L'Ottocento. 1797-1918. Nota introduttiva
Molti Stati scomparvero dalla geografia politica dell’Europa nel quarto di secolo di guerre e ridisegnamenti di frontiere che costituì una parte così essenziale dell’esperienza rivoluzionaria e napoleonica. Tranne che per i ristretti circoli dei destituiti, la scomparsa di praticamente tutti passò inosservata. Ma la soppressione di due di essi — Polonia e Venezia — lasciò una prolungata impressione sui contemporanei. Le successive spartizioni della Polonia da parte di Russia, Austria e Prussia (1772, 1793, 1795) condussero alla diaspora dei suoi nobili, dei suoi ufficiali e delle sue élites culturali, che con la loro presenza in esilio nelle principali capitali dell’Europa, con le loro carriere militari e diplomatiche e con i loro contributi musicali tennero vivi il nome e l’ideale della Polonia nell’epoca del romanticismo e degli ideali nazionali(1). Questo non fu certamente il caso dell’umiliante abdicazione della millenaria Repubblica di Venezia (16 maggio 1797) e della brusca destituzione del suo successore, la Municipalità democratica, imposta da Napoleone e dall’Austria a Campoformido il 17 ottobre 1797. Di primo acchito, si può dubitare che — per gli oppositori politici della Francia o per i lettori delle gazzette fuori dall’Italia — l’estinzione dello Stato veneziano abbia significato molto più che un altro scoppio di tuono nella tempesta della marcia vittoriosa dell’armata italiana di Napoleone, e certamente ebbe minore importanza degli effetti politici della pace negoziata tra il generale rivoluzionario e l’imperatore asburgico. Nei suoi territori di un tempo, la fine del dominio della Serenissima offrì la prova più evidente del fallimento del patriziato, che era stato al governo fino a quel momento, nel forgiare legami efficaci di affetto e lealtà tra la Dominante e i suoi dominati: anche la manciata di cittadini seguaci della Rivoluzione nelle città della terraferma, che vi organizzarono spontaneamente Municipalità democratiche, non incoraggiarono legami istituzionali con organismi corrispondenti nella ex capitale(2). Solo in ritardo, dopo la fine delle guerre, quando il turismo si rianimò, la vicenda dell’estinzione della Repubblica colpì l’immaginazione europea, sia per il particolare ruolo di Venezia nell’itinerario di acculturazione e socializzazione delle élites europee, sia per la seduzione romantica e l’unicità del luogo(3). In Venezia stessa — fatta eccezione per le velleità di pochi patrizi nel 1814 — non si ebbero mai speranze o anche solo aspirazioni di restaurazione; tutt’al più, durante l’eroico momento del 1848-1849, il nome della Repubblica di Venezia evocò intenzionalmente una continuità ideale, utilizzata per chiamare a raccolta i più esitanti e moderati intorno a una causa comune radicale senza precedenti(4). La morte della Repubblica Serenissima era definitiva: sarebbe stata compianta attraverso una sempre più gelosa costruzione della sua memoria da parte degli storici veneziani, commemorata dai letterati e dagli artisti europei, commentata da un flusso costante e crescente di visitatori, tramandata dal gran numero di stranieri che la scelsero come dimora, attratti dall’atmosfera romantica della città e della laguna, dalla maestosa (benché sempre più deteriorata) architettura, dalla ripresa della sua lunga tradizione di celebrazioni rituali e di intrattenimenti teatrali.
Il XIX secolo, in tutti gli Stati e le città dell’Europa occidentale, fu segnato da un’elaborazione particolarmente intensa della memoria storica. L’ideologia dei movimenti nazionali, che avrebbe poi svolto un ruolo così preminente nella storia europea, richiedeva una rilettura selettiva del passato che seguisse il filo conduttore di un’idea o di uno ‘spirito’ della nazione, identificabile soprattutto attraverso un passato politico già glorioso e l’autenticità di un dialetto e delle tradizioni popolari. L’orgoglio del passato era la base comune per le espressioni e le manifestazioni di patriottismo o nazionalità, era un elemento essenziale per la costruzione delle identità nazionali in alcuni paesi, venato di nostalgia in altri dove il prestigio in precedenza attribuito al potere, alla cultura e alla ricchezza del paese (o della città) non sarebbe mai tornato. Per Giustina Renier Michiel, lo scopo dei rituali festivi veneziani era di rendere ogni veneziano consapevole della sua patria, non come un ideale astratto, ma come qualcosa che egli stesso formava e manteneva(5). Nel 1848, fin dal primo momento della sollevazione, Daniele Manin e i suoi compagni rivoluzionari furono acutamente consapevoli di cosa significasse evocare l’antica indipendenza di Venezia come elemento emotivo di unione patriottica contro il dominio straniero — che si trattasse del simbolismo del nome e del leone della Repubblica o delle lezioni di storia veneta tenute da Samuele Romanin all’Ateneo Veneto(6). Dopo l’incorporazione del Veneto nel nuovo Stato italiano aspetti ed episodi della passata storia della Serenissima potevano essere recuperati e riutilizzati ogni volta che si adattavano ai conflitti e alle tattiche del particolare momento politico: fra’ Paolo Sarpi, negli anni del conflitto Chiesa-Stato; l’imbarazzante ritardo nel traslare le ceneri di Manin dovuto all’opposizione clericale, e la rapida erezione della sua statua (1875); i molteplici usi politici, soprattutto in chiave moderata, della stessa rivoluzione del 1848; la retorica del ruolo «storico» di Venezia nelle relazioni economiche con l’Oriente, dopo l’apertura del canale di Suez; la sua «naturale» presenza di dominio nell’Adriatico (e nei Balcani), nel discorso nazionalista che accompagnava la costruzione di Porto Marghera(7).
Probabilmente non vi fu da nessun’altra parte una costruzione più consapevole e sistematica di un culto del passato, protetto gelosamente come fosse una veglia funebre per la città lagunare, quanto tra le élites colte di Venezia, sia durante il lungo periodo di governo straniero che dopo il 1866. Come in Polonia, i miti e gli antimiti nacquero immediatamente (e inevitabilmente) dopo la scomparsa dello Stato, sotto forma di accuse, spiegazioni e giustificazioni nei ranghi del patriziato(8). Le responsabilità dell’oligarchia dominante, decadente, corrotta, dedita solo a feste spettacolari, costituirono gli elementi ricorrenti dell’antimito, anche perché questi caratteri si ritrovavano nell’insegnamento dei classici, e in particolare nell’influente lezione di Edward Gibbon sul declino dell’Impero romano, rafforzati nel tardo Settecento dall’immagine associata a Venezia nell’itinerario del Grand Tour europeo. Ma queste condanne generiche e moralistiche acquisirono maggiore sostanza con la pubblicazione dell’Histoire de la République de Venise di Pierre Daru nel 1819. Come scrive Claudio Povolo, difficilmente avrebbe potuto esservi un maggiore contrasto tra la formazione e il punto di vista intellettuale di questo burocrate militare napoleonico e le strutture politiche e organizzative della Repubblica di Venezia(9). Questa fonte primaria dell’antimito, con le sue molte ripetute edizioni e la sua vasta circolazione in Europa, fu all’origine della rappresentazione del declino e della caduta di Venezia, non tanto nel senso dell’osservazione più acuta di Daru — il rifiuto del patriziato veneziano di adattare le sue istituzioni all’espansione territoriale dello Stato — ma per la sua rappresentazione di uno Stato in cui un’oligarchia manteneva il proprio monopolio del potere attraverso la segretezza e le denunce anonime che caratterizzavano la sorveglianza del consiglio dei dieci e degli inquisitori di Stato. La «leggenda nera» della Repubblica, che avrebbe esercitato una potente influenza per tutto il XIX secolo e oltre, come spiega Mario Infelise(10), doveva molto alla ‘visibilità’ di Venezia a livello internazionale, nella cultura e nell’immaginazione delle élites e dei turisti europei dell’Ottocento. Dava sostanza e integrava l’atmosfera romantica di decadenza che attraeva tutti i turisti e stregava i residenti stranieri (particolarmente gli inglesi). Giustificava il culto della morte che costituisce un Leitmotiv degli scritti di autori stranieri su Venezia, da Lord Byron a François-René de Chateaubriand, ma in particolare nella seconda parte del secolo e oltre, da John Ruskin a Baron Corvo, Maurice Barrès e Hugo von Hofmannsthal, fino a Thomas Mann, Arthur Schnitzler e Rainer Maria Rilke(11).
L’effetto paradossale dell’antimito fu di stimolare la costruzione del mito di Venezia. Le storie critiche scritte dagli stranieri erano offensive. A partire dai contemporanei di Daru, l’abate Giannantonio Moschini e il patrizio Domenico Tiepolo, fino ad Agostino Sagredo, furono confutate e respinte con disprezzo per «lesa maestà»: «Quanto agli stranieri», scriveva Sagredo nel suo saggio introduttivo a Venezia e le sue lagune, preparato per il Congresso degli scienziati italiani del 1847, «poco devono importarci i giudizii loro, spesso ingiusti, non sempre disinteressati»(12). Per Gioacchino Brognoligo, autore di un ampio studio sulla cultura veneziana, il bisogno di confutare le calunnie degli stranieri è il filo conduttore della storiografia veneziana, particolarmente negli anni Trenta e Quaranta, ma in generale per tutto il secolo: «è il più saldo e persistente e solo per esso si passa dall’amore della verità per amore della patria calunniata all’amore della verità per la verità, il quale poi degenera nell’amore del documento per il documento»(13). Ad alcuni storici stranieri, come Leopold von Ranke, Rawdon Brown o Armand Baschet, fu dato il dovuto riconoscimento, perché i loro scritti o le loro guide rafforzavano la fama della Repubblica. Ma una volta che Venezia divenne finalmente parte dell’Italia, in un’epoca di storiografia positivista in cui la pubblicazione di documenti era di per sé prova sufficiente della Verità storica, il flusso di pubblicazioni sulla storia della Serenissima, incoraggiate dalla fondazione dell’«Archivio Veneto» e della Deputazione di Storia Patria per le Venezie, divenne un fiume imponente, le cui sponde vennero custodite (fino alla metà del XX secolo) da successivi Caronte, dallo stile molto differente ma allo stesso tempo, per tutti, intimidatorio, come Rinaldo Fulin, Pompeo Molmenti, Roberto Cessi.
È evidente che il culto del passato di Venezia, eccezionalmente forte anche per il periodo di storiografia patriottica che caratterizzò il Risorgimento, era molto più che una semplice risposta all’antimito. I disastri prodotti dal declassamento precipitoso da capitale di Stato a città suddita, le conseguenze immediate e continuate dell’impotenza politica in termini di crisi economica e saccheggio culturale, costituiscono il contesto e spiegano tutti i notevoli sforzi di singoli eruditi, antiquari, bibliofili e collezionisti veneziani per proteggere e salvare dalla dispersione, prima che rischiassero d’andare irrevocabilmente perduti, i libri a stampa, gli opuscoli e i volantini, i manoscritti e gli archivi, i quadri, le sculture e gli oggetti che appartenevano al patrimonio accumulato del passato di Venezia, e donarli alla città. La rottura politica ed economica portata dalle rivoluzioni ha sempre creato condizioni eccezionali per il rapido passaggio di mano e per la dispersione di collezioni d’arte e biblioteche private e pubbliche, in seguito a spoliazioni, soppressione di istituzioni religiose, debiti familiari. Venezia fu particolarmente vulnerabile, anche nel contesto dell’Italia degli anni della rivoluzione e del dominio napoleonico, perché aveva cessato di essere una città capitale, a differenza di Milano, Firenze o Roma (quest’ultima seconda capitale dell’Impero napoleonico). Parigi dominava come centro del mercato dell’arte, ma Venezia divenne un emporio di aste pubbliche e vendite private che attraeva mercanti, come iene, da tutta Europa(14). Sarebbe difficile sopravvalutare l’impegno appassionato, nei decenni che seguirono il crollo della Repubblica, di persone come Leopoldo Cicognara, Giannantonio Moschini, Iacopo Morelli, Jacopo Chiodo, Emmanuele Antonio Cicogna, Giovanni Rossi, Teodoro Correr o Giovanni Querini Stampalia, nel salvare, attraverso l’acquisto, lo scambio o la persuasione, parte almeno dell’immenso patrimonio documentario e artistico dello Stato cittadino in liquidazione in seguito alla soppressione degli ordini religiosi e alla crisi delle famiglie patrizie. Possono essere lette come tentativi importanti, negli anni di abbandono della prima Restaurazione, di documentare ciò che era già perduto o poteva facilmente esserlo, le incisioni delle «fabbriche più cospicue» pubblicate dai soci dell’Accademia di Belle Arti, o la collezione di iscrizioni degli edifici monumentali veneziani di Cicogna(15). La pinacoteca dell’Accademia, il Tesoro della basilica marciana e il pantheon di monumenti funebri veneziani nella basilica dei SS. Giovanni e Paolo, così come la conservazione, la formazione e l’organizzazione degli archivi e delle biblioteche che divennero pubblici nel corso del XIX secolo, erano tutti motivati da un’attiva e comune preoccupazione di rivendicare le glorie del passato veneziano. Questa trasformazione di Venezia in un museo pubblico, in cui Antonio Canova agiva come nume della continuità, fu una conseguenza sostanzialmente inattesa della crisi dello Stato cittadino, che offrì i materiali per la costruzione del mito di Venezia(16).
