Floro, L. Anneo (O Annio O Giulio)
Maestro di retorica oriundo dell'Africa, scrisse sotto Adriano una storia di Roma dalle origini sino ad Augusto, la Epitome de Tito Livio o Bellorum omnium annorum septingentorum libri duo, che vuol essere un'esaltazione del popolo romano, di cui sono narrate le gesta compiute nei vari periodi paragonati alle corrispondenti età che regolano la vita umana dall'infanzia all'adolescenza, alla giovinezza, alla maturità, alla vecchiaia.
L'opera obbedisce alle esigenze di uno stile retorico poetizzante, che indulge spesso a forti effetti di toni e di colori attestanti la natura e le finalità del suo autore, che si propone di percorrere in breve le tappe prodigiose che, per fatale disegno, portarono al miracolo dell'Impero di Roma. Ritenuta (ma a torto, come notò per la prima volta Giusto Lipsio) un compendio della monumentale opera liviana, dalla quale spesso discorda, si sostituì presto a essa, perché più rispondente alle esigenze della scuola, e nel Medioevo finì talvolta per essere scambiata per il ‛ volume ' stesso di Livio.
Il titolo è inesatto e con tutta probabilità si spiega col fatto che in numerosi codici dopo l'opera di F. seguono le Periochae, brevi sommari o indici dei singoli libri dell'opera liviana compilati forse nel IV secolo e a noi trasmessi per intero, a eccezione dei libri 136 e 137, in numerosi codici, tra cui il Palatino latino 894 ora Heidelbergensis, del IX secolo, e il Parisinus 7701 del sec. XII, che attestano la loro diffusione nel Medioevo.
L'Epitome di F. ebbe grande fortuna: la utilizzarono tutti i grandi compilatori e cronisti dell'alto Medioevo, che proprio attraverso essa conobbe i fatti più salienti della storia di Roma. Anche nel basso Medioevo e agl'inizi del Rinascimento la sua fortuna fu grande: il Petrarca, che possedeva un vero Livio, non esitò a sottolineare (Fam. III XVIII 6) la " florentissima brevitas " di Floro, che lo stimolò " ad inquirendas Titi Livii reliquias ".
Il nome di F. non è mai ricordato nell'opera di D., ma che egli abbia direttamente conosciuto la sua opera è certo ed è stato già dimostrato da parecchi studiosi.
In un passo del Convivio (IV V 10) D. esalta le virtù e i meriti per mezzo dei quali Roma ottenne l'impero del mondo, paragonando il processo di svolgimento della grandezza di Roma alle diverse età dell'uomo, da Romolo incominciando, che fu di quella primo padre, infino a la sua perfettissima etade. A prescindere dall'interpretazione che D. dà del processo provvidenziale della storia di Roma, giova notare che egli inizia la narrazione sul modello di F. (I 1): " Populus Romanus a rege Romulo usque ad Caesarem Augustum, septingentos per annos, tantum operum pace belloque gessit ... ut qui res eius legunt non unius populi, sed generis humani facta discant... Si quis ergo populum Romanum quasi hominem consideret, totamque eius aetatem percenseat, ut coeperit, utque adoleverit, ut quasi ad quendam iuventae florem pervenerit; ut postea velut consenuerit, quatuor gradus processusque eius inveniet. Prima aetas sub regibus fuit... ".
