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Il Kosovo è un piccolo paese della regione balcanica, il cui status resta tuttora conteso. Infatti, nonostante sin dal 1999 il paese sia sotto il controllo di una forza internazionale di stabilizzazione, e sebbene il Parlamento kosovaro abbia adottato una dichiarazione unilaterale di indipendenza nel 2008, ancora oggi Belgrado si rifiuta di riconoscere l’indipendenza a quella che considera una regione autonoma della Serbia.
D’altra parte, i negoziati intrapresi nel 2006 dall’inviato speciale del segretario generale delle Nazioni Unite per la definizione del futuro status del Kosovo si arenarono per via delle posizioni ancora diametralmente opposte di Belgrado e Priština, e l’inviato speciale Martti Ahtisaari raccomandò al Consiglio di sicurezza l’unica opzione a suo avviso possibile: l’indipendenza sotto la supervisione, per un periodo iniziale, della comunità internazionale. Il piano Ahtisaari, tuttavia, non fu adottato dal Consiglio di sicurezza e rimase un documento politico non vincolante.
Nonostante il mancato raggiungimento di un accordo e l’assenza di nuove disposizioni del Consiglio di sicurezza, a seguito dell’autoproclamazione d’indipendenza del febbraio 2008 molti stati si affrettarono a riconoscere il Kosovo, insistendo tuttavia sull’unicità del caso kosovaro, che non avrebbe potuto in alcun modo rappresentare un precedente. La maggior parte degli studiosi di diritto internazionale, d’altra parte, affermò da subito che non si trattasse di un caso di esercizio del diritto di autodeterminazione esterna (riconosciuto solo ai popoli sottoposti a dominio coloniale o occupazione straniera), né che si potesse considerare un caso di secessione giustificato dall’esercizio del diritto all’autodeterminazione interna (ovvero il discusso diritto dei popoli di scegliere autonomamente i propri governanti tramite un processo democratico, che in ogni caso dovrebbe essere esercitato nel rispetto dell’integrità territoriale dello stato).
Per valutare la soggettività internazionale del Kosovo si deve comunque tener conto che, per un verso, il riconoscimento da parte di altri stati è un atto meramente politico, privo di valore giuridico; per l’altro, la nascita di uno stato è percepita tradizionalmente nel diritto internazionale come un dato di fatto, rispetto al quale non sono applicabili criteri di legalità. I requisiti che consentono di valutare la nascita di un nuovo stato sono infatti l’effettività e l’indipendenza: uno stato è destinatario di norme internazionali, e come tale può pretendere che queste ultime siano rispettate nei suoi confronti, se esercita effettivamente i propri poteri di governo su una determinata comunità territoriale in modo indipendente rispetto a qualsiasi altro stato.
Nel caso del Kosovo non è ancora possibile affermare che i suddetti requisiti siano pienamente soddisfatti. Ciò è evidente se si considera che alcune attività di governo sono ancora esercitate dalle Nazioni Unite, dalla Nato e dall’Unione Europea (Eu), che la stessa Costituzione del Kosovo riconosce un’ulteriore autorità internazionale (il Rappresentate civile internazionale), alla quale è affidato il ruolo di supervisionare il processo di indipendenza, e che il governo kosovaro non è in grado di esercitare i propri poteri nelle aree settentrionali della regione. D’altra parte, non si può non tener conto che, nonostante il riconoscimento formale contenuto nella risoluzione Un 1244, a partire dal 1999 la sovranità serba sul Kosovo è stata di fatto sospesa dall’esercizio dei poteri di amministrazione territoriale da parte delle Nazioni Unite. Questa situazione, che sembrava aver prodotto una separazione irreversibile già prima della dichiarazione d’indipendenza, costituisce una peculiarità che distingue il caso del Kosovo rispetto ad altre contemporanee rivendicazioni secessioniste in altri paesi del mondo.