Nelle città della terraferma, ha notato Gino Benzoni, la scomparsa della Serenissima funzionò da stimolo per gli storici locali, liberandoli dalle deferenti espressioni di devozione verso la Dominante(17). A Venezia essa ebbe l’effetto opposto. Gli storici veneziani erano incapaci di narrare la storia della città in modo indipendente da quella dello Stato veneziano. Né questo deve sorprendere, alla luce del metodo convenzionale della storiografia positivista, per cui erano ammesse poche deviazioni dalla strada maestra della storia politico-istituzionale. Nel caso di Venezia, la storia dello Stato era onnicomprensiva, da un lato per la longevità stessa del passato della Repubblica, l’ingegnosità e l’apparente durevolezza delle forme istituzionali di governo della Serenissima; dall’altro perché lo Stato veneziano (e la sua capitale) si identificavano con un impero, anzi con un impero d’oltremare, perfino orientale, come documentano chiaramente i nomi e le immagini figurative della città. La città tutta venne immortalata dai suoi pittori, ma l’attenzione degli storici veneziani si concentrava unicamente sugli edifici, sui monumenti e sui luoghi pubblici e religiosi che riflettevano il potere e il prestigio dello Stato (Palazzo Ducale, Procuratie, le basiliche di S. Marco e dei SS. Giovanni e Paolo) e su quelle occasioni cerimoniali, come lo «sposalizio con il mare» della festa dell’Ascensione, o il ricevimento degli ambasciatori, che ponevano simbolicamente in rilievo lo status e la dignità della Repubblica. Anche scritti apparentemente dedicati alla società veneziana — come l’Origine delle feste veneziane (1817-1827) di Giustina Renier Michiel, o la Storia di Venezia nella vita privata (1880) di Pompeo Molmenti, opera di grande successo in un’epoca (e in una città) affamata di rielaborazione o invenzione delle tradizioni — intendevano evocare un’immagine idealizzata del consenso e della dignità del popolo veneziano sotto il governo della Serenissima.
Durante i decenni del dominio austriaco, il culto della storia della Repubblica veneziana, inizialmente filtrata solo episodicamente attraverso le strette maglie di una preoccupata e severa censura(18), ma poi più apertamente dagli anni Quaranta, fu un’importante via di fuga, da un punto di vista emotivo e politico, dalla umiliante condizione subordinata del presente. Il discorso della storiografia veneziana sulla Serenissima, rappresentata come governo saggio e moderato, il cui patriziato garantiva la pace sociale e la ricchezza economica, molto amata dai suoi sudditi contadini nella terraferma, conteneva un contrasto implicito nei confronti dell’attuale dominio straniero. Anche per questo la «leggenda nera» ispirata da Daru era inaccettabile per gli storici veneziani, in quanto indeboliva il contrasto tra un passato idealizzato e il presente. Già prima del 1848, con l’infittirsi della rete di relazioni con gli intellettuali italiani di altri Stati e città della penisola e il sorgere di un generico ma espresso patriottismo, e ancor più dopo il 1866, per gli storici veneziani divenne possibile riconoscere sia pur lievi debolezze nel governo della Serenissima, trasferendo cronologicamente la «leggenda nera» ai mali della dominazione straniera, francese e/o austriaca, secondo le circostanze e il momento. Nella narrazione teleologica del Risorgimento, il 1848-1849 aveva redento la vergogna del 1797 e, nonostante l’oppressione austriaca, aveva finalmente trionfato con il «ricongiungimento» di Venezia all’Italia. In una Venezia italiana, senza controlli politici ufficiali o ufficiosi sull’accesso agli archivi e alle biblioteche pubbliche, la storiografia veneziana, culturalmente legittimata dal suo statuto scientifico e riconosciuta istituzionalmente, poté impegnarsi appieno nella pubblicazione delle fonti che rivendicavano l’epopea della Serenissima(19).
Un orientamento così deciso della storiografia, d’altra parte, bloccò efficacemente le ricerche sulla storia di Venezia successiva alla caduta della Serenissima. I periodi di governo francese e austriaco furono ridotti a un’epoca prolungata e immobile di crisi e decadenza. Ma anche la storia di Venezia italiana fu altrettanto trascurata dalla storiografia locale. Per tutta l’età liberale, ciò fu senz’altro dovuto alla diffidenza generale da parte degli storici accademici circa la possibilità e l’ammissibilità di scrivere di storia contemporanea. In seguito, negli anni del regime fascista, il disprezzo per l’Italia liberale non incoraggiò certo i potenziali giovani ricercatori, preoccupati per le loro carriere. Né possono essere ignorate le gravi limitazioni alla disponibilità delle fonti archivistiche: fino ad anni recenti, i numerosi fondi dell’Archivio di Stato riguardanti la storia di Venezia italiana (come provincia e come città), depositati nella sede della Giudecca, sono rimasti — e rimangono — virtualmente o del tutto inaccessibili; l’Archivio Municipale di Venezia (fondato da Napoleone nel 1806) è divenuto accessibile liberamente solo dagli anni Ottanta del Novecento(20).
Si può tuttavia suggerire che il disinteresse per la storia della città lagunare nel periodo successivo all’unificazione derivasse anche, a un livello più profondo, dal senso di disillusione che seguì l’ingresso di Venezia nel nuovo Stato. Ippolito Nievo, scrivendo nel 1859, aveva invocato l’«italianità» di Venezia, per esorcizzare il suo timore che al Veneto non fosse consentito di unirsi alla Lombardia diventando italiano(21). Almeno nella città di Venezia, la drammatica esclusione dal nuovo Regno nel 1859 aveva creato, assai più che nei primi anni Cinquanta, un diffuso sentimento patriottico. Dai cittadini veneziani l’ingresso in Italia nel 1866, dopo il penoso ritardo, fu perciò vissuto come un’occasione di «liberazione». Come per ogni liberazione, ci si attendeva che sarebbe stata seguita da una rigenerazione economica e politica della città, se non spontanea, almeno in conseguenza dello scoppio di energie represse. Invece divenne sempre più chiaro che Venezia, lungi dall’ottenere una «redenzione», restava emarginata (almeno finché la guerra mondiale non la pose forzatamente sul fronte), anche per la sua collocazione geografica periferica nel Regno d’Italia. Rispetto a Milano o Torino, l’economia veneziana non riuscì a decollare, la sua vita politica apparve fin dal principio provinciale e priva di immaginazione, le speranze e le aspettative della città presero a dipendere essenzialmente dalla mediazione e dal patrocinio, di grande efficacia, del suo unico uomo politico di statura nazionale, Luigi Luzzatti(22).
È certamente plausibile, come sostiene Mario Isnenghi, che l’ossessione per il passato di Venezia, che continuò ad assorbire le energie dei suoi storici, ebbe l’effetto di creare «uno stato di dissociazione permanente fra dinamismo della realtà e permanenze dell’immaginario»(23). Rafforzò i veneziani in quelle che Wladimiro Dorigo ha chiamato le loro «illusioni neoinsulari», i loro instancabili sforzi per sostenere una concentrazione autarchica delle attività economiche e civili entro la città, il rifiuto di prendere in considerazione un riorientamento dei loro orizzonti mentali capace di distaccarli dallo splendido isolamento della laguna, l’incapacità di adattarsi alle nuove dimensioni economiche dell’Europa, e riconoscere che i rapporti tra Venezia e la terraferma non erano più quelli della Serenissima(24). Tale ossessione accentuò l’estraneità di Venezia — incluse le città della terraferma(25) — alle profonde trasformazioni economiche e sociali che caratterizzarono gli ultimi decenni del XIX secolo nell’Italia settentrionale e centrale. Il culto del passato di Venezia influenzava ancora una volta il presente, questa volta non come contrasto implicitamente polemico, ma forse come consolazione per una delusione, come conferma dell’incapacità della città di trovare una nuova identità conforme ai vantati valori della modernità e del progresso dell’Italia e dell’Europa. In pratica, la rappresentazione della Serenissima, non soltanto da un punto di vista storiografico ma anche nei suoi musei e nella massiccia immissione di revivalismo architettonico fin de siècle che ha lasciato un’impronta indelebile sui palazzi del Canal Grande e in tutta la città(26), certamente funse da sostegno culturale per il blocco antisocialista e clerico-moderato di Filippo Grimani, benedetto dal patriarca Sarto, che monopolizzò il potere municipale fin dentro alla guerra mondiale. Per mezzo secolo Pompeo Molmenti dimostrò che il culto della «venezianità» era uno strumento formidabile ed efficace per il successo di attività politiche e intellettuali(27): la sua Storia di Venezia nella vita privata, nelle sue ripetute e sempre più lussuose edizioni, dovette certo gran parte del suo successo alla vernice culturale che offriva al numero non indifferente di veneziani occupati nell’industria turistica. Cosa c’è di più rivelatore della efficacia della «venezianità» come arma politica e amministrativa, contro l’opposizione dei democratici, che la ricostruzione del campanile di S. Marco «dov’era e com’era» (1902-1912), difesa intransigentemente e con successo da un sindaco diretto discendente di dogi(28)? A quel punto per la prima volta, nell’ultimo decennio prima della guerra mondiale, il culto del passato poteva essere usato anche per dare forma a un significativo collegamento col presente nelle espressioni retoriche di industriali (Giuseppe Volpi), politici (Filippo Grimani) e artisti (Gabriele D’Annunzio, la cui opera La Nave fu presentata alla Fenice nel 1904), volte a invocare la necessità di resuscitare il ruolo storico di Venezia nell’Adriatico come portabandiera dell’imperialismo militare e industriale del nazionalismo.
Vi furono voci dissidenti, polemiche contro l’egemonia del passato. Filippo Tommaso Marinetti e i suoi compagni futuristi Umberto Boccioni, Carlo Carrà e Luigi Russolo potevano strillare la loro condanna:
Ripudiamo la Venezia dei forestieri, mercato di antiquari falsificatori, calamita dello snobismo e dell’imbecillità universali, letto sfondato da carovane di amanti, semicupio ingemmato per cortigiane cosmopolite, cloaca massima del passatismo [Contro Venezia passatista, 1910].
Ma non erano veneziani. Più eloquente è invece lo sconsolato lamento nel 1887 del Collegio degli Ingegneri di Venezia, organizzazione dei professionisti locali impegnati nella modernizzazione della città: «Sono le famose Stones of Venice che assorbono l’attenzione; il resto non viene apprezzato e quasi neppur mentovato»(29).
L’impronta patriottica del Risorgimento ha confinato la storia di Venezia dopo la caduta della Serenissima in uno stereotipo in bianco e nero, che passa dall’oppressione straniera attraverso il 1848 per giungere fino al 1866 visto come conclusione giusta, inevitabile (e presumibilmente felice). La storia narrativa politico-istituzionale può facilmente nascondere più di quanto riveli. La storia di una città, e ancor più la storia di una ex capitale, cessa di essere politica dal momento in cui essa ha perduto il suo ruolo politico, e lo ridiventa solo quando, e nella misura in cui, la politica diviene di nuovo l’elemento (o almeno un elemento) guida nella sua storia. In questo senso Venezia, come Genova dopo il 1815, Napoli o Firenze, Torino o qualsiasi altra ex capitale d’Italia, richiede approcci storici differenti(30).
I due decenni tra la scomparsa della Repubblica e la Restaurazione segnano una rottura profonda e permanente nella storia di Venezia. Una crisi economica e sociale senza precedenti venne fatta esplodere da un lato dalla conflittualità internazionale che accompagnò i ripetuti cambiamenti di governo di questi anni, dall’altro dall’implosione del patriziato. L’asprezza e la profondità della crisi definì il contesto e creò le condizioni a partire dalle quali, attraverso il lungo Ottocento, Venezia si sarebbe lentamente trasformata in una città moderna, con una fisionomia e con contorni, attività economiche, ritmi e stili di vita quotidiana che definirono le caratteristiche della società veneziana, e di Venezia come città, quali sarebbero rimaste chiaramente riconoscibili almeno fino alle distorsioni della fine del XX secolo.
La storia di Venezia dopo il crollo della Serenissima è la storia di una città che per settant’anni fu soggetta a governo straniero e che, una volta integrata nel Regno d’Italia, vi svolse un ruolo secondario. La lealtà di Venezia fu data per scontata dallo Stato italiano: non poteva mai esservi (né vi fu) alcun dubbio circa l’appartenenza della città (e del Veneto in generale) — da un punto di vista storico, linguistico, del patrimonio artistico o della composizione etnica — quale sarebbe invece sorto dopo il 1918 nel caso del Südtirol/Alto Adige. Dato il contesto di un territorio nazionale stracolmo di monumenti e memorie di troppi passati gloriosi, si capisce perché la classe di governo italiana non vide alcuna ragione per accordare alla città uno status o un riconoscimento speciale. In realtà Napoleone, al momento dell’annessione di Venezia al Regno italico, e l’imperatore Francesco I, al principio del secondo periodo della dominazione austriaca, ebbero gesti più visibili per lenire l’amor proprio veneziano di quanti non ne ebbero Vittorio Emanuele II e il governo italiano.
