Maistre, Joseph de
Pensatore politico e diplomatico (Chambéry, Savoia, 1753 - Torino 1821).
Formatosi presso i gesuiti a Chambéry e laureatosi all’univ. di Torino in giurisprudenza nel 1772, M. entrò nel 1774 nella magistratura del Regno di Sardegna e nel 1788 venne nominato senatore. All’attività professionale unì un forte interesse per gli studi, che spaziano dal diritto alla filosofia, dalla storia alla letteratura, dalle scienze alla religione, con una costante attenzione al filone esoterico. Nel 1792, con l’invasione francese della Savoia, iniziava il suo esilio: dal 1799 al 1803 ricoprì, a Cagliari, la carica di reggente della Cancelleria di Sardegna; dal 1803 al 1817 fu ministro plenipotenziario presso la corte zarista di San Pietroburgo. In Russia acquisì notorietà ed esercitò, in alcune fasi, un certo influsso sullo zar Alessandro I, che tuttavia nel 1817 avrebbe sollecitato il suo richiamo a Torino. Rientrato nella capitale sabauda, nel 1818 venne nominato reggente della Grande cancelleria del Regno. Le sue opere principali sono: Étude sur la souveraineté (1794-96, incompiuto, pubbl. post., 1870); Considérations sur la France (1796; trad. it. Considerazioni sulla Francia); Essai sur le principe générateur des constitutions politiques et des autres institutions humaines (1814; trad. it. Saggio sul principio generatore delle costituzioni politiche); Du pape (1819; trad. it. Il papa); Soirées de Saint-Pétersbourg, ou Entretiens sur le gouvernement temporel de la providence (1821; trad. it. Le serate di Pietroburgo). Scritti e corrispondenza sono raccolti nelle Œuvres complètes (1884-1931).
La Rivoluzione francese rappresenta, per M., ciò che la guerra civile inglese fu per Hobbes: l’evento traumatico che sta all’origine della sua riflessione, il tema che torna ossessivamente nelle sue pagine. Inizialmente M. aveva visto nella convocazione degli Stati generali l’occasione per restituire alle antiche leggi del regno e ai tre ordini quel ruolo e quelle libertà che l’assolutismo regio aveva fortemente compresso. Ma ben presto si convinse, anche grazie alla lettura delle Reflections di Burke (➔), che la Rivoluzione mirava a un sovvertimento completo dell’ordine politico e spirituale, sovvertimento le cui radici stavano nella filosofia moderna e il cui obiettivo era la distruzione del cristianesimo: di qui la sua ‘apologia della tradizione’, che ne farà – insieme a Bonald (➔) – il principale esponente del pensiero controrivoluzionario.
«Quel che più colpisce nella Rivoluzione francese – scrive M. nelle Considérations – è questa forza travolgente che piega tutti gli ostacoli. Il suo turbine trasporta come fuscelli tutto ciò che la forza umana ha saputo opporle». Gli stessi leader rivoluzionari non sono che strumenti passivi, che pensano di guidare la Rivoluzione, ma in realtà sono usati da essa. In questo turbine di violenza e di crudeltà si rivela il carattere radicalmente malvagio («satanico») della Rivoluzione, ma – al tempo stesso – la sua funzione provvidenziale. Nella morte violenta di tutti i suoi capi e nelle immani sofferenze del popolo francese, portate all’estremo durante il Terrore, si può contemplare, afferma M., la mirabile opera della provvidenza, che, prendendosi «gioco dei voleri umani», crea l’ordine attraverso il disordine. Rivoluzione e Terrore sono il castigo che Dio ha inflitto alla Francia per essersi allontanata dalla sua missione di nazione cristiana: era necessario che i Francesi ‘assaporassero’ fino in fondo le amare conseguenze della Rivoluzione per disintossicarsi dal suo spirito, dominato dalla pretesa – tipica della filosofia moderna – di fare a meno di Dio, dell’autorità della Chiesa e della tradizione. Ma l’uomo, abbandonato a sé stesso, è ben poca cosa: la sua ragione individuale è una luce tremolante, che dopo aver considerato tutte le probabilità, interrogato la storia, discusso tutti i dubbi, lascia nelle sue mani, al posto della verità, soltanto una nebbia ingannatrice; e la sua volontà è cattiva, perché soggetta a un insaziabile desiderio di potere e a un’innata tendenza al male, frutto del peccato originale. Ecco perché nessuna istituzione stabile e durevole è il risultato delle deliberazioni umane: la ragione individuale genera soltanto opinioni divergenti e dispute, portando alla dissoluzione di qualsiasi vincolo (di qui la polemica di M. con la Riforma protestante, nel cui individualismo egli vede la lontana scaturigine della Rivoluzione). Gli uomini, per vivere, hanno bisogno di credenze e di pregiudizi, che costituiscono la ragione universale (la fede religiosa) e la ragione nazionale (il patriottismo): sono queste le sole forze che permettono ai popoli di affermarsi, e quindi di svilupparsi e conservarsi. La storia, che per M. è il laboratorio della scienza politica, ne offre innumerevoli prove.