Proseguendo, in Cv IV V 11 D. dice: Che se consideriamo li sette regi che prima la governaro, cioè Romolo, Numa, Tullo, Anco e li re Tarquini, che furono quasi baiuli e tutori de la sua puerizia, noi trovare potremo per le scritture de le romane istorie, massimamente per Tito Livio, coloro essere stati di diverse nature, secondo l'opportunitade del pr[o]cedente tempo. Qui, se non si può negare che D. quando nomina insieme li re Tarquini aveva presente, come ha notato per la prima volta il Toynbee (Studies and Researches, p. 288), Virgilio (Aen. VI 756-853), da lui utilizzato anche altrove (cfr. Mn II V 9, 11-13) si deve però ammettere che egli organizza la sua esposizione su un passo di F. (I 2 [8]): " Haec est prima aetas populi Romani et quasi infantia, quam habuit sub regibus septem, quadam fatorum industria tam variis ingenio, ut rei publicae ratio et utilitas postulabat ". È evidente che qualsiasi obiezione è destinata a cadere dinanzi alla precisa corrispondenza dell'espressione dantesca coloro essere stati di diverse nature, secondo l'opportunitade del pr[o]cedente tempo, con quella di F.: " quadam fatorum industria tam variis ingenio, ut rei publicae ratio et utilitas postulabat ", e al fatto giustamente notato da Busnelli-Vandelli (cfr. ad l.) che F. spiega subito dopo, in modo assai succinto, rispondente del resto alle esigenze e all'economia dell'opera di D., " l'opportunità dei tempi diversi, attribuendo a Romolo la fondazione del regno, a Numa la religione, a Tullo la virtù militare, ad Anco l'ingrandimento dell'Urbe, a Tarquinio Prisco le insegne del potere, a Servio il censimento, al Superbo l'occasione dell'amore della libertà ".
Nell'ambito di questa precisa organizzazione espositiva della storia di Roma si deve includere il passo immediatamente seguente (Cv IV V 12): Se noi consideriamo poi [quella] per la maggiore adolescenza sua, poi che da la reale tutoria fu emancipata, da Bruto primo consolo infino a Cesare primo prencipe sommo, noi troveremo lei essaltata non con umani cittadini, ma con divini, ne li quali non amore umano, ma divino era inspirato in amare lei. Al quale fa riscontro F. (I 17 [22]): " Haec est secunda aetas populi Romani et quasi adolescentia, qua maxime viruit et quodam flore virtutis exarsit ac ferbuit "; I 17 [26]: " Talis domi ac foris, talis pace belloque Populus Romanus fretum illud adolescentiae, idest secundam imperii aetatem habuit: in qua totam inter Alpes fretumque Italiam armis subegit "; e I 18 [II 1]: " Domita subactaque Italia, Populus Romanus prope quingentesimum annum agens, quum bona fine adolevisset, si quod est robur, si qua iuventus, tum ille vere robustus et iuvenis et par orbis terrarum esse coepit. Itaque (mirum et incredibile dictu) qui prope quingentis annis domi luctatus est (adeo difficile fuerat dare Italiae caput), hic ducentis annis, qui sequuntur, Africam, Europam, Asiam, totum denique orbem terrarum bellis victoriisque peragravit ". È vero che F. poco appresso (I 34 [II 19]), dopo aver ricordato le virtù del popolo romano, definito " pulcher, egregius, pius, sanctus atque magnificus ", aggiunge che " reliqua saecula ut grandia aeque, ita vel magis turbida et foeda ", ma è giusto notare con Busnelli-Vandelli che D. " più che de' difetti del popolo romano, ragiona delle sue virtù e della migliore sua adolescenza ed età maggiore, per poter lodarlo, e dimostrare come con le sue opere buone concorresse all'adempimento degli alti consigli intesi dalla provvidenza divina ". In sostanza D. ha derivato qui da F. solo le linee fondamentali per la sua sintesi storica.
La lunga serie d'interrogative che seguono costituisce, come ha già notato il Renucci (p. 161, n. 415), un ulteriore elemento comprovante l'influsso esercitato da Floro. Ma la menzione dei corrispondenti passi dell'epitome floriana spiega solo in parte quelli danteschi; per il resto è necessario fare ricorso ad altre fonti classiche o medievali.
