Kosovo
La difficile missione di pacificare la 'polveriera d'Europa'
Un anno dopo: la ricostruzione materiale e politica
di Bernard Kouchner
28 ottobre
Il Kosovo, che è sotto l'amministrazione provvisoria di una missione internazionale, coordinata da Bernard Kouchner, Rappresentante speciale del Segretario generale dell'ONU, è chiamato alle urne per le elezioni amministrative. Sono le prime votazioni che si tengono dalla fine della guerra del 1999 ed è grande il loro valore politico e simbolico. I 100.000 serbi che abitano nella provincia boicottano le urne, mentre un'affluenza altissima si registra fra gli albanesi, che costituiscono il 90% della popolazione. Il 58,1% dei voti va all'LDK del leader moderato Ibrahim Rugova.
La missione dell'ONU
Dopo settantotto giorni dal primo attacco aereo della NATO, il 9 giugno 1999 la firma a Kumanovo, nella ex Repubblica iugoslava della Macedonia, dell'accordo tecnico-militare fra la Forza internazionale di sicurezza (KFOR) e i governi della Repubblica federale iugoslava e della Serbia sancisce il ritiro delle forze iugoslave dal Kosovo.
Il Kosovo deve ricominciare da zero, anzi da sotto zero, per ricostruire quanto distrutto, materialmente e spiritualmente, negli oltre dieci anni di repressione culminati nella guerra. La provincia è in preda alla violenza, uno scenario di caos, rovina economica, distruzioni massicce, vendette irrefrenabili. Oltre 100.000 abitazioni sono state distrutte o gravemente danneggiate, la rete stradale e le infrastrutture sono vicine al collasso. L'esercito serbo ritirandosi porta con sé anche tutti i veicoli pubblici destinati a usi civili (autobus, camion per la raccolta d'immondizie, betoniere, gru ecc.), le attrezzature industriali mobili e la documentazione tecnica, e lascia ampi spazi del territorio cosparsi di mine e di altri congegni di morte. Dirigenti e tecnici serbi fuggono e al loro posto vengono insediati dall'esercito di liberazione cittadini albanesi, spesso meritevoli dal punto di vista patriottico, ma non necessariamente capaci sul piano professionale. La violenza sembra non voglia placarsi: alle razzie dei paramilitari e dei sostenitori del regime di Belgrado, si sostituiscono le aggressioni indiscriminate contro tutti i membri della comunità serba e degli altri gruppi etnici ritenuti suoi simpatizzanti. Con un meccanismo perverso, e purtroppo frequente a livello sia individuale sia collettivo, le vittime diventano oppressori. Intanto, circa 850.000 del milione di albanesi fuggiti dal Kosovo nei mesi precedenti decidono di rientrare immediatamente nella loro terra.
Occorre mettere in atto interventi di emergenza e aiuto umanitario per le famiglie rimaste senza tetto e allo stesso tempo condurre un'azione decisa per il ristabilimento della sicurezza e dell'ordine. Si devono ricostruire o restaurare tutte le infrastrutture, ma è ugualmente urgente creare le istituzioni democratiche e gli strumenti politici per un'amministrazione autonoma.
Per fare fronte a questo arduo compito il 10 giugno 1999 il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite approva la Risoluzione 1244, che istituisce la Missione dell'ONU per l'amministrazione provvisoria del Kosovo (UNMIK). La missione ha l'incarico di intraprendere il lungo processo per il ristabilimento della pace, dell'ordine e della democrazia, e di assistere la provincia nella creazione di un autogoverno all'interno della Repubblica federale iugoslava, di cui è ancora parte. Al fianco dell'UNMIK si schiera la KFOR, una forza militare di pace composta da contingenti dei paesi della NATO (Belgio, Canada, Francia, Danimarca, Germania, Grecia, Islanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Repubblica Ceca, Regno Unito, Spagna, Stati Uniti, Turchia, Ungheria) e di altri sedici Stati (Argentina, Austria, Azerbaigian, Emirati arabi uniti, Finlandia, Georgia, Giordania, Irlanda, Lituania, Marocco, Russia, Slovacchia, Slovenia, Svezia, Svizzera, Ucraina).
Per la prima volta nella storia del mantenimento della pace, una missione ONU non dovrà limitarsi a controllare responsabili e autorità locali, ma dovrà amministrare direttamente il territorio della provincia, assicurando il rispetto delle leggi e l'ordine pubblico. La Risoluzione 1244 enumera chiaramente i compiti dell'UNMIK: gestire la pubblica amministrazione; promuovere una sostanziale autonomia e l'autogoverno del Kosovo; coordinare gli interventi umanitari internazionali per fare fronte all'emergenza; intraprendere la ricostruzione delle infrastrutture di base; mantenere l'ordine pubblico e assicurare il rispetto delle leggi; garantire che siano salvaguardati i diritti umani.
L'UNMIK è costituita da quattro pilastri che formano un'ambiziosa e articolata struttura, basata sulla collaborazione di quattro organizzazioni intergovernative: l'Alto commissariato dell'ONU per i rifugiati si occupa degli aiuti umanitari; l'ONU dell'amministrazione civile; l'OSCE del processo di democratizzazione della società civile; l'Unione europea della ricostruzione. L'autorità massima di questa struttura è il Rappresentante speciale del Segretario generale dell'ONU.
Il territorio amministrativo del Kosovo è suddiviso in cinque regioni, ognuna delle quali fa capo a una brigata multinazionale (MNB) della KFOR. Le regioni sono: Pristina (MNB Regno Unito), Pec/Peja (MNB Italia), Gnjilane (MNB USA), Prizren (MNB Germania), Mitrovica (MNB Francia). Fra le regioni vengono ripartite le trenta municipalità kosovare, ognuna delle quali è costituita da una città e da un certo numero (a volte qualche decina) di villaggi.
