Rousseau, Jean-Jacques
Filosofo e scrittore francese, nato a Ginevra nel 1712 e morto a Ermenonville, Oise, nel 1778. Insieme a Montesquieu, R. è uno dei grandi lettori settecenteschi di Machiavelli.
Ne possedeva le opere in italiano e, con altri libri, le vendette, in un tempo sfortunato, in Inghilterra. Ammiratore incondizionato del Fiorentino, R. lo cita numerose volte in diverse opere, e, soprattutto, nel Contrat social (1762), dove è tra gli autori più menzionati e utilizzati. Né vuol sentir parlare di Anti-Machiavel; il giudizio su Federico II è sferzante: «ha dato inizio al suo machiavellismo, ricusando Machiavelli», scrive in una lettera. Anzi, R. pretende di essere il più profondo e sano interprete di M., «questo profondo politico», che «non ha avuto fin qui se non lettori superficiali e corrotti» (OEuvres complètes, éd. B. Gagnebin, M. Raymond, 3° vol., 1964, p. 1480). Con tutta la cautela, in quest’affermazione si trova almeno il segno di una grande passione e di un amore geloso. Tra i temi principali che R. riprende da M., o anche da M., c’è l’esaltazione dell’antica libertà repubblicana e delle condizioni che la resero possibile, a cominciare dalla «virtù», termine del tutto centrale anche in R., inteso come profonda connessione di cittadino e soldato, alta capacità civica e straordinario vigore militare, riposanti su un vivissimo amor di patria, su buone leggi e austeri costumi. Il modello eminente, nonostante il peso di Sparta, è costituito per entrambi da Roma repubblicana, virtuosa e padrona del mondo, «miracolo continuo» per secoli, esempio, di per sé irripetibile, a tutti i popoli liberi (OEuvres complètes, 3° vol., cit., p. 262; cfr. pp. 113, 257-58).
Il caratteristico punto di osservazione è dato, in entrambi, da una duplice frattura: quella di grandeur e décadence repubblicana, e quella che oppone il mondo antico ai moderni, giudicati quasi uniformemente spenti. Ciò pone, sia a M. sia a R., un non facile problema di «imitazione», parimenti giudicata possibile a partire dall’invarianza della natura umana (OEuvres complètes, 3° vol., cit., p. 956). R. apprezza il realismo di M., ed entrambi, paradossalmente, possono essere accomunati da una severa considerazione degli «uomini così come sono», nutrita di storia, dal senso acuto della possibilità di decadimento, dalla convinzione che, una volta corrotto, un popolo con difficoltà si riprende, o non si risolleva affatto. Se ciò pare singolare per il Contrat, è perché di solito ci si ferma al suo dominante impianto normativo, dimenticando il retroterra del Discours sur l’inégalité (1755) e lo scacco finale, per realismo, dell’intera costruzione.
Il Principe è visto da R. nel solco della tradizione per cui esso costituiva un libro au masque: «fingendo di dar lezioni ai re, ha dato grandi lezioni ai popoli. Il Principe di Machiavelli è il libro dei repubblicani» (OEuvres complètes, 3° vol., cit., p. 409; cfr. pp. 1480, 247). Non è ora il caso di ripercorrere il giudizio sul Principe «repubblicano». È una storia che arriva, prima di proseguire il suo corso, fino ai contemporanei di R.: Montesquieu (non però nell’Esprit des lois) e Diderot. Di fatto, del Principe R. sembra accogliere soltanto la condanna delle milizie mercenarie del cap. xiii, che del resto poteva essere ripresa da altre opere (ma si veda anche il giudizio su Carlo VIII e i principi italiani, OEuvres complètes, 3° vol., cit., p. 22). Tuttavia, quando R. stabilisce un’«opposizione», che i lettori «superficiali» non hanno visto, tra il Principe e i Discorsi, uniti all’«Histoire de Florence», esprime, sia pur nel segno di un minore fraintendimento, qualcosa di più e di diverso rispetto al Principe «repubblicano». Di fatto, sono i Discorsi per R., come già per Montesquieu, la grande opera di M. da cui attingere ispirazione; le Istorie fiorentine sono apprezzate, citate in due contesti importanti del Contrat, ma rivestono, in complesso, un ruolo minore.