Un sicuro riecheggiamento di un passo di F. è in Cv IV V 15 Chi dirà di Quinzio Cincinnato, fatto dittatore e tolto da lo aratro, e dopo lo tempo de l'officio, spontaneamente quello rifiutando a lo arare essere ritornato? al quale fa riscontro un passo della Monarchia (II V 9) dove D. ricorda Cincinnato come exemplum libere deponendi dignitatem (Nonne Cincinnatus ille sanctum nobis reliquit exemplum libere deponendi dignitatem in termino cum, assumptus ab aratro, dictator factus est, ut Livius refert, et post victoriam, post triumphum, sceptro imperatorio restituto consulibus, sudaturus post boves ad stivam libere reversus est?). È evidente che i due passi hanno una diversa intonazione: nel Convivio Cincinnato è uno degli eccellentissimi che furono strumenti con li quali procedette la divina provedenza ne lo romano imperio e le cui mirabili operazioni furono accompagnate da alcuna luce de la divina bontade (IV V 17). D. se ne ricorderà anche in Pd XV 129 e soprattutto VI 46-47 Quinzio, che dal cirro / negletto fu nomato. Nella Monarchia (II V 1) Cincinnato è ricordato soprattutto come esempio di cittadino che si propone il bene pubblico, che coincide col fine del diritto, in quanto quicunque... bonum rei publicae intendit, finem iuris intendit, anche qui in antitesi alla tesi agostiniana; secondo la quale non c'è giustizia dove non c'è vero Dio. Nel passo della Monarchia ricordato sopra D. chiama direttamente in causa Livio (ut Livius refert), e subito dopo Cicerone, di cui riporta le parole Itaque, inquit, et maiores nostri ab aratro duxerunt Cincinnatum illum ut dictator esset (Fin. II IV 12; cfr. Senect. XVI 56). Livio (III XXVI 7, XXIX 7) non dice nulla del ritorno di Cincinnato ai buoi. Il richiamo a Orosio (II XII 8 " jugum boum Aequis imposuit, victoriamque quasi stivam tenens, subiugatos hostes prae se primus egit ") fatto dal Fraticelli, cui si oppone lo Schück (p. 270), e dal Witte citato dal Moore (Studies in D., 1276) è soltanto formale. D. ha letto di Cincinnato anche in s. Agostino (Civ. V 18) e in altre fonti scolastiche (cfr. G. Vinay, comm. alla Monarchia, p. 137), ma quando scriveva il passo del Convivio e della Monarchia egli aveva sotto gli occhi F. (I 5 [I 11]): " sic expeditione finita redit ad boves rursus triumphalis agricola ", com'è stato già notato, oltre che dal Moore, dallo Scherillo (pp. 332 ss.).
Qui è opportuno accennare al successivo passo del Convivio (IV V 15), dove D. dice: Chi dirà di Cammillo, bandeggiato e cacciato in essilio, essere venuto a liberare Roma contra li suoi nemici, e dopo la sua liberazione, spontaneamente essere ritornato in essilio per non offendere la senatoria autoritade, sanza divina istigazione?, cui corrisponde Mn II V 12 qui [Camillo], secundum Livium, dampnatus exilio, postquam patriam liberavit obsessam, spolia etiam romana Romae restituit, universo populo reclamante, ab urbe sancta discessit, nec ante reversus est quam cibi repatriandi licentia de auctoritate senatus allata est. Ma anche qui del secondo esilio di Camillo Livio non sa nulla, né D. d'altra parte mostra di sapere (come ha già notato lo Scherillo, p. 332) ciò che Livio (V, XXXII, XLIII, XLV, XLVI ss.) dice. È tuttavia errato cercare la soluzione col richiamarsi a F. (I 17 [22, 4] " ut ipsum Camillum, quod inique inter plebem et exercitum divisisse Veientem praedam videretur. Sed hic melior in capta urbe consenuit et mox supplices de hoste Gallo vindicavit. Cum senatu quoque vehementius aequo bonoque certatum est, adeo ut relictis sedibus solitudinem et interitum patriae suae minaretur ") e supporre, con lo Schück (pp. 266 ss.) seguito da Busnelli-Vandelli, che D. avesse frainteso l'espressione " hic melior in capta urbe consenuit ", o perché non ricordava bene o perché interpretava male, ritenendo che il vincitore dei Galli, dopo la liberazione di Roma, ritornasse a trascorrere il resto della sua vita in esilio.
Nulla vieta in questo caso di pensare che D. ricordasse l'episodio di Camillo da più fonti (oltre F., Aurelio Vittore Vir. illustr. 23; s. Agostino Civ. II 18, III 17), ma bisognerà ammettere, come ha rilevato già lo Scherillo (p. 342) seguito dal Renucci (p. 161 n. 419), in considerazione anche del fatto che nel passo citato della Monarchia D. chiama subito dopo a testimone l'autorità di Virgilio (Et hunc magnanimum Poeta commendat in sexto cum dicit: referentem signa Camillum [Aen. VI 825]), che D., insieme col poeta mantovano, tenesse presente il commento di Servio ad l. (Il p. 116, ediz. Thilo-Hagen), dove si legge: " post hoc tamen factum [la vittoria sui Galli] rediit in exilium, unde rogatus reversus est ".
