L’area del Mediterraneo
Non è facile occuparsi del Mediterraneo: non ci sono punti di osservazione privilegiati, né discipline esclusive attraverso cui guardarlo, né tanto meno è possibile averne una visione univoca. Ogni osservazione, com’è ovvio, è relativa, così come relativa risulta ogni rappresentazione grafica o letteraria che su quella si fondi, in quanto entrambe condizionate dalla formazione di chi guarda, nel nostro caso occidentale, o meglio eurocentrica. Una formazione che, normalmente, favorisce approcci più consueti ed evita di equiparare informazioni diverse anche se riconducibili ad ambiti culturali circoscrivibili e comparabili; a volte tende però a deviare attenzioni e interpretazioni a favore di aspetti marginali, apparentemente più diretti e icastici, collocando alcuni risultati dei processi conoscitivi in dimensioni poco significative o, quanto meno, tali da parzializzare la comprensione delle realtà analizzate. Il Mediterraneo è un mare, le sue coste delimitano una forma, le sue acque ne riempiono l’invaso e ne definiscono la superficie. Esso ha una fauna, una flora, una temperatura media delle acque superficiali; numerosi corsi d’acqua vi s’immettono; ha una salinità misurabile, il cui valore differisce notevolmente fra l’estremità occidentale e quella orientale. Da questo punto di vista, offre tutte quelle certezze che l’osservazione scientifica di una porzione della superficie terrestre può garantire.
Un’area, quindi, che presenta particolari caratteristiche fisiche, climatiche e geografiche. Dal punto di vista culturale il Mediterraneo, a differenza di altri mari, possiede da sempre una vocazione, predeterminata e, nel tempo, immutabile: quella di rappresentare, più che sé stesso, le terre che lo circondano, le culture e le popolazioni che in esse sono nate e si sono sviluppate. Questa vocazione ha favorito l’imporsi di un aggettivo come mediterraneo che si tende ad applicare indistintamente a molte situazioni e contesti; un aggettivo, tuttavia, ambiguo, trasversale e antinomico, generato da eventi storici, secondo logiche inclusive ed esclusive, convergenti e divergenti, principalmente costruite sulla base di storie civili e religiose, su interpretazioni di conflitti e commerci. Con l’aggettivo mediterranee, poi, si qualificano indistintamente diverse culture: greca, romana, arabo-islamica, veneziana e così via. Mediterraneo appare, quindi, termine generico: da un lato, indica l’eponimo di tutto il mondo conosciuto dalla civiltà classica occidentale; dall’altro, in chiave contemporanea, quest’area, inserita nei processi di globalizzazione, non differisce molto da altre poste lontanissime, nelle quali si consuma una corsa bruciante verso la cancellazione di tutte le differenze, di tutte le specificità, con eccezioni, apparentemente anacronistiche, relative alla salvaguardia di valori, ritenuti identitari, come quelli espressi dalle pratiche religiose oppure da usanze, inimicizie storiche e infine da gelosie ataviche.
Negli ultimi anni, con l’espandersi dell’economia dei Paesi emergenti (in particolare India e Cina) il Mediterraneo è tornato a occupare una posizione centrale, come un continuum capace di unire passato e futuro, in grado di connettere i continenti che lo circondano: Asia, Africa ed Europa. Continenti che fluiscono gli uni negli altri, intrecciano le conoscenze, le tradizioni e i saperi, creano movimento, permettono l’amalgama di scambi, commerci, costumi, linguaggi e religioni; in questo mare, locale e globale, circolano, in sostanza, diverse umanità che entrano in conflitto, rivendicando aspetti di differenziazione. Piccolo e grande si pongono in competizione, spingendo il locale verso la preservazione e, quindi, la sopravvivenza di valori autoctoni; soggettivo e collettivo si fronteggiano, arrivando, a volte, nel migliore dei casi e in tempi lunghi, a mediazioni e mescolamenti, come liquidi dai colori diversi posti in vasi comunicanti. I mutamenti del mondo occidentale sono globali, appartengono a continenti e Paesi anche di altri emisferi; mentre le ricadute sono locali, si ripercuotono direttamente sui singoli territori, determinandone e condizionandone il destino economico e sociale. Le soluzioni, com’è ovvio, passano necessariamente attraverso considerazioni e compromessi a un tempo globali e locali; e richiedono, di conseguenza, una regia e una visione politica generali scarsamente pensate e perseguite dai Paesi più influenti. In definitiva, nel Mediterraneo i quattro punti cardinali entrano in contatto, si intersecano e si confrontano nella rappresentazione dei reciproci valori. Quest’area, quindi, produce questioni e conflitti riconducibili a scala planetaria: gli integralismi religiosi, la distribuzione iniqua delle risorse, la destabilizzazione politica e sociale.
