Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’evoluzione della musica strumentale nel Seicento ha un valore culturale che si può cogliere nei diversi significati assunti in Italia dalla parola “concerto”. Tecnicamente, lo sviluppo del basso continuo e in seguito dello stile concertato sono i momenti chiave di questa evoluzione. Alla metà del secolo si impone gradualmente la forma della canzone strumentale su quella della sonata in più tempi, più consona all’esaltazione delle peculiarità dell’idioma strumentale. Ciò permetterà al concerto di consolidarsi in una specifica struttura formale.
L’uso del termine “concerto” non si sviluppa nell’ambito di uno specifico repertorio strumentale, ma dalla tradizione vocale polifonica, dove l’aggiunta di strumenti musicali e il loro peculiare apporto idiomatico acquistano sempre maggior peso.
La parola “concerto” nel Cinquecento suole connotare un’aggregazione armoniosa, un gruppo purchessia numeroso e ben accordato di esecutori e di parti musicali, come si deduce dai titoli e dai frontespizi delle pubblicazioni musicali dell’epoca, oltre che dai contenuti musicali delle stesse.
Dal Seicento gli strumenti musicali assumono un ruolo sempre più importante a corte, in chiesa, a teatro. Questo focalizzarsi dell’attenzione sulla musica strumentale risulta evidente dalle trasformazioni di significato del termine “concerto”, che segnano le fasi, molto più che di una evoluzione del gusto, di una vera rivoluzione del costume.
Il termine concerto arriva a connotare nella prassi secentesca una retorica dei contrasti, del confronto dialettico tra elementi eterogenei, tanto da renderne intuitiva ai teorici dell’etimologia la derivazione dal verbo latino concertare che letteralmente significa combattere, lottare, gareggiare.
Già dalla fine del Cinquecento si possono individuare diverse tendenze nell’uso della parola “concerto” da parte dei compositori: opere come i Cento concerti ecclesiastici per voci e basso continuo di Lodovico da Viadana (1580 ca.-1627) esaltano ancora l’idea di un’armoniosa unione d’intenti nella compagine sonora, da un altro lato la pratica della policoralità (i cosiddetti “cori spezzati”) presso la basilica di San Marco in Venezia diviene il terreno ideale allo sviluppo di uno stile “dialogante” (Concerti di Andrea e di Giovanni Gabrieli) che, spingendosi a esiti quasi profetici nella ricerca dei contrasti timbrici e dinamici (Sonata pian & forte di Giovanni Gabrieli), sarà alla base “dello stile concertato”.
Quando lo strumento musicale inizia a proporsi non più in funzione di potenziamento sonoro o arricchimento timbrico a un’espressione vocale già strutturalmente autosufficiente, ma come indispensabile sostegno armonico alla voce o come suo sostituto nell’espressione degli “affetti” un nuovo senso del termine “concerto” inizia a sovrapporsi all’antico. L’espressione degli “affetti”, asse portante del discorso musicale tra i due secoli, è ottenuta mediante l’uso accorto di una dialettica dei contrasti. Dal momento in cui gli strumenti musicali divengono in grado di “muovere” da soli gli “affetti”, senza l’ausilio “delle parole, e del concetto”, può dirsi compiuta l’emancipazione dei generi strumentali.
Giulio Caccini
Il canto
Nuove musiche e nuova maniera di scriverle
(...) lo affetto in chi canta altro non è che per la forza di diverse note, e di vari accenti col temperamento del piano, e del forte una espressione delle parole, e del concetto, che si prendono a cantare atta à muovere affetto in chi ascolta (...)
G. Caccini, Nuove musiche e nuova maniera di scriverle, Firenze, Marescotti
L’affermarsi della tecnica del basso continuo rappresenta l’affacciarsi di una prassi squisitamente strumentale nel repertorio vocale.
Il divorzio del gusto da una polifonia che pareva avesse saturato le proprie potenzialità espressive in una complessità strutturale ormai al limite aveva, tra i suoi svariati effetti, generato la teoria e la pratica di una monodia, che trovava nel nascente teatro musicale il principale punto di riferimento. In tale contesto assume vitale importanza l’uso di almeno uno strumento che sostenga armonicamente, pur con tutta la discrezione e parsimonia di note voluta dalla prassi, la linea melodica.
