L’impresa tra liberalizzazioni e regole
La crisi economica ha spinto il legislatore a liberalizzare: secondo la sentenza della Corte costituzionale, 23.7.2012, n. 200, il principio della liberalizzazione prelude a una regolazione, che elimini gli ostacoli al libero esercizio dell’attività economica che si rivelino inutili o sproporzionati e mantenga le norme necessarie a garantire che le dinamiche economiche non si svolgano in contrasto con l’utilità sociale. Liberalizzare significa abbattere le barriere che si oppongono all’entrata delle imprese in un determinato mercato, mediante una apposita legge o con l’intervento dell’Autorità antitrust. Una volta liberalizzato, il mercato non può essere lasciato a sé stesso, perché altre imprese potrebbero approfittare della loro posizione di forza; inoltre nessuna impresa fornirebbe un servizio se non abbastanza remunerativo: occorrono dunque altre Autorità deputate al rispetto delle regole di concorrenza e a imporre la fornitura a tutti di alcuni beni a prezzi predeterminati.
Nel 2012 si sono registrati due importanti interventi normativi che, nel disporre la liberalizzazione totale o parziale di mercati che fino ad allora non conoscevano il regime della concorrenza, hanno dovuto al contempo porsi il problema della regolazione di tali mercati. Il riferimento è al d.l. 24.1.2012, n. 1 convertito in legge dall’art. 1, l. 24.3.2012, n. 27, e al d.l. 24.1.2012, n. 5, convertito in legge dall’art. 1 l. 4.4.2012, n. 35.
Il d.l. n. 1/2012, chiaramente ispirato dallo scopo di dare piena ed effettiva attuazione al co. 1 dell’art. 41 Cost. secondo cui l’iniziativa economica è libera, all’art. 1 abroga tutte le norme che prevedano limiti o autorizzazioni per l’avvio di un’attività economica non giustificati da un interesse costituzionalmente rilevante.
L’art. 9 abroga le tariffe fissate dagli ordini professionali quali compensi per determinate prestazioni del professionista intellettuale (sono così ad esempio abolite le tariffe minime per le prestazioni degli avvocati): è inoltre previsto che l’entità del compenso sia fissato al momento del conferimento dell’incarico, mediante un preventivo di massima. Viene infine ridotta a 18 mesi la durata massima del tirocinio necessario per poter partecipare all’esame di abilitazione.
L’art. 11 aumenta il numero delle sedi farmaceutiche, prevedendosi che il numero delle autorizzazioni sia di una farmacia per ogni 3300 abitanti (contro i 5000 fissati in precedenza); l’art. 12 amplia la pianta organica dei notai (la cd. “tabella notarile”) di 500 posti.
L’art. 17 si pone l’obiettivo di liberalizzare la distribuzione dei carburanti, stabilendo che i gestori dei relativi impianti possano rifornirsi liberamente da qualsiasi produttore; eventuali clausole di esclusiva cessano di avere effetto per la parte eccedente il 50% della fornitura complessivamente pattuita.
Gli artt. 21 e 22 dettano una serie di disposizioni per favorire la trasparenza informativa relativa alle condizioni e ai prezzi nelle forniture di energia elettrica e gas.
L’art. 25, ad ideale completamento della disciplina dettata con il d.l. 13.8.2011, n. 138, convertito con modificazioni dalla l. 14.9.2011, n. 148, pone una serie di norme volte a favorire la promozione della concorrenza nei sevizi pubblici locali, compatibilmente con l’esigenza del rispetto dell’ambiente. È così ad esempio previsto che essi debbano svolgersi in bacini territoriali ottimali e omogenei, tali da consentire economie di scala idonee a massimizzare l’efficienza del servizio.
Gli artt. da 27 a 27 quinquies sono volti ad incentivare la concorrenza nei servizi bancari: in particolare gli artt. 27 e 27 bis si sforzano di ridurre le commissioni bancarie per alcuni servizi, quali il bancomat o la concessione di linee di credito.
Gli artt. da 28 a 34 ter cercano di stimolare la concorrenza nei servizi assicurativi: ad esempio l’art. 28 prevede che se una banca condiziona la concessione di un mutuo alla stipula di un contratto di assicurazione sulla vita è tenuta a sottoporre al cliente almeno due preventivi di due differenti gruppi.