L’unità che la tradizione storica, di derivazione francese, attribuisce al Mediterraneo sembra più letteraria che reale, legata al tempo in cui la cultura egemone ‘globalizzava’ i territori meno forti e strutturati, in cui il globale (fenicio, greco o romano) assorbiva e omologava le identità più deboli. E tutto, comunque, avveniva all’interno di questo contenitore dai mille rimescolamenti. Non si può negare, tuttavia, che l’idea possa condizionare chi si accosti a questo tema e che, quindi, l’unità del Mediterraneo possa essere considerata come un’affascinante cornice entro la quale collocare studi e risultati disciplinari.
Più che in altre parti del mondo, in questo luogo di incontri, si sono intersecate e integrate le molteplici e varie forme di pensiero, di sapere e di civiltà della storia dell’uomo. È infatti una rete di aree culturali, un concentrato di eventi senza precedenti, smisurato giacimento di sedimenti storici sovrapposti, mischiati, confusi, nascosti, dispersi, dimenticati. È un ipertesto a infinite dimensioni, culturali e fisiche, costituito da una complessa rete di comunicazioni, commisto di scienze interrelate, interdipendenti, interconnesse; è un luogo di relazioni, dove architetture e città si confrontano, si modificano e si contaminano da secoli. Nel Mediterraneo vive una moltitudine di realtà, ciascuna portatrice di proprie verità e di proprie storie, che si accostano e si scrutano: forme di vita e di oggetti, forme mentali, religiose e filosofiche, capaci di mettere in discussione certezze ed equilibri incrinandoli e anche in grado di determinare connessioni culturali e discontinuità discorsive. La conoscenza, una volta attivata, permea di sé ogni cosa, e vi riversa il primato delle proprie conquiste, per restituirla diversa, meno definita di prima, ma sicuramente più ricca, semanticamente più articolata e complessa. La conoscenza spinge sulle sponde del Mediterraneo la cultura di altri Paesi, in una risacca di contatti e di scambi che travalica territori e comportamenti, e incrementa il flusso di informazioni e di genti, di merci e di idee.
Studiare il Mediterraneo
Studiare il Mediterraneo significa studiare l’architettura, la città e i luoghi attraverso la storia, la misura e l’analisi, indagare geometrie, moduli e forme, descrivere i rapporti che le case instaurano con lo spazio dell’esperienza quotidiana, documentare i modi in cui l’uomo s’insedia, in cui forma città e architetture, in cui modifica il territorio e disegna il paesaggio. Significa indagare le condizioni storiche e ambientali di contaminazioni d’idee e religioni, di saperi e filosofie; analizzare oggetti appartenenti a geografie particolari, a discendenze artigianali; introdurre, nei ragionamenti, atmosfere culturali, riscontrate in pensieri e opere, in tradizioni, merci e prodotti; investigare immaginari collettivi e credenze popolari, comportamenti e valori simbolici, riti urbani e miti sociali. Significa vedere tutto ciò immerso in un crogiolo, in una sorta di fermentazione naturale, di big bang generativo, pervasivo e prolungato; capire i prodotti dell’uomo, che portano i segni di un tempo in grado di scandire la giusta durata delle cose, di custodirle e di preservarle, e contribuire alla fertilità dell’humus culturale del progetto e dell’innovazione.
L’insieme dei Paesi che delimitano il Mediterraneo è come un anello di terre variamente abitato, con addensamenti insediativi sedimentati nel tempo e nella storia, sulle coste. Un anello continuo, che oltrepassa le frontiere nazionali, che porta sul mare, nel proliferare dei porti, la sostanza delle popolazioni interne, lavoro e ricchezza e tutto quanto è suscettibile di mercato, di baratto, trascinato verso i bordi sensibili della manifestazione, della comunicazione e del commercio, verso il mare. E poi, verso le traiettorie delle rotte delle navi che collegano e contaminano, portano e importano, in un fluire incessante e vitale. Anello culturale più che figura geometrica, costituito dall’insieme di forze centripete che i Paesi del bacino hanno espresso, convergendo nel tempo verso una delle fasi più ricche e stimolanti della storia dell’uomo.