In Cv IV V 18 D. parla dell'assalto notturno al Campidoglio per opera dei Galli: Non puose Iddio le mani proprie, quando li Franceschi, tutta Roma presa, prendeano di furto Campidoglio di notte, e solamente la voce d'una oca fè ciò sentire? (cfr. anche Mn II IV 7). Anche in questo caso il richiamo a Livio è stato, e a ragione, fortemente messo in dubbio, obiettando che lo storico (V XLVII) non parla di una sola, ma di più oche (" anseres ") sacre a Giunone, che svegliarono Manlio " clangore... alarumque crepitu ". In verità nel passo della Monarchia D. non chiama in causa il solo Livio, giacché egli dice Livius et multi scriptores illustres concorditer contestantur. E gli scriptores illustres sono molti: Aurelio Vittore (Vir. illustr. 24), s. Agostino (Civ. II 22, dove si parla di " anseres ", e III 8 " ad vocem anseris "), Vincenzo di Beauvais (Spec. histor. III 81, che cita Eusebio), Isidoro, s. Ambrogio, Orosio il quale in II 19 parla del fatto, non delle oche. In tutte queste fonti, tranne nel secondo passo di s. Agostino, manca il particolare di una sola oca, che si trova unicamente in F. (I 7 [13] Manlio " clangore anseris excitatus ") e in Virgilio Aen. VIII 655 " argenteus anser ".
Il confronto dei passi danteschi con quelli di F. e di Virgilio non consente di rintracciare altri elementi indicativi a favore di una delle due fonti latine, segnalate entrambe già dal Moore (Studies in D., 1275). Come ha notato lo Scherillo (p. 342), D., che conosceva a memoria l'Eneide, specialmente il VI libro dove si fa la rassegna della storia di Roma e del quale si servì come fonte principale nei capitoli IV e V del II libro della Monarchia, nel V capitolo del trattato IV del Convivio e nel VI canto del Paradiso (indirettamente anche nei canti XVI e XVII), nel giudizio di valutazione espresso in Mn II III 6, considera Virgilio sommo testimone e garante della verità storica delle vicende di Roma (divinus poeta noster... testatur in memoriam sempiternam), accanto al quale gode di altissima stima la testimonianza di Tito Livio, che conferma (contestatur) quella virgiliana. Si potrebbe, lasciando da parte Livio, supporre che una oca del Convivio e anserem ibi non ante visum della Monarchia derivino dall'" argenteus anser " di Virgilio (Aen. VIII 655), chiosato da Servio (ad l.) così: " Manlius... clangore anseris excitatus, quem privatus quidam dono Iunoni dederat; namque, secundum Plinium, nullum animal ita odorem hominis sentit… In Capitolio, in honorem illius anseris... positus fuerat anser argenteus ". Servio, che D. conosceva, avrà certo contribuito, con la sua chiosa, a fermare l'attenzione del poeta sulla singolarità dell'episodio, che D. aveva letto persino nel Tresor di Brunetto Latini, che riprendendo Plinio, direttamente o indirettamente, scrive che nessun animale " sente si bien les homes come eles [le oche] font; et à lor cri furent aperceu li Francois quant il voloient prendre le Capitoile de Rome, selonc ce que l'istoire nos raconte " (p. 206 ediz. Cabaille). Ma Virgilio è citato nella Monarchia dopo Livius et multi scriptores illustres, e la discordanza tra D. e Livio ha indotto lo Schück (p. 269) a supporre che l'espressione dantesca stia per " Florus und Verfasser von Sagen " e ad avanzare l'ipotesi che D. non conoscesse F., la cui opera passava come estratto da Livio, sotto il suo nome, ma lo chiamasse addirittura Livio. Comunque stia la cosa, è certo che la coincidenza, in questo particolare, tra D. e F. serve a dimostrare che D. ha tenuto presente per questo episodio, che egli aveva letto anche in numerose altre fonti, l'Epitome, da lui utilizzata non solo nelle linee generali, ma, come si vedrà meglio in seguito, anche in particolari di estrema singolarità.