Il basso continuo ha origine nella prassi esecutiva organistica, nella quale già anteriormente al Seicento gli esecutori, per accompagnare le composizioni vocali polifoniche, usavano leggere soltanto la parte di basso e improvvisare le altre, piuttosto che ricorrere alla complessa “intavolatura” di tutte le parti riunite. Nel Seicento questa pratica viene istituzionalizzata ed estesa ad altri contesti e ad altri strumenti (clavicembali, chitarroni o altri strumenti polifonici).
La notazione del basso continuo è in definitiva una sorta di appunto sul quale l’esecutore improvvisa la parte d’accompagnamento basandosi su un repertorio di regole dettate più che altro da un codice di “buone norme” musicali mediate dal proprio gusto e dalle potenzialità del suo strumento (un basso continuo di chitarrone sarà necessariamente molto meno ricco di note che uno di clavicembalo, ma espressivamente più adatto ad accompagnare una voce sola).
La prassi improvvisativa del basso continuo giova bene a comprendere i forti legami che la musica strumentale, pure in questa fase di decisiva evoluzione, conserva con le sue origini: la prevalenza della prassi sulla teoria, l’improvvisazione basata su regole non scritte, o formalizzate e trascritte a posteriori, ma tramandate di generazione in generazione, è vicina alle tecniche di memorizzazione e di articolazione di formule codificate e invenzione estemporanea proprie dei repertori popolari di tradizione orale, e si colloca invece concettualmente in luoghi assai distanti dalle tecniche esecutive dei repertori polifonici vocali, votati alla scrittura ormai da secoli.
Il basso continuo, insomma, connota una prassi musicale in cui la composizione viene “ricomposta” dall’esecutore, ogni volta in maniera diversa, in occasione di ogni esecuzione (in maniera in parte simile a quanto avviene oggi in repertori non istituzionali, ma di grande impatto sociale, che vanno dal jazz alla musica leggera), in cui manca la netta distinzione tra i ruoli di compositore e interprete.
In questo contesto la scrittura musicale per strumenti, o construmenti, osserva una funzione semplicemente descrittiva, assai diversa dalla moderna funzione normativa che trionferà nei secoli successivi.
Il settimo libro di madrigali di Claudio Monteverdi, significativamente denominato Concerto, comprende e in qualche modo esemplifica tutte le tendenze stilistiche dell’epoca, presentandosi come una rassegna dei generi e delle forme più in uso nei primi anni del Seicento.
Nell’ultimo libro, i Madrigali guerrieri et amorosi, che contempla una varietà di contenuti non inferiore al precedente, Monteverdi introduce l’idea di un “genere concitato”. Questo genere, reso possibile e di grande effetto dall’apporto degli strumenti, sarebbe stato inconcepibile in un contesto in cui l’idioma strumentale non fosse pervenuto a piena maturità.
Sono lo stile concertato, e in seguito la forma del concerto grosso, a determinare il passaggio da una scrittura descrittiva a una scrittura normativa della musica, con il progressivo assottigliamento degli spazi di arbitrarietà nell’esecuzione mediante l’uso di indicazioni sempre più rigorose e di passaggi “obbligati” per gli strumenti che la tecnica concertante ha reso irrinunciabili all’economia esecutiva.
Bisogna attendere la seconda metà del secolo perché quello che sarà il futuro concerto inizi a definirsi all’interno di una specifica architettura formale, quando, grazie alla prassi del basso continuo e allo stile concertato, la canzone per gruppo di strumenti avrà definitivamente abbandonato il modello polifonico di matrice vocale per volgersi allo sviluppo di un dialogo tra solisti, o tra il gruppo e un solista, dando vita alla nuova sonata a più tempi.
L’implicita alternanza di sezioni contrastanti all’interno di un unico episodio musicale, caratteristica della canzone strumentale, si evolve con la sonata a più tempi nella individuazione di movimenti distinti. Inoltre il nuovo modello solistico-dialogico privilegerà una scrittura musicale omoritmica, più congeniale al linguaggio strumentale.
Fra gli autori nelle cui opere si può individuare il graduale passaggio dalla canzone per strumenti di modello polifonico e di matrice vocale al genere sonatistico, è opportuno ricordare Dario Castello, Tarquino Merula, Biagio Marini, Marco Uccellini e Giovanni Legrenzi, i quali dal Nord Italia, che è il laboratorio in cui in prima istanza si attua questa trasformazione, diffonderanno il nuovo genere in tutta Europa.