Studiare il Mediterraneo significa studiare per apprendere strumenti e insegnamenti, per cogliere aspetti creativi e innovativi, mutuare modelli abitativi e comportamentali, paradigmi scientifici e progettuali. Per trarre, nella varietà delle possibili interpretazioni, concetti etici ed estetici, pratici e teorici, modi di pensare e fare architettura, città e territorio. Per capire gli archetipi e le matrici formali delle città-oasi tunisine di Nefta, Tamerza, Mides e Chebika, città fatte di architetture di pietra calcarea, villaggi sahariani del predeserto maghrebino, espressioni spontanee di valori sociali, urbani e rurali della tradizione abitativa. Architetture capaci di generare architetture, di sottenderle come forme immanenti e di rivelare gli aspetti disciplinari, sociali e antropologici di modelli insediativi, conformati alla pura ed essenziale necessità dell’abitare. Rilievo come interpretazione, scomposizione della complessità, decostruzione della realtà disciplinare; disegno come sintesi, come ri-costruzione, avanzamento speculativo e base per la proposta progettuale. Il rilievo ci ha permesso di svelare rapporti, di vedere ciò che non si vede e che pure determina la forma delle cose, di connettere e costruire collegamenti speculativi, multidisciplinari e multidimensionali, di indagare l’architettura, in una molteplicità di riferimenti temporali, spaziali e linguistici. Ci ha poi consentito di constatare come sabbia e muri, giardini e case, città e territori possano apparire, dal punto di vista disciplinare, nuovi e inaspettati, ricchi di suggestioni e riflessioni. Ci ha portato a modificare modi di vedere, indagare e progettare; ci ha spinto a formarci idee e convinzioni per differenza, per sottrazione, per comparazione; è stato così possibile misurarsi con quanto, in quei luoghi, non ha ancora subito processi omologativi, e con quanto appare testimonianza di utilità, di valore accettato e condiviso. Territori interpretati come testi materiali, stratificazione di segni lasciati dalla gente che li vive e che, in essi, dispiega la sostanza della propria esistenza. Spazi essenziali, puri e incontaminati e geometrie dalle indispensabili articolazioni denotative, senza rimandi interpretativi.
Il processo conoscitivo ci ha mantenuto, costantemente, sul filo dell’instabilità, pronti a modificare gli schemi con cui confrontiamo e valutiamo le cose: animati da curiosità, in equilibrio, tra noto e ignoto; in bilico, propensi al mutamento, che costituisce l’unica rassicurante condizione intellettuale. Lo scrittore e saggista Predrag Matvejević sostiene (in partic. in Mediteranski brevijar, 1987, trad. it. Mediterraneo. Un nuovo breviario, 1991; La Méditerranée et l’Europe: leçons au Collège de France, 1998, trad. it. 1998) che non si possa separare il Mediterraneo dal discorso sul Mediterraneo, e, quindi, dalle nostre esperienze e riflessioni. Il Mediterraneo sembra avere una ‘morfologia sensibile al cuore’ che si forma nello studio e nell’analisi e si plasma nel ricordo e nel sentimento.
Il paesaggio
Il paesaggio è l’uomo, è il luogo in cui si svolge la sua vita, la sua storia, là dove ci sono tracce della sua cultura e della sua memoria. Il paesaggio è un prodotto dell’uomo, ‘fatto a mano’ giorno dopo giorno. A sostenerlo è il geografo Claude Raffestin (2005), secondo cui lo spazio, o se si preferisce la natura, diventa territorio per effetto del lavoro, e il territorio diviene paesaggio quando comincia a essere pensato. Anche secondo lo storico Raymond Bloch il paesaggio come unità esiste solo nella nostra coscienza, come risultato dell’interazione con il territorio. La sua riconoscibilità è quindi fatto culturale e simbolico prima che fisico e geografico. Si percepisce il paesaggio come tale nel momento in cui se ne riconoscono le qualità che dipendono dal valore che si attribuisce alla sua configurazione. Il paesaggio, così come lo si percepisce, è la principale fonte di informazioni per i progetti di intervento; è un capitale da amministrare e da investire.