Il d.l. 9.2.2012, n. 5, detta norme volte a semplificare vari aspetti della vita dei cittadini e delle imprese quando questi si rapportano con la pubblica amministrazione. Con riferimento in particolare alle imprese, l’obiettivo della legge è quello di perseguire la massima semplificazione amministrativa in attuazione del principio di libera iniziativa economica, che ammette solo i limiti e i controlli necessari ad evitare possibili danni alla salute, all’ambiente, alla dignità umana.
Così, ad esempio, l’art. 12 stabilisce che la disciplina dei controlli sulle imprese è ispirata ai principi della semplicità e della proporzionalità dei controlli stessi e dei relativi adempimenti burocratici alle effettive esigenze di tutela degli interessi pubblici, con conseguente eliminazione di tutti quei controlli non necessari rispetto alla tutela di suddetti interessi.
Tali leggi peraltro si inseriscono nell’alveo di un filone legislativo già iniziato nel 2011.
Si pensi al d.l. 13.8.2011, n. 138, che all’art. 3 prevede che lo Stato si adegua al principio secondo cui è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge, ossia nei soli casi di: vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali; contrasto con i principi fondamentali della Costituzione; danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana e contrasto con l’utilità sociale; disposizioni indispensabili per la protezione della salute umana, la conservazione delle specie animali e vegetali, dell’ambiente, del paesaggio e del patrimonio culturale; disposizioni relative alle attività di raccolta di giochi pubblici ovvero che comunque comportano effetti sulla finanza pubblica. Tale principio è stato ripreso, approfondito e specificato dal d.l. n. 1/2012. L’art. 5 del d.l. n. 138/2011 afferma altresì che gli ordinamenti professionali devono garantire che l’esercizio dell’attività risponda ai principi di libera concorrenza, principio ripreso dall’art. 9 del d.l. n. 1/2012, che ha abrogato le tariffe fissate dagli ordini professionali. L’art. 3 bis del d.l. n. 138/2011 stabilisce infine che i servizi pubblici locali sono organizzati secondo ambiti territoriali ottimali e omogenei tali da consentire economie di scala idonee a massimizzare l’efficienza del servizio, principio confermato e sviluppato dall’art. 25, d.l. n. 1/2012.
Si pensi poi anche alla l. 11.11.2011, n. 180 (Norme per la tutela della libertà d’impresa), che si pone il fine di garantire la libertà di iniziativa economica (esattamente come il d.l. n. 1/2012) mediante un processo di semplificazione amministrativa poi proseguito dal d.l. n. 5/2012 (che infatti attua alcune correzioni alla l. n. 180/2011). Ma tra le finalità della l. n. 180/2011 vi è pure (art. 1) la tutela del diritto al lavoro di cui all’art. 35 Cost., che è alla base anche della l. 28.6.2012, n. 92, il cui art. 1 si propone di disporre misure e interventi intesi a realizzare un mercato del lavoro in grado di contribuire alla creazione di occupazione, in quantità e qualità, alla crescita sociale ed economica e alla riduzione permanente del tasso di disoccupazione. In altre parole, mai come nella legislazione recente si è posto tanto l’accento sulla stretta relazione tra crescita dell’impresa (mediante liberalizzazioni) e tutela del lavoro (mediante la fissazione di regole semplici e certe). Sempre la l. n. 180/2011, all’art. 10, dispone delle significative modifiche all’art. 9 (divieto di abuso di dipendenza economica) della l. 18.9.1998 n. 192 (contratto di subfornitura): in caso di violazione diffusa e reiterata della disciplina di cui al d.lgs. 23.9.2002 n. 231 (in tema di lotta ai ritardi dei pagamenti) posta in essere ai danni delle imprese, con particolare riferimento a quelle piccole e medie, l’abuso si configura a prescindere dall’accertamento della dipendenza economica. È altresì previsto (art. 10 che richiama l’art. 4) che in caso di abuso le associazioni di categoria sono legittimate a proporre azioni in giudizio a tutela dei soggetti, portatori di interessi omogenei, appartenenti alla categoria. È questa una sorta di azione di classe riconosciuta agli “imprenditori deboli”1 cui evidentemente si ispira il legislatore del 2012 (art. 6, d.l. n. 1/2012) con le già riferite modifiche apportate all’art. 140 bis c. cons.