Un problema strettamente analogo presenta il passo immediatamente seguente (Cv IV V 19): E non puose Iddio le mani, quando, per la guerra d'Annibale avendo perduti tanti cittadini che tre moggia d'anella in Africa erano portati, li Romani volsero abbandonare la terra, se quel benedetto Scipione giovane non avesse impresa l'andata in Africa per la sua franchezza? Qui è necessario richiamarsi a If XXVIII 10-11 la lunga guerra / che de l'anella fé si alte spoglie, / come Livïo scrive, che non erra. Il passo dell'Inferno non desterebbe sospetti e si sarebbe propensi a spiegare alte spoglie con il " tantus acervus " che secondo Livio (XXIII 1) si formò con le anella dei Romani uccisi a Canne, se nel Convivio non si parlasse di tre moggia d'anella, mentre Livio riferisce la notizia solo per negarla. Egli dice che Magone, per dare al senato cartaginese la prova dell'entità della vittoria, " effundi in vestibulo curiae iussit anulos aureos, qui tantus acervus fuit, ut metientibus supra tris modios explesse sint quidam auctores; fama tenuit, quae propior vero est, haud plus fuisse modio ". È chiaro che se D. avesse tenuto scrupolosamente presente Livio, che non erra, avrebbe dovuto rispettare la rettificazione dello storico che parla di un solo moggio. Già lo Schück (269 ss.) seguito dal Moore (Studies in D., I 274 ss.) ha indicato in Orosio (Hist. IV XVI 5 " in testimonium victoriae suae tres modios anulorum aureorum Carthaginem misit ") la fonte di questo passo e lo Scherillo (pp. 331 e 341, che ricorda F. Frezzi Quadriregio II 9 " non quella che riempiè i moggi d'anella ") ha giustamente escluso per il particolare di questo episodio l'influenza di F. (I 22 [II 6]) che, seguito da Giovanni di Salisbury (Policr. III 10), pala di due moggia (" modii duo anulorum Carthaginem missi dignitasque equestris taxata mensura "). Si può solo aggiungere, senza con ciò spostare la conclusione sulla derivazione di questo particolare, quanto notato dal Renucci (p. 161 n. 416), che di tre moggia parlano, oltre Orosio, anche s. Agostino (Civ. III 19) ed Eutropio (Epit. III 11).
Un'altra allusione a F. potrebbe esserci nell'espressione omnes fere scribae romanae rei, impiegata da D. in Mn II IV 10 a proposito della traversata del Tevere a opera di Clelia. È stato notato dal Vinay (commento alla Monarchia, p. 130) che il fere " potrebbe alludere a Floro che non accenna all'eroina, se non fosse dubbia la grande dimestichezza con questo autore ". Senza negare che D. abbia derivato l'episodio da Orosio (Hist. II V 3), come ha dimostrato il Toynbee (Dante Studies, p. 127) seguito da quasi tutti gli studiosi, è opportuno ricordare che di Clelia fa menzione Virgilio (Aen. vici 651 " et fluvium vinclis innaret Cloelia ruptis "; cfr. Giov. VIII 264-265), che presenta una molto profonda rispondenza terminologica con il passo della Monarchia, dove, tra l'altro, si legge abruptis vinculis... transnavit Tyberim. Ma probabilmente fere non esclude F. che in I 4 [10] parla, anche se assai succintamente, di Clelia (" una ex opsidibus regi datis elapsa custodiam, Cloelia, per patrium flumen equitabat "), ricordandola come uno di " illa tria Romani nominis prodigia atque miracula ", insieme con Orazio Coclite e Muzio Scevola. E D., che nei particolari terminologici caratterizzanti la fonte sembra decisamente discostarsi da F., dove certo ha letto l'accenno a Clelia, definisce mirabilis la traversata del Tevere a opera dell'eroina.