Lo storico deve evitare di ritenere deterministicamente che una trasformazione strutturale così profonda come quella sperimentata da Venezia fosse, per così dire, una risposta automatica e predeterminata alle mutate condizioni. La Venezia che era emersa alla fine del XIX secolo era il risultato di una molteplicità di attività e iniziative individuali e organizzate, il cui comune denominatore era una sottintesa fiducia nei valori della modernità e del progresso che circolavano per tutta Europa. Il significato di tali grandiose parole d’ordine certamente cambiò nel contenuto e negli scopi dagli anni Trenta agli anni Settanta o Novanta dell’Ottocento o agli ultimi anni prima della guerra mondiale. Ma ciò che rimase costante fu il senso condiviso che Venezia rimaneva parte dell’Europa. Il ruolo storico della Dominante come crocevia europeo, anche (forse soprattutto) nel suo secolo finale di declino, era riconosciuto e confermato dal passaggio costante di visitatori cosmopoliti, dagli ospiti accolti nei salotti della Restaurazione — che, per Stendhal, sorpassavano quelli di Parigi — ai liberali europei colpiti dall’epica della resistenza di Venezia sotto Manin, fino agli esteti, ai compositori e agli scrittori che soggiornarono nella città (e talora, come nel caso di Richard Wagner, vi morirono) nei decenni precedenti la prima guerra mondiale. L’Europa era costantemente presente negli orizzonti mentali delle élites di Venezia, dall’applicazione da parte di Enrico Gilberto Neville delle più recenti tecnologie nei suoi ponti di ferro alla creazione della Biennale ad opera di Riccardo Selvatico o alla visione di Giuseppe Volpi di un grande complesso industriale siderurgico-cantieristico.
In questo senso, gli spazi vuoti creati dal crollo della Repubblica e della sua classe dirigente, l’improvvisa rottura dei vincoli di consolidate tradizioni e consuetudini, offrivano nuove opportunità e possibilità, liberavano nella città risorse a volte insospettate, nelle attività di accorti o imprudenti imprenditori — sia nella sfera culturale che in quella economica — che avrebbero assunto consistenza e visibilità durante il periodo della dominazione austriaca e sarebbero divenuti in seguito egemonici nell’Italia liberale.
Dopo il 1797 Venezia fu isolata quanto non lo era mai stata, ma questa stessa frattura incoraggiò le élites della città a seguire i dibattiti e le nuove attività che circolavano nell’Europa occidentale, e, ove possibile, a parteciparvi. Il dominio napoleonico, nonostante la sua brevità (1806-1814), diede un impulso dinamico a questo cambiamento nel senso della modernità(31). Pur nel processo di cambiamenti radicali che caratterizzarono la storia di Venezia in questo periodo, esistono delle continuità tra gli anni del dominio francese e di quello austriaco: dall’emergere di nuovi raggruppamenti sociali, ai nuovi luoghi e linguaggi del dibattito intellettuale, alle radicali ristrutturazioni della topografia urbana.
Il processo di trasformazione di Venezia nell’Ottocento, che appare in filigrana nei contributi a questi volumi, si può identificare a molti livelli — la trasformazione graduale e i riorientamenti dell’economia; le visioni della modernità di altre capitali europee che ispirano la ristrutturazione della topografia cittadina e i rapporti con la laguna; le nuove gerarchie di una società urbana di ricchi e poveri; l’esitante adozione di mode culturali che andassero oltre il classicismo; l’elaborazione di discorsi politici circa il ruolo di Venezia in un mondo mutato.
Date le odierne prospettive storiografiche, una storia di Venezia nel lungo Ottocento non può limitarsi al patriottismo di origine risorgimentale e nemmeno al rammarico per le perdute glorie del passato. Al centro dell’attenzione devono essere la città, i suoi abitanti e l’impatto di un governo imposto dall’esterno sull’organizzazione sociale ed economica della vita; la trasformazione del tessuto urbano di Venezia; la percezione e l’adattamento da parte dei cittadini veneziani, di ogni livello sociale, a uno status subordinato, in diretto contrasto con ogni esperienza precedente; i loro rapporti con i successivi nuovi governanti, con i loro ex sudditi e la terraferma; i loro usi della laguna; il modo in cui davano forma e modulavano le loro attività, le loro forme di sociabilità, i loro interessi culturali, i loro ideali, in risposta alle forze economiche e ai valori culturali che circolavano attraverso l’Europa, tanto quanto negli Stati di cui fecero parte successivamente; in breve i processi di accomodamento e adattamento, le opportunità e i cambiamenti graduali che trasformarono la società veneziana dalla fine della Repubblica alla prima guerra mondiale e crearono una riconoscibile Venezia moderna.
Su una tale convinzione si basa la mia articolazione di questo volume che si occupa del lungo, anzi lunghissimo Ottocento di Venezia città, dalla perdita del suo rango di Stato all’evacuazione in massa dei veneziani durante la prima guerra mondiale. Accanto alla storia politica di Venezia e delle sue istituzioni, è stato dato il primo posto ai processi di cambiamento che condussero alla trasformazione della città di Venezia, dal punto di vista della sua organizzazione e delle sue pratiche economiche, sociali e culturali.
Dell’importanza e del significato, non solo storiografico, di una storia di Venezia che andasse oltre la caduta della Serenissima, Gaetano Cozzi fu sempre convinto. Per la sua realizzazione si era impegnato e ha poi seguito con passione, pur con la sua abituale e civilissima discrezione, la mia impostazione e la scelta dei temi trattati; insieme con Giandomenico Romanelli, ha anche discusso e suggerito, in modo amichevole, dei possibili collaboratori. La sua scomparsa prima della pubblicazione di questi volumi che completano la Storia di Venezia, di cui è stato una sorta di nume tutelare, lascia un senso di incompletezza che mi suggerisce queste poche, inadeguate parole di ricordo.
L’impatto più immediatamente visibile della caduta della Repubblica fu il crollo del patriziato. L’esperienza dei governi rivoluzionario prima e napoleonico poi, in Italia come dappertutto in Europa, intaccò irrimediabilmente la nobiltà di ancien régime sia nei suoi privilegi sia nel suo status. Tra le conseguenze vi fu la rovina delle economie familiari degli aristocratici medi e poveri: tant’è vero che Napoleone riconobbe formalmente che i nobili poveri in Toscana e a Genova potevano legittimamente aspirare ai sussidi quali «poveri vergognosi»(32). Ma la crisi del patriziato a Venezia fu più profonda e permanente che altrove.
La definitiva scomparsa del patriziato come classe politica di governo fu una conseguenza logica del suo monopolio del potere, gelosamente conservato durante i secoli della Dominante. Celebrata a Venezia dai patrioti della Municipalità democratica (inclusi alcuni nobili, come Giacomo Foscarini o Marina Querini Benzon) col rogo simbolico del Libro d’Oro, e, in terraferma, con l’esclusione dell’ex Dominante dal congresso delle Repubbliche democratiche del Veneto(33), questa scomparsa fu resa definitiva dalla decisione dei successivi governi stranieri di respingere qualsiasi proposta di un ripristino del loro ruolo come ceto. Ancora nel 1847, Agostino Sagredo, registrando i nomi di famiglie nobili rimaste al servizio dello Stato, si affrettava a chiarire che ciò non significava che «la nobiltà fra noi costituisca un corpo dello Stato»(34).
Vi era una notevole differenza, come ha mostrato Marco Meriggi, tra la forza di casta dei patrizi lombardi e quella dei loro contemporanei veneziani. Ciò era già chiaramente visibile negli anni del Regno italico, quando solo due patrizi veneziani — Alvise Mocenigo e Alvise Querini Stampalia — divennero prefetti, contro sette milanesi(35). Anche se si considera il breve periodo di fluidità istituzionale che seguì al crollo della dominazione napoleonica nel 1813-1815, quando in tutta Europa i notabili regionali e cittadini tentarono di riaffermare il loro ruolo precedente, il contrasto è notevole: i patrizi lombardi furono coinvolti nella cospirazione militare del 1814, i veneziani rimasero passivi. Con la Restaurazione, la distanza tra patriziato e servizio dello Stato divenne anche più marcata. I patrizi vivevano come una umiliante retrocessione il loro trattamento alla pari con la nobiltà provinciale della terraferma, sia da un punto di vista istituzionale nelle congregazioni centrali e provinciali, sia da un punto di vista onorifico quando furono obbligati da Vienna a formalizzare il riconoscimento dei loro titoli nobiliari. Nel 1820, quando l’ammissione alla corte imperiale venne limitata a chi poteva dimostrare un puro lignaggio nobiliare per più di 200 anni, i patrizi veneziani soffrirono oggettivamente meno dei loro pari grado lombardi, tradizionalmente più aperti al matrimonio con ricchi borghesi: tuttavia «l’affaire de l’étiquette [...] a produit ici de bruit autant qu’à Milan», scriveva il capo della polizia, Antonio Mulazzani(36). Durante il dominio austriaco, erano frequenti, da parte dei principali patrizi veneziani, l’indifferenza o il rifiuto di cariche, in alcuni casi l’ostracismo: per lo più i nobili si ritirarono in attività familiari e civiche, occupandosi di istituzioni caritatevoli o iniziative educative. Nel contesto inebriante del 1847, alcuni colti patrizi liberali colsero l’occasione del Congresso degli scienziati italiani per unire orgoglio civico e gloria del lignaggio, commissionando busti di famosi antenati da disporre in un pantheon nell’Istituto Veneto(37).
La scomparsa del patriziato come classe di governo ebbe cause molteplici: la sfiducia e l’ostilità nei loro confronti che scoppiarono dopo il 1797, le divisioni nelle loro fila, il loro continuo declino demografico (circa 500 famiglie, o 2.000 persone nella Restaurazione), ma soprattutto le immediate e profonde ripercussioni che la nuova situazione ebbe su economie familiari che fin allora si erano basate sui benefici di un monopolio del potere. Gli arcaici meccanismi politico-istituzionali della Repubblica, consolidati attraverso i secoli, avevano dato forma a intricate pratiche non scritte di patronato, clientelismo e dipendenza a cui era vincolata praticamente l’economia di tutte le famiglie patrizie, tranne le più ricche. Vi era, notava Giuseppe Pellegrini, commissario imperiale straordinario dopo Campoformido, «un immenso numero di impiegati, buoni e non buoni, necessari e non necessari». Posto di fronte all’atteggiamento intenzionalmente non collaborativo dei grandi patrizi, custodi di quella che Alfredo Viggiano ha chiamato «la più intima storia costituzionale veneziana», Pellegrini sperimentò difficoltà enormi nel penetrare le funzioni, le responsabilità e gli stipendi delle varie cariche del tempo della Repubblica e fu costretto a rivolgersi agli ex segretari, della classe dei «cittadini», perché gli fornissero equivalenze approssimative tra le funzioni delle magistrature patrizie e le nuove istituzioni centralizzate(38). Con l’imposizione delle proprie forme di governo da parte di Vienna, Parigi, e poi di nuovo Vienna, il patriziato perdette il suo potere di negoziazione, precipitando la maggioranza delle famiglie in gravi difficoltà. La fine formale della Serenissima significò la crisi economica per le famiglie del medio patriziato e la miseria per la grande massa di nobili poveri, i cosiddetti barnaboti, e per i «cittadini».
Renzo Derosas ha analizzato il drammatico crollo economico delle famiglie patrizie, evidenziato in modo spettacolare dalle massicce vendite delle proprietà nobiliari, che ammontarono al triplo del valore delle vendite delle proprietà ecclesiastiche confiscate nel Veneto e in Friuli tra il 1797 e il 1820. Una manciata di patrizi, come Andrea Erizzo e i fratelli Giovanelli, si arricchirono, assieme a non nobili ed ebrei, sfruttando questo periodo eccezionale del mercato fondiario. Su un totale di 1.100 patrizi maschi, più di 700 liquidarono i possedimenti ereditati in terraferma e i loro palazzi a Venezia; le grandi proprietà che passarono di mano in questo periodo appartenevano quasi esclusivamente a patrizi. L’abolizione dei fedecommessi condusse al crollo delle «fraterne», una forma di coresidenza nelle casate patrizie resa obbligatoria dall’indivisibilità delle eredità: la vendita delle proprietà fu la condizione per la creazione di unità familiari separate, come accadde ai Querini Stampalia, ai Pisani di S. Stefano, ai Papafava o ai fratelli Foscarini ai Carmini. Ma le vendite furono in massima parte conseguenza dei debiti accumulati, che pesavano sulle famiglie del medio patriziato ora private di cariche(39).
Non esiste una chiara linea di confine fra queste famiglie e i perennemente impoveriti barnaboti. Gli appelli continui e disperati degli ex patrizi alle autorità austriache e francesi per ottenere una carica, anche di basso rango e con stipendio ridotto, offrono una drammatica prova della crisi esistenziale di questi aristocratici, fino ad allora privilegiati e protetti, ormai accomunati ai «cittadini» un tempo loro subordinati. Alcuni patrizi ricevettero pensioni minime accordate da Napoleone come gesto di benevolenza dopo l’annessione del Veneto al Regno italico nel 1806(40); altri si abbassavano per la prima volta a far domanda di una carica; altri ancora accettarono l’umiliazione di posti minori in terraferma nella riorganizzazione dell’amministrazione da parte dei governi francese e austriaco; o cercarono persino un impiego come informatori della polizia(41). Con la Restaurazione, l’amalgama che aveva tenuto assieme il patriziato come classe si dissolse definitivamente, con la dispersione delle sue famiglie in tutti i livelli sociali della città.
Il ricordo della comune discendenza era tutto ciò che restava a Filippo Grimani, uno dei cinque fratelli che vendettero palazzo Foscari al Comune nel 1845, che pregava di poterne divenire il custode: contrasto vivente con l’immaginario «ultimo Contarin» di Hofmannsthal, impiegato alle regie poste, che respinge l’offerta per il suo palazzo di famiglia per non «voltare per sempre le spalle a Venezia»(42). Non sorprende quindi che i nomi delle più importanti famiglie patrizie (Morosini, Bembo, Giustinian, Nani Mocenigo, Albrizzi, Memmo) compaiano nel primo annuario «statistico-amministrativo» del 1874 fra gli impiegati di basso livello, come assistente, segretario, «scrittore contabile» o «impiegato» in tutti i settori dell’amministrazione pubblica, dai tribunali e dall’intendenza di finanza ai maestri di scuola, al Monte di pietà o ai «trasporti militari lagunari»(43).