Con il termine “liberalizzazione” si intende la possibilità di svolgere attività economiche prima non accessibili a causa dell’esistenza di “barriere all’entrata”2 sul corrispondente mercato. Si tratta di un procedimento complesso perché vi è innanzitutto un provvedimento legislativo che elimina la barriera o le barriere; il più delle volte inoltre trasforma il vecchio monopolista (o, ma più raramente, i vecchi oligopolisti) da ente pubblico o da azienda pubblica in società per azioni: da qui la possibilità per le imprese private di entrare nel relativo mercato e la possibilità per i privati di acquistare le azioni della novella società. È per questo che il processo di liberalizzazione è strettamente legato al processo di privatizzazione.
Con il termine “regolazione” si intende invece ogni specie di ingerenza pubblica nell’economia3.
2.1 Corte costituzionale e regole delle liberalizzazioni
La Corte costituzionale ha affermato che la disciplina delle liberalizzazioni rientra nella materia “concorrenza”, di competenza esclusiva statale (art. 117, co. 2, lett. e, Cost.), materia che coinvolge norme: a) antitrust; b) volte a liberalizzare (concorrenza nel mercato); c) volte a disciplinare il procedimento di aggiudicazione degli appalti (concorrenza per il mercato). Ha affermato infatti ad esempio la sentenza 3.11.2010, n. 325, che la «nozione comunitaria di concorrenza» si riflette su quella di cui all’art. 117, co. 2, lett. e), Cost., anche per il tramite del primo comma dello stesso art. 117 e dell’art. 11 Cost. Secondo tale nozione, la concorrenza presuppone «la più ampia apertura al mercato a tutti gli operatori economici del settore in ossequio ai principi comunitari della libera circolazione delle merci, della libertà di stabilimento e della libera prestazione dei servizi». Essa pertanto può essere tutelata mediante tipi diversi di interventi regolatori, quali: a) «misure legislative di tutela in senso proprio, che hanno ad oggetto gli atti ed i comportamenti delle imprese che influiscono negativamente sull’assetto concorrenziale dei mercati» (misure antitrust); b) misure legislative di promozione, «che mirano ad aprire un mercato o a consolidarne l’apertura, eliminando barriere all’entrata, riducendo o eliminando vincoli al libero esplicarsi della capacità imprenditoriale e della competizione tra imprese» (per lo più dirette a tutelare la concorrenza “nel” mercato); c) misure legislative che perseguono il fine di assicurare procedure concorsuali di garanzia mediante la strutturazione di tali procedure in modo da realizzare «la più ampia apertura del mercato a tutti gli operatori economici» (dirette a tutelare la concorrenza “per” il mercato).
Stabilisce inoltre la sentenza 3.3.2011, n. 67, che la tutela della concorrenza, oltre ad appartenere alla competenza esclusiva dello Stato ai sensi dell’art. 117, co. 2, lett. e), Cost., costituisce un presidio della libertà d’iniziativa economica garantita dall’art. 41 Cost. Infine, la sentenza 23.7.2012, n. 200, nel confermare sostanzialmente la validità dell’impianto del d.l. n. 138/2012, ha affermato che la liberalizzazione, intesa come razionalizzazione della regolazione, costituisce uno degli strumenti di promozione della concorrenza capace di produrre effetti virtuosi per il circuito economico. Una politica di “ri-regolazione” tende ad aumentare il livello di concorrenzialità dei mercati e permette ad un maggior numero di operatori economici di competere, valorizzando le proprie risorse e competenze. D’altra parte, l’efficienza e la competitività del sistema economico risentono della qualità della regolazione, la quale condiziona l’agire degli operatori sul mercato: una regolazione delle attività economiche ingiustificatamente intrusiva – cioè non necessaria e sproporzionata rispetto alla tutela di beni costituzionalmente protetti – genera inutili ostacoli alle dinamiche economiche, a detrimento degli interessi degli operatori economici, dei consumatori e degli stessi lavoratori e, dunque, in definitiva reca danno alla stessa utilità sociale. L’eliminazione degli inutili oneri regolamentari, mantenendo però quelli necessari alla tutela di superiori beni costituzionali, è funzionale alla tutela della concorrenza e rientra a questo titolo nelle competenze del legislatore statale.
