DO (Dose), Juan (Giovanni)
Nato presumibilmente a Valencia in Spagna intorno al 1604, vi trascorse certamente gli anni dell'infanzia e della prima adolescenza. Scarse e frammentarie sono le notizie sulla sua vita e sulla sua attività artistica. Nel 1616 fu ammesso al Colegio de pintores di Valencia, dove il suo nome è registrato dai documenti come "Juan Dose" (Tramoyeres Blasco, 1911, p. 521); l'allievo dovette pagare un supplemento di retta "per ser de reyne strany", forse perché figlio di uno scalpellino francese documentato a Valencia (Pérez Sanchez, 1985, pp. 120 s.). Nell'ambito di questa sorta di scuola-corporazione il pittore Jeronimo de Espinosa ebbe l'incarico della sua formazione.
Il 3 maggio 1626 il D. sposò a Napoli Grazia De Rosa, sorella del pittore Giovan Francesco, detto Pacecco; in questa occasione dichiarò l'età di 22 anni e sostenne di risiedere a Napoli già da tre anni (quindi all'incirca dal 1623).
Il D., qualificato in quest'occasione come "spagnolo", ebbe a testimone Filippo Vitale al momento di dare parola per il matrimonio, e scelse poi come testimoni di nozze Giovanni Battista Caracciolo e Jusepe de Ribera, detto lo Spagnoletto: ciò dimostra che a quella data egli era ormai pienamente inserito nell'ambiente dei pittori napoletani.
La prova che al D. fu riconosciuto un ruolo di maestro autonomo nella pittura napoletana del Seicento è dimostrata dalla presenza di dipinti non identificati, a lui attribuiti. negli inventari della collezione Vandeneynden, redatti nel 1688 da Luca Giordano (cfr. Ruotolo, 1982), e nella raccolta del duca di Limatola, inventariata nel 1725 da Nicola Maria Rossi e Francesco Manzini (Id., 1979). Nella prima era un "San Lorenzo alla graticola con altre figure", nella seconda "quattro quadri ... con i 4 Dottori della S. Chiesa" e un altro di ugual formato con "S. Agostino".
Un pagamento di 235 ducati ricevuto dal D. nel 1637, per dieci quadri non meglio precisati (Nappi, 1983), indica i tipici legami di un pittore professionista con ambienti di mercato o di collezionismo non necessariamente nobiliare, che commissionava anche a studi di pittori affermati grossi blocchi di copie o di dipinti di genere destinati a funzioni di arredo.
Il De Dominici (1743) include il D. tra gli allievi del Ribera, e osserva, sia nelle copie eseguite dall'allievo da opere del maestro, sia nei quadri eseguiti ex novo, una tale capacità di imitare i modi dello Spagnoletto da indurre molti in errore, "credendo le sue pitture per opere del Ribera". Nei dipinti eseguiti "operando da se", il De Dominici sottolinea poi la particolarità dell'incarnato, cui il D. diede "poca tinta di nero di carbone, e di lacca, ... che mirabilmente accorda nel bel impasto del suo colore ..."; ad esempio di questo procedimento cromatico, il biografo cita l'unico quadro unanimemente riconosciuto al pittore: la Natività della chiesa napoletana della Pietà dei Turchini, ora in deposito nel Museo di Capodimonte.
In quest'opera il D. si mostra relativamente poco influenzato da un rapporto di puro discepolato o di semplice aiuto dello studio di Ribera. Sembra invece propendere per una cultura iberica di stampo più arcaico e valenzano rispetto a quella elaborata a Napoli dal suo maestro, tutt'al più con qualche possibile punto di intersezione con le opere sivigliane di Velázquez. Alla Natività della Pietà dei Turchini, datata attorno al 1623 da F. Bologna (Ferrante, 1984, p. 259), Marini (1974) ha affiancato il Gesù fra i dottori, in collezione privata (Roma), che egli dichiara firmato: un'opera notevolmente più vicina alle ricerche del Ribera nella seconda metà degli anni Venti del sec. XVII.
Il De Dominici e le successive fonti napoletane ascrivono al D. un'altra Natività, già nella chiesa del Gesù e Maria di Napoli, che andò dispersa probabilmente alla fine dell'800 (cfr. Ferrante, 1984, p. 134). È disperso anche un Martirio dis. Bartolomeo, attribuito al D. ed esposto all'Esposizione nazionale di belle arti di Napoli del 1877. Il quadro, proveniente dalla raccolta della famiglia Carafa di Noja e segnalato dall'Ortolani (1938) come firmato, è una copia del Martirio di s. Bartolomeo del Ribera a palazzo Pitti (Firenze), di cui sono note anche altre repliche (Spinosa, 1978, p. 97, nn. 34, 34a; cfr. Ferrante, 1984, p. 134, cui si rimanda per altre attribuzioni respinte dalla critica).