All’altro estremo della scala sociale veneziana, per tutto il periodo, il nucleo della nobiltà, che ormai — secondo la consuetudine dell’Austria imperiale — includeva borghesi ed ebrei nobilitati per i loro successi, era ancora formato da ricchi patrizi proprietari terrieri; i loro nomi (come quelli di Alvise Francesco Mocenigo o Piero Foscari) si possono trovare nel piccolo gruppo di finanzieri, investitori e imprenditori veneziani e stranieri. Signore patrizie ebbero un ruolo di spicco nei circoli intellettuali della prima parte del secolo (Giustina Renier Michiel o Marina Querini Benzon, ad esempio), così come in attività filantropiche ed educative, dopo l’ingresso in Italia (Elisabetta Michiel Giustiniani, Andriana Marcello). Anche il Teatro la Fenice era controllato e gestito esclusivamente da famiglie patrizie; altri nobili erano attivi in organizzazioni e attività culturali, come l’Istituto Veneto o i Congressi degli scienziati italiani negli anni Quaranta, o si erano formati come avvocati, ingegneri o politici. La loro presenza non era dovuta al nome che avevano ereditato, ma al loro ruolo di partecipanti attivi ai raggruppamenti sociali della Venezia ottocentesca che tendevano, nelle loro attività e nei loro scritti, ai valori della modernità e del progresso, all’unisono con le élites urbane altrove in Europa.
Ci sono due aspetti nei quali i discendenti di grandi famiglie patrizie veneziane rimasero unici: nell’esclusività della loro vita sociale nell’intimità dei loro palazzi, e nel loro ruolo nell’amministrazione della città. Abbiamo molte descrizioni dei salotti cosmopoliti degli anni della Restaurazione, frequentati da poeti e scrittori europei, ma le forme esclusive di sociabilità, come i ricevimenti e le discussioni politiche della Venezia nella belle époque di Filippo Grimani, restano ammantate nella discrezione dei grandi palazzi e possono solo essere immaginate. Di contro, il patriziato veneziano, staccato a forza dal suo antico monopolio delle cariche dell’amministrazione statale, trasferì il suo droit de seigneur al controllo amministrativo e politico della città stessa. Con una continuità che trascese i cambiamenti politici dalla Francia all’Austria all’Italia, i patrizi monopolizzarono le cariche di podestà (sindaco dal 1866) quasi senza interruzione dal 1806 fino a dopo la prima guerra mondiale: tra questi Daniele Renier che, podestà nel Regno napoleonico, benché notoriamente «nostalgico per l’antico ordine di cose», restò consigliere del governo per vent’anni sotto l’Austria a causa del suo «enorme ascendente presso il pubblico»; Giovanni Correr, che esercitò «una grande influenza morale nelle classi anche inferiori»; Pierluigi Bembo, l’ultimo podestà austriaco, che, benché considerato «austriacante» dal primo prefetto italiano Luigi Torelli, riemerse rapidamente come deputato italiano; Filippo Grimani, che riaffermò il diritto «di nascita» dei patrizi a guidare la loro città, dopo l’intervallo di tre sindaci non nobili, e fu «il sindaco d’oro» per 24 anni (dal 1896 al 1920)(44).
Le conseguenze strutturali del passaggio da città sovrana a città suddita furono subito chiare e sempre più evidenti. Nei ripetuti passaggi di governo tra Francia e Austria negli anni delle guerre napoleoniche, culminati col Congresso di Vienna (1815), si ripeté una realtà di marginalità impotente non solo nel grande teatro della politica internazionale, ma nel contesto molto più immediato dell’Italia del nord e dell’Adriatico. Dopo la perdita definitiva delle sue colonie, Venezia, come città e come porto, fu privata del suo secolare ruolo nell’Adriatico e più oltre. Solo in Istria e Dalmazia mantenne la sua forza di attrazione culturale, esemplificata inequivocabilmente dalla presenza e dal ruolo di Niccolò Tommaseo nel 1848. Le conseguenze della fine della Serenissima non furono meno drammatiche in termini economici, mentre quelle sociali si sarebbero rivelate in tutta la loro complessità solo gradualmente.
L’economia della Serenissima si era basata sulla produzione artigiana, sul commercio internazionale, sulle costruzioni navali e sui cospicui consumi. Come ad Amsterdam(45), anche nel periodo di declino nel XVIII secolo esisteva una complementarità tra il settore produttivo tradizionale della città e le dimensioni internazionali del suo commercio. Con la fine della Repubblica tutti i settori dell’economia veneziana furono messi in crisi contemporaneamente. Le ragioni sono ben note: la soppressione del sistema delle corporazioni e la perdita del monopolio in settori privilegiati della produzione, il blocco del porto, l’implosione del patriziato, la fine delle commesse pubbliche di navi, il crollo dell’impiego pubblico, la paralisi dell’attrazione trasgressiva delle feste veneziane. I contemporanei, da Lorenzo Da Ponte, librettista di Mozart, al generale francese Alexandre Law de Lauriston, all’arciduca Ranieri d’Asburgo, furono tutti impressionati dalla desolazione della città. I ripetuti assedi e blocchi navali (1805, 1809 e soprattutto 1813-1814) chiusero gli sbocchi tradizionali del commercio e negli ultimi anni ridussero i veneziani alla fame. Le fonti sono unanimi nel testimoniare la decimazione dell’occupazione: artigiani, operai del porto e dell’Arsenale, pescatori e carrettieri, negozianti, impiegati degli alberghi e dei caffè, domestici e dipendenti pubblici furono tutti colpiti in modo disastroso. Secondo la Camera di commercio, nel 1808 la forza lavoro era caduta dalle 25.326 unità del 1780 a 2.536; nel 1825 il patriarca, Ladislao Pyrker, riferiva che il numero dei gondolieri ai traghetti era sceso da 1.088 a 607, e quello dei gondolieri di famiglia da 2.854 a 297. La popolazione della città crollò dai circa 150.000 abitanti degli anni 1790 ai 115.000 del 1811, e continuò a diminuire fino a un minimo di 93.545 nel 1838. Come dimostra Renzo Derosas, in vent’anni vi fu una fuga da Venezia verso la terraferma di 40-50.000 persone, un terzo dell’intera popolazione. Venezia, come tutte le grandi città, soffriva di un alto tasso di mortalità e dipendeva dall’immigrazione per compensare la bassa natalità dei residenti indigeni; ma solo dagli anni 1880 in poi l’immigrazione fu sufficientemente consistente da far aumentare la popolazione veneziana in modo significativo(46).
Tranne che per la fine dell’assedio, i primi anni del governo austriaco non recarono alcun miglioramento. L’economia veneziana risentì della distruzione delle sue tradizionali reti di commercio sia per mare che per terra: da una parte era tagliata fuori dal suo ruolo marittimo internazionale a causa della decisione di Vienna di privilegiare Trieste, dall’altra aveva perso la sua posizione di sbocco ed emporio per la terraferma con la perdita dei domini veneti. Il numero e il tonnellaggio delle navi straniere che usavano il porto restarono bassi, la flotta mercantile veneziana fu ridotta al cabotaggio con i porti più piccoli dell’Adriatico e, anche dopo l’introduzione del portofranco, subordinata a Trieste. Il secolare senso di superiorità degli abitanti della Dominante nei confronti della terraferma si trasformò in una specie di istintivo ritrarsi nell’insularità, che rese i veneziani inconsapevoli, o almeno indifferenti, nei confronti delle profonde trasformazioni economiche del Veneto dopo l’unificazione(47). La separazione dalla terraferma fu certamente rafforzata dalle barriere doganali interne imposte da Vienna: anche se Venezia faceva parte dell’Impero austriaco, i preesistenti dazi doganali sui commerci con Carinzia, Tirolo, Ungheria e Moravia restarono immutati nel primo periodo del governo austriaco (1798-1806). Probabilmente a causa di lentezze burocratiche il sistema postale del Veneto venne integrato in quello dell’Impero solo nel 1822. Ma un protezionismo estremo seguito da uno più moderato (dopo il 1830) costituì un vero svantaggio per quella che era ormai divenuta una città periferica in un vasto Impero: la fabbrica meccanizzata di panni feltrati di Giuseppe Maria Reali a Cannaregio, ad esempio, fallì perché Reali non riuscì a ottenere concessioni fiscali alla pari con quelle di industrie simili nel Lombardo-Veneto e in Moravia-Boemia(48).
Le industrie tradizionali artigianali o di scala ridotta, come quelle di candele, saponi, zucchero, tessuti, vestiti, conterie e vetro colorato, cremor de tartaro, ecc., furono pesantemente colpite: la produzione vetraria a Murano crollò per la perdita del monopolio, l’alto livello dei dazi e la concorrenza boema e francese, al punto che solo 4 delle 49 fornaci erano ancora in funzione nel 1814. Non sorprende che siano state le più caratteristicamente ‘veneziane’ di queste produzioni artigianali, come quelle del vetro e delle ceramiche di Murano o dei merletti di Burano, a rianimarsi più tardi nel secolo. Sempre più vitale, invece, era l’industria del turismo(49). Con gli anni 1840 l’afflusso medio annuale a Venezia fu di oltre 50.000 turisti. In seguito all’intuizione di Busetto Fisola delle potenzialità della spiaggia disabitata del Lido, il suo sviluppo, finanziato dal solito gruppo veneziano e internazionale, la trasformò in una stazione balneare a livello di Biarritz e condusse a una crescita esponenziale dei turisti — 160.000 nel 1883, 3 milioni e mezzo nel 1907(50).
Il portofranco (1830), il ponte ferroviario sulla laguna (1846) e l’ingresso in Italia nel 1866, furono visti a turno ciascuno come l’elemento chiave della rinascita economica della città. Non può esservi alcun dubbio circa l’importanza del portofranco, esteso, grazie a un’intensa attività di pressione della Camera di commercio, dall’isola di S. Giorgio a tutta la città. Come mostra Adolfo Bernardello, a Venezia emerse un piccolo gruppo di industriali che si avvantaggiò dell’espansione dell’economia imperiale ed europea (dalla metà degli anni 1830 fino al 1847). Si dimostrarono degni rappresentanti del capitalismo europeo di metà Ottocento in cui erano integrati, nella loro capacità di raccogliere capitali, investire in tecnologie avanzate, cercare da veri imprenditori mercati più ampi dentro e fuori i confini dell’Impero austriaco. Investendo il loro capitale personale in una varietà di iniziative — dalle imprese industriali alle migliorie nell’agricoltura, dalle attività commerciali a quelle bancarie e assicurative — questa manciata di imprenditori (forse 60 in tutto) controllava la Camera di commercio e agiva come un potente e coeso gruppo di pressione, anche attraverso i suoi rapporti internazionali. Esemplare il caso della Società Ferdinandea per la costruzione della linea ferroviaria Venezia-Milano (1835-1852): ne facevano parte veneziani e stranieri (svizzeri, austriaci, inglesi, tedeschi, francesi), patrizi come Alvise Francesco Mocenigo o i fratelli Giovanelli, borghesi come Reali, ebrei veneziani come le famiglie Treves de’ Bonfili, Sullam o Errera, stranieri ‘naturalizzati’ come Spiridione Papadopoli. Rispetto a Milano e alla Lombardia, il capitalismo veneziano fu però sempre relativamente fragile e soffrì battute di arresto per il generoso coinvolgimento di una buona parte dei suoi membri più importanti nella rivoluzione del 1848-1849, come pure per l’improvviso blocco politico del mercato della Lombardia dopo il 1859. Ma rispetto, ad esempio, a Napoli, dove le iniziative industriali dipendevano dal capitale straniero o della Corona, ciò che colpisce di Venezia sono l’importante presenza di capitale indigeno (accanto agli investitori stranieri) e, caso unico nell’Italia di questi decenni, la centralità del ruolo delle famiglie ebraiche(51).
Sia i veneziani che gli stranieri, come il console inglese William Taylor Money, concordavano che il trasporto su rotaia avrebbe aperto un nuovo futuro per Venezia(52). Il ponte lagunare (1841-1846) offrì la prova evidente che i ritardi nel completamento della Ferdinandea non erano tecnologici ma (come altrove in Europa all’epoca della rapida espansione delle ferrovie) di carattere speculativo e finanziario. La sua parziale distruzione nella difesa della rivoluzione del 1849 e in seguito la separazione politica tra Lombardia e Veneto nel 1859 ritardarono gli attesi benefici. Ma sia prima che dopo l’ingresso in Italia, le ferrovie furono concepite sempre e innanzitutto in funzione di Venezia come porto. Per Luigi Luzzatti, ad esempio, il collegamento ferroviario con il Brennero era essenziale per assicurare il «grande traffico» attraverso Venezia dai porti dell’Europa settentrionale e dai fiumi dell’Europa centrale verso l’Adriatico(53).