2.2 Liberalizzazione e barriere all’entrata su un mercato
Liberalizzare significa abbattere le barriere che impediscono alle imprese di entrare sul mercato sul quale agiscono una o più imprese che della “non liberalizzazione” approfittano: esse infatti godono di una posizione dominante, che perderanno con l’avvenuta liberalizzazione. Il concetto di posizione dominante è a sua volta decisivo nelle leggi poste a tutela della concorrenza: per stabilire se un qualunque comportamento posto in essere da una o più imprese possa definirsi abusivo e assumere così giuridica rilevanza ai sensi della l. 10.10.1990, n. 287 (cd. legge antitrust) e del TFUE, è condizione necessaria la verifica dell’esistenza di una posizione dominante, la quale, come detto, dipende dal possesso, in capo all’impresa o alle imprese, di una barriera – posta a protezione del mercato in cui esse agiscono – che le difenda dagli “attacchi” delle imprese potenzialmente concorrenti.
La posizione dominante può essere definita come una situazione che, pur non coincidendo necessariamente con il monopolio, ad esso si avvicina, in modo da consentire a chi la detiene di tenere un comportamento significativamente indipendente nei confronti delle imprese concorrenti e dei consumatori4: non è dunque necessario che un’impresa abbia eliminato ogni possibilità di concorrenza. In altre parole la posizione dominante è quella situazione che permette all’impresa o alle imprese che la detengano di abusarne, provocando così una limitazione della concorrenza all’interno del mercato in cui operino.
Per barriera all’entrata su di un determinato mercato – cercando di offrirne una definizione, cosa tutt’altro che semplice – può intendersi qualsiasi ostacolo, di carattere economico5, amministrativo6 o tecnico7, che impedisca o renda significativamente più difficoltoso alle altre imprese l’ingresso sul mercato su cui agisca l’impresa che della barriera stessa usufruisce, oppure qualsiasi fattore (la qualità del prodotto, un marchio celebre, un brevetto, il know-how) che, pur non ostacolando l’ingresso di altre imprese sul mercato, sia in grado di differenziare in maniera significativa il prodotto dell’impresa che disponga della barriera (tanto da attribuire all’impresa una posizione di monopolio). In altre parole, per barriera può intendersi qualsiasi ostacolo che impedisca o renda significativamente più difficoltosa la produzione o la vendita di beni merceologicamente simili a quelli dell’impresa protetta dalla barriera o la vendita di beni negli stessi luoghi nei quali agisce l’impresa che gode della barriera8. L’impresa che disponga della barriera ha dunque la possibilità di usufruire di una determinata zona, geograficamente e/o merceologicamente delimitata in maniera più o meno netta dalla barriera, entro cui il gioco della concorrenza non esiste oppure è fortemente limitato. In questa zona l’impresa che detenga una posizione dominante potrà svolgere efficacemente un’azione restrittiva della concorrenza, riuscendo a conseguire sovrapprofitti di carattere monopolistico; fuori di questa zona si ristabiliscono invece le condizioni di concorrenza e ogni comportamento, pure astrattamente anticoncorrenziale risulterà essere del tutto improduttivo.
Scrive un illustre Autore, lo Scarselli9, che «si tratta di non confondere un’idea liberale della professione con la cd. “liberalizzazione” della stessa. Si parla di abolizione del valore legale della laurea, di soppressione dell’esame per l’accesso alla professione, di soppressione degli ordini professionali, delle norme deontologiche a tutela della dignità e decoro della professione, con conseguente equiparazione piena dell’esercizio dell’avvocatura all’esercizio dell’attività di impresa; la liberalizzazione, al contrario, consentirebbe a tutti, senza regole e professionalità, senza studi né preparazione, l’esercizio della professione».