Lo scrittore Jorge Luis Borges narra in El hacedor (1960; trad. it. 1960) di un pittore che dopo aver ritratto paesaggi – con monti, fiumi e alberi – si accorge, alla fine, di non aver dipinto altro che il proprio ritratto in un fluire ininterrotto di paesaggio interiore ed esteriore. Il paesaggio occupa la mente dell’uomo ed entrambi si influenzano e si modificano a vicenda: guardando il paesaggio si capisce molto dell’uomo che lo vive, e osservando l’individuo si capisce molto dell’ambiente che lo circonda e in cui vive. Il paesaggio è la memoria; come l’uomo è rete sedimentata di relazioni, sovrapposizione integrata di vicende materiali e immateriali, contigue, stratificate, mischiate nel corso del tempo e della storia; come l’uomo, è qualità, e la qualità del paesaggio è fondamento della sua identità e viceversa; il paesaggio infine è un racconto senza fine: ascoltare, saperlo ascoltare, è un’esperienza che incanta profondamente.
Riccardo Priore, giurista e dirigente del Consiglio d’Europa, nel suo commento alla Convenzione europea del paesaggio (2006), firmata a Firenze dagli Stati membri del Consiglio d’Europa il 20 ottobre 2000, afferma che occuparsi del paesaggio significa occuparsi dell’uomo. La Convenzione dichiara infatti: «Il paesaggio è in ogni luogo un elemento importante della qualità della vita delle popolazioni» (Preambolo). Esso sostanzia cioè il concetto di comunità, collabora alla sua materializzazione, contiene tutte le attività dell’uomo. La Convenzione afferma inoltre (art. 1, co. a): «Paesaggio designa una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni», quindi come è vissuta quotidianamente dalla gente. Per la Convenzione, il paesaggio è una priorità su cui investire per favorire la coscienza paesaggistica, per trasmettere l’esigenza del rispetto. Essa esprime una sorta di imperativo etico; il suo contenuto assume un valore squisitamente pedagogico, un valore civico. La popolazione è chiamata a esprimere una propria consapevole adesione a questo progetto etico. Ogni popolazione deve conoscere il proprio paesaggio, deve poter procedere dalla sua complessità per giungere all’individuazione degli elementi essenziali che lo compongono: elementi senza i quali viene meno l’immediata rappresentazione orale, grafica, letteraria, immaginaria di un determinato paesaggio; grazie a questi elementi viene invece subito in mente e riaffiora alla memoria lo scenario paesaggistico, si sentono i suoi rumori e i suoi odori, si rivedono nitidamente le piante che lo caratterizzano, gli animali che lo abitano, la gente e le case, i paesi e le città. L’insieme di queste cose costituisce la sua natura multidimensionale. Nel mare nostrum convivono tanti paesaggi, tra loro diversi: la loro conoscenza, completa e integrata, richiede la concorrenza di saperi differenti, e la promozione di una politica d’intervento basata su un progetto articolato di salvaguardia, vincolo e riqualificazione, per tutelare i singoli paesaggi che compongono il complesso mosaico dell’identità territoriale del Mediterraneo.
Con questo scopo, nell’ambito del programma dell’Unione Europea Interreg IIIB MEDOCC, è nato nel 2005 il progetto PAYS.DOC Buone pratiche per il paesaggio, la cui finalità è quella di «creare un metodo condiviso per l’individuazione e l’osservazione dei paesaggi, basato su di una vasta banca dati di immagini che permettano di identificare i differenti scenari e situazioni territoriali a partire da una tipologia di base elaborata sulle caratteristiche del paesaggio mediterraneo e sulle sue problematiche» (http://www.paysmed. net/it/osservatorio.php, 14 dic. 2009). Abaco di paesaggi, quindi, comparazione e individuazione delle invarianti: paesaggi caratteristici dello spazio mediterraneo e rappresentativi delle tendenze che agiscono sulla loro trasformazione, per costruire una percezione globale in base alle diverse interpretazioni che se ne danno, come premessa di prospettive interpretative in funzione di una cultura comune. Il paesaggio mediterraneo è anche il paradigma della globalizzazione, in cui si sovrappongono le tracce e le memorie della gente che lo abita e che, nel viverlo, lo modifica. È da questo punto di vista (che anche in questo caso si configura come metafora della rappresentazione dell’uomo, della sua complessità, delle sue molteplici facies) che il disegno, mediatore di conoscenze, svela, indaga, ordina e restituisce, tra spazio di rappresentazione e rappresentazione dello spazio, dinamica e interattiva, ed è in grado di descrivere la situazione attuale e di prefigurare quella futura, di comprendere le relazioni e d’interpretare le possibili evoluzioni. In definitiva, il paesaggio ci invita alla conoscenza, che è conoscenza di noi, e la conoscenza induce al progetto, che è il nostro consapevole stare al mondo. Da 5000 anni la storia del Mediterraneo si è identificata con la figura emblematica delle città in cui si sono affermati poteri politici e religiosi, il controllo del territorio, l’economia e gli scambi (Aymard 1999), un luogo in cui continua a svilupparsi il sistema economico, sociale, politico e religioso.
