Vedi Kenya dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
Il Kenya è per molti versi la potenza regionale egemone in Africa orientale: il paese più ricco in termine di reddito pro capite nella regione, partecipa attivamente ai processi di integrazione regionale e ne promuove lo sviluppo, con riferimento particolare sia alla Comunità dell’Africa orientale (Eac), che rappresenta il maggior mercato per le esportazioni manifatturiere kenyote, sia al Mercato comune per l’Africa orientale e meridionale (Comesa). Nairobi ha inoltre svolto un ruolo importante nei processi di pace dei vicini Sudan e Somalia, da un lato assumendo il ruolo di mediatore tra Juba e Khartoum, dall’altro promuovendo la creazione di un governo di transizione in Somalia, che vide la luce appunto a Nairobi nel 2004 e che nella città ha di fatto svolto gran parte del proprio mandato. La crisi somala rappresenta una delle principali fonti di rischio per la sicurezza kenyota, a causa del movimento islamico radicale Al-Shabaab, presente nella Somalia meridionale e le cui attività hanno un impatto negativo sulla sicurezza della regione nordorientale del Kenya, in ragione della porosità della frontiera tra i due paesi. Anche a causa delle incursioni delle milizie somale dentro i confini del Kenya, Nairobi ha autorizzato un’invasione militare della Somalia a partire dal 16 ottobre 2011, che ha portato degli importanti risultati militari, tra cui la conquista della città portuale di Kismayo e l’indebolimento delle forze islamiste, ma anche all’aumento della violenza di matrice terroristica all’interno dei confini del Kenya.
Le relazioni politiche ed economiche con gli Stati Uniti sono sempre state buone fin dall’indipendenza. Nairobi si è rivelata un alleato prezioso per Washington nella lotta al terrorismo fondamentalista che vede gli Usa impegnati nella regione, specie a seguito degli attentati alle ambasciate statunitensi in Kenya e Tanzania nel 1998. Il paese mantiene buone relazioni con i principali donatori internazionali e sta intensificando i rapporti con Cina, India e Sudafrica.
Ex colonia inglese indipendente del 1963, il Kenya è stato di fatto governato da un partito unico, la Kenya African National Union (Kanu), per circa quarant’anni, fino alle elezioni del 2002. Le elezioni presidenziali del 2007 hanno segnato una battuta d’arresto nel processo di consolidamento democratico del paese e sono state fonte di forte tensione interna: i sospetti di brogli e manipolazione, che hanno accompagnato la vittoria di Emilio Mwai Kibaki, sono sfociati in manifestazioni di violenza tra Kikuyu, Luo e altri gruppi etnici, costate più di 1500 morti e 300.000 sfollati. Kibaki, della coalizione Party of National Unity, ha così negoziato un accordo con Raila Odinga dello Orange Democratic Movement, suo principale rivale nelle elezioni, che ha portato nell’aprile 2008 alla formazione di un governo di coalizione e all’assegnazione della nuova carica di primo ministro proprio a Odinga. Nel 2008 una commissione di inchiesta sulle violenze post-elettorali (la Commissione Waki) ha richiesto l’intervento della Corte penale internazionale (Icc) per perseguire i responsabili delle violenze. Il processo ai quattro indiziati dovrebbe iniziare ad aprile 2013. Il 4 marzo 2013 si sono tenute le nuove elezioni presidenziali. Kibaki, giunto al termine dei due mandati, ha dovuto lasciare spazio a una nuova generazione di politici: Odinga e Uhuru Kenyatta sono i due candidati in disputa nella corsa alle presidenziali e si teme che il risultato finale delle elezioni non venga riconosciuto dalle parti.
Nel 2010 è stata approvata dal Parlamento e da un referendum popolare una nuova Costituzione che mantiene il sistema presidenziale, ma prevede la devoluzione di alcuni poteri e prerogative a livello locale, la creazione di una camera alta del Parlamento al fine di monitorare la gestione degli affari locali, l’introduzione di una Carta dei diritti, l’istituzione di una Corte suprema e l’abolizione della posizione di primo ministro. Il nuovo testo ha previsto la creazione di una commissione indipendente per risolvere l’annosa questione delle riforme terriere.