Deve ritenersi infondato il grave rischio paventato dallo Scarselli in quanto una riforma del genere non sarebbe possibile perché palesemente incostituzionale, per il semplice fatto che fortunatamente la Costituzione prevede, all’art. 33, co. 5, Cost., che è previsto un esame di Stato per l’abilitazione all’esercizio delle professioni intellettuali. Liberalizzare, dunque, a proposito dei professionisti intellettuali, non significa certo permettere a tutti di svolgere una determinata professione (come pure talvolta si ascolta da una certa propaganda alimentata dagli appartenenti ad una certa professione che contano sulla non perfetta conoscenza dell’opinione pubblica), ma solo impedire che coloro che dispongono dei titoli necessari per svolgerla lo possano fare in condizioni di potenziale parità con gli altri professionisti. Si pensi a questo proposito al caso dei farmacisti: ancora oggi, pur a seguito di una (molto) parziale liberalizzazione, un farmacista iscritto all’albo non ha la possibilità di aprire una propria farmacia se non dispone di un grosso capitale di partenza, pure se per ipotesi fosse il più preparato dei farmacisti del mondo.
3.1 Liberalizzazioni e professione di avvocato
Si è detto che l’art. 9 del d.l. n. 1/2012 ha abrogato le tariffe fissate dal consiglio dell’ordine per la professione di avvocato; ha previsto che l’entità del compenso sia fissato al momento del conferimento dell’incarico; ha infine ridotto la durata massima del tirocinio necessario per poter partecipare al concorso di abilitazione. La norma è coerente con l’art. 5 del d.l. n. 138/2011, che affermava che gli ordinamenti professionali devono garantire che l’esercizio dell’attività risponda ai principi di libera concorrenza e stabiliva che la pubblicità informativa avente ad oggetto l’attività professionale, la struttura dello studio ed i compensi delle prestazioni, è libera, purché le informazioni siano trasparenti, veritiere e corrette.
Se dunque è vero che nel 2011-2012 si è proceduto ad una significativa liberalizzazione della professione di avvocato, non può però non evidenziarsi che a queste modifiche ha fatto da contrappeso una significativa limitazione all’accesso della professione, con l’introduzione del divieto dell’esercizio dell’attività professionale da parte di pubblici dipendenti sia pure a tempo parziale. Di tale divieto è stata ribadita la legittimità dalla sentenza 27.6.2012, n. 166 della Corte costituzionale, che ha infatti affermato che non è fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della legge 25.11.2003, n. 339, con riferimento all’art. 41 Cost., in quanto i dipendenti pubblici non svolgono servizi configuranti un’attività economica e la loro attività non può essere considerata come quella di un’impresa; con riferimento poi al principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., il fatto che l’esercizio dell’attività professionale da parte di pubblici dipendenti fosse stato in precedenza giudicato non assolutamente irragionevole ed illogico non poteva inibire al legislatore, nella sua discrezionalità, di reintrodurre per i medesimi il divieto d’iscrizione agli albi degli avvocati. Sicché, il divieto de quo è stato ritenuto coerente con la caratteristica della professione forense dell’incompatibilità con qualsiasi «impiego retribuito, anche se consistente nella prestazione di opera di assistenza o consulenza legale, che non abbia carattere scientifico o letterario» (art. 3, r.d.l. n. 1578/1933, recante Ordinamento delle professioni di avvocato).
3.2 Liberalizzazioni e servizi di interesse generale
Dalla lettura congiunta degli artt. 41 e 43 Cost. si evince che coesiste la libertà di iniziativa economica con la possibilità di riservare ai pubblici poteri taluni ambiti di attività economica10: infatti, la libertà di iniziativa economica, garantita dall’art. 41, sussiste negli ambiti nei quali non opera la riserva pubblica, ammessa dall’art. 43: le attività economiche sono normalmente aperte alla libera iniziativa, mentre la riserva pubblica dà origine ad un regime speciale, che richiede una base legale e una specifica giustificazione11.
Il regime di pubblico servizio è informato da criteri che non attengono al buon andamento del mercato, giacché risponde piuttosto ad esigenze che non potrebbero essere soddisfatte dal libero mercato. La riserva di attività nei confronti dei poteri pubblici può dirsi costituzionalmente legittima solo ove involga servizi pubblici essenziali, ossia volti al soddisfacimento di bisogni essenziali per la collettività, per lo più a fronte di un corrispettivo che, normalmente, non corrisponde a quello che sarebbe chiesto dal mercato. Inoltre, per effetto dell’influenza del diritto europeo sul nostro ordinamento interno, si è affermata l’idea che il ruolo dello Stato deve essere quello del regolatore (non già dell’imprenditore) che si limita a identificare deficienze del sistema e provvede a colmarle12.