Le stesse considerazioni possono valere, appunto, per l'esaltazione che D. fa del gesto di Muzio Scevola - di cui D. si ricorderà anche in Pd IV 84 e fece Muzio alla sua man severo - in Mn II V 14 Quid non audendum pro patria nobis Mutius persuasit cum incautum Porsennam invasit, cum deinde manum errantem, non alio vultu quam si hostem cruciari videret, suam adhuc, cremari aspiciebat?, e in Cv IV V 13 e Muzio la sua mano propria incendere, perché fallato avea lo colpo che per liberare Roma pensato avea?. D. poteva leggere l'episodio oltre che in Livio (II XII), alla cui autorità egli qui, come altrove, si richiama esplicitamente, e Aurelio Vittore (Vir. illustr. 15), anche in F. (I 4 [10]).
Il sospetto che D. abbia utilizzato - anche se sotto forma di lontana reminiscenza - F. anche in Mn II V 15-16 sorge spontaneo, ove si consideri quanto egli dice a proposito dei Deci (illae sacratissimae victimae Deciorum, qui pro salute publica devotas animas posuerunt, ut Livius, non quantum est dignum, sed quantum potest glorificando renarrat), dei quali celebra il sacrificio della vita pro salute patriae, chiamando subito dopo a testimone - citandone inoltre il passo - Cicerone (Fin. II XIX 61; cfr. anche Tusc. I XXXVII 89) che dei tre Deci fa una solenne esaltazione. Livio (VIII IX e X XXVIII) ne ricorda solo due (P. Decio Mure, sacrificatosi nel 340 a.C., e il figlio omonimo, sacrificatosi nel 295 a.C.); due ne ricordano Valerio Massimo (V VI 5-6), Aurelio Vittore (Vir. illustr. 26 e 27), Servio nel commento a Virgilio Aen. VI 824-825 " quin Decios Drusosque procul... / aspice ", da cui si deve intendere derivato Cv IV V 14 Chi dirà de li Deci e de li Drusi, che puosero la loro vita per la patria? (cfr. Toynbee, D. Studies and Researches, p. 290). Prescindendo dal ricordo, polemico, che ne fa s. Agostino (Civ. IV 20, V 14 e 18) e dalla menzione in Giovenale (VIII 254 ss.), Seneca (Epist. LXVII 9) e Giovanni di Salisbury (Policr. IV XI 1 272), non si può tuttavia tralasciare di ricordare F. (I 9 [14]), che dice: " alter [cioè il secondo dei Deci] quasi monitu deorum capite velato primam ante aciem dis manibus se devoverit ". È significativo che già lo Scherillo (p. 341), sulle orme dello Schück (pp. 266 ss.), in considerazione dell'estrema concisione della narrazione floriana, avesse sospettato che nell'espressione dantesca ut Livius, non quantum est dignum, sed quantum potest glorificando renarrat si nascondesse " qualcosa di più essenziale di un complimento rettorico ".
Altre considerazioni si potrebbero fare, p. es., a proposito dell'accostamento che D. fa in Cv IV V 13 di Fabrizio e Curio Dentato, falsamente uniti come consoli in F. (I 13 [18]), o di probabili allusioni a F. nascoste in espressioni generiche del tipo di ystoriographi omnes di Mn I XVI 2, chimati a testimoni delle felici condizioni del genere umano da Dio predisposte prima dell'incarnazione.
Le reminiscenze da F. nella Commedia sono caratterizzate da una più spiccata e meditata utilizzazione della fonte sotto l'aspetto della terminologia, a parte If II 20-21 ch'e' fu de l'alma Roma e di suo impero / ne l'empireo ciel per padre eletto, dove si è voluto cogliere il segno della suggestione esercitata su D. da F. (I 1 [I 1] " Primus ille et urbis et imperii conditor Romulus fuit "), benché qui l'espressione sia riferita a Romolo, e da D., invece, a Enea. L'ultimo degli esempi di Pg XX (116-117) si riferisce alla sorte toccata al triunviro M. Licinio Crasso (ultimamente ci si grida: " Crasso, / dilci, che 'l sai: di che sapore è l'oro ? "). Di Crasso parla Cicerone (Off. I XXX, II XVI 57, opera com'è noto familiare a D.), ma D. ha tenuto presente, come del resto è stato più volte rilevato, F. (I 46 [II 1] " Caput eius [di Crasso] recisum cum dextera manu ad regem reportatum ludibrio fuit, neque indigno. Aurum enim liquidum in rictum oris infusum est, ut cuius animus arserat auri cupiditate, eius etiam mortuum et exangue corpus auro ureretur "). La natura degli esempi, riferiti per rapidi cenni, toglie necessariamente al verso dantesco l'effetto dell'immediatezza e lo spoglia dei particolari caratterizzanti più significativamente la fonte, indicata dai commentatori ora in Cicerone (p. es. Vandelli, Momigliano), ora in F. (Provenzal, Barbi), ora in entrambi (p. es. Sapegno). In conclusione, per l'episodio della morte di Crasso si può presumere che D. tenesse presente l'Epitome di F., come del resto ha già notato anche il Renaudet (p. 497).