Gli interventi di emergenza
Nei primi sei mesi, l'UNMIK, in cooperazione con altre organizzazioni internazionali e con circa trecento organizzazioni non governative, deve far fronte al problema abitativo reso ancora più urgente dall'avvicinarsi dell'inverno: oltre alle abitazioni distrutte durante il conflitto, c'è circa un milione di profughi rientrati in patria, molti dei quali privi di casa. Alla fine dell'inverno 2000, il bilancio è positivo. Un ampio programma di alloggi temporanei (restauri provvisori, ostelli, tende termiche, prefabbricati) raggiunge 700.000 persone: nessuno rimane senza tetto o muore di freddo durante un inverno particolarmente rigido, con temperature oltre i 30 °C sotto zero. Razioni alimentari e altri generi di base sono giornalmente distribuiti a 900.000 persone (circa la metà della popolazione). Un regolare rifornimento di legna da ardere o carbone viene assicurato a 27.000 famiglie in condizioni di particolare indigenza. Sussidi mensili sono erogati a oltre 80.000 famiglie bisognose, per un totale di 30.000.000 di marchi tedeschi.
Nel frattempo comincia la ricostruzione. Si ispezionano oltre 120.000 case, distrutte o danneggiate, e si stabiliscono i criteri per finanziare la ricostruzione di quelle appartenenti alle famiglie bisognose, in modo da approntare per la fine del 2000 circa 35.000 abitazioni. Si inizia la riparazione delle reti stradale e ferroviaria; vengono costruiti (grazie all'intervento del Genio italiano) ponti provvisori e si sistemano oltre 300 km di strade. Si pone mano alla riparazione delle reti dei servizi pubblici (acqua, elettricità, fognature) e si riavviano la raccolta e lo smaltimento delle immondizie. Si riabilita il sistema sanitario, restaurando i cinque ospedali regionali e i ventinove municipali, oltre a trecento ambulatori nelle zone rurali; inoltre si provvede a riattrezzare i laboratori di analisi, a riarredare i reparti e a dotare gli edifici di generatori per assicurare il riscaldamento dei reparti neonatali e di rianimazione durante i frequenti periodi di interruzione dell'elettricità. A novembre 1999, con soli due mesi di ritardo sul normale calendario, riaprono le scuole: è stato necessario ricostruire circa la metà dei 1000 edifici scolastici, e riammobiliarli e riattrezzarli tutti. Contemporaneamente, inizia la bonifica dei terreni minati; in un anno, circa 1.100.000 m2 di terreno, 16.112 case e tutte le scuole risultano sminati: 3400 mine antipersona, circa 3800 anticarro, oltre 3000 bombe a frammentazione e più di 9300 ordigni di vario tipo sono stati individuati e fatti brillare.
Tornare a una vita normale
In un anno il Kosovo ha, dunque, percorso una lunga strada verso la normalità, grazie soprattutto all'energia e allo spirito di iniziativa dei suoi abitanti. Dal canto suo, l'UNMIK ha cercato di favorire questi sforzi, inquadrandoli in un contesto amministrativo basato sul rispetto della legalità e della democrazia. Tra la fine del 1999 e febbraio 2000 viene creata una serie di istituzioni, gestite congiuntamente dai funzionari internazionali e dai rappresentanti delle forze politiche e della società civile kosovara. La creazione di una Struttura congiunta per l'amministrazione provvisoria (JIAS, Joint interim administration structure) permette la condivisione tra le Nazioni Unite e la società kosovara delle responsabilità amministrative fino allo svolgimento delle elezioni dapprima municipali e successivamente politiche. La JIAS è composta da tre distinti elementi: l'Ufficio del Rappresentante speciale; il Consiglio amministrativo interinale (IAC) e il Consiglio provvisorio del Kosovo (KTC); i dipartimenti amministrativi responsabili per l'amministrazione e la fornitura dei servizi.
Lo IAC presenta le sue raccomandazioni al Rappresentante speciale sui provvedimenti legislativi e formula linee politiche per i dipartimenti. Ne fanno parte, oltre ai funzionari internazionali, i rappresentanti dei partiti presenti a Rambouillet (Ibrahim Rugova per la Lega democratica del Kosovo, Hashim Thaci per il Partito democratico del Kosovo nel quale si riconosce una parte degli ex combattenti dell'esercito di liberazione del Kosovo - UCK -, Rexhep Qosia per il Movimento di unità democratica) e un indipendente, per gli albanesi. Il Consiglio nazionale serbo, che rappresenta la parte moderata di questa popolazione, si è spaccato sulla decisione di far parte dello IAC; attualmente la cosiddetta ala di Gracanica, che fa capo all'arcivescovo ortodosso Artemije, invia un osservatore, Rada Traikovic.
Il KTC, formato da trentasei rappresentanti di tutta la società del Kosovo, politici, intellettuali, capi religiosi di tutte le comunità etniche, è un importante foro di dibattito su tutti i maggiori problemi della provincia. Al suo interno esistono comitati specializzati che lavorano su temi di particolare rilevanza: il Comitato sulla tolleranza e la protezione delle comunità locali, il Comitato sui prigionieri e i dispersi, il Comitato per gli affari economici e il Comitato per l'educazione.
La struttura amministrativa comprende venti dipartimenti e dieci agenzie autonome, tutti guidati congiuntamente da un funzionario internazionale e da un rappresentante kosovaro.
A livello locale, in ogni municipalità sono stati nominati una giunta e un consiglio formati da rappresentanti di tutti i gruppi etnici. La designazione, prima delle elezioni municipali del 28 ottobre, è stata compito degli amministratori internazionali. Il necessario preludio delle elezioni è stato un massiccio sforzo per registrare la popolazione sopra i sedici anni, sia all'interno del Kosovo sia fra i profughi. A metà di luglio, alla chiusura della campagna di registrazione, si è presentato agli sportelli oltre un milione di kosovari, nella stragrande maggioranza di etnia albanese, mentre i serbi, con l'eccezione di poche centinaia, l'hanno boicottata. Contemporaneamente sono nati oltre trenta partiti e movimenti ufficialmente registrati.
Ma non occorre ricostruire solo i documenti di identità: una grande percentuale degli autoveicoli è priva di targa, e altrettanto incompleti e confusi sono i dati catastali, con molti appartamenti di proprietà statale tolti agli inquilini albanesi nel 1989, abbandonati dai serbi nel 1999 e attualmente occupati senza alcun titolo di proprietà o affitto. La Direzione della proprietà immobiliare, che cerca di dirimere le controversie e restituire le abitazioni ai legittimi proprietari e inquilini, è uno dei tanti organi che quotidianamente conducono una pacifica, ma difficile battaglia per stabilire l'ordine, la giustizia e la democrazia.