L’indipendenza del Kosovo rappresenta l’ultimo capitolo delle guerre balcaniche degli anni Novanta, e proprio nel Kosovo il processo di frammentazione della ex Iugoslavia ha mostrato tutte le sue contraddizioni latenti. La fine della Guerra fredda e il conseguente venir meno della duplice garanzia delle superpotenze sulla stabilità dei confini in Europa, sommate ai tentativi di centralismo autoritario da parte dei dirigenti succedutisi alla presidenza della Federazione Iugoslava dal 1989, innescarono in tutta la regione balcanica una spirale di rivendicazioni di indipendenza. Tali aspirazioni, fino a quel momento limitate alle ex repubbliche socialiste federate nella Iugoslavia, si estesero nella seconda metà degli anni Novanta anche alla regione autonoma del Kosovo. Diversamente dagli altri casi, tuttavia, la regione non riuscì a conquistare una rapida indipendenza.
Alla repressione del movimento indipendentista da parte del governo di Belgrado fece infatti seguito, nel 1999, un intervento aereo della Nato che costrinse la Federazione Iugoslava ad accettare il ritiro di tutte le sue truppe dalla regione contesa. Al loro posto subentrò la Missione per l’amministrazione provvisoria del Kosovo delle Nazioni Unite (Unmik), sotto l’egida della quale 50.000 soldati Nato (Kosovo Force, Kfor) avrebbero dovuto assicurare stabilità e sicurezza alla regione, in attesa che un accordo di compromesso ne sancisse il nuovo status.
Il processo di transizione apertosi allora non è ancora giunto a compimento. A tutt’oggi vige infatti il complesso sistema di amministrazione provvisoria dell’Unmik, che assegna ampi poteri a un Rappresentante speciale nominato dalle Nazioni Unite, tra le cui prerogative vi è quella di scegliere i giudici e di porre il veto sulle disposizioni di legge adottate dal governo. Sotto al Rappresentante speciale si articolano una serie di istituzioni provvisorie: una presidenza, un governo e un’assemblea parlamentare.
Secondo le prescrizioni contenute nella risoluzione 1244, la stabilizzazione dell’area è passata attraverso un forte impegno da parte della comunità internazionale, sia sul piano militare che su quello civile. I compiti di mantenimento della pace e della sicurezza sono stati affidati alla missione Kfor della Nato. La componente civile dell’intervento internazionale è stata ;affidata a una delle più ambiziose e impegnative missioni nella storia delle Nazioni Unite: Unmik.
Quest’ultima è stata concepita come una missione destinata a gestire l’intera sfera amministrativa del Kosovo. L’Unmik si è articolata in quattro pilastri, ciascuno dei quali ricade sotto l’autorità del Rappresentante speciale del Segretario generale Un: il primo pilastro, gestito dall’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite (Unhcr) è responsabile degli affari umanitari (Human Affairs) e dal 2000 anche della giustizia e dell’applicazione della legge (Law Enforcement and Justice); il secondo pilastro, gestito dalle Nazioni Unite, è responsabile dell’amministrazione civile; il terzo pilastro, guidato dall’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce), è responsabile della democratizzazione e della ricostruzione istituzionale (Democratization and Institution Building); il quarto pilastro, a guida Eu, è responsabile per la ricostruzione economica.
Sempre nel quadro delle indicazioni presenti nella risoluzione 1244, l’Unmik ha dato vita a una amministrazione ad interim e neutra rispetto allo status del Kosovo: da un lato, essa è stata concepita come transitoria e, dall’altro, le Nazioni Unite si sono impegnate a facilitare i negoziati fra Serbia e Kosovo per stabilire se il paese sarebbe dovuto rimanere una provincia autonoma della Serbia oppure diventare uno stato indipendente, ma senza appoggiare l’una o l’altra soluzione.
Tuttavia, nel corso degli anni l’Unmik ha finito per non essere né transitoria, né neutrale. Diversi fattori hanno contribuito a rendere la presenza internazionale indispensabile e prolungata nel tempo: la quasi totale assenza di istituzioni efficaci in grado di amministrare autonomamente il territorio, il ritiro del personale e dei funzionari serbi, la persistenza di forti tensioni etniche, l’incertezza rispetto al futuro status della provincia. Per le stesse ragioni, quanto più la presenza internazionale è diventata tendenzialmente permanente e ha supplito all’intero quadro amministrativo del Kosovo, tanto più ha creato strutture di governo autonome dalla Serbia, molto vicine a una indipendenza de facto.