All'attività di copista vicino al Ribera, e quindi anche in molti casi operoso su dipinti poi firmati dal maestro, accenna anche il De Dominici (1743); di essa darebbero prova le varie Adorazioni dei pastori (due redazioni all'Escorial, S. Lorenzo, di cui una firmata "Ribera" e datata 1640; una firmata "Ribera" e datata 1643 a Valencia, distrutta nel 1937; un'altra a Madrid, Real Academia de bellas artes de S. Fernando), secondo la critica di mano del D. o di entrambi i pittori (Spinosa, 1978). In questi dipinti si osserva quella particolare tinta di incarnato tipica del D. (De Dominici, 1743), che in effetti differenzia nettamente questo gruppo da dipinti certamente autografi della fase tarda del Ribera.
Un altro problema a cui è stato spesso collegato il D. è quello della sua ipotetica identificazione con il cosiddetto Maestro degli annunci ai pastori, un pittore ancora anonimo molto vicino ai modi sviluppati dal Ribera alla fine del terzo decennio del sec. XVII (cfr. in particolare Causa, 1984). Ma tale ipotesi è scarsamente credibile, innanzitutto per il fatto che dal punto di vista stilistico il Maestro degli annunci ai pastori appare sempre ben distinguibile dal Ribera, mentre in molti casi il mimetismo stilistico del D. rispetto al Ribera stesso dovrebbe essere tale da impedirne l'identificazione, e d'altra parte gli aspetti dello sviluppo stilistico del D. sinora noti non appaiono tali da avallare questa ipotesi. A riprova della complessità del problema va notato che Longhi ([1969] 1979, p. 110, figg. 150-151a-151b) tentò di collegare al D. un Cristo tra i dottori di collezione privata, che è invece più strettamente rapportabile alla cultura del Maestro degli annunci ai pastori.
Mentre appare chiaro che il D. fu figura non secondaria di un entourage che, come quello del Ribera, produsse in forti quantità sia copie sia declinazioni più o meno individualizzate delle opere del maestro, è anche evidente che la difficoltà a identificare i singoli componenti del gruppo si accentua alla luce dell'esigenza commerciale di garantire anche a prodotti di minor importanza le caratteristiche qualitative di un dipinto del Ribera. E ciò specie quando, alla metà degli anni Quaranta, quest'ultimo dovette affrontare lunghi periodi di grave infermità (Pacelli, 1979).
Il problema è certamente complicato dalla fitta rete di parentele contratte dal D. a seguito del matrimonio del 1626 con la sorella di Pacecco De Rosa. Questo elemento, oltre a far ipotizzare stretti rapporti operativi e imprenditoriali con una serie di pittori legati ad un'area per più versi collegata a Massimo Stanzione, ha portato anche a riconoscere caratteri comuni fra il D. e il cosiddetto Maestro di Bovino (cfr. Pugliese, 1983), un altro pittore sinora anonimo, stilisticamente all'incrocio tra la tendenza riberiana e quella di purismo stanzionesco rappresentata da Pacecco De Rosa. Peraltro nello stesso percorso di Pacecco De Rosa e di Filippo Vitale esistono effettivamente degli elementi che a volte fanno pensare a inclinazioni verso l'area di Ribera, ed è probabile che proprio il D. sia stato il tramite più adatto a favorire queste contaminazioni anche attraverso collaborazioni dirette.
Il D. appare dunque coinvolto nell'affascinante complessità di tutti i nodi che furono fondamentali per lo sviluppo della pittura napoletana della prima metà del Seicento, ed è pertanto consistente la possibilità che ampia parte della sua attività professionale, destinata a un mercato che raramente si incontrava con le grandi committenze pubbliche, sia rimasta mimetizzata tra opere attribuite ad alcuni dei maggiori maestri napoletani della prima metà del XVII secolo.
Il D. morì di peste a Napoli entro il 19 ott. 1656 (Prota Giurleo, 1951). Dei suoi cinque figli, Speranza si sposò attorno al 1658 con il pittore casertano Giuseppe Mauro (Id., 1953) e il 2 luglio 1661 Anna si unì in matrimonio con Michele Angelo Perrone, avendo per testimoni Andrea e Nicola Vaccaro (Salazar, 1896).
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