Nel VI canto del Paradiso D. esalta in Cesare il legittimo artefice dell'universalità dell'Impero di Roma, che opera in armonia col disegno divino e su questo sfondo proietta le sue prodigiose gesta: E quel che fé da Varo infino a Reno, / Isara vide ed Era e vide Senna / e ogne valle onde Rodano è pieno (vv. 58-60). Alcuni commentatori (Scartazzini-Vandelli, Barbi, Momigliano) hanno notato che questa terzina deriva le sue designazioni topografiche da un passo di Lucano (I 395-434); altri (per es. Sapegno) richiamano oltre il passo di Lucano anche F. (I 37 [III 2]), riferito ad altro avvenimento.
Senza negare, ovviamente, che D. ricordasse anche il passo di Lucano, si deve qui ammettere che la terzina dantesca riecheggia il passo di F.: " Varus victoriae testis, Isaraque et Vindelicus amnis, et impiger fluminum Rhodanus ", che così com'è stato qui riportato si discosta molto dalla lezione oggi accettata, che non è quella del codice che D. aveva a disposizione. Una parte della tradizione manoscritta di F. ha, infatti, al posto di " Varusque " (tradito nei codici T ed E Rehd. Firm. II vulg.) " utriusque " (tradito nei codici V ed R Firm. I e così emendato da Iahn; " variusque " degli altri codici è un errore di banalizzazione), accettato appunto dalla Malcovati, che legge " utriusque victoriae testes ", accogliendo anche la correzione di Ducker, che corregge il " testis " dei codici, considerando l'espressione allusiva alle due vittorie, di cui si parla immediatamente prima, sui Salluvii e sugli Allobrogi e Arverni. Può essere forse di qualche significato ricordare che il cod. I (Ticiniensis Aldinius 228) contiene, dopo l'Epitome di F., anche Ditti Cretese, e che il Firm. Il (Firmanus 4 C A 2 n. 81) del XIV secolo contiene, oltre F., le Vite dei dodici Cesari di Svetonio, la quarta deca di Livio, il Breviarium di Festo, la Catilinaria e la Giugurtina di Sallustio.
Resta ora da vedere un altro passo del VI canto del Paradiso. Fino a oggi si era ritenuto che il riecheggiamento dall'Epitome di F. si esaurisse nel v. 70 (Da indi scese folgorando a Iuba) che riprenderebbe (a prescindere dal fatto che una simile immagine ricorre nelle Epistole di D.: IV 2 mulier, ceu fulgur descendens e V 11, detta dell'aquila, cum sublimis aquila fulguris instar descendens adfuerit) il passo di F. (III 13 [IV 2], p. 178 ediz. Malcovati: " more fulminis, quod uno eodemque momento venit, percussit, abscessit "), che avrebbe suggerito a D. l'immagine della repentinità dell'azione di Cesare che folgorando piombò su Giuba, re della Mauritania e fautore dei pompeiani, e lo privò del trono.
Si deve al Mariotti l'aver notato la corrispondenza tra i vv. 64-72 e F. (Il 13 [IV 2], p. 167 ediz. Malcovati: " inde se in Galliam Hispaniamque deflexit reversumque ab occasu totis viribus in Epiro Thessaliaque consedit; hinc in Aegypton subito transilivit, inde respexit Asiam, Africae incubuit, postremo in Hispaniam regyravit et ibi aliquando defecit ".