Popolazione, società e diritti
La popolazione kenyota è composta da più di 40 gruppi etnici. I Kikuyu rappresentano il gruppo maggioritario (22%), seguiti da numerosi altri gruppi quali i Luhya (14%), i Luo (13%), i Kalnjin (12%) e i Kamba (11%). La divisione etnica si riflette sulla politica e sull’economia (le controversie per i terreni spesso sono legate a conflitti etnici) e le tensioni tra etnie sono piuttosto frequenti e suscettibili di sfociare in episodi di violenza. Il Kenya ospita, inoltre, circa 400.000 rifugiati, prevalentemente dalla Somalia ma anche da Etiopia e Sudan meridionale – il numero è cresciuto in seguito alla carestia che ha colpito il Corno d’Africa nel 2011. L’80% circa dei kenyoti è cristiano, ma vi è una significativa minoranza musulmana che rappresenta circa il 10% della popolazione. Il paese ha riconosciuto ufficialmente i tribunali Kadhi che applicano la Sharia per alcuni aspetti, come i matrimoni e le successioni, nelle aree dove la popolazione musulmana è maggioritaria.
Il tasso di crescita della popolazione sta diminuendo (2,7%) a causa di vari fattori tra i quali l’urbanizzazione e la diffusione dell’Hiv, la cui incidenza nel 2011 era del 6,3%. Tale fenomeno comporta costi elevati per la sanità nazionale e vede il governo impegnato da anni in politiche di sensibilizzazione e prevenzione che hanno effettivamente ridotto l’incidenza della malattia – che raggiungeva il 14% ancora alla metà degli anni Novanta.
Nel 2002 il governo, guidato dalla National Rainbow Coalition (Narc), ha reso gratuita la scuola primaria, portando il tasso netto di scolarizzazione dal 61% del 2002 all’82,3% del 2009. Il tasso relativo alla scuola secondaria registra percentuali inferiori, sebbene anch’esso sia passato dal 35% al 50% nel medesimo periodo. Il tasso di alfabetizzazione degli adulti è dell’87%, più elevato rispetto agli altri membri Eac.
La libertà di espressione nel paese è generalmente rispettata e i media kenyoti si dimostrano tra i più attivi del continente africano. Vi sono però alcune episodiche restrizioni della libertà di stampa, come nel caso del periodo successivo alle elezioni del 2007, durante il quale le autorità imposero un temporaneo divieto di trasmissioni in diretta.
La corruzione, infine, coinvolge tutti i rami dell’amministrazione pubblica e interviene nel rapporto tra pubblico e privato, rappresenta un freno tanto per il raggiungimento di uno stato di diritto compiuto, quanto per il decollo di un processo costante di sviluppo economico. Il Kenya è 154esimo su 183 nell’Indice di corruzione percepito di Transparency International del 2011, al terz’ultimo posto tra i paesi della regione (prima di Sudan e Somalia).
Economia ed energia
Nonostante nel 2008 la crisi economica internazionale e i disordini interni ne abbiamo rallentato la progressione (con tassi relativi al biennio 2008-09 pari all’1,6% e al 2,6%), l’economia kenyota sembra essere ripartita, segnando una crescita del 5% nel 2011 e con stime per i prossimi anni che la vedono in ulteriore incremento.
Il settore formale è ridotto e comprende il comparto manifatturiero, quello della lavorazione e dell’esportazione di prodotti di base e quello di servizi come il turismo. La maggior parte della popolazione è invece impiegata nel settore informale e nell’agricoltura di sussistenza. La povertà e le disuguaglianze sono diffuse, così come la disoccupazione: secondo stime calcolate dalla Banca mondiale, infatti, al 2005 circa il 40% della popolazione kenyota viveva con meno di 2 dollari al giorno. Una percentuale quindi rilevante, sebbene molto al di sotto dei trend regionali.
L’agricoltura conta per il 23,1% del pil e fornisce i principali prodotti esportati, quali tè e prodotti ortofrutticoli, seguiti da caffè e pesce. Benché il settore abbia beneficiato di riforme quali la liberalizzazione del mercato del tè, l’agricoltura resta vulnerabile al clima ed è frequentemente colpita dal problema della siccità. Il settore manifatturiero è dominato dalla comunità asiatica e si concentra su agroalimentare e tessile. A livello regionale, il Kenya è il paese più industrializzato dell’Africa orientale: è il maggiore esportatore di manufatti nell’ambito dell’Eac, mentre le sue esportazioni verso Stati Uniti e Unione Europea riguardano soprattutto prodotti di base. Il settore dei servizi conta per il 57,7% del pil ed è il principale motore di sviluppo dell’economia nazionale: turismo in primis, che offre safari nei parchi naturali e può contare sulle spiagge della costa, in particolare quelle di Mombasa, ma anche il settore delle telecomunicazioni, che negli ultimi anni ha registrato una crescita molto significativa.