Per tutto l’Ottocento, per gli industriali e banchieri veneziani come per quelli italiani e stranieri il porto rimase l’elemento chiave per la prosperità di Venezia. Durante il periodo austriaco, la sua ubicazione continuò a essere identificata con il bacino di S. Marco, ciò che spiega le istanze per la protezione e lo scavo del canale di Malamocco, necessari per il passaggio delle navi più grandi (1838-1857). Per Daniele Manin, nel gennaio 1848, il completamento dei lavori a Malamocco e la ferrovia Verona-Kufstein costituivano due dei suoi tre «desideri» per placare i «bisogni di prosperità materiale»(54). La crisi del porto negli ultimi anni del governo austriaco, le speranze generate dal 1866, soprattutto l’apertura del canale di Suez nel 1869 (occasione per sfoderare la retorica della ‘vocazione’ marittima di Venezia come anello di congiunzione commerciale tra l’Europa e l’Oriente) rianimarono il dibattito che, per la prima volta, si concentrò sullo spostamento del porto. La presenza della stazione ferroviaria a S. Lucia imponeva infatti la costruzione di un nuovo sito per evitare i costi del trasporto delle merci (la cosiddetta «rottura di carico») per mezzo di chiatte tra le navi e il treno.
La Stazione marittima, i Magazzini generali e l’estensione dei binari di raccordo all’ingresso occidentale del canale della Giudecca (1891-1896) di fatto trasformarono l’economia veneziana. Nel 1887 circa metà del traffico di merci passava ormai attraverso il nuovo porto, nonostante lo scavo dell’accesso al bacino di S. Marco; con il 1906 Venezia era seconda solo a Genova come porto commerciale; entro il 1912 (confrontato col 1880) il tonnellaggio totale era cresciuto del 600% circa(55). La creazione del nuovo porto ebbe conseguenze economiche e sociali profonde e di lungo periodo. A Venezia affluirono non solo investimenti locali o regionali, ma anche quelli di industriali e banche straniere e di grandi società nazionali come la Breda. Crebbero le industrie che già esistevano e se ne crearono di nuove, come il Cotonificio Veneziano (1882). Il centro storico rimase intatto: le nuove fabbriche erano ubicate in aree periferiche, in spazi aperti come il campo d’armi alla Giudecca o in siti industriali dismessi, come S. Giobbe o la Madonna dell’Orto. La Giudecca, S. Marta e Murano divennero aree privilegiate dell’industrializzazione di Venezia: la principale società metallurgico-ingegneristica, Neville, si trasferì alla Giudecca dal centro della città (1905); capitale straniero creò industrie altamente specializzate, come lo stabilimento di macinazione Stucky (fondato nel 1883, ricostruito nel 1896), il silurificio Schwartzkopff (1887) o la fabbrica di orologi Junghans (1899)(56).
Il processo stesso di industrializzazione e la rottura delle restrizioni dovuti all’ubicazione storica del porto aprirono nuovi orizzonti ai disinvolti rappresentanti dell’industria italiana. La posizione di Venezia nell’Adriatico assunse un nuovo significato nel discorso nazionalista del decennio prebellico, appena velato dalla retorica del suo passato. L’imperialismo economico di Giuseppe Volpi si alleò con l’irredentismo di Piero Foscari, con le risorse finanziarie della nuova società per l’energia elettrica Cellina (Società Adriatica di Elettricità, S.A.D.E., dal 1905), e dell’onnipresente Banca Commerciale nella persona di Giuseppe Toeplitz nel porre le basi per la creazione di Porto Marghera (1905-1909). Da secondo porto nazionale, Venezia venne lanciata come cantiere navale e complesso industriale di prim’ordine, a sostegno del ruolo internazionale dell’Italia. La prima guerra mondiale creò le condizioni eccezionali per la sua accelerata realizzazione. Ma Porto Marghera rappresentò un’irrimediabile rottura col passato, nel rapporto di Venezia con la laguna e la terraferma(57).
Fin dalle origini il rapporto con la laguna fece parte della conformazione fisica e della natura di Venezia. L’indissolubile relazione ecologica tra le due fu una costante nella millenaria storia della Serenissima, e assunse anche forma istituzionale nel magistrato alle Acque. Vi era (e vi è ancora) una differenza strutturale nel rapporto mentale dei cittadini veneziani con la laguna e con la terraferma. La laguna era una naturale estensione della città, la terraferma implicava quasi l’idea di un viaggio all’estero — com’era espressa, ad esempio, in un opuscolo scherzoso pubblicato nel 1818 dal nobiluomo Francesco Andrea Contarini (troppo giovane per aver esercitato i suoi diritti ereditari ai tempi della Repubblica): Viaggio e meravigliose avventure d’un Veneziano ch’esce per la prima volta dalle lagune e si reca in Padova e a Milano(58). Il fatto che la città dipendesse dalla terraferma per la sua forza lavoro, per i materiali di costruzione, per prodotti diversi e anche per la maggior parte delle sue risorse alimentari, non diminuiva da parte dei veneziani la percezione della terraferma come luogo distante — nemmeno per i patrizi che vi trascorrevano la villeggiatura nelle loro ville di campagna. Nei primi anni della dominazione austriaca, le barriere doganali accentuarono questa distanza. Solo dalla metà del XIX secolo, con il ponte ferroviario, la barriera psicologica del passaggio via acqua venne gradualmente erosa; alla fine del secolo, le Alpi e le località termali iniziarono ad attrarre l’élite veneziana.
La laguna, al contrario, veniva vissuta più come una difesa che come una barriera. Per secoli era servita a proteggere la città, da più punti di vista: militare, sanitario, religioso, economico ed ecologico. Le isole circostanti, come Poveglia o S. Andrea, svolgevano funzioni analoghe a quelle delle città fortificate di Vauban, le navi dell’Arsenale corrispondevano alle guarnigioni di Luigi XIV. Dal mare, Venezia rimase inespugnata per lungo tempo, anche dopo la caduta della Serenissima: poteva essere assediata per terra e ridotta alla fame con il blocco navale nell’Adriatico, ma non poteva essere conquistata, come fu dimostrato nel 1805-1806, nel 1809, nel 1814-1815 e nel 1848-1849(59). Lazzaretti e ospedali erano stati costruiti sulle isole per offrire una quarantena temporanea a passeggeri e merci in arrivo, e una segregazione più permanente alle sfortunate vittime di malattie socialmente pericolose, come i lebbrosi o i folli. I numerosi conventi testimoniano delle favorevoli condizioni di isolamento e contemplazione offerte dalla laguna agli ordini religiosi. Le comunità isolane fornivano pesce e verdure, trasportati quotidianamente in città. I flussi delle maree, nonostante l’infrequente disagio causato dall’acqua alta (quando i parroci erano tenuti a sigillare le cisterne per l’acqua piovana), assicuravano non solo un sistema di fognatura pubblica ben più regolare ed efficace di quelli delle città di terra, ma collegamenti commerciali via acqua con la terraferma, attraverso i fiumi Sile e Piave(60).
Nel corso del XIX secolo il rapporto della città con la laguna cambiò profondamente. Rimasero certamente delle continuità di fondo: ad esempio, i pescatori della Giudecca e delle isole più distanti continuavano a fornire pesce alla città; gli ortolani di S. Erasmo a portare verdura e frutta. La domanda di questi prodotti sicuramente crebbe con il rapido incremento del numero dei turisti, e ancora più alla fine del secolo, con la crescita della popolazione(61). Il turismo stesso trasformò la relazione delle isole con la capitale: idealizzate nell’immagine romantica, esse (almeno quelle più famose) diventavano passaggi obbligati dell’itinerario turistico e luoghi di produzioni artigianali rinomate, come il vetro di Murano e i merletti di Burano.
L’unico monastero risparmiato dalla soppressione da parte di Napoleone degli ordini religiosi, quello dei Mechitaristi di S. Lazzaro degli Armeni, fiorì nonostante le difficili relazioni con il papato(62). Anzi, la fama del suo collegio per i figli dell’élite armena diede ai Mechitaristi, negli ultimi decenni dell’Impero ottomano, una certa influenza sulla scena politica internazionale, altrimenti assente a Venezia.
Ma per molti aspetti la laguna veniva ormai considerata poco più che una riserva delle risorse della città. Ciò fu particolarmente evidente nella trasformazione delle isole da luoghi religiosi a postazioni militari. Le dimensioni e la fama dell’Arsenale assicurarono una continuità di fondo al ruolo di Venezia come base navale, indipendentemente dai cambiamenti di regime. Ma la funzione delle isole mutò radicalmente con la presa di possesso dei conventi da parte dei militari; la presenza di Venezia nell’Adriatico, che si era fondata in precedenza sulle attività del porto, fu trasformata in quella di base navale e militare. La funzione del manicomio sull’isola di S. Servolo (e su quella di S. Clemente per le donne), che risaliva al primo Settecento, assunse una dimensione e un significato completamente diversi, quando, a partire dagli anni Settanta dell’Ottocento, l’isola venne destinata ai malati di pellagra, provenienti da tutto il Veneto(63).
L’espansione del turismo e dell’industria, che trasformò la fisionomia della città, fu altrettanto incisiva sui cambiamenti strutturali nel rapporto con la laguna. L’attrazione dell’aura romantica che spirava dalla laguna e dalle sue isole è universalmente riconosciuta ed espressa nell’arte, nella letteratura, nelle guide di viaggio e negli scambi epistolari ottocenteschi, da William Turner alla colonia di pittori di Burano(64). La trasformazione del Lido fu di tutt’altra natura, essendo causata dalla risposta di finanzieri e industriali internazionali alle potenzialità economiche rappresentate dall’industria turistica in espansione. Le sue conseguenze a lunga scadenza, come la creazione per le classi medie di un’alternativa residenziale all’isolamento veneziano, risultarono evidenti solo nel corso del Novecento.
Lo sviluppo industriale di Venezia coinvolse la laguna in molti modi. Maurizio Reberschak ha descritto i lavori di scavo dei canali di accesso al bacino di S. Marco dalle bocche di Malamocco e del Lido, che furono ripetutamente intrapresi nel corso dell’Ottocento e in seguito. Provvedimenti tradizionali e indispensabili dell’ingegneria veneziana — in cui eccelleva Pietro Paleocapa — di fronte al continuo processo di insabbiamento della laguna, gli scavi furono fondamentali per la sopravvivenza di Venezia come porto in un’epoca di trasformazione dei commerci marittimi(65). A parte Murano, il cui territorio venne edificato con l’affermazione dell’industria del vetro, come avvenne alla Giudecca e a S. Marta con la concentrazione di nuove fabbriche che accompagnarono la nascita della Stazione marittima, poche furono le isole interessate direttamente dallo sviluppo industriale di fine Ottocento. Ma il processo stesso di industrializzazione, e soprattutto l’imponente impresa dei Bottenighi e di Marghera, alterarono il rapporto tra la città e la laguna. «Dovunque è laguna, ivi è Venezia», proclamava Piero Foscari(66). A livello amministrativo, l’accorpamento al Comune di Venezia dei Comuni della laguna precedentemente autonomi (Malamocco nel 1883, Pellestrina e Murano nel 1923-1924, Mestre nel 1926) rappresentò il definitivo abbandono della tradizionale politica di isolamento della città. Venezia ritrovò la sua vecchia anima di «dominante» nel modo di trattare questi centri come mere frazioni, ponendo le premesse di tensioni future, che sarebbero sfociate alla fine del Novecento nella richiesta di autonomia da parte di Mestre e di Cavallino(67). Più profonde e strutturali conseguenze vennero dall’indifferenza verso l’ambiente lagunare che caratterizzò gli anni dell’amministrazione Grimani: l’imbonimento di vaste aree di barene per la creazione di un nuovo territorio utilizzabile — «territorio da interrare o attraversare (con enormi ponti e profondi canali) più che da vivere» — avrebbe definitivamente sconvolto gli equilibri ecologici della laguna(68).
Costanti negli interventi radicali sulla configurazione urbana di Venezia rimasero due fondamentali convinzioni: primo, che la modernizzazione della città era una condizione necessaria per la sua ripresa economica; secondo, che Venezia, in quanto capitale (simbolicamente, anche se politicamente non lo era più), doveva riprodurre le caratteristiche modernizzatrici delle principali capitali europee, in particolare Parigi e Londra. In termini urbanistici, i profitti capitalistici che risultarono dal nuovo sviluppo urbano, della città e poi, con la creazione del turismo, del Lido, costituivano una forza motrice tutt’altro che trascurabile.
Nessun sito urbano poteva essere più lontano dalle norme della città ideale dell’immaginario illuministico di Venezia, con le sue vie d’acqua e le sue calli strette e tortuose. A Venezia non esistevano prospettive urbane geometriche, mancava del tutto un singolo centro come punto focale(69). Nel suo contributo, Giandomenico Romanelli illustra il processo di trasformazione del tessuto urbano(70). La commissione all’ornato di istituzione napoleonica, sotto la guida di Antonio Diedo e Giannantonio Selva, intese imporre a Venezia un’impronta di modernità estetica e funzionale. I decisivi interventi della commissione indicarono molte delle direttive di sviluppo della nuova forma della città che sarebbero state perseguite per il resto del secolo. Nel disprezzo del passato architettonico e nel nome di una modernità neoclassica la commissione creò un precedente: decise la distruzione di una parte delle Procuratie Vecchie per costruire l’Ala Napoleonica come completamento di piazza S. Marco (il primo di venti simili ‘aggiustamenti’ della Piazza prima del 1866), e la demolizione di oltre cinquanta palazzi, quattrocento case «fabricate ed ornate di marmi», e di numerose chiese e conventi(71). Mentre in precedenza attività e abitazioni erano diffuse su tutta l’area urbana (S. Marco come porto e come governo, con le relative funzioni amministrative e cerimoniali; Rialto per le attività commerciali e finanziarie; Castello con l’Arsenale come cantiere navale), nell’Ottocento l’embrione della trasformazione di Venezia in una città con un centro costantemente aperto ai ‘miglioramenti’ e periferie sempre più degradate, può essere identificato nell’ampia e rettilinea via Eugenia (oggi via Garibaldi), progettata come continuazione della riva degli Schiavoni verso i giardini di Castello, la cui costruzione sul rio di S. Anna isolò di fatto il triangolo sud;orientale della città. Assunsero un nuovo ruolo in rapporto con la città la Giudecca, con i progetti di una piazza d’armi di dimensioni doppie rispetto a S. Marco, e l’isola di S. Giorgio Maggiore, con la creazione di un portofranco, punto d’ingresso per un emporio commerciale.