La città mediterranea
La civiltà mediterranea è da sempre civiltà urbana: il nucleo storico contiene architetture e monumenti, ammonimenti visuali e polarizzanti, conserva la riconoscibilità dei processi fondativi, la gerarchia fra le parti; la sua identità è caratterizzata da rappresentazioni e immagini figurali che ne sintetizzano e ne rendono icastiche le qualità. La città mediterranea è parte integrante della genealogia della città occidentale, ma in questi ultimi tempi sembra vivere una profonda crisi, non perché sia venuta meno in quanto tale, bensì perché sono diventati confusi, labili e incerti i riferimenti materiali e teorici su cui, nel tempo, ha generato nuove forme e strutture. Eppure, per motivi economici e d’opportunità, la città continua a essere il posto scelto dagli uomini per vivere, luogo di speranza e prosperità
Mentre i centri storici delle città rivelano le differenti culture urbane che li hanno prodotti, le periferie si moltiplicano e si espandono tutte eguali, indifferenti ai contesti storici, geografici e culturali in cui sono inserite. Questo fenomeno si manifesta anche nel Mediterraneo, dove differenze e memorie storiche caratterizzano le diverse identità urbane. La città mediterranea che, per sua natura, ha origine a partire dall’agorà – spazio di socializzazione per eccellenza – oggi sembra aver smarrito il senso della propria ragion d’essere e conosce un unico modello di conformazione delle strutture fisiche, economiche e sociali che genera spazi di solitudine. Gli individui, spesso isolati, risultano connessi, grazie a reti di comunicazioni, con spazi e persone posti a enorme distanza. Alla città che conosciamo si è sovrapposta, in questi anni, una città senza confini, transterritoriale, in cui lo spazio fisico e geografico ha valore simbolico più che strutturale, in cui i tradizionali rapporti ‘di vicinato’ si rimodulano secondo logiche di affinità culturale o di appartenenza etnica. La funzione storica della città si ridefinisce quindi sulla base di nuove identità immateriali.
Il processo di urbanizzazione nell’area del Mediterraneo non mostra segni di rallentamento: dal 1950 al 2000 la popolazione totale dei Paesi del Mediterraneo è raddoppiata, ma quella urbana è triplicata (Il Mediterraneo. Geografia della complessità, 2008). Sulla sponda sud gli aumenti sono stati ancora più forti: rispettivamente del 223% e di quasi il 600%; si tratta di dati decisamente significativi che fanno comprendere come quella mediterranea sia una delle aree più urbanizzate del mondo: 29 città hanno una popolazione superiore al milione di abitanti. L’urbanizzazione si concentra sulla fascia costiera, e il fenomeno è in costante aumento: attualmente, il 34% della popolazione risiede su una fascia litoranea che corrisponde al 13% della superficie complessiva dei Paesi dell’area mediterranea. Con queste progressioni numeriche, la sfida principale che la città è chiamata ad affrontare e risolvere, in tempi medi, è quella innescata dal sovrapporsi e mischiarsi di diverse popolazioni.
Negli ultimi anni, il fenomeno migratorio ha investito, oltre le mete tradizionali come Francia e Germania, altre nazioni della sponda settentrionale quali Spagna, Grecia e Italia. L’ondata migratoria invade, com’è ovvio, le zone più industrializzate e, in queste, le aree degradate dei centri storici, le zone prossime agli scambi di merci e uomini, ossia stazioni, porti e mercati. Le città del Mediterraneo sono diventate, in poco tempo, segmenti della complessa frontiera del processo di integrazione. Tutto si concentra in esse, in particolare per quanto riguarda aspetti fondamentali della libertà di ogni individuo: l’inclusione e l’accesso. La città è diventata teatro di nuove forme di tensione, non solo fra etnie differenti ma anche fra diverse condizioni di libertà, di emancipazione e di benessere: di fronte a questo fenomeno, la città non ha strumenti, non è in grado di prevedere. Insegue, nel migliore dei casi, l’emergenza e sembra aver smarrito la sua vocazione storica; pare le manchi la conoscenza capillare dei propri spazi, quella stessa conoscenza ‘molecolare’ dei fatti architettonici e urbani attraverso cui costruire il senso della storia e, con questo, progettare nuove forme di convivenza. Forme dalle quali emerga con chiarezza l’intento essenziale perseguito e come le strutture architettoniche siano utili e progettate per favorire il passaggio, nell’ambito della città, da una società multietnica a una interetnica, fondata su una visione differenziata come suggerito da Matvejević.