Nel Discours sur les sciences et les arts (1750) nato dal nucleo «illuminante» della prosopopea di Fabrizio, e nelle risposte polemiche che gli tengon dietro, è fissato à jamais il quadro sia della grandezza repubblicana di Roma sia della sua decadenza. Le parole di Fabrizio contrappongono gli austeri costumi di un popolo fatto per «conquistare il mondo» e far «regnare la virtù», al lusso e alla corruzione della tarda Repubblica (OEuvres complètes, 3° vol., cit., pp. 14-15). Sui tempi e i modi della décadence, s’incontrano, con alcune differenze, numerosi punti di contatto tra R. e Machiavelli. Così nel giudizio su Cesare, fin dall’inizio qualificato da R. come «brigante», «scellerato», che ha «asservito il suo paese» (OEuvres complètes, 1° vol., 1959, pp. 23, 88), che certo era un topos nel dibattito repubblicano, come riguardo alle cause generali della «risoluzione della Republica», che R. attribuisce all’immane peso delle conquiste, alla corruzione e alla potenza politica degli eserciti. Ancor più interessante è un confronto circa l’inizio della decadenza nei due autori. Basti ricordare un passo, mai finora notato, che con evidenza testimonia in R. la messa a frutto di Discorsi I xxxvii:
i Romani videro la necessità delle leggi agrarie quando non era più tempo di stabilirle [...], distrussero alla fine la repubblica attraverso un mezzo che avrebbe dovuto conservarla: i Gracchi vollero togliere ai patrizi le loro terre, mentre si sarebbe dovuto impedire che le acquistassero. Il fatto è che il male era ormai incancrenito quando la legge fu infine proposta e non era più tempo di porvi rimedio (OEuvres complètes, 3° vol., cit., p. 937).
Un solo esempio può bastare a illustrare l’ideale della dura virtù civica: quello del primo Bruto che manda a morte i figli. Certamente, R. avrà seguito più fonti, ma innegabile pare la presenza di M. (Discorsi I xvi; III iii). Bruto merita «iscusa e non biasimo», proprio come Romolo fratricida di Discorsi I ix. Il caso di Bruto è quello che «più offende il nostro secolo», ma si trattava di salvare la Repubblica, e, si fosse il console comportato diversamente, facendo grazia, avrebbe posto un cattivo esempio, subito imitato dai suoi cittadini (OEuvres complètes, 3° vol., cit., pp. 88-89). Ancora nei suoi anni tardi, R. ricorderà che Bruto fu duro, ma «giusto» e «virtuoso» (OEuvres complètes, 4° vol., 1969, p. 1143). E Bruto è anche l’occasione per contrapporre la «religione de’ Romani» al cristianesimo. In due brevi Fragments politiques, a proposito dell’esempio di Bruto, R. si dice «irritato» dai «sarcasmi» di Agostino circa un «atto di virtù così bello e grande»; in realtà Agostino citava dall’Eneide (VI, 820-23), sia pur enfatizzando, rispetto all’intera tradizione, una lieve sfumatura («infelix») di riserva (De civitate Dei III 6). I padri della Chiesa, continua R., non hanno visto il male che facevano alla loro stessa causa, calpestando ciò che di più grande era stato prodotto dal coraggio e dall’onore degli antichi, virtuosi per grandezza dell’animo e del corpo; a forza di «voler innalzare la sublimità del cristianesimo hanno insegnato ai cristiani come diventare uomini vili e senza...» (OEuvres complètes, 3° vol., cit., p. 506).