Un laboratorio di tolleranza
In Kosovo, accanto a una preponderante maggioranza di etnia albanese (circa l'80% prima del conflitto), vivono numerosi gruppi etnici: serbi (il 10% prima del conflitto), rrom (divisi in roma, che parlano serbo, e ashkalija ed egiziani, che parlano albanese), slavi musulmani (bosniaci, gorani, torbesci) e turchi. I croati e i montenegrini, presenti prima della guerra, sono oggi poche decine.
Un anno non poteva bastare per sconfiggere secoli di odio e di cultura della violenza. Proteggere l'incolumità fisica dei cittadini serbi, ma anche rrom e, in minore misura, bosniaci, è uno dei più importanti compiti delle truppe della KFOR e della polizia internazionale. I membri di queste comunità etniche sono nella grande maggioranza costretti a vivere in enclave protette dai soldati, che non possono abbandonare senza scorta, e sono di conseguenza del tutto tagliati fuori dal mondo del lavoro. Mitrovica, la città del nord, divisa dal fiume Ibar in una zona serba e una zona albanese, è divenuta un simbolo, noto a tutto il mondo, di questa triste situazione.
L'UNMIK ha intrapreso, e continua a porre in opera, attività tese a favorire il dialogo e la riconciliazione, come una serie di incontri fra i leader politici di varie etnie, un 'Giorno della non violenza', gemellaggi fra municipalità kosovare ed europee, e una conferenza, tenutasi negli Stati Uniti, fra albanesi e serbi moderati, che ha portato a una dichiarazione congiunta contro la violenza.
Anche se le statistiche mostrano una diminuzione sostanziale dell'attività criminale (dai sessanta omicidi settimanali dell'estate 1999 si è passati a una media di sei-sette), il livello della criminalità di origine etnico-razziale resta ancora molto alto.
La riconciliazione fra etnie continua a essere un obiettivo fondamentale per lo sviluppo sociale ed economico del Kosovo. A questo si aggiunge il problema degli oltre 200.000 serbi e rrom che hanno lasciato la provincia dopo l'estate del 1999, trovando rifugio in Serbia, Montenegro e nella ex Repubblica iugoslava della Macedonia. Un comitato congiunto fra l'UNMIK, la KFOR, l'Alto commissariato dell'ONU per i rifugiati e il Consiglio nazionale serbo è al lavoro per favorire il ritorno di alcune decine di famiglie serbe in zone rurali particolarmente protette, dove si dovrebbero sviluppare alcuni modelli di insediamento che si spera possano nel tempo essere replicati su ampia scala.
Inoltre l'UNMIK deve fare fronte anche al ritorno, spesso forzato, dei kosovari albanesi che, durante l'oppressione serba, hanno ricevuto asilo temporaneo - a volte durato oltre dieci anni - in molti paesi occidentali, i quali non intendono rinnovare i loro permessi di soggiorno. Si calcola che circa 250.000 persone si trovassero in questa posizione all'inizio del 2000 e il ritmo dei rientri è andato intensificandosi a partire dalla primavera, raggiungendo in giugno le 12.000 unità. Questo afflusso massiccio di uomini, donne e bambini (questi ultimi spesso cresciuti in un diverso sistema scolastico e a volte poco padroni della lingua albanese) costretti a reintegrarsi velocemente in una società per molti versi ancora tradizionale dopo essere stati in contatto con culture industriali avanzate, rischia di aggravare la già difficile situazione economica e di mettere a rischio il fragile equilibrio sociale. Per questo motivo, l'UNMIK ha continuato a chiedere ai governi dei paesi ospiti di diluire i rientri nel tempo e di garantire al massimo i diritti di quanti ritornano, evitando di separare le famiglie e permettendo ai malati di completare i cicli di cura.
Tornare alla normalità significa anche reintegrare gli ex combattenti nella vita civile e impedire che si trasformino in criminali o terroristi. Il primo fondamentale passo è stata la riconsegna delle armi da parte dei membri dell'UCK, un'operazione massiccia di dimensioni molto più ampie di quelle condotte in precedenti missioni. Purtroppo, la quantità di armi illegali nascoste nel Kosovo è elevatissima. I continui rastrellamenti condotti dalla KFOR hanno portato al sequestro di interi arsenali. L'UNMIK ha poi creato il TMK, un corpo per la protezione civile, formato da 3000 effettivi e 2000 ausiliari. I componenti del TMK sono stati selezionati fra i 20.000 combattenti dell'UCK che avevano fatto domanda di impiego. Il 10% dei posti è stato riservato ad appartenenti alle minoranze etniche: solo cento bosniaci hanno, però, chiesto di entrare nel TMK e la maggior parte di quei cinquecento posti sono ancora vuoti.
L'UNMIK ha a disposizione solo 3600 poliziotti internazionali (dovrebbero essere 4600). A loro si vanno affiancando sempre più numerosi i cadetti del Corpo di polizia del Kosovo, che escono dai corsi di addestramento di sette settimane condotti dall'OSCE, e che completano la loro formazione sul campo. Dato l'insufficiente numero di poliziotti, nelle regioni di Mitrovica, Gijliane e Pec, la KFOR continua a fornire gli effettivi per il mantenimento dell'ordine pubblico e delle altre attività di polizia, con l'eccezione delle indagini.
La ricostituzione dell'apparato giudiziario ha rappresentato uno dei compiti più ardui della missione di pace. Nei dieci anni precedenti il conflitto, gran parte dei magistrati e degli impiegati dei tribunali kosovari era stata destituita dall'incarico. L'UNMIK ha così nominato circa trecento procuratori e giudici, e tutti i tribunali di ogni grado sono tornati a funzionare: nel ricostruire l'intero apparato giudiziario è stato necessario garantirne l'indipendenza e l'imparzialità, soprattutto nei casi che coinvolgono parti di differente origine etnica. A tale scopo, nella primavera del 2000, il Rappresentante speciale ha nominato alcuni procuratori e giudici internazionali. In particolare, di fronte alla necessità di giudicare in loco una serie di imputati, accusati di crimini di guerra (che il Tribunale penale per i crimini di guerra nella ex Iugoslavia dell'Aia non è in grado di perseguire perché ha già troppi casi in carico), l'UNMIK ha deciso di istituire il Tribunale per i crimini di guerra e a matrice etnica (KWECC), che rappresenta il primo esempio di un tribunale con una corte mista, composta da giudici locali e internazionali, e legislazione nazionale competente per i crimini di guerra e contro l'umanità.
