Kennedy, John Fitzgerald
Una speranza infranta dall’assassinio
Presidente degli Stati Uniti dal 1961 al 1963, Kennedy fu al potere negli anni in cui capo dell’Unione Sovietica era Nikita S. Chruščëv e sul soglio papale regnava Giovanni XXIII. Per un verso incarnò con questi la speranza di un’era di pace, per l’altro si trovò a fronteggiare alcuni dei momenti più drammatici del confronto con i Sovietici. Fu assassinato quando il suo mito personale era al culmine
Nato nel 1917 a Brookline, nel Massachusetts, in una ricchissima famiglia di origine irlandese, valoroso combattente nella Seconda guerra mondiale, deputato democratico dal 1947 al 1953, senatore dal 1953, Kennedy vinse di stretta misura le elezioni presidenziali del 1960 in competizione con il repubblicano Richard Nixon, facendo appello alla necessità di aprire al paese una «nuova frontiera», attraverso nuove conquiste politiche e sociali. Fu il primo presidente cattolico, rompendo una tradizione che durava dalle origini degli Stati Uniti. Preoccupato dalla Rivoluzione cubana guidata da Fidel Castro – legato all’Unione Sovietica –, nel 1961 lanciò un programma di sostegno ai paesi latinoamericani detto Alleanza per il progresso. In quello stesso anno appoggiò un tentativo di invasione di Cuba da parte di esuli cubani, che finì in un clamoroso fallimento e dovette così affrontare una situazione di acuta tensione a Berlino con i Sovietici.
Lo scontro divenne drammatico, col rischio di una guerra nucleare, quando nell’ottobre 1962 Kennedy, dopo aver fatto attuare un blocco navale intorno a Cuba, chiese in maniera ultimativa a Chruščëv di ordinare il ritiro dei missili fatti installare nell’isola da quest’ultimo. Chruščëv accettò soltanto dopo che il presidente ebbe promesso di rinunciare definitivamente a ogni piano di invasione finalizzato a far crollare il regime di Castro. L’accordo rilanciò la possibilità di una relativa coesistenza tra le due superpotenze, ben consapevoli del pericolo che il mondo aveva corso.
Un passo gravido di conseguenze fu la decisione di Kennedy di promuovere un intervento via via più massiccio delle truppe americane in Vietnam, il cui corpo di spedizione fu portato a circa 30.000 uomini, ponendo le premesse di una escalation di drammatiche proporzioni. Fu l’inizio della guerra che si sarebbe conclusa nel 1975 con la sorprendente sconfitta degli Statunitensi.
In politica interna, Kennedy vide i propri progetti di riforme sociali e civili – sostenuti dal fratello Robert, da lui nominato ministro della Giustizia – smorzati dall’intransigente opposizione dei repubblicani, nonostante le risorse rese disponibili dal notevole sviluppo economico in atto nel paese. Un grande merito del giovane presidente, e di suo fratello, fu quello di aver coraggiosamente varato un nuovo corso teso a porre fine alle discriminazioni razziali nel Sud del paese, anche sotto la spinta dell’energica lotta condotta dai neri (King, Martin L.) per l’affermazione dei propri diritti civili e politici (che provocò in molti Stati meridionali un’ondata di protesta e di disordini, particolarmente acuti nel Mississippi).
Kennedy pagò con la vita i suoi propositi di riforma. Recatosi a Dallas, in Texas – uno dei centri tradizionalmente più virulenti dell’opposizione alla sua politica – per compiere un viaggio di propaganda in vista delle prossime elezioni, venne ucciso il 22 novembre 1963, mentre attraversava in macchina la città. L’inchiesta ufficiale diretta a rintracciare i responsabili materiali e politici pervenne a risultati quanto mai controversi, tali da non chiarire le modalità del complotto. Al presidente assassinato successe il vicepresidente Lyndon B. Johnson.