Con il ritorno dell’Austria e l’abbandono di ogni ruolo imprenditoriale urbano dello Stato, l’intervento sul tessuto urbanistico della città offriva agli imprenditori privati nuove prospettive e condusse a cambiamenti enormi nella sua fisionomia, giustificati in nome del profitto e del progresso, secondo i modelli osservati in altre capitali europee. Si verificò un allontanamento strutturale dall’uso millenario delle vie d’acqua come mezzo di comunicazione primario, con un intenso e caotico sviluppo di passaggi pedonali e ponti. Antiche fabbriche e vecchie case vennero demolite, furono costruiti nuovi ponti, per ampliare e ‘raddrizzare’ le vie di comunicazione di un centro in espansione: nel 1889, 40.000 mq di canali erano ormai stati interrati. Il tradizionale orientamento della città, che gravitava attorno a S. Marco e Rialto, venne progressivamente cambiato, dagli anni 1830 in avanti, con la rapida crescita del centro amministrativo, residenziale, commerciale e cerimoniale/turistico. Con la costruzione della ferrovia attraverso la laguna (1841-1846), del ponte dell’Accademia (1854), e, dopo l’unificazione, del bacino Orseolo (1868- 1869) e di via Vittorio Emanuele II, subito ribattezzata Strada Nova (1871), il centro urbano si espanse. L’idea di un sistema uniforme di comunicazioni per la città emerse lentamente con la costruzione di ponti e la rettificazione di calli. Gli assi della città furono riorientati: uno da S. Marco alla stazione ferroviaria (S. Marco - bacino Orseolo - S. Luca - S. Bartolomeo - Rialto/Rialto - SS. Apostoli - Strada Nova - S. Lucia), l’altro da Rialto a S. Marco, via Accademia (Rialto - S. Luca - S. Angelo - S. Stefano - S. Vidal - ponte dell’Accademia/S. Maria del Giglio - via XXII Marzo - S. Marco). Negli ultimi due decenni del secolo la trasformazione di Venezia in una città ‘moderna’ fu completata, con la creazione del nuovo porto e della zona industriale della Giudecca. La Stazione marittima di Pietro Paleocapa, all’ingresso occidentale del canale della Giudecca (1880), con i Magazzini generali a S. Basilio (1891-1896), collegati a S. Lucia con binari di raccordo, sul modello delle banchine dei grandi porti europei, segnarono uno spostamento dell’asse non solo economico ma sociale della città, in quanto una parte della densa popolazione operaia si spostò dai sestieri di Castello e Cannaregio a quelli di Dorsoduro e S. Croce(72).
Un pugno di disinvolti imprenditori edili (Busetto Fisola, Busetto Petich, Vianello Chiodo, Cadel, Dal Turco), ingegneri-architetti (Giuseppe Jappelli), industriali tecnologicamente moderni (ditte Collalto, Neville) e finanziatori privati costituì un forte gruppo di pressione, con l’incoraggiamento di un sostanzioso gruppo di proprietari che speculavano sul plusvalore delle proprietà, come pure di vari operatori turistici. Agostino Sagredo, scrivendo nei primi anni Quaranta dell’Ottocento, osservava con acutezza i meccanismi di questa trasformazione della sua città:
L’opinione pubblica fondata sopra inveterate abituatezze dei cittadini, sopra il comodo loro, sulla cospicuità degli edifizi pubblici, designa una parte della città come centro principale della città stessa, e gli edifizi privati che si trovano o nel centro, o d’accosto al centro, acquistano un valore arbitrario che (sebbene accessorio) spesso è maggiore del valore intrinseco, e nelle transazioni commerciali accresce il capitale in ragione del reddito del valore arbitrario e accresce per conseguenza il prodotto del capitale stesso. Se la città è vasta, se per cause speciali oltre al centro principale vi sieno altri centri secondari, come il seggio di alcune magistrature, di mercati, di industrie, gli edifizi prossimi a questi centri sentono il benefico influsso del valore arbitrario(73).
Il valore speculativo della riconversione di aree degradate in aree residenziali incoraggiò interventi massicci. Il Ghetto, per esempio, in uno stato di degrado sempre maggiore fin dai tempi dell’emancipazione civile degli ebrei, sembrava offrire potenzialità che attrassero notevoli investimenti privati, favoriti anche dalla costruzione da parte del Municipio del ponte di ferro del Ghetto Nuovo di Neville (1865)(74). Non tutte le zone erano incluse: Castello con le sue dense abitazioni popolari e l’Arsenale militare, o la Giudecca, destinata sempre più allo sviluppo industriale, furono esclusi; solo quelle parti di Cannaregio rese accessibili dalle nuove strade attraevano capitale per la riconversione. Non sembrava esservi alcun limite alla corsa alla ricostruzione del ‘centro’, che permetteva alti profitti. Vi erano progetti grandiosi che dimostravano una disinvolta indifferenza per l’impatto sull’ambiente urbano, nel nome dello stare al passo con la modernità europea. Vi è una continuità ideale, sotto questo profilo, tra il progetto napoleonico di Selva per le passeggiate pubbliche lungo il bacino di S. Marco e la Giudecca, e quello dell’imprenditore Fisola per un immenso complesso alberghiero e balneare sulla riva degli Schiavoni (1852-1854); o tra il vasto mercato centrale di Federico Berchet, sul modello delle Halles di Parigi e del Crystal Palace di Londra, che avrebbe aperto una nuova arteria verso la stazione, e la proposta del prefetto Torelli di un passaggio pedonale sopraelevato da S. Marco ai giardini di Castello (1871)(75). Anche lasciando da parte questi estremi, il turismo richiedeva un ‘decoro’ di livello europeo che legittimava per i palazzi sul Canal Grande il restauro ‘storico’ (o l’invenzione) delle facciate e la ricostruzione del campanile di S. Marco «dov’era e com’era», accanto a lavori pubblici «di corredo e di ornamento», come la loggia del mercato del pesce o il macello in stile neoclassico a S. Giobbe(76). Ma altrettanto importante era la convinzione generalizzata, presso quei cittadini che potevano far sentire la loro voce, che gli standards borghesi giustificassero la demolizione delle case per avere strade più ampie e più dirette e il rifacimento degli edifici secondo i gusti (neoclassici, neorinascimentali, neogotici) dei proprietari e dell’architetto. Le ragioni dell’estetica e dell’igiene coincidevano: rettilineo era ‘bello’, le umide e buie abitazioni popolari erano malsane: a sostegno venivano citati gli esempi di Georges Haussmann e Edwin Chadwick. Vi era, secondo le parole dei tredici cittadini che inviarono una lettera aperta al sindaco nel 1866, un legame intrinseco tra economia e urbanizzazione: data la disponibilità di capitale e tecnologie, era tempo «di ridurre gli antichi caseggiati a comode e salubri abitazioni del ceto medio, che prevale nell’attuale stadio di civiltà»(77).
Le autorità municipali, dal principio e ancora alla fine del secolo, svolsero un ruolo molto subordinato in questo processo, in parte per ragioni di indebitamento pubblico e carenza di controlli burocratici, in parte per l’identità di vedute con la classe imprenditoriale. Nel 1807, la commissione all’ornato guidata da Selva aveva criticato fortemente l’assenza di controlli e la demolizione indiscriminata di edifici; ma solo negli anni Quaranta vennero create delle commissioni per esercitare qualche controllo sui progetti di costruzione più radicali, e per regolare l’interramento di canali al fine di assicurarne la compatibilità con i flussi d’acqua delle maree, da cui dipendeva la salute della città. Ci vollero le forti proteste della commissione all’ornato e dell’Accademia di Belle Arti, nonché il veto del delegato provinciale, perché venisse respinto il progetto di Fisola di trasformare la riva degli Schiavoni in una stazione balneare. I consiglieri comunali ritenevano fosse loro compito il sostegno attivo allo sviluppo privato, non solo fornendo infrastrutture ma vendendo ai cittadini alcuni spazi pubblici — calli, corti, campielli, fondamenta e rive — considerati di scarsa importanza. Tra gli anni Venti e gli anni Quaranta oltre l’11% del bilancio comunale fu speso per calli, ponti e canali, e un ulteriore 11% per l’illuminazione pubblica. L’iniziativa privata (soprattutto straniera) fu incoraggiata per consentire l’introduzione della luce a gas e, più tardi nel secolo, dell’elettricità. Ma un acquedotto che portasse dalla terraferma l’acqua potabile nelle case — un’assoluta priorità per la popolazione — raggiunse Venezia solo nel 1884. Soltanto nel 1891 fu approvato un piano regolatore — che del resto non fu mai messo in pratica — che riconosceva l’originalità della forma urbana di Venezia nella sua totalità come il principio fondamentale per gli interventi futuri(78).
L’unificazione all’Italia obbligò gradualmente le autorità comunali ad assumere un ruolo più incisivo. I continui interventi sulle strutture urbane resero senza dubbio le condizioni di vita a Venezia più vicine a quelle delle moderne città europee, almeno rispetto all’accentuata divisione tra le zone residenziali delle classi medie e i quartieri poveri. La classificazione del Canal Grande come «strada nazionale di 1a classe» (1881) portò simbolicamente Venezia all’altezza di altre città italiane. Ma fino alla fine del secolo, e anche allora soprattutto per adeguarsi all’esempio degli standards europei di igiene pubblica e abitabilità e dopo episodi di epidemie, non si riconobbe esplicitamente il fatto che Venezia, a differenza di tutte le altri capitali o città industriali, non poteva espandersi territorialmente, cosicché un’aumentata pressione sullo spazio esistente peggiorava seriamente le condizioni di vita della maggior parte della popolazione e rischiava di sconvolgere l’equilibrio ecologico dell’ambiente lagunare(79). Per il Comune l’incoraggiamento e il sostegno del mercato della proprietà privata restava un’alta priorità: Grimani decretò una deduzione delle imposte del 12% dei costi di costruzione, ma, invece di sfruttare la possibilità legale di espropri per abitazioni popolari consentita dalla legge del 1903, permise l’edificabilità di aree ancora vuote nei sestieri poveri (Castello, Cannaregio, S. Polo)(80). Una conseguenza della politica di riconversione residenziale delle zone del centro in espansione fu l’espulsione degli inquilini in affitto verso le periferie povere. La crescita industriale e lo sviluppo dell’industria turistica furono accompagnati da un incremento di 17.000 unità della popolazione cittadina tra il 1881 e il 1900(81). Epidemie di colera nel 1873, 1886 e 1911, e di vaiolo nel 1882 e 1889-1890 peggiorarono i tassi di mortalità veneziani e condussero a ispezioni municipali e mediche (almeno quattro tra il 1874 e il 1906(82)) che rivelarono le spaventose condizioni di vita delle classi lavoratrici povere di Venezia, che erano ridotte a vivere in quartieri già abbandonati o usati come depositi perché non più abitabili: al volgere del secolo 12.000 persone vivevano in stanze al piano terra, notoriamente umide, maleodoranti e buie.
La politica di «risanamento» del sindaco Filippo Grimani(83) fu complementare al suo sostegno alla ricostruzione speculativa del tessuto urbano della città e al suo sviluppo industriale. Entrambe le cose dipendevano strettamente dall’abilità di Grimani di ottenere a Roma un atteggiamento favorevole verso i bisogni di Venezia, particolarmente attraverso i servigi di Luigi Luzzatti. La stabilità dell’amministrazione moderata di Grimani garantì le condizioni necessarie al finanziamento iniziale della Cassa di Risparmio per l’edilizia popolare, ma il progetto era ispirato dall’ideologia sociale di Luzzatti e dal suo impegno politico affinché Venezia partecipasse a ciò che era divenuto un tratto caratteristico della modernità urbana in Europa: la legge Luzzatti che finanziava l’edilizia popolare (1903) sostenne così la politica d’intervento sociale di Grimani(84). I finanziamenti statali per la ricostruzione del campanile di S. Marco furono ottenuti facilmente. Il «sindaco d’oro», con le sue conoscenze romane, apparve come il mediatore indispensabile per le risorse rese disponibili dall’estensione a Venezia nel 1895 della legge speciale per Napoli del 1885, come pure dalla legge del 1904 sulle nuove opere marittime (al tempo del Ministero del Tesoro e delle Finanze Luzzatti) che finanziò lo scavo del canale di collegamento tra i Bottenighi e la Stazione marittima; e dalla legge del 1917 che procurò i generosi sussidi governativi che permisero la creazione del complesso industriale di Porto Marghera.