Questi, in definitiva, sono i temi sui quali la città mediterranea è chiamata a misurare la propria capacità di innovare e di progettare, per garantire partecipazione, coesione sociale e sostenibilità urbana agli abitanti attuali e a quelli futuri. I Paesi del Mediterraneo sono più di 20, profondamente differenti, ma tutti d’antica civiltà e cultura, segnati dai miti dell’origine dell’uomo, a partire dalla Grande madre.
Abbiamo visto come il Mediterraneo si configuri più come area circolare di Stati che come schieramento dei Paesi appartenenti a rive contrapposte, nord e sud, est e ovest. Si prenda l’esempio del Portogallo, che per storia e cultura è un Paese mediterraneo, anche se per la sua geografia è in qualche modo l’opposto concettuale dell’isola, nella quale l’idea del Mediterraneo come mare si esalta: il Portogallo, che su quel mare non affaccia direttamente, dimostra come mediterranee siano anche le terre che lo circondano.
Nell’area mediterranea, dalla fine della Seconda guerra mondiale, forse oggi per la prima volta nella storia, si svolge un dialogo fra la cultura occidentale, da secoli egemone dal punto di vista economico e militare, e la cultura di Paesi da tempo soggetti a una condizione di colonialismo, più o meno formalmente esplicitata. Un dialogo che vuole riconoscere l’importanza di esprimersi e confrontarsi secondo punti di vista diversi e, al tempo stesso, indispensabili per costruire una storia comune e degli intenti comuni. Il dialogo parte dal presupposto che l’economia del Mediterraneo può crescere solo a patto che siano accettate e riconosciute le diverse identità dei Paesi che ne fanno parte. Se la società interetnica e ‘plurale’ è quella il cui tessuto sociale, economico e culturale è in grado di evolversi assorbendo le diversità, quest’area, come in passato, può tornare a essere un luogo di opportunità da cui prendono avvio processi di salvaguardia dell’identità basati sulla conoscenza della cultura delle comunità immigrate.
In questi anni la cooperazione internazionale è stata lo strumento principale per facilitare la conoscenza, per promuovere il contatto e il partenariato fra Paesi diversi. La cooperazione, di fatto, ha favorito la condivisione dei saperi e, al tempo stesso, la conservazione e la naturale evoluzione delle diverse identità culturali. È del tutto evidente che, in questi processi, le identità culturali svolgono un ruolo centrale: cultura e ambiente diventano riferimenti per uno sviluppo equilibrato di aree dove, per es., la quasi assoluta dipendenza dell’economia locale dal turismo determina seri problemi di sostenibilità.
Protezione e conservazione dell’ambiente
La prosperità della regione mediterranea dipende in primo luogo dalla salvaguardia e dalla valorizzazione delle sue risorse, oltre che da un’autonomia energetica sostenibile. Al contrario, in essa si riscontrano tendenze che generano uno sviluppo ‘non sostenibile’: fra queste, il divario economico e sociale fra le due sponde (con le conseguenti tensioni sociali), la sempre maggiore vulnerabilità del territorio ai rischi naturali, un diffuso e apparentemente inarrestabile degrado ambientale, l’insufficiente capacità di gestire le risorse naturali, lo sviluppo dei processi di globalizzazione che, di norma, sono indifferenti al contesto e agli effetti che inducono su di esso. A queste tendenze va aggiunta l’emergenza del cambiamento climatico: già 30 milioni di ettari lungo le coste della sponda sud del Mediterraneo sono oggi colpiti dal fenomeno della desertificazione, con conseguente aumento della pressione demografica sulle aree che ancora ne sono immuni.
