Un primo importante riorientamento geostrategico dell’Egitto, da campione del panarabismo e del socialismo arabo a pilastro della strategia statunitense in Medio Oriente, era avvenuto alla fine degli anni Settanta con il presidente Anwar al-Sādāt, successore di Nasser.
Successivamente le relazioni strategiche con Washington sono state rafforzate sotto la presidenza di ˙Hosnῑ Mubārak, che ha fatto dell’Egitto il baluardo contro la penetrazione sovietica in Medio Oriente e nell’Africa orientale e la base per la proiezione delle forze statunitensi nel Golfo.
Nell’attuale contesto di trasformazione del mondo arabo, tanto dal punto di vista dei vari paesi quanto a livello regionale, è difficile dire se l’Egitto sarà in grado di continuare a giocare il ruolo di pilastro dell’ordine mediorientale delineato da Washington. L’influenza egiziana nell’area appare infatti in declino, così come il suo ruolo di media potenza regionale di fronte all’emergere di paesi come la Turchia e l’Iran. Inoltre, proprio l’indiscusso allineamento agli Stati Uniti e a Israele mantenuto negli ultimi decenni dal Cairo, anche in occasioni particolarmente controverse come nel caso dell’attacco israeliano a Gaza (dicembre 2008-gennaio 2009), non ha giocato, da una prospettiva araba, a favore dell’Egitto.
Se poi è vero che la stessa uscita di scena del presidente Mubārak sembrerebbe aver privato gli Stati Uniti di un partner storico e affidabile, è vero altresì che l’oggettiva importanza strategica del paese nell’area e il cambio di rotta statunitense impresso dal presidente Barack Obama nelle relazioni con il mondo arabo autorizzano a ipotizzare che l’alleanza tra il Cairo e Washington sopravvivrà alla caduta del regime di Mubārak. Saranno piuttosto la sua intensità e il suo grado di sintonia a dipendere tanto da chi prenderà le redini del nuovo Egitto democratico, quanto da chi in futuro siederà alla Casa Bianca.