Il male e la violenza, ineliminabilmente presenti nella realtà, richiedono l’istituzione della sovranità, il cui scopo è rimediare al disordine del mondo attraverso il castigo (di qui il celebre e controverso «elogio del boia», nel primo colloquio delle Serate di Pietrobrurgo). Ma la sovranità, così come la società e la costituzione, non sorgono su basi razionali e contrattualistiche: soltanto la filosofia moderna, che è totalmente incapace di comprendere la realtà concreta e drammatica della politica, può immaginare che un’assemblea possa costituire una nazione, un governo e una costituzione così come un operaio fabbrica un telaio. Popolo e sovranità, afferma M., nascono insieme, giacché ogni popolo è un’aggregazione e ogni aggregazione è tale soltanto intorno a un centro comune. Il primo uomo è stato re dei suoi figli e ciascuna famiglia fu governata alla stessa maniera; ma appena le famiglie vennero a contatto, fu loro necessario un sovrano e questo sovrano (che si impose in virtù di un riconoscimento naturale, carismatico) ne fece un popolo dando loro delle leggi. M. non nega che, in un certo senso, la sovranità sia fondata sul consenso umano: è infatti evidente che se un popolo rifiuta l’obbedienza, la sovranità sparisce ipso facto; ma questo significa soltanto che Dio si serve degli uomini per stabilire la sovranità. Quanto alle costituzioni, esse sono sempre il frutto di un processo spontaneo, dove la natura – o, per meglio dire, il suo Autore – realizza lentamente (attraverso i costumi e le circostanze) o rapidamente (attraverso individui eccezionali) un piano prefissato. Nella politica, così come nella storia e nella natura, esiste infatti un ordo rerum, retto dalla mano di Dio, rispetto al quale individui e popoli non sono che strumenti: «Siamo tutti legati al trono dell’Essere supremo con una catena leggera, che ci trattiene senza asservirci. L’azione degli esseri liberi sotto la mano divina è quanto di più ammirevole esista nell’ordine universale delle cose. Liberamente schiavi, essi operano secondo volontà e necessità insieme: fanno realmente quel che vogliono, ma senza poter disturbare i piani generali».
La controrivoluzione teorizzata da M. consiste nella restaurazione di una monarchia fondata su basi religiose, il cui potere sarà assoluto ma non arbitrario, giacché incontrerà i suoi limiti nell’autorità della Chiesa e nelle prerogative dei vari ordini, secondo un modello di rappresentanza profondamente diverso da quello del moderno parlamentarismo (afflitto, per M., dal particolarismo individualistico e dalle tendenze dispotiche insite nella sovranità popolare). Al fine di ripristinare la subordinazione del potere politico al potere spirituale, ferma restando la distinzione dei ruoli tra auctoritas e potestas (➔ autorità), M. ha sempre pensato a una riunificazione delle Chiese cristiane, servendosi, per un certo periodo, della diplomazia segreta della massoneria. Nel saggio Du pape indicherà nel pontefice romano l’autorità morale che avrebbe dovuto garantire il nuovo quadro politico dell’Europa, ponendosi come arbitro e mediatore di tutte le eventuali controversie tra gli Stati.
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