Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nell’Europa in cui si consolidano gli Stati nazionali, l’Impero asburgico appare all’inizio del Seicento come un anacronismo politico, dove convivono regionalismo e cosmopolitismo mentre altrove si rafforzano gli Stati nazionali. Progressivamente, con l’intensificarsi della guerra dei Trent’anni che vede proprio in quest’area lo scoccare della prima scintilla, il disegno universale della Monarchia asburgica fallisce, mentre gli scontri, la devastazione e la morte diventano lo scenario abituale e ogni sogno di grandezza sembra essersi perduto nei particolarismi. Tuttavia, dopo Westfalia, un inedito “assolutismo confessionale” accompagna – nel crescere delle arti, delle scienze e del diritto – l’idea di Impero come fattore unificante, mentre l’imperatore diventa collante e garanzia di pace sovranazionale e sovraconfessionale.
Con l’ascesa dell’Inghilterra e dell’Olanda e il rafforzamento della Francia, il sogno universale di Carlo V tramonta definitivamente: alla morte di Ferdinando l’impero, perdurando una concezione patrimoniale che mal si concilia con la compresenza di Stati, principati e sovranità vescovili al suo interno, viene diviso e nel tentativo di resistere agli effetti del diffondersi del protestantesimo e del calvinismo e al loro configurarsi in identità nazionale, si giunge a piegare alla ragione dinastica i suoi successori fino a soffocarne un (forse presunto) criptoluteranesimo. L’impero che si voleva universale si rannicchia in più dimesse prospettive locali ed è scosso da forze centrifughe: gli imperatori sembrano essere i “parenti poveri” dei re spagnoli.
Eppure il regno di Rodolfo II, re dei Romani dal 1575 e doppiamente pronipote di Giovanna “la Pazza”, eredita a suo modo la “follia” universale di Carlo: educato rigidamente, come il fratello Ernesto, tra i roghi dell’Inquisizione e la caccia agli eretici, se ne distoglie allontanando la capitale – fino a trasferirla a Praga nel 1583 – e rifugiando se stesso e il suo impero nel respiro delle arti e delle scienze. Amico del rabbino Low, uno dei maggiori esperti di Golem, accoglie alla sua corte Keplero e Brahe: mecenate di “luminari e ciurmatori”, “saggio pagliaccio e folle poeta”, l’imperatore ansioso e depresso trascina il suo regno in un susseguirsi di apatia e morbosi interventismi; partecipa saltuariamente e svogliatamente alle riunioni del Consiglio di corte e si entusiasma invece per l’alchimia, l’arte, la fisica, l’astrologia e la magia curando o sovvenzionando la creazione di oggetti di scienza o preziosissime tele e alternando, tra turbamenti e dubbi, l’oroscopo alla scienza delle stelle. Intanto, tutto l’impero è scosso da controversie teologiche ossia etnico-religiose: sommosse dei principi di Transilvania, incursioni dei Turchi, estendersi della ribellione.