Un ultimo e arduo ostacolo si erge infine sulla via della riconciliazione: la sorte di oltre 1000 prigionieri politici kosovari che si trovano nelle carceri serbe e delle migliaia di dispersi di cui si ignora la sorte: fra i 3000 e i 7000 albanesi sono scomparsi durante il conflitto e alcune centinaia di serbi e rrom sono stati rapiti nell'ultimo anno (oltre 3000 nominativi di dispersi sono stati denunciati alla Croce rossa internazionale, ma le numerose associazioni dei familiari dei dispersi forniscono cifre molto superiori, anche se fra di loro contrastanti). È impossibile sperare che quanti soffrono il quotidiano incubo delle sparizioni riescano a superare l'odio e a guardare a un futuro di pace e convivenza interetnica, se prima non conosceranno la sorte dei loro cari. L'opera condotta dagli esperti del Tribunale dell'Aia e dalla Commissione per il recupero e l'identificazione delle vittime, istituita dall'UNMIK con l'incarico di riesumare i cadaveri sepolti in circa cinquecento fosse comuni e procedere all'identificazione, oltre a raccogliere le prove delle torture e delle stragi, permetterà di accertare il destino di alcune migliaia di dispersi e di restituirne i corpi alle famiglie.
Quanto tempo ancora ci vorrà per raggiungere i risultati sperati? Il successo o la sconfitta di una missione di mantenimento della pace si giudica in termini di generazioni e di anni. Si può pensare che per il Kosovo i tempi saranno più rapidi che a Cipro, in Cambogia, in Irlanda del Nord. È lecito dunque affermare che dopo la necessaria coesistenza, la libertà di movimento riconquistata, la tolleranza ottenuta, si potrà costruire la fiducia e assicurare così la multietnicità? Bisogna sperarlo, anche se troppo spesso in Kosovo si ha la sensazione che il peggio debba ancora accadere. Quale che sia il finale della guerra e della pace in Kosovo, bisognerà ricordare, non fosse che per temperare le impazienze, che, per la prima volta nella storia del mondo, la società democratica internazionale è intervenuta per liberare una maggioranza dall'oppressione di una minoranza, al di là e al di sopra delle frontiere di uno stato sovrano. In Kosovo prima che a Timor Est. Dopo un secolo di massacri e di genocidi, dopo la Shoah, la Cambogia, il Ruanda, l'intervento in Kosovo segnerà il millennio in cui stiamo entrando con una vittoria essenziale della coesistenza e dei diritti umani.
repertorio
La storia del Kosovo
Da Campo dei Merli alla lega di Prizren
La sconfitta di Kosovo Polje (Campo dei Merli), subita dai serbi a opera dei turchi ottomani il 28 giugno 1389, dopo un'epica battaglia, determinò l'inclusione nel territorio turco del Kosovo, che in età medievale era stato il cuore dello Stato serbo della dinastia dei Nemanja e dell'Impero di Stefano Dusan. Nel periodo della dominazione turca il Kosovo acquistò un valore simbolico nella tradizione culturale dei serbi e degli altri popoli balcanici, divenendo oggetto di una letteratura eroica che, riscoperta nell'Ottocento, alimentò lo sviluppo dei movimenti nazionali slavo-meridionali. Di fatto, per tutti i serbi l'unico elemento di conservazione dell'identità nazionale in quel periodo così travagliato rimase la Chiesa serba, che nella città kosovara di Pec aveva la sede del suo patriarcato.
La storia della regione si arricchì di ulteriori implicazioni nazionali e religiose con la guerra combattuta tra austriaci e turchi dal 1683 al 1699, nel corso della quale i turchi assediarono Vienna per dieci settimane, per essere poi respinti dall'esercito asburgico, alleato con quello polacco; molti dei possedimenti ottomani in Ungheria passarono allora agli austriaci. In quella circostanza il Kosovo, geograficamente strategico, fu teatro di importanti battaglie: nell'autunno del 1689 fu invaso da un piccolo esercito asburgico che riuscì a sconfiggere le forze locali turche e a imporre il proprio controllo, inducendo molti abitanti a giurare fedeltà all'imperatore austriaco e ad arruolarsi fra gli ausiliari del suo esercito; all'inizio del 1690, tuttavia, i turchi rientrarono in Kosovo, saccheggiando le città e compiendo violenze e massacri che alla fine costrinsero gli austriaci a ritirarsi, seguiti da un numero cospicuo di serbi. Secondo le fonti storiche serbe, centinaia di migliaia di serbi compirono allora un'epica marcia, fino a giungere nell'Ungheria centrale dove si accamparono in condizioni di indigenza e precarietà; era con loro il patriarca di Pec, Arsenije III Crnojevic, che fu autorizzato dall'imperatore austriaco Leopoldo I a esercitare la sua giurisdizione sui fedeli serbi in territorio ungherese. Il vuoto lasciato da questo esodo di massa dei serbi fu riempito dopo il 1690 dall'afflusso della popolazione albanese, che fino ad allora aveva costituito una minoranza insignificante nel paese. Diversa è la ricostruzione di quel periodo data dagli storici albanesi, secondo i quali gli abitanti del Kosovo che si ribellarono al governo ottomano, favorendo l'entrata degli austriaci, sarebbero stati quasi tutti albanesi e il capo religioso della sollevazione del popolo non sarebbe stato il patriarca Arsenije, bensì l'arcivescovo cattolico albanese Pjetër Bogdani. Inoltre, anche tra i profughi vi sarebbero stati moltissimi albanesi e comunque il numero di serbi insediatisi forzosamente in Ungheria non avrebbe rappresentato quella consistente porzione di slavi meridionali che da parte serba si è cercato di accreditare. Il contrasto delle ricostruzioni riflette il rilievo che questi avvenimenti hanno avuto nella formazione del Kosovo moderno.