Nel 2008, la dichiarazione di indipendenza unilaterale da parte kosovara, paradossalmente, ha reso la presenza internazionale ancora più indispensabile. Per un verso, infatti, il tipo di indipendenza che la comunità internazionale è disposta ad accordare al Kosovo è un’indipendenza ‘vigilata’, ossia espressamente guidata dalle istituzioni internazionali presenti nel paese. Per un altro verso, la natura unilaterale della dichiarazione di indipendenza ha acuito le tensioni etniche, richiedendo un maggiore sforzo da parte dell’amministrazione internazionale per creare un quadro politico e istituzionale condiviso.
Così, al volgere di quasi un decennio di mediazioni fallite, è stato proprio al fine di dare nuovo impulso verso una rapida risoluzione della vicenda che nel febbraio 2008 il Parlamento kosovaro ha deciso di proclamare unilateralmente l’indipendenza dalla Serbia. Alla scontata reazione di Belgrado (e immediatamente dopo di Mosca, suo storico alleato) ha fatto seguito quella della regione settentrionale del Kosovo, a maggioranza serba, che ha proclamato l’istituzione di un Parlamento parallelo, consolidando la propria posizione di semi-autonomia da Priština.
Nell’aprile dello stesso anno l’assemblea parlamentare del Kosovo ha adottato una nuova Costituzione. Le elezioni anticipate del dicembre 2010, alle quali il partito del primo ministro uscente Hashim Thaçi, leader del Partito democratico del Kosovo (Partia Demokratike e Kosovës, Pdk), ha nuovamente ottenuto la maggioranza relativa dei seggi, sono state le prime ad essersi tenute in ossequio alla nuova legge elettorale e alle garanzie di rappresentanza delle minoranze previste dalla nuova Costituzione.
A fronte della difficile gestione della transizione sotto l’egida delle Nazioni Unite e del rodaggio della missione europea Eulex (European Union Rule of Law Mission), cui Unmik ha trasferito molte funzioni nel 2008, la dichiarazione d’indipendenza ha avuto l’effetto di inasprire le tensioni con Belgrado e di evidenziare le fratture a livello internazionale. Se oggi il Kosovo è stato riconosciuto da 74 stati nel mondo, tra cui l’86% dei membri della Nato e l’81% di quelli dell’Eu, rimane infatti ferma l’opposizione di alcune grandi potenze (Russia, Cina, India, Brasile), così come la titubanza di alcuni stati europei (Spagna, Cipro, Grecia, Slovacchia e Romania). Ad ogni modo il Kosovo continua oggi a sopravvivere solo grazie al sostegno della comunità internazionale (o buona parte di essa), che ne garantisce la sicurezza interna ed esterna e ne sorregge l’economia con ingenti aiuti internazionali.
Il parere della Corte del luglio 2010, adottato a maggioranza e non all’unanimità, afferma che tale dichiarazione non viola il diritto internazionale. Esso, tuttavia, non chiarisce quali siano le condizioni in base alle quali una dichiarazione unilaterale di indipendenza possa dare legittimamente origine a un nuovo stato, né se il Kosovo abbia i requisiti per essere considerato uno stato: di conseguenza, il parere non rappresenta una battuta d’arresto per il processo di indipendenza del Kosovo, ma al tempo stesso non fa venir meno la necessità di una soluzione politica della questione.
Quanto all’imprescindibile rapporto con la Serbia, quest’ultima ha proposto una seconda risoluzione all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, che mirava a mettere in discussione l’indipendenza del Kosovo ma che, grazie alle pressioni dell’Eu, è stata poi modificata, riconoscendo il parere della Corte e aprendo a un possibile dialogo tra Serbia e Kosovo. Tale indietreggiamento sembra confermare che la Serbia, desiderosa di aderire all’Eu, potrebbe di fatto riconoscere lo status del Kosovo in un prossimo futuro, restando però intransigente circa la rinuncia della sovranità kosovara sulla parte settentrionale della regione, a maggioranza serba, e il riconoscimento dello status extraterritoriale dei monasteri ortodossi presenti nel territorio kosovaro.