Mentre Rodolfo, naufragato nel suo mondo bizzarro ed esoterico degli automi, del marionettismo golemico e del manierismo, sogna e prega evitando il matrimonio perché – secondo un oroscopo ingigantito dalla sua melanconia – un erede legittimo lo avrebbe privato del trono, l’impero sembra sul punto di disgregarsi: la Riforma ha prodotto nuove gerarchie e nuovi equilibri politici che talora si rivelano forieri di esigenze di autonomia. Nel 1605 il fratello Mattia, cui era già stato affidato il governo dei ducati austriaci, gli subentra nella conduzione – peraltro solo formale – della guerra contro i Turchi; tre anni dopo, al trono di Ungheria: i tentativi imperiali di ridurre la complessità e l’eterogeneità – culturale, politica, etnica, religiosa ed economica – dando vita a una formazione statuale simile a quelle che stanno emergendo e si stanno rafforzando altrove non è compatibile con l’assetto “multiplo” e “multiculturale” dell’impero; l’autorità è costretta dunque, coerentemente con i principi di Augusta, a concedere la Lettera di Maestà (1609) agli Stati boemi, cui viene dunque riconosciuta la libertà di culto. Intanto nel 1611 Rodolfo, ormai recluso nel castello di Praga, viene definitivamente deposto: la corona di Boemia è offerta all’arciduca Mattia che nel 1612 diventa anche imperatore; la Boemia è affidata, insieme agli altri possedimenti ereditari degli Asburgo, all’arciduca di Stiria Ferdinando che inaugura invece una politica di repressione dei culti riformati. Il 23 maggio 1618 una folla di dimostranti boemi guidati dal conte di Thurn entra nel castello reale di Praga per protestare contro la chiusura di alcune chiese protestanti e, non trovando l’imperatore, lancia dalla finestra due consiglieri e un loro segretario: è la “defenestrazione di Praga”, che dà origine alla guerra che sconvolgerà l’Europa per trent’anni. Rapidamente la Moravia, la Slesia e la Lusazia e anche i ducati austriaci si ribellano: nel maggio del 1619 Vienna è cinta d’assedio.
Anche in Germania, intanto, si acuiscono la debolezza dell’autorità imperiale e i contrasti religiosi: nel 1608 i principi luterani e calvinisti – tra cui il principe elettore del Palatinato Federico V, genero del re d’Inghilterra, e l’elettore del Brandeburgo Giovanni Sigismondo – e molte città imperiali concludono un’alleanza difensiva (Unione evangelica) cui si contrappone la Lega Cattolica, guidata da Massimiliano di Wittelsbach, duca di Baviera. I due schieramenti cercano appoggi internazionali, alleandosi l’uno con la Francia, l’altro con la Spagna, mentre Cristiano II, elettore luterano di Sassonia, non aderisce.
La contesa per la successione nei ducati renani di Berg, Jülich e Kleve nel 1609-1610 diventa motivo di gravi contrasti tra i due schieramenti: e se, in un primo momento, l’assassinio di Enrico IV di Francia – alleato dei protestanti – placa le tensioni, alla morte di Mattia il rifiuto dei boemi di riconoscere Ferdinando, dichiarato decaduto, e il conferimento della corona a Federico V scatena la guerra civile nel cuore dell’Impero: l’equilibrio, peraltro ormai solo formale, è completamente compromesso.
Nella primavera e nell’estate del 1620, mentre le truppe spagnole, alleate dell’imperatore, invadono dai Paesi Bassi il Palatinato renano, gli eserciti bavarese e imperiale sottomettono l’Alta e la Bassa Austria e penetrano in Boemia. L’8 novembre, vicino Praga, in due ore sono cancellati i faticosi compromessi degli ultimi decenni: nella “battaglia della Montagna Bianca” la Lega cattolica guidata da Tilly e i tercios spagnoli sconfiggono gli Stati cechi insorti e i loro alleati; la scarsa coesione dell’esercito boemo-palatino, rinforzato da volontari inglesi, e il sostanziale isolamento degli insorti sul piano internazionale sono all’origine della sconfitta: il Palatinato viene invaso e smembrato, Federico V privato dei suoi domini e della sua carica di elettore, che nel 1623 è trasferita a Massimiliano di Baviera, mentre Praga è abbandonata al saccheggio dei soldati; i protestanti boemi e austriaci vengono espulsi, molti ribelli giustiziati e si confiscano le terre ai nobili di fede protestante, mentre i Gesuiti, reintrodotti, si impegnano alla ricattolicizzazione del paese. La Boemia è sostanzialmente cancellata dalla carta d’Europa e l’idea di impero multiplo, della coesistenza nella reciproca autonomia, sembra avviarsi alla scomparsa.