Le norme che hanno disposto delle liberalizzazioni hanno ad oggetto soprattutto imprese che gestiscono servizi di interesse economico generale (si è visto ad esempio il caso del gas). Tali norme sono pertanto dirette a conciliare da un lato la necessità (connotata da forti implicazioni pubblicistiche: si pensi soltanto all’“utilità sociale” di cui al co. 2 dell’art. 41 Cost.) di assicurare comunque la prestazione di servizi ritenuti essenziali, anche in ipotesi in cui ciò non sia conveniente per l’impresa in termini di economicità (si pensi ad esempio al servizio telefonico in alcune aree montuose particolarmente accidentate o al servizio di traghetto nei mesi invernali verso isole a forte vocazione turistica estiva) e dall’altro il rispetto, per quanto possibile, delle norme a tutela della concorrenza per quanto riguarda l’accesso al mercato in questione sia di potenziali imprese concorrenti (esiste cioè realmente la necessità di mantenere un regime di monopolio legale – come si riteneva ad esempio nel 1942 al momento dell’emanazione del codice civile – per le ferrovie?13) sia dei consumatori (l’impresa che agisca in condizioni di monopolio legale non deve negare l’erogazione del servizio o prestarlo a condizioni particolarmente onerose).
Vengono dunque in considerazione a questo proposito, oltre ai già citati artt. 41 e 43 Cost., gli artt. 2597 e 1679 c.c., l’art. 8 l. n. 287/1990 e gli artt. 106 e 107 TFUE.
Afferma l’art. 2597 c.c. che chi esercita un’impresa in condizioni di monopolio legale ha l’obbligo di contrattare con chiunque richieda le prestazioni che formano oggetto dell’impresa osservando parità di trattamento14. Secondo Buonocore l’intervento più penetrante dello Stato nel codice civile è rappresentato proprio da quest’ultima norma e dall’art. 1679 c.c. che contempla l’obbligo del concessionario di pubblici servizi a contrarre osservando parità di trattamento15. Sottolinea altresì Alpa che nella Relazione al Re del Libro V del codice civile (n. 238), a proposito dell’art. 2597 c.c. che sancisce l’obbligo da parte di tutte le imprese che si trovino in condizioni di monopolio legale di contrattare con chiunque osservando parità di trattamento, si afferma che un tale principio si impone a difesa del consumatore come necessario temperamento della soppressione della concorrenza, tenuto conto che il regime di monopolio legale va estendendosi molto al di là di quei particolari settori (come i trasporti ferroviari) nei quali tradizionalmente si soleva considerare tale fenomeno. Secondo la Corte costituzionale tale norma va altresì interpretata alla luce dell’art. 41, co. 2, Cost., come disposizione intesa alla tutela del consumatore nei confronti dell’esercizio abusivo del proprio potere da parte del soggetto monopolista (sentenza 15.5.1990, n. 241).
Coerentemente, secondo l’art. 8 della l. n. 287/1990, le norme a tutela della concorrenza non si applicano alle imprese che, per disposizioni di legge, esercitano la gestione di servizi di interesse economico generale, solo per quanto strettamente connesso all’adempimento degli specifici compiti loro affidati. Quindi, il fatto che l’impresa eserciti la gestione di servizi di interesse generale non basta ai fini dell’esenzione dall’osservanza delle leggi antitrust, e tale norma è stata interpretata dalla Cassazione con severità nei confronti delle imprese16.
Infine, l’art. 106 TFUE stabilisce che le imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale sono sottoposte alle norme dei trattati, e in particolare alle regole di concorrenza, nei limiti in cui l’applicazione di tali norme non osti all’adempimento, in linea di diritto e di fatto, della specifica missione loro affidata. Tale norma è lo strumento principale attraverso il quale la Commissione europea, soprattutto negli anni 90, ha potuto progressivamente procedere allo smantellamento dei grandi monopoli pubblici statali presenti nel mercato unico17.