La popolazione kosovara, stimata in quasi due milioni di persone, è oggi composta da una netta maggioranza albanese (90%) e da numerose minoranze etniche: Serbi (6%), Bosniaci e Gorani (2%), Rom, Ashkali, Egiziani (1,5%) e Turchi (1%). Durante i bombardamenti Nato nel 1999 più di 800.000 albanesi emigrarono dal paese; al termine del conflitto e a seguito del ritiro delle forze iugoslave gran parte di loro rientrò in Kosovo, mentre circa 235.000 persone tra Serbi e membri delle altre minoranze emigrarono verso la Serbia e altri paesi europei. Attualmente il Kosovo ospita circa 20.000 sfollati.
I Serbi, minoranza nel paese, sono tuttavia maggioranza nelle province a nord del fiume Ibar e sono dislocati in alcune enclave in altre province a prevalenza albanese. L’area settentrionale del paese non riconosce la sovranità del Kosovo, e gode di una forte autonomia di fatto; tuttavia, alle elezioni municipali del 2009 l’affluenza dei Serbi ha raggiunto il 24%, rispetto all’assenza pressoché totale alle precedenti elezioni, e i loro rappresentanti sono stati eletti in tre municipalità.
La Costituzione del 2008, oltre all’albanese, riconosce il serbo come lingua ufficiale e prevede delle norme a tutela delle minoranze etniche, che sotto certi aspetti sono di fatto ancora discriminate. Sul piano religioso la maggioranza albanese è prevalentemente musulmana (solo il 3% degli Albanesi è di fede cattolica), e così anche le comunità bosniaca, gorana e turca; viceversa, la minoranza serba è prevalentemente cristiano-ortodossa. Sebbene la Costituzione tuteli la libertà di culto, dal 1999 si sono registrati attacchi ai luoghi di culto ortodossi associati alla popolazione serba, rimasti spesso impuniti.
La Banca mondiale stima che la scolarizzazione sia relativamente elevata, con circa 9 studenti su 10 iscritti alla scuola primaria e 3 su 4 a quella secondaria. Tuttavia la qualità dell’istruzione è variabile, vi sono ampie disparità tra le zone urbane e quelle rurali e in alcune aree i valori tradizionali costituiscono un ostacolo all’istruzione femminile, tanto che il tasso di scolarizzazione femminile nella scuola secondaria risulta del 20% inferiore rispetto a quello maschile.
Corruzione, crimine organizzato e traffici illeciti, endemici in tutto il paese, sono i problemi più gravi che il Kosovo si trova ad affrontare. Nel 2010 un rapporto commissionato dal Consiglio d’Europa è giunto persino a denunciare presunti legami del premier Thaçi con il crimine organizzato, in particolare per quanto concerne traffico di droga e di organi umani.
L’inadeguata tutela dei diritti di proprietà ostacola lo sviluppo economico e il consolidamento dello stato di diritto. La libertà di espressione risulta di fatto limitata a causa della mancanza di sicurezza, in particolare riguardo alle minoranze etniche.
L’economia del Kosovo è tra le minori in Europa, e la sua popolazione è tra le più povere. Secondo le stime del Fondo monetario internazionale il pil del paese ammonta a 5,4 miliardi di dollari, mentre secondo il ministero dell’economia kosovaro è di 7,5 miliardi di dollari. Il Pil pro capite, di 2985 dollari, è tra i più bassi in Europa.
Nonostante i progressi economici registrati dall’epoca del conflitto degli anni Novanta, l’economia kosovara è ancora in larga misura dipendente dall’assistenza tecnica e finanziaria della comunità internazionale e dalle rimesse: queste ultime contano infatti per circa il 30% del pil e provengono prevalentemente da emigrati in Germania e Svizzera.
La produzione industriale non è ancora ripresa a pieno regime e l’agricoltura, che conta per il 12% del pil, è un’attività generalmente di sussistenza e a bassa produttività. Di conseguenza la disoccupazione è elevata, e secondo alcune stime raggiungerebbe il 40% della popolazione attiva. Inoltre, definendo la povertà come un reddito inferiore a 45 euro pro capite al mese, la Banca mondiale ha calcolato che nel 2008 circa il 45% dei kosovari viveva sotto la soglia di povertà nazionale; tale povertà si concentra nelle aree rurali e nelle province di Mitrovica e Ferizaj.