Gli esiti degli avvenimenti nel cuore dell’impero segnalano tuttavia una minaccia: la potente offensiva dei tercios spagnoli stringe il continente in una tenaglia militare volta all’egemonia culturale, politica ed economica dell’intera area europea. Divelte le resistenze politico-religiose nello spazio politico e geografico del loro formarsi, il rafforzamento sembra minacciare le altre potenze di fede protestante: il conflitto si estende anche all’Italia settentrionale dove la Confederazione elvetica respinge, con l’aiuto francese, il tentativo di conquistare la Valtellina: la via di accesso alle truppe spagnole all’area tedesca si chiude, ma le fasi “boemo-palatina” e “danese” del conflitto vedono non solo l’affermazione delle truppe spagnole ma anche l’occasione – all’interno dell’impero – per imporre una dura osservanza della pace di Augusta: un editto di restituzione (28 marzo 1629), promulgato senza l’assenso della Dieta imperiale, stabilisce l’obbligo per i protestanti di restituire due arcivescovati, dodici vescovati, moltissime abbazie e benefici ecclesiastici che erano stati secolarizzati e, in base al principio del cuius regio, si obbligano i protestanti che risiedono in territori soggetti a principi cattolici a convertirsi.
Tuttavia il consolidamento asburgico, l’avanzata dell’esercito imperiale e soprattutto il tentativo dell’imperatore Ferdinando II di governare senza la Dieta imponendo una progressiva affermazione del proprio potere analogamente a quanto stava accadendo in altri Stati incontra persino la resistenza degli alleati, timorosi di una perdita di autonomia: è il caso della Dieta di Ratisbona che, forte dei successi dell’esercito svedese che minaccia l’area, impone il licenziamento del nobile boemo Albrecht von Wallenstein, il cui esercito mercenario sta terrorizzando la popolazione e che è diventato, peraltro, uno scomodo collaboratore per l’imperatore stesso; con l’accusa di trattative segrete, e nel timore di una rivolta dei contadini austriaci a causa dell’acquartieramento in quella zona delle sue truppe, Wallenstein viene fatto assassinare. Le resistenze fanno aggio sui tentativi di centralizzazione: pur trionfante a Nördlingen, l’erede al trono Ferdinando III d’Asburgo, diventato capo dell’esercito imperiale, è costretto alla pace di Praga: la natura multipla dell’impero torna ad affiorare.
Proprio sulla soglia del trionfo, il potere imperiale – pur disponendo di grandi strateghi militari, come ad esempio Raimondo Montecuccoli, e di potentissimi alleati che vedono nella sua riaffermazione il mezzo per determinare un’egemonia che si concepisce e definisce come universale – deve infatti tornare a negoziarlo e ricontrattarlo: da una parte, la natura stessa della compagine imperiale continua ad avere nella multiformità e diversità il suo tratto distintivo e irriducibile; dall’altra, qui più che altrove, la contrattazione cetuale e dei suoi organi rappresentativi è un condizionamento ineludibile e insormontabile. A questo va aggiunta, come per altri Stati, la pressione fiscale conseguente alle spese di un conflitto che non mostra di concludersi e la costante guerra cui sono sottoposti i territori dell’impero: devastazioni, saccheggi e violenze sono lo scenario ormai diventato abituale, che si spinge persino a episodi di cannibalismo. Dispersi tesori come i disegni di Dürer, decimata la popolazione, acuite l’intolleranza e la miseria, sospese attività come quella mineraria, già da tempo in crisi in Boemia e nel Tirolo per la concorrenza dell’argento americano e che ora subisce un tracollo anche nelle miniere di ferro stiriane, c’è bisogno di pace. Ferdinando III, diventato imperatore nel 1637, convoca nel settembre 1640 una Dieta a Regensburg e, mentre gli Svedesi arrivano alle soglie della città e stanno per far prigioniero persino lui, tutti – con la sola esclusione di chi combatte contro l’imperatore – discutono per oltre un anno dei destini della Germania lasciando progressivamente cadere le questioni confessionali a vantaggio di quelle politico-diplomatiche: le secolarizzazioni, ad esempio, vengono confermate.