L’afflusso di rimesse rappresenta una risorsa fondamentale per l’economia nazionale, mentre l’attrazione di investimenti esteri nel paese è resa difficoltosa da diversi fattori, tra i quali l’inadeguatezza delle infrastrutture e un diffuso livello di corruzione, seppur inferiore alla media dell’Africa sub-sahariana.
Il Kenya produce più dell’80% dell’energia che consuma, generata per più del 90% dalla combustione di legname. Importa invece petrolio, che rappresenta il 16% del suo consumo totale. Quest’ultimo è usato per l’energia necessaria al settore commerciale, mentre le biomasse sono la fonte primaria delle comunità rurali e delle periferie urbane. Le interruzioni di elettricità sono frequenti, soprattutto a causa della dipendenza dall’energia idroelettrica, e la percentuale di accesso nazionale all’elettricità è bassa (16,1% nel 2009). Al fine di migliorare le infrastrutture e incentivare lo sviluppo economico il governo sta finanziando l’ampliamento della fornitura di elettricità nelle zone rurali e in particolare nelle scuole secondarie e centri sanitari.
Difesa e sicurezza
In Kenya la criminalità è molto diffusa e riflette diversi problemi che interessano il sistema sociale e politico del paese. Tra questi, il principale resta quello della la povertà diffusa, ma non meno rilevanti sono anche la larga disponibilità di armi leggere, i conflitti legati alla spartizione di potere politico e risorse economiche, e ancora un apparato di sicurezza non ancora adeguato.
Essendo stato colpito direttamente da attentati terroristici di matrice islamica, il Kenya è fermamente impegnato, al fianco degli Stati Uniti, nella lotta al terrorismo fondamentalista nella regione: un impegno che Washington sostiene tanto con finanziamenti economici, quanto con programmi di addestramento e cooperazione militare tra le sue forze armate e quelle di Nairobi.
Il Kenya spende circa l’1,9% del pil per il settore militare e mantiene un esercito di circa 24.000 effettivi. Le missioni di peacekeeping internazionale a cui il paese partecipa sono quelle delle Nazioni Unite in Sudan (Unmis) e in Darfur (Unamid), dato che evidenzia il forte interesse del paese per la stabilità della propria regione di appartenenza. Il paese partecipa inoltre all’operazione ‘Linda Nchi’ (Protect the Country), insieme agli eserciti etiopico, somalo, francese e con copertura degli Stati Uniti, all’interno del territorio somalo, con l’obiettivo marginalizzare e sconfiggere definitivamente le milizie di Al-Shaabab.
Nel 2007 il governo ha pubblicato una strategia di sviluppo, denominata Vision 2030, che si pone come obiettivo di garantire un’elevata qualità della vita ai suoi cittadini in un ambiente sicuro e con standard di vita adeguati. Una strategia che mira al raggiungimento degli ‘Obiettivi di sviluppo del millennio’ delle Nazioni Unite attraverso un programma basato su tre pilastri. In base al primo, di natura economica, il Kenya dovrebbe crescere del 10% dal 2012 al 2030, generando le risorse necessarie al conseguimento degli Obiettivi; il secondo, sociale, è finalizzato alla creazione di uno sviluppo equo in un ambiente più sicuro; il terzo, politico, è finalizzato alla realizzazione di un sistema democratico responsabile, incentrato sulle persone e orientato ai risultati. Tra gli obiettivi prioritari figurano la stabilità macroeconomica, la continuità nelle riforme della governance politica, la modernizzazione del settore pubblico, la creazione di opportunità per combattere la povertà, miglioramenti nelle infrastrutture e ancora un nuovo piano energetico, investimenti in innovazione, l’attuazione di riforme terriere e l’adozione di misure per garantire livelli più elevati di sicurezza.