Subito dopo la guerra, il Kosovo importava la quasi totalità dei beni di consumo e delle materie prime. In seguito, con la ricostruzione e la parziale ripresa della produzione, il paese ha importato più macchinari industriali e materie prime e ha cominciato a esportare. Nel 2008 le esportazioni rappresentavano solo il 6% del pil, ma sono in rapido aumento. Principali prodotti esportati sono metalli e relativi derivati (63% del totale) e alimentari, mentre i maggiori destinatari sono Italia, Albania, Macedonia e Grecia. L’Eu nel suo complesso è il più importante partner commerciale e il primo investitore straniero. Al fine di favorire l’in;tegrazione regionale del Kosovo, nel 2006 l’Unmik ha firmato l’adesione all’Accordo di libero scambio dell’Europa Centrale (Cefta); tuttavia, a seguito della dichiarazione di indipendenza del Kosovo, il processo di integrazione è rallentato a causa della richiesta del Kosovo di partecipare come stato sovrano e non sotto la tutela dell’Unmik, richiesta cui la Serbia si è opposta. In ambito monetario, non avendo una propria valuta e considerando i rilevanti legami economici con l’Eu, il Kosovo ha adottato l’euro, sebbene nell’area settentrionale del paese continui a circolare anche il dinaro serbo. A ulteriore dimostrazione del sostegno (anche economico) della comunità internazionale, nel giugno 2009 il Kosovo ha fatto inoltre il suo ingresso in due tra le maggiori istituzioni finanziarie internazionali: Banca mondiale e Fondo monetario internazionale.
Il settore energetico kosovaro risente di anni di mancanza di investimenti e attualmente non soddisfa il fabbisogno della popolazione, sebbene quando era ancora regione della Serbia il Kosovo fosse un esportatore netto di elettricità. Il paese non possiede rilevanti riserve di gas e petrolio ma dispone di grandi giacimenti di lignite, un minerale assimilabile al carbone, che viene usato per la produzione di elettricità. Di conseguenza il paese ha il potenziale per ricominciare a esportare energia, ma deve sviluppare le capacità; la crescita del settore potrebbe avere peraltro un impatto significativo sullo sviluppo economico e sull’occupazione.
Dopo l’entrata in vigore della nuova Costituzione, nel giugno 2008, il Parlamento kosovaro ha approvato la creazione dei ministeri degli esteri, della difesa e delle forze armate. In realtà, tuttavia, questi dicasteri rimangono istituzioni senza competenze, in quanto le loro funzioni sono in larga parte esercitate dalle forze internazionali stabilmente presenti nel paese.
Se da una parte è vero che a metà 2008 il Segretario generale delle Nazioni Unite ha deciso di ridimensionare il contingente civile Unmik, le competenze della missione delle Nazioni Unite sono state trasferite in capo alla missione europea inaugurata lo stesso anno, Eulex, e non all’amministrazione locale. Composta da circa 3200 persone, 2000 delle quali sono personale internazionale proveniente in gran parte da paesi europei, Eulex è subentrata alle Nazioni Unite nei suoi tre ruoli di garanzia della sicurezza interna, miglioramento dell’amministrazione della giustizia e controllo doganale. L’obiettivo rimane quello di trasferire tali competenze al governo locale, ma il processo, legato ai progressi dimostrati dal governo kosovaro nelle tre aree di competenza Eulex, procede con estrema lentezza.
Ugualmente importante è il ruolo rivestito dalla missione militare Kfor, sotto comando Nato, alla quale partecipano 30 paesi. Le tensioni originate dalla non autosufficienza economica del Kosovo e dai numerosi traffici illegali che transitano per il paese, sommate alle difficili relazioni con la minoranza serba e con Belgrado, rendono ancora necessaria la presenza in pianta stabile di una forza militare. Dopo aver raggiunto un picco di 50.000 soldati, nel 2011 le forze Kfor presenti in Kosovo ammontavano a circa 8500 militari e il contingente dovrebbe essere ulteriormente ridotto fino a raggiungere la quota di 5000. Tuttavia il ridimensionamento del contingente non muta l’obiettivo delle forze Nato, che resta quello di costituire un potenziale di deterrenza, in gran parte simbolico, nei confronti di qualunque minaccia di intervento militare estero.