L'elegia d'amore
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’elegia latina si sviluppa nell’età augustea come un genere nuovo e sostanzialmente indipendente dai modelli greci. La sua novità consiste nella specializzazione quasi esclusiva sul tema dell’amore, che negli elegiaci, Tibullo e Properzio in primo luogo, è rappresentato come regolato da un codice di comportamento proprio, in aperto contrasto con l’universo dei valori tradizionali della società romana.
Il genere elegiaco a Roma si caratterizza come un’esperienza poetica dai confini ben delineati, sostanzialmente indipendente dall’elegia che si era sviluppata in Grecia tra VII e VI secolo a.C. Di origine incerta, la poesia elegiaca nel mondo greco arcaico veniva eseguita per lo più nei simposi ed era recitata con l’accompagnamento del flauto, strumento probabilmente connesso anche con l’etimologia del termine elegia. A caratterizzare il genere, più che il contenuto, sono gli elementi formali, in particolare il metro, che è il distico elegiaco, costituito da un esametro e un pentametro. Questo è infatti l’elemento unificante, a fronte di una grande varietà tematica che va dall’elegia guerriera di Tirteo e Callino, a quella amorosa di Mimnermo, a quella politica di Solone. L’elegia funebre doveva essere sentita come particolarmente significativa, dato che spesso nell’immaginario antico il genere è associato all’idea del lamento e del compianto.
Rispetto a questa varietà tematica, l’elegia latina si presenta con un’identità più definita: specializzandosi nell’ambito erotico, essa crea un particolare codice poetico per rappresentare l’esperienza d’amore e diviene un genere a sé, ormai del tutto affrancato dal precedente greco. Se vogliamo individuare dei modelli greci, questi sono piuttosto da ricercare nella poesia ellenistica, il cui influsso è evidente nella natura dotta e letteraria dell’elegia latina, così come lo era stato per la poesia neoterica e Catullo.
L’elegia latina ha uno sviluppo circoscritto nel tempo che abbraccia la seconda metà del I secolo a.C. e ha come esponenti principali Cornelio Gallo, Tibullo, Properzio e Ovidio. Il primo è considerato il padre dell’elegia, ma la sua produzione è andata quasi completamente perduta; possiamo però ricavare informazioni preziose sulla sua poesia dalla decima ecloga di Virgilio, a lui dedicata, e dalla testimonianza diretta, seppure esigua, di un frammento papiraceo ritrovato nel 1979, contenente una decina di versi. Alla sperimentazione ovidiana di diversi generi poetici non manca quella elegiaca: nel caso del poeta di Sulmona si tratta già però di una reinterpretazione originale e personale, che presuppone l’affermazione dei “canoni” di un genere. I due poeti che per noi si identificano a pieno titolo con l’elegia e ce ne restituiscono la rappresentazione più completa sono Tibullo e Properzio.
Tibullo vive all’incirca tra il 55 e il 19 a.C. La sua attività poetica si lega alla figura di Messalla Corvino, un uomo politico che svolge la funzione di patrono per diversi poeti dell’epoca.
Sotto il nome di Tibullo ci è pervenuto il Corpus Tibullianum, una raccolta di elegie solo in parte attribuibili con certezza al poeta. Tibulliani sono i primi due libri, mentre nel terzo, oltre a pochi componimenti sicuramente di Tibullo, trovano spazio testi di altri poeti, probabilmente della cerchia di Messalla. I libri I e II sono dominati da tre figure, oggetto dell’amore del poeta: due donne, Delia e Nemesi, e un giovane, Marato.
La figura della liberta Delia, pseudonimo grecizzato di Plania, presenta tutti i tratti tipici della donna cantata dal poeta elegiaco: con lei il poeta non può intrattenere una relazione regolare, ma furtiva e clandestina, ostacolata, in questo caso, dalla presenza del coniunx della donna; anche il carattere di Delia, volubile e frivolo, risponde ad un’immagine stilizzata e di sapore molto letterario. Le elegie per Marato hanno un tono generalmente più leggero ed ironico, meno incline ad esprimere tormento e dolore. L’altra figura femminile, Nemesi, nome parlante che ha il significato di “vendetta”, mostra un carattere duro, crudele e talvolta avido. Entrambe le figure femminili, Delia e Nemesi, compaiono in un’elegia di Ovidio (Amores III, 9) composta per la morte di Tibullo e sono designate come cura recens (Nemesi) e primus amor (Delia).
Oltre che come poeta d’amore, Tibullo si guadagna anche la fama di “poeta della campagna”: all’interno delle sue elegie largo spazio è infatti dedicato all’idealizzazione della vita agreste, un tema certo non esclusivo dell’elegia e di Tibullo, ma che nel suo caso è reinterpretato in termini quasi mitici. Questo filone della poesia tibulliana non è disgiunto da quello erotico: la campagna infatti è anche lo scenario e lo sfondo dell’amore tra il poeta e la sua donna. Soprattutto, però, è il luogo dove si esprimono valori appartenenti ad un passato quasi mitico: l’armonia perfetta con la natura, l’operosità, la genuinità sono condizioni che permettono di raggiungere la pace vagheggiata. Non si tratta solo di un ideale di pace interiore e mentale: Tibullo esprime una posizione apertamente contraria all’ideologia della guerra e dei valori militari, così come alla logica del denaro e del profitto. Forte è in lui la riscoperta di una religiosità tradizionale anch’essa legata all’immaginario agreste. Un esempio tra tutti è costituito dall’elegia che apre il II libro del Corpus proiettando il lettore in un mondo arcaico e mitizzato: in essa si evoca una festa legata alla purificazione dei campi, gli Ambarvalia e si celebrano le divinità legate alla campagna e all’agricoltura.