1 Cfr. Delli Priscoli, L., Mercato e diritti fondamentali, Torino, 2011, 139.
2 Cfr. Delli Priscoli, L., La posizione dominante come presenza di una barriera, in Riv. dir. comm., 1999, II, 223.
3 Cassese, S., La nuova costituzione economica, Bologna, 2012, 64.
4 Cfr. C. giust. 14.2.1978, C-27/76, United Brands c. Commissione: la posizione dominante «corrisponde ad una situazione di potenza economica grazie alla quale l’impresa che la detiene è in grado di ostacolare la persistenza di una concorrenza effettiva sul mercato rilevante e di tenere comportamenti alquanto indipendenti nei confronti dei concorrenti, dei clienti e, in ultima analisi, dei consumatori».
5 Ad esempio gli alti costi di produzione o il possesso di una risorsa essenziale per la produzione del bene; le difficoltà per gli altri produttori nel reperimento di distributori qualificati a causa della clausola di esclusiva; la necessità per gli altri produttori di compiere ingenti investimenti; i provvedimenti amministrativi (autorizzazione e concessione: quando quest’ultima è prevista dalla legge come esclusiva si dà luogo al fenomeno del monopolio legale); l’informazione errata o incompleta in capo agli altri produttori o ai consumatori circa i prezzi adottati dai rivenditori.
6 Ad esempio la necessità del rilascio di una autorizzazione o di una concessione.
7 Ad esempio la scarsità di tecnici qualificati in grado di produrre quel certo bene; la qualità del prodotto; del know-how; il marchio conosciuto; dei brevetti.
8 Si proverà qui di seguito a sintetizzare il pensiero dei principali studiosi che hanno tentato di definire il concetto di barriera. Secondo il Bain si è in presenza di una barriera all’entrata quando le imprese già attive sul mercato possono praticare un prezzo superiore al costo di produzione senza peraltro indurre i concorrenti potenziali a fare ingresso sul mercato (cfr. Bain, J., Barriers to New Competition, Cambridge, 1956, 252). Nel pensiero dello Stigler invece, una barriera può essere definita come il costo di produzione che deve essere sostenuto da quelle imprese che cercano di entrare su di un mercato, costo che non è sostenuto dagli operatori già stabiliti su quello stesso mercato (cfr. Stigler, G.J., The organization of industry, Homewood, 1968, 67). Secondo il Gilbert infine, si ha una barriera se una impresa ricava una rendita dal fatto di essere già stabilita sul mercato (Gilbert, R.J., The role of potential competition in industrial organization, Oxford, 1990).
9 Scarselli, G., La legge professionale forense tra passato e futuro, Riv. trim. dir. proc. civ., 2012, 173.
10 Trimarchi Banfi, F., Organizzazione economica ad iniziativa privata e organizzazione economica ad iniziativa riservata negli articoli 41 e 43 Cost., in AA. VV., Scritti in onore di Virga, Milano, 1994, 78.
11 Cfr. C. cost., 7.7.2006, n. 279; C. cost., 28.7.1993, n. 356.
12 Satta, F.-Zaccheo, M., Note sulla separazione della rete di Telecom Italia, in Dir. amm., 2008, 29 ss.
13 Nel 2012, a seguito della separazione dalla gestione dell’infrastruttura di rete (ancora in monopolio), si è proceduto all’apertura alla concorrenza del servizio ferroviario: cfr. anche Battistini, C., Liberalizzazioni e concorrenza nella regolamentazione del trasporto ferroviario europeo, in Dir. UE, 2010, 571.
14 Libertini, M.-Sanfilippo, P.M., Obbligo a contrarre, in Dig. civ., 1995, XII, 492.
15 Buonocore V., Contratto e mercato, Giur. comm., 2007, I, 388.
16 Cfr. infatti Cass., 13.2.2009, n. 3638, secondo cui grava sull’impresa l’onere di provare la necessità di imporre le condizioni praticate al fine di assolvere il compito da essa svolto nell’interesse generale; Cass. 16.5.2007, n. 11312, secondo cui i servizi relativi agli elenchi telefonici non sono strettamente connessi all’adempimento degli specifici compiti affidati al concessionario del servizio di telecomunicazioni.
17 Cfr. C. giust., 8.6.2000, C-258/98.