Nel 19° secolo, la Penisola Balcanica occupò una posizione chiave nella storia europea. Dopo che il Congresso di Vienna (1815) aveva conferito all'Europa un nuovo assetto e un maggiore equilibrio politico, attribuendo un ruolo preminente all'Austria nel tentativo di contenere le mire espansionistiche della Francia e della Russia, nei Balcani si scontrarono le aspirazioni politiche delle maggiori potenze coinvolte nella 'questione d'Oriente': la Russia con i suoi tentativi di espansione volti ad assicurarsi uno sbocco nel Mediterraneo, l'Austria e l'Inghilterra interessate all'integrità dell'Impero ottomano per contrastare la spinta russa. Intanto le nazionalità balcaniche, inserendosi nei contrasti fra le grandi potenze, cominciarono a emergere e a dare i primi colpi al giogo turco. A partire dal 1804, e via via per tutto il corso del secolo, i serbi per primi, poi i greci, gli albanesi, i bulgari, si impegnarono a più riprese, appoggiandosi ora all'Austria, ora alla Russia, ora ad altre potenze, fra alleanze, guerre e spostamenti di frontiere, nel tentativo di definire la loro individualità e di raggiungere l'indipendenza. Nel 1877, durante la guerra tra la Russia e i turchi che determinò in Bulgaria una durissima resistenza dell'esercito turco, i serbi, intervenuti a fianco dei russi, riuscirono a intercettare le forze ottomane che si erano stabilite intorno a Pristina e occuparono tutto il settore sudorientale del Kosovo. Alla fine della guerra alcuni reparti serbi rimasero in quelle zone e si scontrarono in durissimi combattimenti con la popolazione albanese. In seguito agli accordi derivati dall'armistizio russo-ottomano, la Serbia fu costretta ad abbandonare tutto il territorio che aveva occupato nel corso delle ostilità, ma gli scontri diretti tra serbi e albanesi suscitarono un risentimento reciproco, innescando un'opposizione nei confronti degli accordi internazionali che nel giro di alcuni decenni avrebbero portato alla dissoluzione dell'Impero ottomano. Nel 1878, lo stesso anno in cui con il Congresso di Berlino la Serbia ottenne la piena indipendenza dall'Impero ottomano, si costituì in Kosovo la Lega di Prizren, il primo embrione del movimento nazionale albanese.
Le guerre balcaniche e i conflitti mondiali
Alla fine della prima delle due Guerre balcaniche del 1912 e del 1913, il Kosovo fu annesso alla Serbia; tale annessione determinò un forte senso di lacerazione negli albanesi, i quali subirono l'evento come una divisione in due della loro nazione.
Nell'ottica del grave conflitto serbo-albanese, particolare significato assunse l'uccisione a Sarajevo dell'arciduca Francesco Ferdinando, l'erede di Francesco Giuseppe. Significativamente l'attentato di Sarajevo fu compiuto il 28 giugno 1914, giorno di san Vito, festa nazionale per i serbi, che non avevano mai dimenticato quella battaglia a Kosovo Polje in seguito alla quale il Kosovo era passato ai turchi. L'attentatore, lo studente serbo-bosniaco Gavrilo Princip, fece esplicito riferimento a quella tradizione culturale serba che comprendeva fra l'altro l'esaltazione del tirannicidio.
Dopo la formazione del Regno di Iugoslavia, prevista dal trattato di pace con cui si concluse la Prima guerra mondiale, il Kosovo fu incluso nella monarchia iugoslava, appannaggio di Alessandro di Karajeorjevic, che alla Serbia federò le diverse nazionalità balcaniche (Croazia, Bosnia, Montenegro, Macedonia, Slovenia). In Kosovo si costituì un'organizzazione nazionalista detta Kacak, gruppo di resistenza armata albanese che combatteva contro l'esercito iugoslavo. La resistenza del Kacak ebbe fine nel 1924, quando in Albania si impose Ahmet Zogu, che, grazie anche all'appoggio di Belgrado, nel 1928 diventò re degli albanesi, col nome di Zog I. Presto, tuttavia, Zog I tentò di prendere le distanze dalla Iugoslavia e a tal fine all'inizio degli anni Trenta si alleò con Mussolini, il quale mirava a fare dell'Albania un suo protettorato. Nel 1939, quando Zog I cercò di liberarsi della tutela dell'Italia, Mussolini occupò il regno d'Albania, che passò sotto la corona di Vittorio Emanuele III. Durante la Seconda guerra mondiale, si formarono due schieramenti albanesi di resistenza anti-italiana e antitedesca: il comunista Fronte di liberazione nazionale (FNC, Fronti nazional clirimtar), guidato da Enver Hoxha, e il Fronte nazionale (BK, Balli kombëtar), di ispirazione liberal-nazionalista.
Nel 1941, quando la Iugoslavia fu divisa fra le potenze dell'Asse, i tedeschi occuparono la parte orientale del Kosovo, che comprendeva l'area di Trepca con i suoi numerosi giacimenti minerari da cui, fino all'estate del 1944, essi ricavarono il 40% del piombo necessario alla produzione delle munizioni; gli italiani estesero il proprio dominio nelle zone meridionali, al confine con l'Albania e la Macedonia. Le truppe italo-tedesche godettero di un certo collaborazionismo tra i kosovari albanesi, che furono compensati da un trattamento favorevole rispetto alla popolazione serba, oggetto di tipiche tecniche di pulizia etnica. L'ampia partecipazione dei serbi alla guerra di resistenza fu quindi motivata anche da ragioni di riscatto nazionale.
Dalla provincia autonoma alla Costituzione del 1974
Alla fine della Seconda guerra mondiale, la vittoria di Tito e l'aiuto da lui fornito a Hoxha permisero il ritorno alla Serbia del Kosovo, cui nel 1946 fu riconosciuto il ruolo di provincia autonoma nell'ambito della Federazione iugoslava. Sotto un'apparente accettazione dello stato di fatto, in Kosovo covava in realtà una forte tensione contro la Federazione, anche a causa del diverso trattamento subito rispetto agli Stati regionali del Montenegro e della Macedonia che pure, in confronto, registravano un'incidenza demografica albanese minore. A esacerbare i sentimenti di rivalsa contribuì, fino alla metà degli anni Sessanta, l'operato del ministro degli Interni della Federazione, Alexander Rankovic, un serbo che non esitò, in nome degli ideali dell'internazionalismo comunista, a infliggere mortificazioni continue al sentimento nazionale kosovaro. Tuttavia Tito, il quale, in un'ottica di equilibri e mediazioni, riteneva che nel quadro della nuova Iugoslavia comunista non si dovesse esaltare in nessun caso alcun primato nazionale serbo, non fu indifferente alle richieste di autonomia da parte degli albanesi del Kosovo. Nel 1970 accettò la fondazione di un'università bilingue (serba e kosovara) proprio a Pristina e nel 1974 concesse al Kosovo una nuova Costituzione che finalmente riconosceva alla provincia il carattere di 'elemento costitutivo della Federazione', la legittimità di un autonomo governo locale e l'istituzione della bandiera. La Costituzione del 1974 rimase in vigore nell'ambito della Federazione iugoslava fino alla sua dissoluzione.