D. - osserva il Mariotti - fa fare al sacrosanto segno nelle mani di Cesare il giro del mondo, indicando nella Spagna la prima e l'ultima meta, senza mai farlo tornare indietro (ed eliminando per questo la guerra contro Farnace), quasi per indicare la predestinata universalità delle sue conquiste. Rispetto al passo di F., dal punto di vista della struttura esterna (ché solo in questo senso si può fare, ovviamente, un paragone), D. rispetta il succedersi delle imprese, tralasciando di menzionare quelle che implicano un ritorno, rispetto alla visione ‛ circolare ' dello svolgimento dei fatti che ebbero come teatro tutto il Mediterraneo, simbolo dell'universalità della storia di Roma. Dopo la Spagna D. ricorda Durazzo e Farsaglia, facendo giungere l'eco della percossa al Nil caldo, quindi Antandro e Simoenta, da dove il sacrosanto segno si mosse, poi la spedizione in Egitto per punire Tolomeo del tradimento, infine l'azione contro Giuba, re della Mauritania, per far terminare il suo volo prodigioso nel vostro occidente, / ove sentia la pompeana tuba. Anche l'ultima terzina (vv. 70-72) si chiude con l'immagine dell'eco che giunge da una terra lontana, quasi a significare la repentinità dell'attuarsi del disegno dell'aquila, che qui è il soggetto e l'anima delle gesta. Giustamente il Mariotti rileva nei versi danteschi anche riecheggiamenti di termini ed espressioni floriane: " se in Galliam Hispaniamque deflexit " fa ricordare Inver' la Spagna rivolse lo stuolo (v. 64); " reversumque ab occasu " fa, a sua volta, ricordare si volse nel vostro occidente (v. 71); " hinc in Aegypton subito transilivit " sembra riecheggiato in saltò Rubicon del v. 62, e infine l'espressione " in Hispaniam regyravit " segna l'ultima meta e suggerisce quella idea di circolarità (" regyravit ") che D. rappresenta nel volo dell'aquila.
Circolarità e repentinità sono gli aspetti qualificanti il prodigioso attuarsi delle imprese del sacrosanto segno. D., nota il Mariotti, trovava nello stesso F. sottolineato anche questo secondo aspetto: " Si moram belli, quattuor anni, sed pro clade rerum breve tempus; si locum et spatium ubi commisum est, intra Italiam ". E se ne è certamente ricordato quando scriveva la terzina precedente (VI 61-63 Quel che fé poi ch'elli uscì di Ravenna / e saltò Rubicon, fu di tal volo, / che nol seguiteria lingua né penna), che rappresenta l'anello di congiunzione con i tre versi precedenti, anch'essi non pienamente spiegabili senza il passo di Floro.
Bibl.-Per il testo di F.: L. Annaei Flori Quae exstant, a c. di E. Malcovati, Roma 1938. Sulla fortuna di F. nel Medioevo: M. Manitius, Geschichte der lateinischen Literatur des Mittelalters, III, Monaco di B. 1931, 255, 389, 638; J.W. Thompson, History of historical Writings, New York 1942; V. Alba, La conceptión historiográfica de Lucio Anneo F., Madrid 1953, 156; S. Mariotti, Il canto VI del Paradiso, in Nuove lett. v. Cfr. inoltre: J. Schück, Dantes classische Studien und Brunetto Latini, in " Neue Jahrbücher für Philologie und Paedagogik " XCII (1865) 265 ss.; E.Moore, Studies in D., I, Oxford 1896, ad indicem; M. Scherillo, D. e Tito Livio, in " Rend. Ist. Lomb. " s. 2, XXX (1897) 330 ss.; le recensioni a E. Moore, Studies in D., I, di E. Rostagno, in " Bull. " V (1897) 7; di M. Scherillo, in " Giorn. stor. " XXXII (1898) 165; N. Zingarelli, D. e la Puglia, in " Giorn. d. " VIII (1900) 388 ss.; P. Toynbee, D. Studies and Researches, Londra 1902, 127, 288, 290; L. Sorrento, Medievalia, Brescia 1943; A. Renaudet, D. humaniste, Parigi 1952, 490, 497; P. Renucci, D. disciple et juge du monde gréco-latin, ibid 1954, ad indicem; C, Till Davis, D. and the idea of Rome, Oxford 1957.