La presenza di problemi legati alla protezione e alla conservazione dell’ambiente mediante i principi dello sviluppo sostenibile ha sicuramente favorito la creazione di istituzioni, convenzioni e programmi a livello regionale. Nella regione mediterranea, vari progetti sono stati portati avanti dal Plan bleu, il centro di attività regionale dell’UNEP/MAP (United Nations Environment Programme / Mediterranean Action Plan). Dal 1996, il Plan bleu ha partecipato a un network mediterraneo, che vede coinvolti numerosi partner (METAP, Mediterranean Environmental Technical Assistance Programme; Unione Europea; MCSD, Mediterranean Commission on Sustainable Development; agenzie ambientali e di sviluppo di diversi Paesi mediterranei), per promuovere un progetto che evidenziasse indicatori di progresso verso lo sviluppo sostenibile e confrontasse l’evoluzione dei processi di integrazione dell’ambiente nelle politiche delle singole realtà nazionali. Le parti contraenti la Convenzione di Barcellona per la protezione del Mar Mediterraneo dall’inquinamento (1995) hanno affidato al Plan bleu il compito di monitorare l’attuazione della ‘Strategia mediterranea per lo sviluppo sostenibile’, selezionando 34 indicatori prioritari, relativi a obiettivi quali: migliorare la gestione delle risorse idriche, gestire la domanda energetica, mitigare gli effetti del cambiamento climatico, assicurare una mobilità, uno sviluppo urbano e un’agricoltura sostenibili, promuovere la gestione sostenibile del mare e delle aree costiere bloccandone il degrado, rafforzare la solidarietà, l’impegno e il finanziamento dello sviluppo sostenibile. Sul tema della sostenibilità ambientale, però, particolarismi nazionali e diffidenze politiche hanno reso difficile il dialogo, anche perché buona parte delle energie sono rivolte a considerare il Mediterraneo uno spazio per lo scambio e il commercio, oltre che luogo per misurarsi su questioni geopolitiche che spesso travalicano i suoi stessi limiti fisici.
Il partenariato globale
In questi ultimi anni, il Mediterraneo è stato al centro di violenti conflitti che hanno prodotto, fra l’altro, il rafforzamento dei fondamentalismi religiosi ed etnici e il rallentamento del processo di pace arabo-israeliano. Il fondamentalismo è una via privilegiata per favorire il riaffiorare di arcaismi e per limitare il dialogo interculturale prima ancora che interreligioso. Eppure il Mediterraneo, da sempre, è stato un laboratorio di intrecci religiosi e culturali fecondi, terra di mediazione capace di suggerire vie di sviluppo civile, politico e, conseguentemente, economico.
L’equilibrio fra gli opposti principi dell’appartenenza e della libertà ha trovato in questo luogo la metafora del continuo reciproco limitarsi della terra e del mare. La percezione del confine promuove due atteggiamenti antitetici: quello di tentare l’attraversamento, la comunicazione, e quello difensivo, che erige steccati a difesa da ogni possibile contaminazione. La visione eurocentrica suggerisce un Mediterraneo arabo-islamico, fondamentalista e intollerante, opposto a un Mediterraneo europeo, più aperto e tollerante. Tuttavia anche l’Occidente coltiva i propri fondamentalismi; primo fra tutti, quell’atteggiamento che pretende di far divenire la propria cultura un linguaggio universale da opporre ai vari folclori esotici, il fondamentalismo del libero mercato, quello di chi considera gli altri Paesi soggetti interlocutori, ma dal potere imperfetto o limitato.
Nonostante le difficoltà e le tensioni, si sono moltiplicate le iniziative politiche promosse dall’Unione Europea, basate su accordi di cooperazione e protocolli finanziari con Paesi del bacino (Marocco, Algeria, Tunisia, Egitto, Autorità Nazionale Palestinese, Israele, Giordania, Libano, Siria, Turchia, più Cipro e Malta, oggi confluiti nell’Unione Europea) con l’obiettivo di riequilibrare gli scambi commerciali, di istituire azioni di cooperazione finanziaria e tecnica, di effettuare il rilancio del patrimonio culturale e delle scienze umane. Queste azioni, riconducibili alla nozione di partenariato globale, hanno avuto un importante punto di riferimento nella Conferenza di Barcellona, che nel novembre 1995 ha riunito i ministri degli Esteri dei 15 Stati allora membri della UE e quelli dei 12 Stati mediterranei sopra citati. Durante la Conferenza sono stati affrontati e approfonditi temi quali l’inviolabilità dei confini, il rispetto dell’integrità territoriale, la tolleranza tra culture e religioni e la solidarietà economica. Ai concetti di aiuto e cooperazione internazionale si è sostituito quello di partenariato euromediterraneo, globale e non gerarchico, centrato sugli aspetti sociali, culturali, umani e sul libero scambio delle merci. In quest’ottica, il programma MEDA I ha promosso, a partire dal 1996, una cooperazione bilaterale con Algeria, Egitto, Giordania, Libano, Marocco, Siria, Tunisia, Turchia e Autorità Nazionale Palestinese, finanziata dalla Banca centrale europea con circa 5 miliardi di euro, con interventi in diversi settori: sviluppo rurale, cultura, questioni ambientali e sociali, cooperazione economica, industriale, energetica e infrastrutturale. In tutti i processi attivati si è ribadita la centralità del patrimonio culturale per la definizione e la rappresentazione dell’identità dei Paesi coinvolti. Nonostante le numerose iniziative, tuttavia, il bilancio della Conferenza di Barcellona non è positivo: le due sponde del Mediterraneo, anziché avvicinarsi, si sono ulteriormente allontanate e il commercio tra aree omogenee, sul quale si era investito e sperato, non ha registrato risultati di rilievo.