Il dopo Tito
Le aperture di Tito non furono sufficienti a neutralizzare le tensioni nazionalistiche in Kosovo, che riesplosero a breve distanza dalla sua morte (maggio 1980). Fra il marzo e l'aprile 1981 incidenti gravi furono causati da frange del nazionalismo kosovaro che chiedevano l'istituzione di una Repubblica. L'11 marzo, un avvenimento piuttosto banale (uno studente dell'Università di Pristina, durante il pasto alla mensa, trovò uno scarafaggio nella minestra) diede il via a una manifestazione che dall'ambito studentesco si estese presto a comprendere una folla di dimostranti e si trasformò in una vera sommossa. I disordini andarono avanti tutta la notte e solo al mattino la polizia riuscì a placarli; numerosi furono gli arresti. Due settimane dopo, in occasione di una manifestazione sportiva nazionale, la Staffetta della gioventù - che Tito aveva istituito per alimentare sentimenti di fratellanza e unità - gli studenti ripresero a manifestare richiedendo migliori condizioni di studio, nonché il rilascio dei compagni arrestati; la protesta assunse rapidamente un carattere più marcatamente politico e furono scanditi slogan auspicanti l'indipendenza e l'unificazione con l'Albania. Il 1° aprile, nel corso di un'altra dimostrazione, a Pristina, si inneggiò al fautore della secessione del Kosovo, Adem Demaci, in prigione dal 1975. L'apparizione di carri armati nelle strade della città non bastò a impedire che le sommosse continuassero e si estendessero nelle quarantotto ore successive in molte altre città (Podujevo, Vucitrn, Gjilan, Giacova ecc.). Era la prima volta che forme di protesta così aperta, forte e diffusa si registravano in Kosovo e le autorità, allarmate, disposero l'invio, da altre parti della Iugoslavia, di unità speciali delle forze di sicurezza: fu imposto il coprifuoco e dichiarato lo stato di emergenza. I mezzi di comunicazione iugoslavi riferirono molto poco di queste ribellioni e non c'è ancora accordo sui dati relativi al numero di persone che rimasero allora uccise negli scontri o furono arrestate a seguito delle dimostrazioni.
La crisi in Kosovo ebbe notevoli ripercussioni politiche: i funzionari del partito comunista a Pristina vennero progressivamente espulsi, tutti etichettati come 'controrivoluzionari' e omologati, nella loro richiesta di una Repubblica del Kosovo, ai più estremisti che con Hoxha esaltavano lo Stato stalinista. Nessun peso venne dato, nella lettura di quella crisi, alla cattiva gestione dell'economia del Kosovo. Nella regione, infatti, come aveva messo in luce un membro del Comitato centrale serbo, Tihomir Vlaskalic, troppo spazio veniva dato alle industrie pesanti e troppo poco all'agricoltura; inoltre il livello di disoccupazione era il più alto di tutta la Federazione: su una popolazione di 1.500.000 persone, solo 178.000 avevano un lavoro e il 30% di questi era costituito da serbi e montenegrini, che pure costituivano solo il 15% della popolazione.
Per tutti gli anni Ottanta i nazionalisti albanesi e quelli serbi si scambiarono accuse e controaccuse in una sorta di guerra culturale che andò avanti, senza esclusione di colpi, fra sensazionalismi, strumentalizzazioni e polemiche. Il caso Martinovic ne fu esempio drammatico: D. Martinovic era un agricoltore serbo di 56 anni, che il 1° maggio 1985 fu ricoverato d'urgenza all'ospedale di Pristina, con gravi lesioni all'ano, procurategli da una bottiglia di birra; dichiarò di essere stato vittima di un'aggressione da parte di due albanesi; le fonti albanesi sostennero invece che Martinovic era semplicemente un pervertito. Un gruppo di intellettuali serbi, capeggiati dal romanziere Dobrica Cosic, fece di tutto per sfruttare il caso Martinovic allo scopo di promuovere una campagna di esaltazione dell''integrità del popolo serbo' e dimostrare che gli albanesi del Kosovo erano responsabili di un intollerabile tentativo di pogrom ai danni della minoranza serba.
La Serbia di Milosevic e lo Stato parallelo di Rugova
Il 24 aprile 1987, il presidente del Partito comunista serbo, Ivan Stambolic, rifiutò di partecipare alla manifestazione organizzata a Kosovo Polje da un gruppo di attivisti del nazionalismo serbo, contro il quale egli aveva più volte preso posizione, e incaricò il suo vice, Slobodan Milosevic, di recarvisi al suo posto. Milosevic, pur non avendo mai manifestato interesse per il destino del Kosovo, intuì subito che avrebbe potuto usare le tensioni e le difficoltà evidenziate dal partito intellettuale politico serbo, nonché il malcontento generale, a vantaggio della propria carriera politica. Quel giorno stesso, spettatore per caso di una rissa tra dimostranti e polizia, si spinse in mezzo alla folla improvvisando un discorso sui diritti inviolabili dei serbi. Divenne così l'interprete dell'insicurezza che si diffondeva tra i serbi del Kosovo e poi, in un crescendo di demagogia nazionalista, il leader del popolo serbo, soprattutto quello delle campagne che sentiva con forza particolare il richiamo all'identità etnica slava.
Alla fine del 1987, con la presa del potere in Serbia da parte di Milosevic, le tensioni in Kosovo aumentarono ulteriormente. Quando, nel novembre 1988, il governo bandì l'uso dell'albanese quale lingua ufficiale, i minatori di Trepca entrarono in sciopero e marciarono verso Pristina per unirsi alla protesta degli studenti; la repressione della polizia serba fu estremamente dura. Nel 1990 venne abrogata l'autonomia del Kosovo e si diede inizio a una forte campagna di serbizzazione di tutte le istituzioni kosovare.
