Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Filosofo della scienza e della politica, teorico della “società aperta” e critico dei totalitarismi di ogni orientamento, Karl Popper ha offerto l’esempio di una figura intellettuale capace di scorgere, nei princìpi della pratica scientifica, il segno di un atteggiamento antidogmatico che ha poi ispirato anche il suo impegno civile. Pur muovendosi in campi disparati, il filosofo austriaco ha saputo costruire una visione del mondo fortemente unitaria ma al contempo critica e problematizzante. Lo si scorge principalmente in ambito epistemologico, nella concezione del carattere congetturale delle teorie scientifiche e nell’idea della storia della scienza come processo infinito di “falsificazione” con cui lo scienziato mette alla prova le proprie ipotesi. Con lo stesso spirito, nelle riflessioni politiche, Popper condanna ogni forma di totalitarismo in nome di una società aperta, unita da ciò che consente di fare, più che da ciò che proibisce.
Vita di un intellettuale
Karl Raimund Popper nasce nel 1902 a Vienna. Cresce in un ambiente familiare “decidedly bookish” – come egli stesso lo definirà – e nell’atmosfera culturalmente stimolante della capitale mitteleuropea. L’anno decisivo per la sua formazione è il 1919, quando aderisce all’“Associazione degli studenti socialisti”: l’attrazione per il marxismo svanisce presto, ma resta la passione per i risvolti sociopolitici della scienza, che costituirà una costante della sua attività intellettuale. In quello stesso anno assiste a una conferenza di Einstein e resta affascinato dalle questioni epistemologiche della nuova fisica. Pur non facendone mai parte, Popper entra in contatto con alcuni membri del Circolo di Vienna (Schlick, Carnap, Reichenbach) ed è attraverso un confronto critico con le loro posizioni che elabora le idee forti della propria epistemologia. Risultato di queste ricerche è la Logik der Forschung (trad. it. Logica della scoperta scientifica, 1970), pubblicata nel 1934.
Il clima di crescente intolleranza causato dall’avvento del nazismo – la famiglia di Popper era di origini ebraiche – lo spinge a trasferirsi nel 1937 in Nuova Zelanda, dove insegna all’Università di Canterbury. Dopo la guerra tiene la cattedra di Logica e metodologia della scienza alla London School of Economics. Sono gli anni della fama e di un’intensa attività, che spazia dalla filosofia della scienza alla storia del pensiero, dalla critica dei totalitarismi alla difesa della “società aperta”, fino agli interventi più recenti su media e televisione. Dopo il ritiro dall’insegnamento nel 1969 non viene meno il suo impegno intellettuale, fino alla morte, avvenuta a Croydon, nei pressi di Londra, nel settembre del 1994. Tra le opere, oltre alla già citata Logica della scoperta scientifica, sono da segnalare The Open Society and Its Enemies (1945; trad. it La società aperta e i suoi nemici, 1974), The Poverty of Historicism (1957; trad. it. La miseria dello storicismo, 1975) e Conjectures and Refutations (1963; trad. it. Congetture e confutazioni, 1972).
Teorie scientifiche e sistemi metafisici: la critica alla logica dell’induzione
La formazione di Popper avviene nel contesto di un dibattito epistemologico egemonizzato dal neopositivismo del Circolo di Vienna. Il movimento, pur tra oscillazioni e differenze, si contraddistingue per alcuni punti fermi: la presa di distanza dall’interpretazione convenzionalista delle leggi scientifiche e il ritorno ai fatti come fine ultimo della ricerca; la critica alla metafisica tradizionale; il principio induttivo di “verificazione” e il ricorso alla logica formale per la costruzione di un linguaggio rigorosamente scientifico.
L’incontro nel 1919 con la fisica di Einstein conduce il filosofo austriaco a individuare una fondamentale differenza tra questa e altre tre grandi teorie contemporanee: la psicoanalisi freudiana, la psicologia individuale di Adler e la teoria marxista della storia. Ai suoi occhi queste ultime, infatti, si presentano come sistemi metafisici, capaci di spiegare qualsiasi fatto e immuni da ogni possibilità di errore. Secondo Popper, il fatto che esse siano sempre vere non è tuttavia segno della loro verità, ma indice di un limite, che consiste nell’impossibilità di verificarne la corrispondenza con la realtà. Fatti di segno opposto possono essere ugualmente addotti per giustificarle o per confermarle. Esse sono più simili al mito che alla scienza, perché rispondono all’esigenza di una spiegazione totale e onnicomprensiva, in completo distacco dal piano della realtà empirica. Di tutt’altro tenore è la teoria della relatività: “Einstein” scrive Popper “era alla ricerca di esperienze cruciali, il cui accordo con le sue predizioni avrebbe senz’altro corroborato la sua teoria; mentre un disaccordo […] avrebbe dimostrato che la sua teoria era insostenibile. Sentivo che questo era il vero atteggiamento scientifico” (K. Popper, La ricerca non ha fine. Autobiografia intellettuale, Roma, Armando Editore, 1976, p. 40).