L’interruzione del frammento si colma facilmente, ricorrendo al capitolo sulla religione civile del Contrat. Si legge qui dell’impossibilità, per contraddizione, di una «République chrétienne»: il cristianesimo predica solo «servitù e dipendenza», ha uno spirito «troppo favorevole alla tirannia perché essa non ne approfitti sempre»; i cristiani son fatti per essere «schiavi» (OEuvres complètes, 3° vol., cit., p. 467). Si trovano nel testo molte altre affermazioni che specificano questa convinzione, e tutte sembrano precisamente presupporre M., soprattutto Discorsi II ii. L’attacco più diretto è, per entrambi, alla Chiesa di Roma, «evidentemente malvagia» (OEuvres complètes, 3° vol., cit., p. 464). Del resto, R. aveva formulato uno sprezzante giudizio sulla condanna del Principe da parte della «Corte di Roma» (OEuvres complètes, 3° vol., cit., p. 1480). Ma sulla possibilità di riprendere la religione antica in età cristiana, l’imitazione trova un ostacolo, così in M., come, più apertamente, in R., alle prese con il difficilissimo tentativo di tenere insieme antica religione del cittadino e religione, evangelica e solo «spirituale», dell’uomo (OEuvres complètes, 3° vol., cit., pp. 468 e segg.).
Nel grande Discours sur l’inégalité, M. non è mai ricordato. Meritano tuttavia di essere richiamate non poche pagine (OEuvres complètes, 3° vol., cit., pp. 175 e segg.) che, di solito trascurate dagli interpreti, non sfuggirono all’occhio penetrante di Jean Starobinski (nota a OEuvres complètes, 3° vol., cit., p. 1359). Verso la fine del Discours, R. osserva che, con il «dispotismo», si tocca «l’ultimo termine dell’ineguaglianza e il punto estremo che chiude il cerchio, toccando il punto da cui siamo partiti» (OEuvres complètes, 3° vol., cit., p. 191; cfr. anche p. 439). Per una serie di ragioni, il «cerchio» sembra da riportare non direttamente a Polibio, ma a M. (Discorsi I ii). Certo, peculiare a R. è il fatto che il «cerchio», naturalisticamente chiuso, cominci e si concluda con la violenta corruzione dell’inégalité, ma, nel suo girare, il perenne circolo si svolge, in una connessione serrata di elementi economico-sociali e politici, attraverso le «forme di governo», che riprendono – senza miktè, cui R. è in generale contrario – la canonica successione dei governi, con la corruzione degli eredi: dalla monarchia elettiva all’aristocrazia e alla democrazia.
Veramente decisiva è nel Contrat la figura del legislatore, tematizzata in un capitolo cruciale (II 7). Memore di M. (Discorsi I xi e anche I x), R. assegna il «primo grado» a Numa rispetto a Romolo. Certo, Romolo gettò i «primi fondamenti», ma «Numa fu il vero fondatore di Roma» (OEuvres complètes, 3° vol., cit., pp. 956-59; cfr. pp. 499-500). Numa è sempre citato tra i sommi legislatori, con Licurgo e Mosè, visto in una prospettiva machiavelliana. Della citazione da Discorsi I xi, riportata in II 7, R. si sofferma, certo, sulla premessa generale, per cui «mai fu alcuno ordinatore di leggi straordinarie che non ricorresse a Dio», che è affermazione da lui altre volte ripetuta, persino con un calco lessicale (recourir). Ma l’attenzione maggiore è rivolta al seguito, là dove si dice che, senza il ricorso a Dio, il «prudente» legislatore non riuscirebbe a «persuadere ad altrui», e, una simile operazione, è possibile solo a uomini di «eccessiva» virtù, come lo stesso Savonarola. Tutto il finale di Contrat II 7 è dedicato a illustrare questa «difficoltà»: «non è da tutti far parlare gli dei», non è affatto facile convincere quelli che la saggezza umana non riuscirebbe a «scuotere». Il legislatore è sempre alle prese con il difficile scarto tra la sua «grande anima» e il «volgo». Qui si sente l’influenza di Discorsi I ix circa la necessità di esser solo nell’opera di «ordinazione». Divisi e presi dai loro interessi particolari, i «molti» non sarebbero mai in grado di fondare un «grande impero». Ma il legislatore di R. è, per un altro lato, diverso da quello di M., che ha pienissima «autorità», mentre nel Contrat è qualcosa come uno straordinario esperto di uomini e di leggi, privo di ogni positivo potere: «non è magistratura, non è sovranità». Siamo qui a un punto di crisi aperta del Contrat: R. s’accorge dell’insuperabile difficoltà di costituire il souverain, nella sua eminente funzione di fare leggi. Nel colmare questa lacuna, il legislatore dovrebbe al tempo stesso realizzare il disegno, caro a R. e introuvable nel Contrat, di «cambiare, per così dire, la natura umana». Ma forse la nostalgia di un legislatore nasce sempre in dürftiger Zeit.