Il III libro del Corpus Tibullianum si apre con sei elegie opera di un poeta che si fa chiamare con lo pseudonimo di Ligdamo; indirizzate ad una donna di nome Neera, in esse ricorrono, realizzati senza particolare originalità, i motivi tipici dell’amore elegiaco. Fa parte del libro anche il Panegirico di Messalla in esametri, unico componimento non elegiaco della raccolta; l’ignoto autore celebra il suo protettore con toni adulatori e uno stile sgraziato molto lontano da quello di Tibullo. Vi sono poi cinque elegie di paternità incerta sull’amore di Sulpicia per Cerinto e sei brevissimi componimenti in cui quella di Sulpicia costituisce la voce narrante, che canta il proprio amore per Cerinto: se accettiamo l’attribuzione alla mano della stessa Sulpicia, sarebbe il solo caso nella letteratura romana di epoca classica di poesia composta da una donna, ma è assai probabile che si tratti semplicemente di una maschera poetica.
Abbiamo poche e incerte notizie sulla biografia di Properzio, poco più giovane di Tibullo e di origini umbre. Sappiamo che un ruolo importante nella sua carriera di poeta spetta a Mecenate, con il cui circolo Properzio entra in contatto, anche se probabilmente solo dopo aver pubblicato il primo dei suoi quattro libri di elegie.
Il primo libro della raccolta, chiamato in alcuni codici Monòbiblos (“libro unico”), è dominato dal tema dell’amore del poeta per Cinzia, motivo che ritorna anche nel secondo e nel terzo libro, ma in modo meno uniforme, perché intrecciato al canto del progressivo deteriorarsi del rapporto fino al discidium finale. Il IV libro è dedicato interamente agli antichi miti di Roma e con esso Properzio si pone sulla linea degli Aitia di Callimaco, non esitando a definirsi il Callimaco romano. Questa sezione della raccolta rappresenta il tentativo di Properzio di accogliere nella sua opera le esigenze della politica culturale augustea, senza tuttavia piegarsi a comporre poesia puramente celebrativa o propagandistica.
La relazione di Properzio con Cinzia è certamente il riflesso poetico di un’esperienza autobiografica, così come era avvenuto per Catullo e Lesbia; eppure, anche in questo caso, bisogna evitare una lettura eccessivamente virata sull’autobiografismo, e considerare invece la natura prevalentemente letteraria dell’amore cantato nell’elegia properziana. La stessa figura di Cinzia non si lascia inquadrare facilmente; per quanto sia centrale e quasi onnipresente, specie nel I libro, la sua personalità ci appare mutevole e piena di contraddizioni, essendo ella rappresentata ora come spregiudicata calcolatrice, ora come ingenua, talvolta come donna esperta e vissuta, altre volte ancora con i tratti di una semplice fanciulla. Ciò si spiega, appunto, tenendo conto della letterarietà di questo legame e del carattere della poesia elegiaca, colta, ricca di allusioni e di richiami anche eruditi, come nel caso dei miti e delle loro varianti rare. È sottinteso dunque una sorta di gioco, condotto con una leggerezza di fondo, anche quando, apparentemente, il poeta si descrive tormentato dalla sofferenza d’amore. Un gioco delle parti nel quale la donna amata, quella docta puella, esiste non soltanto in funzione del sentimento del poeta, ma anche della poesia in quanto tale.
Quando si parla della relazione amorosa nell’ambito dell’elegia, va tenuto presente che si ha a che fare con un legame basato su un insieme di comportamenti e di regole ben codificate: già si è detto, a proposito di Tibullo, di una instabilità di fondo della relazione, relazione non ufficiale e non sancita dal matrimonio. Ciò si riconferma anche in Properzio, dove però sono resi espliciti alcuni elementi ulteriori, in particolare l’importanza attribuita al concetto di foedus amoris, il “patto d’amore”, che si basa sulla fides, la fiducia-fedeltà reciproca tra gli amanti. In questo senso anche un legame clandestino come quello tra gli amanti dell’elegia assume caratteristiche – come la fedeltà e l’esclusività – che riproducono in un certo modo la sacralità del patto coniugale, pur restando al di fuori di tale vincolo. Nonostante però il valore riconosciuto alla fides, il racconto della relazione tra Cinzia e Properzio, proprio come avveniva per Lesbia e Catullo, è costantemente minato da tradimenti reali o temuti, infrazioni del codice amoroso, che vengono qualificate come adulterium: ancora, quindi, con un richiamo al vincolo matrimoniale.
Nel contesto dell’elegia, comunque, anche questa infrazione è considerata parte del gioco ed è tollerata dal poeta che non si sottrae al ruolo (prima di tutto letterario) di schiavo della donna amata. Il codice dell’amore elegiaco riprende quindi elementi della tradizione, ma li reinterpreta e li sovverte drasticamente, con uno scarto significativo rispetto ai valori fondanti della società romana dell’epoca. Anche la terminologia familiare è utilizzata da Properzio per designare il proprio rapporto con Cinzia: a lei si riferisce infatti come domus e parentes, mentre lui stesso si pone nei confronti di lei come frater e filius: tutti termini riletti in un’ottica di affettività che nella concezione familiare romana restava per lo più relegata in una posizione marginale. L’amore cantato da Properzio si pone quindi in una posizione di forte contrasto con la società, il contesto culturale e i modelli di comportamento dominanti che privilegiavano la dimensione pubblica su quella privata e affettiva. Anche in questo è la sua grandezza.