Nel contempo, però, gli scenari della guerra dei Trent’anni cambiano radicalmente: le armate svedesi arrivano a occupare Lipsia e invadono l’Austria fino a Vienna, la Francia e la Baviera, mentre le incursioni olandesi nel Vecchio come nel Nuovo Mondo si fanno sempre più frequenti e le rivolte di Catalogna e Portogallo minacciano gli spagnoli, ora impegnati – specie dopo le dimissioni di Olivares – sul fronte interno. Le difficili trattative ormai indispensabili, mentre la Spagna non partecipa, non vedono più il fronte imperiale né egemonico, né vittorioso.
La pace negoziata a Münster e Osnabrück è nello scenario di un’Europa stremata, ammalata e affamata: dal conflitto, dalle epidemie, dalla povertà. L’impero appare quasi privo di una rappresentanza formale: a lungo, infatti, i principi tedeschi dibattono se l’imperatore possa rappresentare sia i riformati che i cattolici nelle trattative; alla fine, la risposta è negativa, arrivando alla decadenza della prerogativa sovrana dello ius bellis ac pacis, alla concessione di un’amnistia e al riconoscimento di una piena sovranità di tutti coloro che hanno diritto a sedere nella Dieta. È la sconfitta, piena, degli Asburgo.
Le trattative sono lunghe e complesse e si intrecciano, nelle violenze e nella guerra che pure permangono, a diversi piani di conflitto che si intersecano: la distanza non è solo politico-religiosa o diplomatica, ma di interessi dinastici, di prerogative, di dissidi che si riverberano in ogni aspetto della vita economica, culturale, sociale e politica. Il compromesso raggiunto a Westfalia, grazie alle divisioni dell’area cattolica e alle capacità diplomatiche dei protagonisti, è solo apparentemente sorprendente: la centralità del governo asburgico viene confermata – anche se Kaiser e Reich cessano di coincidere – perché l’impero e l’imperatore rappresentano, nuovamente e forse più che nel passato, garanzia di equilibrio e di pace.
Al di là degli assetti territoriali (la Svezia acquisisce la Pomerania occidentale, espandendosi così nel Baltico, e alcune città dell’impero con il conseguente diritto a sedere nella Dieta imperiale; anche alla Danimarca viene concessa la stessa prerogativa; il principe di Brandeburgo annette la Pomerania orientale ponendo le premesse della futura potenza prussiana; alla Francia vanno l’Alsazia e Metz, Toul e Verdun; le Province unite vengono definitivamente riconosciute), decisiva per il futuro dell’area e dell’Europa tutta è la scelta sulla natura dell’impero: divelte le sue precipue prerogative, con i territori devastati, nemici e soggetti a plurime autorità, esso è ora assai diverso dal Sacro Romano Impero. Dopo tanti anni, abituato ormai solo alla guerra – come scrive Grimmelshausen – fatica ad adattarsi alla pace e a definire preminenze e gerarchie. Gli Stati tedeschi, ora, sono formalmente autonomi.
Tuttavia, e anche se la situazione appare capovolta rispetto agli inizi del secolo, proprio dalla divisione, dalla mancata definizione di una primazia derivano la conferma e il rafforzamento dell’autorità imperiale. Se formalmente, infatti, l’arciduca non è che un primum inter pares, nei fatti è l’unico che – nella divisione – rappresenta un po’ di ogni interesse tornando a confermare la necessità ineludibile di uno Stato ancora una volta eterogeneo, insieme cosmopolita e municipale: al contrario dell’Inghilterra, qui l’imperatore governa ma non regna. Giova, in questo senso, la separazione dai cugini spagnoli mentre una nuova Dieta – convocata a Ratisbona nel 1653 per risolvere quanto lasciato in sospeso dalla pace di Westfalia – non riesce ad esautorare l’imperatore e, riconvocata dieci anni dopo, ravvisa in una necessaria unità l’unico mezzo per sopravvivere. Da tempo, infatti, le minacce di Luigi XIV sono diventate un pericolo; ma, soprattutto, incombono i Turchi che arrivano – nel 1683 – a 80 chilometri da Vienna, dove vengono sconfitti da Montecuccoli. Ma lo choc è grandissimo.