Nel Contrat, la presenza di M. si avverte anche nei capitoli sulle istituzioni romane che occupano il corpo maggiore del libro quarto. In tema di dittatura, R. sembra riprendere temi caratteristici di Discorsi I xxxiv: il «moto tardo» delle repubbliche e la necessità di fronteggiare eventi imprevisti; l’elezione del dittatore «per vie ordinarie», per un «breve tempo» e per uno scopo definito; l’opposizione della dittatura al decemvirato (IV 6). Qualche eco machiavelliana si coglie anche a proposito della censura (IV 7); mentre il lungo e informato excursus sui comizi romani dipende più da fonti antiche e da Sigonio che non da M., il quale, del resto, quasi non si occupa del tema (IV 4). Ma la questione più interessante, nel rapporto di R. con M., è certamente quella del tribunato.
La «cacciata» dei Tarquini, si dice in III 10, instaurò sì la «République», ma nel vivo di un «conflit» tra la, pessima, «Aristocratie héréditaire» e la «Démocratie»; la vera forma del governo repubblicano «venne fissata, come ha dimostrato Machiavelli, solo con l’istituzione dei tribuni». Nonostante il giudizio sfavorevole di Montesquieu, il tribunato è visto da R., sulla scia di M., come un istituto altamente positivo: organo sacro, con il potere di veto, il compito di conservare le leggi e di proteggere il popolo (IV 5).
R. vede bene la forte connessione machiavelliana tra «disunione» di plebe e senato, e creazione dei tribuni, cogliendo altresì, nel tribunato, la forma istitutiva della specifica forma repubblicana di Roma. Dopo di ciò, tuttavia, le strade si separano, e in R. manca la decisività del conflitto tra gli ordini nella storia repubblicana. R. sembra prendere in maniera estensiva la tesi di M. sul popolo depositario della «guardia della libertà». La conflittuale repubblica che precedette il tribunato fu difettosa perché non si abolì il «patriciat»; ma, dopo i tribuni, si ebbe a Roma una «véritable Démocratie», dove il popolo era veramente «Souverain», mentre senato e consoli avevano un ruolo subordinato (OEuvres complètes, 3° vol., cit., pp. 421-22). La linea interpretativa, del resto, non è ignara del problema, e cerca di risolverlo a suo modo. A Roma, i due «ordres» facevano parte della «constitution», e producevano, tuttavia, turbolente «querelles». Ma allora, dice R., c’erano «due Stati in uno» (un concetto non estraneo alla moderna storiografia romana), e ciò che non era vero per l’intero, valeva per ciascuna parte, sebbene i «plebisciti del popolo» sembrano ricomporre questa divisione (OEuvres complètes, 3° vol., cit., p. 439). Non è nemmeno il caso ora di rilevare la parzialità e l’ingegnosità di questa lettura di M., che vede nella repubblica solo lo stato popolare. Ma, di contro, è pure rilevante la valorizzazione di quell’elemento popolare nella storia repubblicana, che, centrale comunque in M., viene oggi riscoperto dalla storiografia romana.