La Logica della scoperta scientifica e il metodo falsificazionista
In seguito, la posizione di Popper si porrà in esplicito contrasto con l’empirismo logico: il processo induttivo non ha fondamento logico, perché è esposto alla continua possibilità di essere confutato da un singolo fatto. L’affermazione “Tutti i cigni sono bianchi” non acquista maggiore verità dall’accumulo di enunciati singolari come “Questo cigno è bianco”, ma può essere smentita da un solo “Questo cigno è nero”. In tal modo viene a cadere anche il criterio di demarcazione tra scienza e metafisica, che i neopositivisti individuavano nella verificabilità empirica delle proposizioni scientifiche; e Popper può concluderne, lapidariamente, che “l’induzione non esiste”. Tuttavia, come criterio epistemologico, essa andrà sostituita da un altro principio che soddisfi l’esigenza, che il filosofo austriaco condivide con i neopositivisti, di mantenere agganciato il linguaggio scientifico ai fatti empirici.
Al principio di verificazione del metodo induttivo Popper sostituisce il criterio della “falsificabilità”. Esso risponde a una triplice esigenza: stabilire lo statuto epistemologico della scienza, fissare i parametri per distinguerla dalla metafisica, fornire una descrizione della reale pratica scientifica. Le scienze non hanno origine dalla raccolta induttiva dei fatti e non si concludono nella scoperta delle leggi eterne della natura: la ricerca dello scienziato parte da un complesso di problemi, per i quali egli formula delle congetture che poi mette alla prova, sia logicamente che empiricamente. Egli non va dunque alla ricerca dei fatti che possano confermare la sua teoria, ma di quei casi cruciali che potrebbero renderla falsa; e si muove non nell’ambito delle conseguenze più probabili della propria ipotesi, ma di quelle più improbabili. Rinunciando a ogni pretesa di verificare empiricamente e definitivamente le proprie teorie, la scienza si definisce come l’insieme delle proposizioni falsificabili. La sua natura, sostiene Popper, è più proibitiva che normativa: tende a una definizione ma solo per approssimazione infinita, attraverso processi di esclusione piuttosto che di inclusione. La storia della scienza sarà dunque una sequenza infinita di congetture; esse sono di volta in volta verificate e, se falsificate, sostituite da altre che meglio si accordano con l’esperienza perché più difficilmente falsificabili.
Dalla verità alla verosimiglianza
Sollecitato dalla teoria della verità del logico polacco Alfred Tarski, Popper si pone il problema di come sia possibile recuperare, se non il concetto di verità, quantomeno la sua funzione regolativa per misurare il valore delle ipotesi scientifiche. Per farlo, egli elabora una teoria della verità intesa come “verosimiglianza” fondata sulla distinzione tra contenuti di verità e contenuti di falsità. I primi sono gli enunciati che si generano come conseguenze logiche vere dalla teoria, i secondi costituiscono la classe degli enunciati che ne derivano come conseguenze false. La misura della verosimiglianza [Vs (a)] di una proposizione scientifica risulterà dal prodotto della sottrazione dei contenuti di falsità [Ctf (a)] dai contenuti di verità [Ctv (a)], secondo la formula: Vs (a) = Ctv (a) – Ctf (a). In questo modo diventa possibile operare una scelta tra teorie rivali e preferire quella con un maggior grado di verosimiglianza, cioè di approssimazione alla verità.