Il 13 luglio 2008, a Parigi, il presidente francese Nicolas Sarkozy ha rilanciato i contenuti della Conferenza di Barcellona, presentando l’Unione per il Mediterraneo. Preceduta da una conferenza tenuta a Tangeri il 23 ottobre 2007 dallo stesso Sarkozy e da un accordo firmato a Roma il 20 dicembre dal presidente francese, da José Luis Rodríguez Zapatero e da Romano Prodi, in seguito approvato dal Consiglio europeo il 13 marzo 2008, l’istituzione dell’Unione per il Mediterraneo ha registrato l’adesione di 43 Paesi: i 27 aderenti all’Unione Europea e altri 16 riconducibili all’area mediterranea (la principale eccezione è quella della Libia, che ha espresso fortissime critiche al progetto e ha preferito costituirsi come membro osservatore).
Mentre il partenariato euromediterraneo continua a occuparsi di questioni politiche quali i diritti umani, la democrazia, il dialogo interculturale, l’Unione per il Mediterraneo punta ad azioni concrete: il disinquinamento del mare; la costruzione di autostrade marittime e terrestri in grado di collegare fra loro tutti i Paesi aderenti; il rafforzamento della protezione civile; la creazione di un piano comune di energie rinnovabili; lo sviluppo di una università euromediterranea (inaugurata nel giugno 2008 a Portorose/Portož in Slovenia); il sostegno alle piccole e medie imprese, in cui i soggetti economici privati avranno un ruolo determinante. Iniziative che intendono coinvolgere direttamente il mondo dell’economia e i rappresentanti delle istituzioni, con finanziamenti affidati prevalentemente alle imprese private e alla Banca del Mediterraneo. Quest’ultima nascerà da una sezione della Banca centrale europea per gli investimenti, per dare ossigeno ai progetti principali e gestire i risparmi dei Paesi dell’Unione.
L’Unione per il Mediterraneo intende rivolgersi, con maggiore attenzione, ai governi della sponda meridionale, che hanno da sempre criticato un meccanismo decisionale poco aperto alle loro iniziative e concentrato esclusivamente sull’attuazione degli indirizzi di Bruxelles. Con questa Unione, i Paesi delle due sponde avranno, almeno formalmente, lo stesso potere d’iniziativa e di decisione. Le attività istituzionali prevedono incontri biennali dei primi ministri delle nazioni aderenti e annuali fra i ministri degli Esteri. Naturalmente non si pensa che questo nuovo organismo possa risolvere i problemi delle relazioni fra i vari Paesi, che hanno mostrato lentezze e difficoltà d’attuazione. La strada indicata, comunque, sembra essere quella giusta: far condividere, nei Paesi del bacino, l’importanza di una visione comune e partecipata dei problemi dello spazio mediterraneo, in grado di elaborare idee e progetti per un futuro di convivenza civile, economica, sociale e religiosa di tutte le sue popolazioni.
Per concludere, nel gioco tra le parti, così come nei rapporti tra le persone, si deve essere disposti a lasciare sul campo qualcosa per conquistare con l’altro un comune senso delle cose, affascinati dall’ipotesi, avanzata negli anni Quaranta dallo storico Fernand Braudel, di uno spazio mediterraneo coerente e strutturante, e certi, comunque, di ricercare in questi posti modi consueti di vivere entro forme diverse, in territori, città e architetture che declinano, con naturalezza, legami profondi tra pensiero e opere, tra arte e ideologia. Perché come afferma Matvejević, l’anelito al Mediterraneo non è dovuto unicamente all’aspirazione a un sole più caldo e a una luce più forte; nella sua forza di attrazione, infatti, non vengono messi in gioco soltanto la storia o la tradizione, il passato o la geografia, la memoria o la fede: il Mediterraneo è anche destino.
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