A differenza dei cugini spagnoli, la lunga guerra rafforza dunque la Monarchia austriaca: esautorati politicamente i ceti, la ricattolicizzazione condotta con il concorso determinante dei Gesuiti permette il configurarsi e il crescere di un comune sentire – la pietas barocca – che modella e unifica una compagine che continua a essere caratterizzata dalle differenze etniche e linguistiche, conferendo un’inedita ma sostanziale omogeneità. Alla sua morte, dunque, Ferdinando III dichiara indivisibili gli Stati ereditari (cui dal 1655 è stato aggiunto il Tirolo), mentre viene creato un esercito permanente nel 1658: l’impero sviluppa un originale “assolutismo confessionale”.
Il problema principale sia di Leopoldo I – succeduto, dopo la morte dell’erede al trono, a Ferdinando III – sia del suo predecessore è la parte orientale: da tempo, infatti, è emersa la consapevolezza della necessità – per evitare tendenze centrifughe analoghe a quelle dell’inizio dei Seicento – di “mettere agli ungheresi i calzoni cechi”, stroncando l’opposizione nobiliare locale e le rivolte: ma la strategia e le vittorie di Montecuccoli non danno gli esiti sperati anche per la riottosità della nobiltà magiara, a maggioranza protestante. Una prima rivolta viene repressa, nel 1670, nel sangue; ma pochi anni dopo, nel 1681, di fronte a una vasta insurrezione sostenuta dall’Impero ottomano, vengono ripristinati gli antichi diritti della nazione; solo l’intervento della cavalleria polacca salva tuttavia Vienna dalla capitolazione. La reazione asburgica è, allora, imponente: finanziata dal pontefice e sostenuta da Venezia e dalla Polonia, porta negli anni successivi alla riconquista di tutta l’Ungheria fino alla Transilvania mentre l’ultimo grande esercito turco viene sconfitto a Senta dal principe Eugenio di Savoia. Nel 1699 la pace di Karlowitz sancisce la definitiva riunione all’Austria del regno di Santo Stefano mentre l’espansione verso i Balcani e il Mediterraneo prelude alla grandezza, dopo la guerra di successione spagnola, della Monarchia asburgica nel Settecento.
Intanto, nel resto della Germania, proseguono, sotto il controllo degli Asburgo che appoggiano i rami cattolici delle dinastie, le successioni del Palatinato renano e della Sassonia, e mentre la Baviera subisce l’influenza culturale dei fasti del “re sole” e Monaco diventa una piccola Versailles, Dresda si qualifica per la ricchezza e la vivacità del dibattito culturale. Il modello francese si coniuga a un’appartenenza unificata e unificante opposta a quella dell’aggressivo Luigi XIV; di contro alla politica di espansione e conquista, si affermano i principi di pace garantiti da un’autorità sovrastatale e sovraconfessionale, un rinnovato patriottismo tedesco dall’impronta e dal respiro, ora, non solo locale e che fa della differenza e del cosmopolitismo il motore della propria potenza. E mentre comincia a delinearsi la grande Vienna, con la nobiltà austriaca e boema che costruisce i propri palazzi accanto e intorno a quello dello Hofburg nella Herrengasse, si sviluppano ovunque corti in miniatura, coincidenti con le città capitali attorno a sovrani che volgono alla cultura e alle arti la centralità dei propri interessi e impegni.