Il criterio di verosimiglianza consente a Popper di sostenere plausibilmente l’idea di un progresso nella storia della scienza. Esso non si misura in termini di aderenza o meno alla verità empirica, ma come accrescimento del grado di verosimiglianza delle teorie scientifiche. L’impresa scientifica è descritta dal filosofo austriaco attraverso la metafora di un edificio costruito su palafitte. Le fondamenta vengono piantate nel fondo della palude; il termine al quale ci si ferma tuttavia non corrisponde al raggiungimento di un basamento preesistente (la verità dei fatti), bensì alla decisione del tutto convenzionale di accettare quel livello come sufficiente per sostenere la struttura. Per questo, al criterio di verosimiglianza Popper fa corrispondere sul piano storico l’idea della verità come accordo convenzionale tra gli studiosi su alcuni asserti definiti “enunciati-base”. Un esempio di questi enunciati può essere “il sole sorge sempre”: sulla base di questa affermazione è possibile, in sistemi isolati, stabili e regolari, effettuare delle previsioni scientifiche, ma l’enunciato resta nondimeno indimostrabile empiricamente e, precisa Popper in un addendum del 1972 alla Logica della scoperta scientifica, “impregnato di teoria”. L’insieme di questi enunciati fornisce la base empirica delle scienze, salvando l’idea di una ricerca scientifica sempre tesa al progresso ma cosciente della necessità di una continua ridefinizione degli enunciati-base. Ciò non toglie che questa soluzione abbia prestato a sua volta il fianco a diverse critiche, come quelle di Anthony O’Hear e David Stove, che hanno rimproverato alla teoria degli enunciati-base uno slittamento verso l’induttivismo e una sconfessione della radicalità del metodo falsificazionista.
Con questa idea negoziale di verità, le questioni epistemologiche escono dall’ambito della pura metodologia per incrociare i risvolti storici e sociologici dell’impresa scientifica. Popper così coniuga metodo scientifico, storia della scienza e analisi della società. È su questo piano che muoverà tutta la “nuova filosofia della scienza” (Kuhn, Lakatos, Feyerabend, Laudan) che, dagli anni Cinquanta del secolo scorso, raccoglierà la sua eredità, soprattutto nella direzione di una sociologia della scienza.
La società aperta e i suoi nemici
Le idee guida della sua filosofia della scienza muovono anche la riflessione di Popper su storia e politica, affidata a testi quali Miseria dello storicismo e La società aperta e i suoi nemici. Nel primo, le critiche si concentrano su quello che Popper definisce, con una certa ambiguità, lo “storicismo”. Con questo termine egli intende una forma d’interpretazione della realtà segnata da residui metafisici come l’essenzialismo (la tendenza a spiegare ogni fenomeno attraverso il rimando a un fondamento immutabile della realtà) e l’olismo (l’abitudine a considerare le realtà sociali come una totalità irriducibile alle sue parti). I limiti di questa visione del mondo sono misurabili, sul piano politico, con il rifiuto storicista di confrontarsi con un progetto di riforme, parziali ma attuabili, per inseguire ideali utopistici di rivoluzione sociale. Sul piano della storia, essi si traducono nell’incapacità di cogliere la differenza tra leggi (rapporti universali riferibili ai fenomeni naturali, registrabili in sistemi stabili e regolari) e tendenze (proprie delle interpretazioni storiche che isolano fatti singolari sulla base di una particolare prospettiva scelta). Le scienze storiche devono prendere atto del proprio fondamentale indeterminismo: non esiste un senso della storia.
La società aperta e i suoi nemici traduce il fallibilismo epistemologico in termini di architettura politica e sociale. Non esiste una società perfetta e si può parlare solo di approssimazioni progressive a una società sempre perfettibile. Come nella teoria falsificazionista l’obiettivo non è la verità ma rendere possibile la verifica delle ipotesi scientifiche, così la teoria politica popperiana è fondata sulle procedure per controllare l’operato delle istituzioni politiche. La società aperta sarà dunque il prodotto di una “meccanica a spizzichi”, aperta a ipotesi politiche ad hoc, parziali e temporanee, nutrita dal pluralismo politico e dal valore del dissenso più che del consenso. Nonostante i tentativi di arruolarlo nelle fila di questo o quell’orientamento politico, Popper è sempre rimasto fedele all’idea di una “ingegneria gradualista” della società, lontana da utopie rivoluzionarie di qualsiasi colore e da ogni forma di totalitarismo, “categoria dello spirito” che Popper tende da Marx fino a Platone. La società aperta difende come valore primario la libertà personale e favorisce la crescita dello spirito critico, garantendo uno spazio comune dove possano convivere idee e tradizioni diverse. La libertà è un fine in se stessa, e qualsiasi forma di governo, anche quella democratica, non è che un mezzo, perfezionabile, per garantirla e difenderla. Per questo Popper ha richiamato l’attenzione sulle insidie nascoste nei meccanismi mediatici che regolano la circolazione dei saperi, anche nelle democrazie, come si evince dalla lettura del suo intervento nella raccolta Cattiva maestra televisione (1994).