Il tema dei conflitti si ritrova altresì, al centro del Contrat, in due citazioni dalle Istorie fiorentine. Nel capitolo più delicato dell’opera (II 3), volto a spiegare come si formi la volontà generale, si trova una citazione puntuale di M., a proposito delle divisioni che «giovano» e di quelle che «nuocono», perché «sono dalle sette e dai partigiani accompagnate» (Istorie fiorentine VII i); mentre, in una lunga nota a III 9, dipanata tra gli amati Tacito e M., ormai dioscuri, si trova una citazione, più libera, dal proemio alle Istorie, là dove si dice che i fiorentini, nonostante le terribili conseguenze delle loro «divisioni», divennero più grandi, tanta era la loro virtù di «ingegno e animo». Abbiamo un piccolo puzzle, che qui non possiamo affrontare. Difficilissimo il capitolo di R., crux di ogni interpretazione, problematica la nota, e molto ardui altresì i due testi di M., riesce nient’affatto agevole tenerli assieme. Una sola cosa è forse incontestabile: R. conosce la centralità dei conflitti nel pensiero di M.: se ne serve, li neutralizza, li ritrovaal fondo dei suoi pensieri. È facile dire, con molti interpreti, che, impegnato in II 3 in una dura polemica contro le «associations partielles», R. si sia volto a
M. per trovare un parziale conforto nelle sole divisioni che «nuocono». In realtà, in II 3, R. è a sua volta impegnato con il tema del «conflitto», riguardo alla formazione della volontà generale. Ma, nume tutelare anche nei momenti difficili, cosa più significativa di generiche evocazioni, M. sembra alla fine lontano dal puro impianto normativo del Contrat, che conosce sì la drammatica lotta all’interno dell’io diviso tra volontà generale e particolare, ma mai tra «corpi» organizzati, che rovinerebbero l’ideale di una comunità unitaria e compatta. Al fondo, e in breve, forse si dovrebbe dire che R., pur possedendo un acuto senso del conflitto sociale e politico, si rivolge nel Contrat a una società «monoclasse», come oggi dicono i sociologi, mentre M. lavora vigorosamente su una società «pluriclasse».
Bibliografia: OEuvres complètes, éd. B. Gagnebin, M. Raymond, 5 voll., Paris 1959-1995; Correspondance complète, éd. R.A. Leigh, 52 voll., Genève-Oxford 1965-1989.
Per gli studi critici si vedano: Y. Lévy, Les parties et la démocratie, «Le contrat social», 1959, 2, pp. 79-86 e 4, pp. 217-21; Y. Lévy, Machiavel et Rousseau, «Le contrat social», 1962, 3, pp. 16974; P. Cucchi, Rousseau lecteur de Machiavel, in Jean-Jacques Rousseau et son temps, éd. M. Launay, Paris 1969, pp. 17-35; R. Payot, J.-J. Rousseau et Machiavel, «Les études philosophiques», 1971, pp. 209-23; P.M. Vernes, N. Machiavel chez J.-J. Rousseau, in Actes du colloque franco-italien de philosophie, Nice 1977, pp. 7789; L.A. McKenzie, Rousseau’s debate with Machiavelli in the Social contract, «Journal of the history of ideas», 1982, 2, pp. 209-28; J. Maciulli, The armed founder versus the Catonic hero. Machiavelli and Rousseau on popular leadership, «Interpretation», 1986, 14, pp. 265-80; M. Viroli, Machiavelli e Rousseau, «Teoria politica», 1988, 1, pp. 29-42; M. Viroli, Republic and politics in Machiavelli and Rousseau, «History of political thought», 1989, 10, pp. 405-20; A. Jourdan, Le Machiavel de Rousseau: politique et religion, in Machiavelli: figure-reputation, éd. J. Leerssen, M. Spiering, Amsterdam-Atlanta 1996, pp. 63-93; Dictionnaire de Jean-Jacques Rousseau, éd. R. Trousson, F.S. Eigeldinger, Paris 1996 (in partic. M. Reale, Volonté; P. Sosso, Machiavel); R.W. Grant, Hypocrisy and integrity. Machiavel, Rousseau, and the ethics of politics, Chicago 1997; F. Del Lucchese, Freedom, equality, and conflict: Rousseau on Machiavelli, «History of political thought», 2014, 1, pp. 29-49.