Contro questi provvedimenti scese in campo Ibrahim Rugova, un intellettuale di Pristina che era stato allievo anche di Roland Barthes a Parigi. Rugova promosse la formazione di un movimento di resistenza non violenta, la Lega democratica del Kosovo (LDK, Lidhja Demokratike e Kosovës) e nel 1991 organizzò un referendum sulla sovranità del Kosovo che fu votato dal 99% degli elettori e culminò con la proclamazione di uno Stato clandestino, la Repubblica del Kosovo, la cui legittimità fu immediatamente riconosciuta dall'Albania e di cui Rugova divenne il primo presidente. Nel territorio si determinò così una curiosa convivenza tra lo Stato ufficiale serbo e lo 'Stato parallelo' degli albanesi del Kosovo, all'interno del quale Rugova aveva riorganizzato la società albanese, nel tentativo di creare nuove prospettive nel mondo del lavoro, della scuola, della sanità e della giustizia. I serbi, pur non riconoscendo questa struttura parallela, tuttavia la tollerarono.
Nel 1995, quando a Dayton (USA) si svolsero i negoziati per la risoluzione del conflitto in Bosnia, presenti Milosevic per i serbi, Tudjman per la Croazia e Itzebegovich per i musulmani bosniaci, Rugova non fu invitato al tavolo delle trattative e la questione del Kosovo fu menzionata una sola volta nel trattato finale, con la decisione di far rientrare a Pristina numerosi fuoriusciti kosovari. Questo determinò sia un'ulteriore esasperazione delle tensioni tra i nazionalisti e Belgrado, sia il formarsi, all'interno del Kosovo, di contestazioni sempre più energiche contro l'atteggiamento non violento che faceva capo a Rugova. Nei centri urbani del Kosovo, a cominciare da Pristina, si costituì un movimento di protesta antiserbo simile all'intifada palestinese e iniziò, da parte di un movimento militare clandestino, l'UCK (Ushtria clirimtare e Kosovës), una durissima guerriglia, con attentati terroristici sia contro i serbi sia contro gli albanesi accusati di collaborazionismo.
Dall'eccidio di Drenica alla Conferenza di Rambouillet
Nei primi mesi del 1998 si susseguirono azioni di guerriglia dell'UCK e feroci repressioni serbe. L'episodio più drammatico si verificò l'8 marzo, quando nel villaggio di Precaz (Drenica) la polizia serba massacrò l'intera famiglia di Adem Jashari, uno dei capi dell'UCK, uccidendo indiscriminatamente terroristi, donne e bambini. Le immagini dell'eccidio di Drenica, trasmesse dai media di tutto il mondo e riproposte sui siti internet del nazionalismo albanese, turbarono profondamente l'opinione pubblica e soprattutto i kosovari dell'emigrazione, numerosissimi in Svizzera e in Germania, che cominciarono a temere che il Kosovo fosse ormai al centro di una pulizia etnica generalizzata da parte dei serbi. Migliaia di giovani, grazie all'appoggio della polizia albanese, cominciarono a rientrare in Kosovo per arruolarsi nelle fila dell'UCK, che stabilì i propri centri logistici e i campi di addestramento militare nel nord dell'Albania. Nello stesso marzo 1998, nonostante tutte le campagne di delegittimazione portate avanti dall'UCK, Rugova venne rieletto presidente e, forte dell'appoggio popolare della stragrande maggioranza dei kosovari, si recò a Belgrado a incontrare i vertici del governo serbo. Ma i risultati dell'incontro, abilmente sfruttato dalla propaganda iugoslava, che evidenziò il disagio del presidente kosovaro di fronte alla determinazione di Milosevic, furono deludenti. La Serbia rinviava sine die la questione dell'autonomia politica e nazionale del Kosovo: il leader serbo non poteva permettersi di perdere, dopo la disgregazione della Federazione iugoslava, anche la regione meridionale di quello che ne rimaneva. Un debole e vano tentativo di ripresa del dialogo tra Milosevic e gli albanesi ci fu alla fine di maggio 1998.
Mentre proseguivano gli omicidi, gli arresti e i sequestri di persone, privi di successo furono anche i tentativi di scongiurare il pericolo incombente di un conflitto interetnico generalizzato promossi dalla diplomazia internazionale. Il gruppo di contatto, formato da Stati Uniti, Russia, Germania, Italia, Francia e Gran Bretagna, si adoperò invano in un'azione dissuasiva nei confronti sia degli albanesi sia dei serbi, cui furono inflitte sanzioni economiche. A settembre, benché la NATO minacciasse di bombardare il Kosovo, serbi e albanesi violarono entrambi gli accordi internazionali. A ottobre l'inviato speciale degli Stati Uniti, Richard Holbrooke, non riuscì a conciliare le posizioni di Milosevic e degli esponenti albanesi. In uno scenario di tensione crescente, maturò la scelta di appoggiare le forze dell'UCK da parte degli Stati Uniti, che fino ad allora avevano avuto un dialogo privilegiato con Rugova, più volte recatosi a conferire presso il Dipartimento di Stato. Tuttavia Rugova aveva deluso le aspettative della diplomazia statunitense, che giunse alla convinzione che egli potesse garantire solo moderazione e attendismo politico, elementi che nello scacchiere balcanico rischiavano di facilitare, almeno in quel momento, le abili trame di Milosevic. La stessa opinione pubblica interna, fino a quel momento favorevole al leader moderato, cominciava a manifestare, con gli studenti in prima fila, una presa di distanza sempre più chiara e pronunciata.
Nel frattempo la violenza in Kosovo cresceva. Il 15 gennaio 1999, a Racak, furono ritrovati i corpi di quarantacinque albanesi uccisi e orribilmente mutilati. Immediata e unanime fu da parte dell'opinione pubblica internazionale la condanna del crimine compiuto dai serbi. Il procuratore della Corte internazionale dell'Aia, Louise Harbour, dichiarò, attraverso la CNN, il suo sdegno e la volontà di colpire i crudeli responsabili del genocidio dei kosovari. Il massacro di Racak indusse il Gruppo di contatto a riprendere il confronto sul Kosovo, e i francesi convocarono un negoziato a oltranza nel castello di Rambouillet.