Nella metà del secolo Bologna,con l’attività delle sue numerose accademie, presto riassunte dalla rinomata Accademia Filarmonica, e delle associazioni religiose, gravitanti intorno alla Cappella musicale di San Petronio, è laboratorio privilegiato di idee e tendenze che porteranno il concerto strumentale a compiuta maturità.
Già alla fine del secolo precedente la cappella di S. Petronio si era in un certo senso distinta come fucina di innovazioni nei Concerti ecclesiastici a otto voci con organo di Adriano Banchieri, che nel campo della notazione rimane come primo esempio di moderna partitura, con l’indicazione delle stanghette di battuta.
Maurizio Cazzati ha in San Petronio occasione di sperimentare l’uso della tromba, accanto a quello del violino, in una dimensione che sempre di più si muove verso la condotta dialogico-solistica. Le sue esperienze si svilupperanno attraverso una generazione di maestri bolognesi, da Domenico Gabrielli a Giacomo Antonio Perti e i suoi contemporanei (Giuseppe Matteo Alberti, Giovanni Maria Bononcini e il figlio Giovanni Battista, Giovanni Battista Vitali col figlio Tommaso Antonio, Giuseppe Jacchini), per giungere a Giuseppe Torelli.
All’interno della nuova struttura sonatistica si svilupperanno le peculiarità del concerto (la cui denominazione tuttavia continua a riferirsi più a un gruppo di strumenti che non a una determinata forma musicale). Esso si configura ora come dialogo tra due compagini di differente mole: il concerto grosso e il concertino.
Nella produzione di Alessandro Stradella (1639-1682) la dialettica tra le sezioni strumentali non è più affidata al solo contrasto timbrico o dinamico, ma si fa dialogo complesso grazie a una proporzionale semplificazione del linguaggio armonico e formale che scopre nell’invenzione melodica, nella dinamica dell’eco, delle progressioni e dei ritornelli, gli strumenti retorici dei secoli a venire.
L’intuizione stradelliana aprirà la strada alla fortuna del concerto strumentale, che avrà in Arcangelo Corelli (1653-1713) da un lato e Giuseppe Torelli (1658-1709) dall’altro i due massimi rappresentanti di fine secolo.
Se Corelli è considerato esponente più caratteristico del concerto grosso nella sua classica formazione, Torelli, virtuoso del violino, si muove invece verso una progressiva riduzione dell’organico del “concertino” in funzione dell’emergere della prorompente individualità del singolo strumento solista: soprattutto il violino, che anche grazie all’evoluzione impressa in quest’epoca dall’attività dei più famosi liutai d’ogni tempo, soprattutto Antonio Stradivari (1643-1737) e la famiglia Guarneri, si annuncia dominatore dei secoli futuri.
Nei 12 Concerti grossi di Torelli le voci del “concertino” si riducono talora a comprendere soltanto due o anche un solo violino: per questa ragione il loro autore viene considerato il caposcuola del concerto solistico che avrà fortuna nei secoli futuri.
Corelli scrive 12 Concerti grossi, alcuni da chiesa, altri destinati alla camera. Ma è interessante notare come in realtà i due stili da chiesa e da camera siano spesso interpolati tra loro e le differenze ridotte al minimo nel corso dell’opera, segno di come in quest’epoca le attività musicali in chiesa e in teatro si avvicinino e procedano parallele come mai era avvenuto prima nella storia.
Probabilmente è questa la vera novità del secolo, la svolta culturale che segnerà i tempi a venire: non più diverse forme musicali dedicate a differenti riti e a essi subordinate, ma l’ascolto stesso che si fa rito, e insieme costume generalizzato, uscendo dagli spazi angusti delle sale di corte e delle cantorie per approdare nelle pubbliche sale da concerto, a pagamento. Siamo arrivati al terzo uso del termine concerto, tutt’oggi il più familiare: quello che definisce non più un armonioso concertare di più voci, o una forma musicale che prevede l’alternanza di due organici distinti, ma l’occasione formalizzata in cui ci si riunisce espressamente per ascoltare musica, eseguita da musicisti professionisti.