato» traendone la convinzione che «tutto dipende radicalmente dalla politica». Si pose allora tre domande: qual è la natura del governo più adatto a formare il popolo più virtuoso, quale tra le forme tradizionali di governo è per natura la migliore e, infine, in che cosa consiste la legge.
Meditò per molti anni sugli scritti dei filosofi greci e romani, sui trattati di teorici come Ugo Grozio, Samuel Pufendorf, Thomas Hobbes, John Locke, Montesquieu. Proiettò le sue letture sull’immagine nostalgica della natia Ginevra, la città-Stato di Calvino, che idealizzò come una nuova Roma, Atene o Sparta. Dal confronto tra diversi modelli reali o fittizi, dalla riflessione sulla legge di natura e sul giusnaturalismo, sullo stato di natura e sulle società primitive – e poi dall’incontro-scontro con la società francese di antico regime e con i filosofi parigini dell’Illuminismo – dedusse un «grande principio: la natura ha fatto l’uomo felice e buono, ma la società lo deprava e lo rende miserabile». Ne nacque il progetto politico ed educativo che disegna, come è stato detto, l’immagine di un nuovo Adamo per un nuovo paradiso terrestre.
Rousseau non ebbe mai timore di apparire eccentrico. Dopo aver raggiunto la notorietà si ritirò in solitudine a meditare nella foresta di Saint-Germain un secondo Discorso, in risposta a un altro concorso bandito dall’Accademia di Digione sul tema: «Qual è l’origine dell’ineguaglianza tra gli uomini? Essa è sancita dalla legge naturale?». La sua risposta – che non gli valse il premio – è contenuta nel Discorso sulle origini della diseguaglianza tra gli uomini (1754), nel quale egli denunciò il conflitto irrimediabile tra stato di natura e società civile, diritto naturale e diritto politico (leggi di natura). Nel suo attacco radicale alla società di antico regime tracciò una storia ipotetica dello sviluppo dell’umanità, sostenendo che le disuguaglianze sociali, economiche e politiche sono sproporzionate rispetto a quelle individuali: in altre parole, esse sono artificiali, arbitrarie, frutto di un patto ingiusto imposto da pochi individui astuti e spregiudicati ai popoli ignari.
Il contratto sociale teorizzato dai giusnaturalisti si riduceva al consenso estorto con l’inganno e con la violenza – un ‘patto iniquo’ consolidato mediante l’istituzione legale della proprietà privata – e finiva per giustificare la perdita della libertà originaria in nome del diritto. Rousseau pose così le basi della sua teoria dello Stato, che elaborò negli anni successivi lavorando al progetto di un trattato sulle Istituzioni politiche.
Intanto, in un’eloquente dedica del secondo Discorso tracciò l’immagine ideale di Ginevra come città giusta, democratica, saggia; fu allora reintegrato nei suoi diritti di cittadino e si riconvertì al calvinismo.
Nel 5° volume dell’Encyclopédie la voce Economia politica di Rousseau anticipava la sua teoria dello Stato. Le divergenze con gli enciclopedisti si approfondirono in questi scritti e nella replica all’articolo di d’Alembert su Ginevra, che dava un’immagine laica della città. Rousseau reagì con la Lettera a d’Alembert sugli spettacoli.
La rottura definitiva concluse una confusa vicenda sentimentale con Madame d’Houdetot, che fa da sfondo al romanzo epistolare Giulia o la nuova Eloisa. Al grande successo di quest’opera seguì lo scandalo del Contratto sociale e del romanzo pedagogico Emilio o dell’educazione, pubblicati entrambi nel 1762. L’arcivescovo di Parigi condannò questi scritti perché negavano il peccato originale e il primato della religione rivelata. Il parlamento di Parigi decretò l’arresto dell’autore e la messa al bando dei suoi libri, e altrettanto fece anche il governo di Ginevra. Rousseau rinunciò così ai suoi diritti di cittadino ginevrino, e nelle Lettere scritte dalla montagna sviluppò una bruciante requisitoria contro le violazioni della costituzione della città da parte dell’aristocrazia dominante.
Perseguitato a furor di popolo, Rousseau chiese asilo politico a Federico II di Prussia, poi si rifugiò in Inghilterra in casa del filosofo David Hume, ma anche questa amicizia in breve s’infranse. Mentre a Ginevra si erano create fazioni pro o contro Rousseau, i capi delle ribellioni nazionaliste di Corsica e Polonia gli chiesero di redigere due progetti di Costituzione per i loro paesi.
Rousseau trascorse gli ultimi anni in Francia, girovago, malato, spesso vittima di manie di persecuzione, dedicandosi alla botanica e alla stesura delle proprie memorie, che suscitarono violente reazioni. Morì presso Parigi nel 1778, e dopo la Rivoluzione le sue ceneri furono solennemente trasferite al Panthéon.
I problemi che Rousseau si era posto a Venezia trovano soluzione nel Contratto sociale nelle formule di un nuovo patto egualitario, in base al quale «si possano conservare con tutta la forza comune la persona e i beni di ciascun associato, e ognuno unendosi a tutti non obbedisca tuttavia che a sé stesso e resti libero come prima». Attraverso l’atto di associazione si forma un nuovo «io comune», che con la sua volontà dà forza di legge alle delibere successive. La legge è un atto della volontà generale che si pronuncia nell’assemblea del popolo, si esprime nel silenzio delle passioni e coincide con la retta ragione. È perciò impersonale e infallibile: «la voce del popolo è la voce di Dio»; essa sola è in grado di distinguere l’interesse generale dagli interessi individuali, e dunque non ha soltanto un valore morale di «volontà buona», ma ha anche un contenuto utilitario, perché il bene generale compendia il bene di ciascuno degli associati.
I teorici giusnaturalisti avevano sostenuto che l’atto di associazione comporta la rinunzia o la delega al sovrano della originaria libertà, sovranità, libertà di ciascuno. Rousseau sostiene che queste prerogative sono inalienabili, e chi vi rinunciasse rinuncerebbe anche alla propria qualità di uomo. Nello Stato che sorge dal patto egalitario, l’atto di «alienazione totale» alla comunità fa sì che ogni individuo «dandosi a tutti, non si dà a nessuno». Ancora, «la perfetta indipendenza da tutti gli altri coincide con l’estrema dipendenza dalla città» e, paradosso estremo, «chiunque rifiuterà di obbedire alla volontà generale vi sarà costretto dall’intero corpo, e sarà costretto ad essere libero». Queste formule, generalmente mal interpretate, nutrirono l’estremismo dei giacobini durante la Rivoluzione francese, e hanno procurato a Rousseau l’accusa di essere un precursore del totalitarismo del 20° secolo.