Alla fine della prima fase dei negoziati non si poté giungere a un accordo per l'indisponibilità di H. Thaci, che a Rambouillet rappresentava l'UCK, a sottoscrivere un testo che non prevedeva l'indipendenza del Kosovo. Successivamente, il leader kosovaro fu persuaso dagli americani a riprendere i negoziati e il 15 marzo iniziò la seconda fase della Conferenza. Il testo conclusivo, tuttavia, fu sottoscritto da Rugova e da Thaci, ma non dai serbi. Dieci giorni dopo iniziavano le operazioni militari della NATO contro la Serbia.
La guerra
Lo scoppio della guerra fu preceduto, il 22 marzo 1999, da un ultimatum di Holbrooke che intimava a Milosevic di cessare ogni iniziativa militare e di polizia nel Kosovo. Il leader serbo reagì con la mobilitazione delle forze armate iugoslave. Nel contempo, Xavier Solana, Segretario generale della NATO, ordinava al generale Wesley Clark di dare il via alle operazioni aeree contro la Serbia.
La guerra vera e propria si può dividere in tre fasi. La prima ebbe inizio alle 19:55 (ora di Belgrado) del 24 marzo. Le forze aeree della NATO attaccarono alcune installazioni militari serbe a nord di Pristina e posizioni strategiche intorno a Belgrado (postazioni di difesa aerea, aeroporti militari, strutture per ricovero e manutenzione degli aerei). Le forze NATO, costituite da circa ottanta aerei, appartenenti alle otto nazioni alleate - Canada, Francia, Gran Bretagna, Italia, Paesi Bassi, Spagna, Germania, Stati Uniti - compirono circa centocinquanta missioni con l'utilizzo del bombardiere strategico americano B2A, capace di neutralizzare quasi completamente l'intercettazione radar. I britannici invece utilizzarono i missili Tomahawk, lanciati da un sottomarino d'attacco, lo Splendid, dal largo delle coste montenegrine. La risposta dei serbi fu piuttosto debole, affidata soprattutto a mezzi di provenienza sovietica, tecnologicamente obsoleti. Solamente due velivoli della NATO furono abbattuti e anche in quei casi venne effettuato il recupero dei piloti, grazie ai reparti speciali CSAR (Combat and search and rescue). La NATO, per neutralizzare i sistemi di difesa dei serbi, utilizzò per la prima volta la guerra informatica (IW, Information warfare). Nel primo giorno di attacco furono distrutti dodici MIG29 iugoslavi.
La seconda fase del conflitto iniziò tre giorni dopo, quando le forze serbe, nonostante gli attacchi NATO, intensificarono le iniziative di pulizia etnica nel Kosovo. Il comando NATO decise di impiegare sistemi d'arma di precisione a guida satellitare (GPS, Global positioning system) di ultimissima generazione, che non richiedevano nessun tipo di designazione di bersaglio, poiché direttamente guidati dai satelliti, e di cui disponevano solo i mezzi USA. Ma poiché questi sistemi non erano utilizzabili in caso di maltempo e per diversi giorni le condizioni meteorologiche furono disastrose, i bombardamenti diedero risultati piuttosto deboli. Per tutto il mese di aprile le operazioni militari non registrarono grandi progressi, poiché gli iugoslavi cominciarono a schierare uomini e mezzi in prossimità delle zone residenziali e a sfruttare la presenza delle migliaia di profughi in movimento dal Kosovo verso l'Albania e la Macedonia. Per eludere la sorveglianza satellitare alleata, inoltre, le forze serbe fecero ricorso anche alla tecnica dei 'falsi bersagli', che prevedeva la sostituzione dei mezzi corazzati e blindati con forme di legno che, opportunamente mimetizzate, venivano prese di mira dagli aerei NATO. Intanto l'afflusso massiccio di profughi kosovari, spinti dalla speranza di maggiore sicurezza, verso il nord dell'Albania e verso le zone di confine tra la Macedonia e il Kosovo, determinò la necessità di attivare un poderoso ponte aereo tra i paesi alleati e i campi che le diverse missioni internazionali concorrevano ad allestire. Una svolta significativa sotto il profilo strategico si registrò a partire dal 10 aprile. Gli Stati Uniti inviarono ottantadue aerei capaci di sostenere le azioni di bombardamento in condizioni di tempo perturbato e soprattutto di essere riforniti in volo. Le forze della NATO bombardarono massicciamente tutte le maggiori vie di comunicazione nel sud della Serbia e neutralizzarono tutti i depositi di carburante. Alla fine di aprile, gli Stati Uniti dislocarono in Albania la TFH (Task force hawk), un battaglione aviotrasportato dalla Germania, mossa che ebbe anche la funzione di convincere i vertici militari iugoslavi della capacità da parte delle forze NATO di sostenere un eventuale attacco terrestre.
Il 23 aprile tutti gli alleati NATO, riuniti a Washington, decisero di intensificare gli attacchi alla Iugoslavia. Ebbe così inizio la terza e conclusiva fase della guerra. Le forze NATO bombardarono le installazioni strategiche intorno a Belgrado e distrussero non solo gli strumenti di propaganda del regime (la televisione e la radio), ma colpirono la stessa residenza di Milosevic e della moglie, nonché le centrali elettriche e gli acquedotti, suscitando nella popolazione serba, ormai stremata, una consistente reazione negativa nei confronti del regime. L'8 maggio, per un errore nell'individuazione del bersaglio, venne colpita, provocando diverse vittime, l'Ambasciata cinese a Belgrado; vi furono forti polemiche nei confronti dell'inadeguatezza del sistema di intelligence statunitense e la Cina e la Russia protestarono vivacemente. Alla fine di maggio vi furono più di settecentosettantadue attacchi aerei. Di fronte all'escalation dei bombardamenti, alla disponibilità offerta da tutti i paesi membri della NATO di concedere nuove basi all'esercito USA e da paesi non appartenenti alla NATO, come la Bulgaria, di permettere di sorvolare liberamente lo spazio aereo, Milosevic accettò la resa senza condizioni. Il 9 giugno, a Kumanovo, in Macedonia, i suoi plenipotenziari sottoscrissero un accordo con la NATO e il giorno successivo, dopo novantanove giorni di combattimento e circa 37.000 azioni aeree, il Segretario della NATO Solana ordinò la sospensione degli attacchi alla Serbia. Il 20 giugno si concluse ufficialmente l'operazione Allied force.