Gli interventi di Grimani a favore del tessuto sociale e del miglioramento delle condizioni di vita di Venezia erano complementari ma anche subordinati a quelli per lo sviluppo industriale e turistico della città. Grimani rifiutò di obbligare i proprietari della fabbrica di fiammiferi ex Baschiera a rispettare gli standards minimi di sicurezza per i suoi 500 operai(85). Per incoraggiare il turismo, fin dagli anni Sessanta erano state introdotte le licenze comunali e il regolamento delle tariffe dei trasporti e dei gondolieri. Un servizio di vaporetti sul Canal Grande, di proprietà privata, era stato imposto nel 1881, a dispetto della rumorosa opposizione della corporazione dei gondolieri. Quando venne approvata (1903) la legge sulla municipalizzazione dei servizi pubblici, ampiamente utilizzata dalle amministrazioni cittadine nel nord e centro Italia, Grimani ne limitò l’applicazione al servizio di vaporetti all’interno della laguna e quindi al Lido, estendendolo a tutta la città solo dietro pressione dell’opinione pubblica. Le forniture di energia elettrica, gas e acqua rimasero in mani private, a condizioni molto favorevoli(86). Le «case sane, economiche e popolari», che furono costruite tra il 1905 e il 1912 e di cui si gloriava Grimani, alla fine ammontavano a solo 8 caseggiati con 621 appartamenti; e le condizioni per l’assegnazione escludevano i lavoratori occasionali, che costituivano la grande maggioranza della forza lavoro veneziana. Nel 1911 la richiesta di proroga della legge speciale non fu accolta a Roma, perché fino a quel momento i fondi erano stati utilizzati più per migliorare la viabilità della città che per il suo risanamento; né questo deve sorprendere, dato che lo «sventramento» che Grimani considerava necessario per l’immagine di Venezia come attrazione turistica, costituiva, secondo le parole del giornale socialista «Il Secolo Nuovo», «una manna per gli speculatori»(87).
Sotto la Serenissima, l’ordine sociale della città funzionava — e, rispetto ad altre città europee, funzionava bene —, disciplinato dalla sorveglianza politico-amministrativa (la «leggenda nera» di Daru) ma interiorizzato in convenzioni tacite, che si basavano su un’accettazione generalizzata del sistema dei «ceti» in cambio di vantaggi tangibili. Lo scontento certamente esisteva, sia a livello personale che fra i barnaboti come gruppo sociale. La trasgressione veniva repressa, talora con punizioni esemplari(88). I benefici materiali dovuti ai privilegi di cui godevano i residenti della capitale, a differenza dei sudditi della Serenissima in terraferma o nei territori dell’Adriatico, generavano un senso collettivo di protezione, probabilmente inconsapevole fino al momento in cui venne meno. Soprattutto, funzionava un ben oliato sistema di compensi — sinecure per patrizi poveri, cariche di segreteria per «cittadini», carità per le fraterne dei poveri o degli ammalati, il Carnevale come culmine di un calendario di feste — che dava sostanza materiale e simbolica alla rappresentazione di una società stabile.
I disastri che seguirono al crollo della Repubblica rimossero le premesse su cui aveva funzionato l’ordine sociale: il patriziato si rivelò privo di abiti politici e, per la maggior parte, senza risorse economiche private; le cariche di governo e amministrative svanirono, le corporazioni artigiane vennero abolite, i fondi delle fraterne di carità furono confiscati, l’impatto negativo della guerra e del blocco falcidiò l’occupazione degli operai del porto e dell’Arsenale, di artigiani, gondolieri, bottegai, servitori, dell’infinità di dipendenti, fornitori e intermediari delle necessità e dei piaceri della passata élite di governo e dei «forestieri» in visita. La fuga dalla città di un terzo della popolazione, come conseguenza di questa prolungata crisi economica, fece a sua volta precipitare il mercato immobiliare. Crollarono gli affitti, palazzi e case deperirono rapidamente o vennero demoliti per recuperare almeno il prezzo del marmo e dei materiali da costruzione. In una città conosciuta per la sua intensa vita sociale, i teatri erano ridotti di numero e qualità, la piazza e gli abituali luoghi di incontro — i «casini» e i salotti, i caffè, le osterie e le «malvasie» — chiusi o vuoti, come notavano visitatori sconsolati (e solitari), tra cui Lorenzo Da Ponte.
Dagli anni Trenta, con la ripresa dell’economia, la nuova fisionomia sociale della città iniziò a emergere, ma i suoi contorni restarono indistinti e sfocati fino a metà degli anni Quaranta, rispetto non solo a Inghilterra e Francia, ma anche a una città politicamente più liberale come Firenze o più dinamica da un punto di vista economico come Milano. Il controllo diffidente esercitato dal governo austriaco, ossessionato dal fantasma della Serenissima, ebbe senza dubbio un effetto di smorzamento sul processo di trasformazione. La pesante censura aveva definitivamente sepolto la fama di Venezia come centro editoriale, a favore di Milano, mentre la sorveglianza della polizia rafforzò i controlli di origine napoleonica sull’intrattenimento teatrale, già ridimensionato sotto il dominio francese(89). Le autorità respingevano le proposte per la creazione di nuove forme di associazione, fossero esse professionali, ricreative, filantropiche o culturali. Sintomatico delle difficoltà della transizione dal governo francese a quello austriaco fu il clima pesantemente conformista prevalente nelle istituzioni culturali negli anni Venti che frustrò le iniziative di Paolo Zannini, segretario dell’Ateneo Veneto, tra cui la fondazione di un Gabinetto di lettura che infatti ebbe vita breve(90). Ma la società veneziana era anche molto più debole di quella milanese o lombarda, perché le mancava l’elasticità di una potente oligarchia autoctona.
Solo le associazioni di carità ricevevano la benedizione ufficiale del patriarca e del governo: esse utilizzavano la vecchia struttura delle fraterne di parrocchia e di sestiere per il soccorso a domicilio, pur dipendendo ora da sottoscrizioni annuali di filantropi. Impegno e coinvolgimento nella carità, tradizionalmente terreno privilegiato del paternalismo oligarchico, segnavano una continuità tra la Repubblica Serenissima e il Regno lombardo-veneto, ad esempio nell’eredità molto consistente lasciata dall’ultimo doge, Ludovico Manin, per l’educazione dei bambini abbandonati. Ma mentre le fraterne, di origine religiosa e corporativa, erano state una componente essenziale e onnipresente della politica sociale della Repubblica per la distribuzione dei sussidi, la carità nella Venezia dell’Ottocento era imbevuta dello spirito del capitalismo, che si esprimeva nella forma cattolica della beneficenza: ad esempio istituzioni chiuse finanziate dalla filantropia, in cui veniva offerta un’istruzione e una formazione pratica e venivano instillate la disciplina e un’etica del lavoro. Alla fine del secolo era ormai stato creato uno stretto legame tra istituzioni caritatevoli e iniziative imprenditoriali nella città e in laguna, dagli asili per i figli delle madri operaie che lavoravano nelle fabbriche della Giudecca, all’impiego di bambini trovati a mendicare nella produzione di confezioni per profumi (cartonaggio), alla rinascita della perduta industria del merletto a Burano e a Pellestrina, su iniziativa di una nobildonna (Andriana Marcello) e di un industriale ebreo (Michelangelo Jesurum)(91).
Le forme di sociabilità caratteristiche di Venezia, come spiega Marco Fincardi, erano ingannevoli, perché mascheravano la persistente separazione dei gruppi sociali(92). La topografia e le tradizioni festive di Venezia nei tempi della Repubblica avevano consentito il momentaneo superamento delle barriere sociali, con l’aiuto dell’uso delle maschere. Nella Venezia austriaca, i caffè di piazza S. Marco e dintorni, frequentati da veneziani e stranieri di differenti classi sociali, davano l’illusione di luoghi di incontro ideali, senza distinzione di rango; ma attraverso la scelta della compagnia e dei luoghi preferiti nei diversi momenti del giorno (o della notte) i loro habitués mantenevano una distinta separazione sociale. Gli itinerari sociali dei veneziani rimanevano separati: gli operai continuavano a bere nelle osterie, mentre le donne del popolo si riunivano in corti e calli, infilando perline; le classi popolari frequentavano il Teatro Malibran, piuttosto malfamato nel tardo Ottocento, le élites ricche la Fenice, i cui soci aristocratici rifiutarono fino al 1878 di trasformare il quarto ordine di palchi in loggione; gli intellettuali si riunivano in certi specifici caffè — da Quadri andavano gli austriacanti, da Florian i progressisti (durante l’amministrazione Selvatico degli anni Novanta), da Codroma i nazionalisti di destra negli anni prima della guerra mondiale(93).
Questa separazione era particolarmente evidente tra le famiglie patrizie. Durante la Repubblica i palazzi e le residenze di campagna dell’aristocrazia avevano sostituito, frammentandola, la funzione cerimoniale di una corte reale come centro della fedeltà. Sotto l’Austria, la presenza di un regio governatore, e persino del viceré, non fu sufficiente per introdurre un cambiamento di stile, in parte per scarsezza di risorse in parte per una sobrietà personale che non si addiceva a «un Prince qui représente un des plus grands Souverains de l’Europe»(94). Solo in occasione di visite imperiali vi era abbondanza sontuosa di pompa e cerimonie — ma la rigidità del protocollo asburgico ne escludeva molti patrizi. Nel 1817 la spesa annuale del più ricco nobile veneziano, Niccolò Andrea Erizzo, corrispondeva a più del quintuplo dello stipendio e del «trattamento di tavola» del governatore di Venezia, Peter von Goess(95). Ricchi nobiluomini continuavano a incontrarsi nei loro «casini» privati o in ville di campagna; il Teatro la Fenice apparteneva a un gruppo di patrizi che ne controllavano la gestione; i famosi salotti delle loro mogli intellettuali erano aperti più ai forestieri che ai veneziani non nobili. Nelle istituzioni culturali si incontrava una minoranza di singoli nobili, così come nelle iniziative finanziarie e industriali della borghesia veneziana. La carità era il solo ambito dell’associazionismo volontario a cui i patrizi (di entrambi i sessi) partecipavano in largo numero prima dell’ingresso in Italia. Fu solo più tardi nel secolo che la moda inglese del «thé alle cinque» entrò nei salotti e nei giardini patrizi come occasione sociale di carità, istruzione e altre buone cause, e noti stranieri in visita al Lido o alla Biennale vi erano i benvenuti. Ma a quel punto la ricchezza aveva ormai sostituito il titolo come biglietto d’ingresso in società.
Fino alla rivoluzione di Manin, i nuovi notabili della classe media, i negozianti, gli industriali, i finanzieri, i ricchi ebrei, organizzavano i loro circoli in modo separato e discreto, per gli affari e per il divertimento (in cui primeggiavano i giochi di carte). La Camera di commercio (fondata nel 1806) fu e rimase l’organizzazione centrale della borghesia abbiente, la voce ufficiale degli interessi economici della città, il luogo di incontro informale per il negozio degli affari. Ma era nelle istituzioni culturali fondate dopo la Serenissima — l’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti (1838) e ancor più l’Ateneo Veneto (1810)— che i notabili della nuova classe erano più in evidenza(96). Era qui che essi conciliavano il loro culto del passato veneziano con le aspirazioni a partecipare ai dibattiti culturali e scientifici del XIX secolo. All’unisono con le convinzioni liberali moderate di nobili, avvocati, medici, scienziati, uomini d’affari e scrittori che si incontravano nei Gabinetti di lettura, nelle istituzioni culturali, nei salotti e nei caffè di altre città italiane, le élites intellettuali e sociali di Venezia identificavano il progresso con le scienze «utili», l’istruzione e la filantropia. Come illustra Gilberto Pizzamiglio, non c’era contraddizione, a Venezia, tra il culto della modernità e l’egemonia del classicismo nelle arti e lettere(97).
Rispetto ad altre città italiane, l’elemento anomalo nella composizione sociale dei notabili di Venezia nell’Ottocento era la forte presenza ebraica. Storicamente, la comunità ebraica aveva svolto un ruolo importante nella vita economica della Repubblica. L’emancipazione sotto il governo francese consentì alle famiglie ebraiche più importanti di dispiegare la loro solidità finanziaria sia nell’acquisto di proprietà terriere in terraferma sia nel commercio internazionale in cui potevano contare sulla loro rete di relazioni. Nella Venezia della Restaurazione, l’integrazione di queste famiglie ebraiche nelle attività e nelle istituzioni culturali ed economiche della città avvenne rapidamente, e spiega quindi il ruolo politico preminente nel 1848 di singoli ebrei, come Jacopo Treves, Leone Pincherle o Isacco Pesaro Maurogonato. Da un punto di vista sociale, essi erano tanto distanti dagli ebrei miserabili che vivevano nello squallore del Ghetto quanto lo erano i loro pari cristiani dai poveri di Castello o dell’Angelo Raffaele. Essi si identificavano con lo stile di vita e con la ottimistica fede nel progresso, nella modernità, nell’istruzione e nella beneficenza dei notabili veneziani. I palazzi nobiliari acquistati e restaurati dagli Errera, dai Treves, dai Sullam, dai Levi e da altri finanzieri e capitalisti ebrei confermavano il grado di accettazione della loro presenza (sebbene si possa notare che per la maggior parte si trovavano ancora relativamente vicino al Ghetto). Ma, come fanno notare Gadi Luzzatto Voghera e Claudia Salmini, vi erano dei limiti all’integrazione sociale: le autorità ecclesiastiche e locali insistevano perché i bimbi ebrei frequentassero le scuole elementari separate e agli ebrei poveri era negato l’accesso all’assistenza nelle istituzioni cittadine, tanto da obbligare le famiglie abbienti a creare una Casa d’industria ebraica separata nel Ghetto. Quando poi Venezia divenne parte dell’Italia, l’atavico antiebraismo di una Chiesa diventata apertamente ostile e intransigente venne usato per scopi politici negli attacchi del patriarca Trevisanato e nella polemica, amplificata dalla stampa locale, contro la nomina a ministro delle Finanze di Isacco Pesaro Maurogonato, patriota del 1848 e deputato al Parlamento(98).
Nel corso degli anni Quaranta i diversi elementi costitutivi di quella che era essenzialmente una nuova classe di notabili acquisirono la consapevolezza del proprio ruolo, via via che il dibattito culturale, a Venezia come altrove negli Stati italiani, assumeva connotazioni politiche che divennero sempre più esplicite dopo l’elezione di Pio IX. Alcuni soci impressero un ruolo più pubblico e impegnato all’Ateneo Veneto e all’Istituto Veneto: il primo fu utilizzato da Daniele Manin e Niccolò Tommaseo come tribuna privilegiata per rivolgersi alla popolazione veneziana; il secondo riconobbe la responsabilità che derivava dal suo status istituzionale ufficiale e dalle sue risorse organizzando il IX congresso degli scienziati italiani, tenutosi a Venezia nel settembre 1847. Secondo Manin il vuoto creato dal crollo della Repubblica era stato riempito da una distinzione delle sfere di influenza tra «gli uomini di scienza e parola» e gli «uomini d’azione», i patrizi responsabili del governo della città(99). La pubblicazione in onore del congresso dei due grandi volumi su Venezia e le sue lagune, splendidamente stampati, promossa congiuntamente dalle due istituzioni culturali e opera dell’élite intellettuale della città, fu la prova di un comune sentimento di intenti e di orgoglio civico che non faceva alcuna distinzione tra patrizi e non patrizi. Gli anni 1848-1849 consacrarono, e il 1866 confermò da un punto di vista politico, la presenza di una moderna classe dirigente, legittimata da ricchezza, potere e influenza, che comprendeva ora sia i notabili che i patrizi.
La distanza sociale tra questa élite e le classi lavoratrici di Venezia era quasi certamente maggiore che sotto la Serenissima e si accentuò per tutto il XIX secolo. Né le cose potevano andare diversamente, data la natura precaria dell’occupazione in un’economia che, fino agli ultimi decenni del secolo, riuscì con difficoltà a riacquistare autonomia e vitalità, visti il livello ridotto della carità (rispetto alla fitta rete parrocchiale delle fraterne della Repubblica), l’aumento degli affitti e l’espulsione degli operai verso le parrocchie periferiche della città in conseguenza dell’espansione residenziale del centro storico. A Venezia, come in tutte le città moderne del tempo, la distanza tra ricchi e poveri era sempre più messa in evidenza dall’ubicazione dei loro quartieri di residenza, con la differenza che, con il crescere della popolazione a partire dalla fine del secolo, la laguna rendeva impossibile la normale espansione oltre i confini della città e accelerava il peggioramento delle condizioni igieniche delle abitazioni.
Gli spostamenti in gondola e a piedi invece che in carrozza e a cavallo e il ricco calendario di feste costituirono le precondizioni della fama di Venezia nel Settecento, caratterizzata dalla vicinanza fisica nei contatti e nelle relazioni sociali e celebrata nelle sue rappresentazioni letterarie e artistiche. Gli stereotipi letterari, da Carlo Goldoni a Giacinto Gallina, con le loro insinuazioni di deferente collusione — da parte del gondolier de casada, o dei domestici o negli incontri mascherati — ribadivano il cliché di un popolo pigro ma buono, amante dei piaceri, abituato dai suoi superiori a gesti permissivi di inversione simbolica e a brevi momenti di contiguità sociale trasgressiva in occasioni rituali, come il Carnevale o la festa del Redentore. Intorno agli anni Quaranta furono raccolte, trascritte e pubblicate le canzoni dei gondolieri e di altri popolani ‘tipici’(100). George Sand commentava con ammirazione nel 1837: «Nulle part peut-être il y a des distinctions aussi marquées entre les classes de la société, et nulle part elles s’effacent de meilleure foi»(101). Il teatro della Venezia dell’Ottocento si adattò ai mutamenti nel gusto imposti da una più ampia partecipazione sociale, con il melodramma accanto all’opera lirica, grande passione nazionale. Tutte le occasioni di festa, religiosa o civile, annuale o eccezionale, erano buone per i veneziani, indipendentemente dalla posizione sociale.
Le autorità, certe della partecipazione pubblica, sfruttavano le possibilità offerte dalla scena spettacolare del Canal Grande per elaborate, teatrali cerimonie, una volta per segnare il ritorno dei cavalli di S. Marco (1813), altre per l’ingresso nella città di nuovi sovrani (Napoleone nel 1807, i vari imperatori d’Austria nel 1815, 1838, 1854, Vittorio Emanuele II nel 1866). «Prima del sovrano arrivo», ordinavano le istruzioni a stampa austriache, «la Municipalità mediante avviso renderà noto agli abitanti di Venezia il momento in cui giungeranno le LL.MM. affinché dessi possano prender parte a questo fausto avvenimento ed assistere al solenne ricevimento»(102). Ma anche nelle circostanze del tutto eccezionali della rivoluzione del 1848, quando i veneziani affollarono piazza S. Marco «senza distinzione di ceto» per sostenere la comune causa patriottica «signore e signori» applaudirono, assieme a «il sottoposto popolo», pur tenendosi separati, il tricolore esposto al balcone del Casino de’ negozianti. Francesco Dall’Ongaro, un democratico, osservava con piacevole sorpresa che «ogni sera i poveri abitanti de’ più remoti sestieri, che per lo passato non si recavano in piazza [S. Marco] se non nelle primarie solennità, rubavano un’ora a’ consueti lavori per visitare il loro nuovo dominio ed ammirare il leone risorto sugli stendardi»(103).
Nella Venezia italiana gli egemonici valori borghesi del lavoro, dell’istruzione e del risparmio scoraggiavano la prossimità fisica nelle occasioni di festa — il che del resto era rafforzato dalle campagne patriarcali per evitare la profanazione delle feste religiose con linguaggio e comportamenti volgari. Il Carnevale e le altre festività ottenevano per la loro coreografia, come i ponti in legno provvisori per le offerte votive alla Madonna della Salute o in occasione del Redentore, il sostegno finanziario da parte del consiglio comunale e di aristocratici e notabili, ma la loro presenza fisica era discretamente defilata(104). La rinascita della tradizione delle feste veneziane si trasformò in attrazione turistica e in pretesto per la «baldoria» popolare. I filantropi e industriali nobili e borghesi che crearono scuole e laboratori per bambini e donne poveri, erano convinti del buon carattere del «basso popolo», se solo poteva essere istruito e formato. Si lamentavano delle continue interruzioni dei ritmi di lavoro per le feste dei patroni o della città(105). Ma non sapevano nulla della vita quotidiana, delle relazioni sociali e dei valori culturali del popolo veneziano.
La ricostruzione di Renzo Derosas delle condizioni di vita del popolo veneziano alla metà del XIX secolo rivela con quale frequenza i poveri cambiavano alloggio, ma anche quanto raramente si trasferivano al di fuori della loro parrocchia(106). La classe operaia veneziana era frammentata in una molteplicità di microcomunità socialmente isolate, che affondavano le loro radici in forti legami di famiglia, parrocchia, calle o isola. Ciò che era caratteristico di Venezia era la proporzione relativamente piccola di immigranti che restavano isolati come i domestici o le balie nelle ricche famiglie, o separati da un punto di vista linguistico e sociale, come i friulani che lavoravano a Venezia. In ogni caso la loro presenza toccava appena la vita sociale del popolo veneziano, unito nel disprezzo per questi immigrati contadini della terraferma e dal senso di superiorità verso i «primitivi» isolani che quasi ogni giorno con le loro barche portavano il pesce e le verdure fresche ai mercati di Venezia. Le classi popolari veneziane esprimevano le loro radici e tradizioni locali, nonostante e in contrasto con la disapprovazione dei loro datori di lavoro laici e dei loro confessori religiosi, impegnandosi a organizzare, in tutti i giorni di festa comandata, garanghelli — cioè occasioni conviviali per mangiare e bere — finanziati collettivamente da sottoscrizioni preventive alle casse peote, informali organismi di credito(107).
I bassi salari e la vulnerabilità della classe lavoratrice erano comuni a tutte le principali città italiane alla fine dell’Ottocento: a Venezia nei primi anni del Novecento un terzo della popolazione (48.000 persone) riceveva assistenza dalla congregazione di carità. Come spiegano Luca Pes e Maria Teresa Sega, la crescita industriale della città sfruttò il lavoro occasionale e il numero eccezionalmente elevato di lavoratrici donne, assunte sia come lavoranti a domicilio, come le impiraresse, sia nella Manifattura Tabacchi, nel Cotonificio Veneziano e in molte altre nuove industrie. La struttura economica particolare della città facilitò il mantenimento di pratiche corporative, in particolare nei settori turistico e dell’alimentazione, nei quali battellieri, gondolieri, mediatori e operatori, macellai, fornai e commercianti dei mercati sfruttavano la manodopera e i piccoli produttori e negozianti; attorno alla svolta del secolo, il socialista «Secolo Nuovo» denunciava di frequente l’esistenza di una vera e propria «camorra». Ma la sopravvivenza di quelli che la Camera del lavoro e i sindacalisti dell’epoca denunciavano come comportamenti e atteggiamenti «levantini» da parte dei lavoratori veneziani, deferenti nel linguaggio, pronti a ciapar le màndole (accettare mance), piuttosto che a scioperare per salari più alti, fu probabilmente incoraggiata dalla frammentazione sociale e residenziale di una forza lavoro essenzialmente autoctona. Le relazioni di dipendenza sono sempre strutturate attorno alla personalizzazione dei contatti: per i veneziani, radicati così localmente nel loro quartiere, nella loro famiglia e nel loro commercio, parenti e vicini rappresentavano intermediari validi, e spesso essenziali, di impiego occasionale come nel caso di impiraresse o di facchini(108). Anche sulla base di queste caratteristiche si possono forse spiegare le difficoltà incontrate dalla Camera del lavoro nella costruzione di un moderno concetto di solidarietà di classe e nella organizzazione di scioperi in difesa del livello dei salari e delle condizioni di lavoro. Al di fuori del sestiere di Castello, tradizionalmente quello degli operai dell’Arsenale e del porto, gli scioperi furono accettati solo lentamente e presero anche forme di spontanea irregolarità, da parte della generazione più recente di giovani donne operaie nelle fabbriche — strettamente legate alle proprie reti di relazioni —, che mettevano in grave imbarazzo l’organizzazione sindacale(109).
Dopo il crollo della Serenissima, l’elemento che più caratterizzò la reazione dei veneziani al rapido succedersi dei cambiamenti politici fu il risentimento nei confronti degli amministratori stranieri. Un pur minimo riconoscimento del loro diritto storico a ricevere un trattamento diverso da quello dei loro ex sudditi si ebbe al ritorno degli austriaci nel 1814: nel frattempo non solo Venezia aveva perduto la sua indipendenza politica, ma la città era ridotta al livello di un mero capoluogo di provincia. L’Austria, durante il suo primo periodo di governo (1798-1805), era troppo preoccupata della nostalgia dei veneziani per il recente passato per prestare attenzione alle loro sensibilità. Napoleone fece gesti conciliatori, rivolti innanzitutto alla città come monumento architettonico e al suo potenziale navale, ma confermò l’assoluta priorità dell’uniformità amministrativa, applicata a Venezia come a Milano, Roma, Firenze o Torino. Metternich fu più cauto, utilizzando perfino gli ex capi della polizia napoleonica perché riferissero sull’opinione pubblica in Italia(110). Il doppio titolo del Regno lombardo-veneto e il regolare alternarsi della residenza del viceré tra Monza e la città lagunare segnarono il riconoscimento politico dell’ostilità dei veneziani nei confronti del dominio lombardo. Vienna dimostrò con mano pesante la sua preoccupazione per il potenziale politico della memoria della Repubblica, con una censura oppressiva, con la sorveglianza della polizia, col rifiuto di tutte le iniziative anche vagamente liberali, col suo utilizzo del patriarca e del clero per predicare la sottomissione. Ma ciò non escludeva la consapevolezza del significato degli aspetti celebrativi del passato di Venezia come possibili passi verso la riconciliazione e una futura integrazione: il ritorno dei cavalli di S. Marco (1813) fu un gesto altamente simbolico. Gli austriaci riaprirono i teatri chiusi dai francesi e, almeno all’inizio, incoraggiarono l’attiva politica culturale di Leopoldo Cicognara, segretario dell’Accademia, nella costruzione, sul modello francese, di musei pubblici a Venezia; con riluttanza e con molto ritardo autorizzarono perfino la pubblicazione dei volumi Venezia e le sue lagune, potenzialmente sospetta visto il momento (1847) e l’occasione — la riunione del Congresso degli scienziati italiani.
Fino agli anni Quaranta il risentimento dei veneziani fu diretto non tanto verso i governanti stranieri quanto piuttosto verso i loro rappresentanti amministrativi. Negli anni del Regno d’Italia, i veneziani mal sopportarono di essere subordinati a Milano e alla Lombardia. In realtà, l’implosione e il ritiro dalla vita pubblica del patriziato avevano lasciato un vuoto nel personale amministrativo locale, dato che gli ex «cittadini» erano troppo identificati per discendenza e incarichi con le tradizioni e i costumi della Serenissima. Le amministrazioni modernizzatrici imposte dai francesi e poi dagli Asburgo, richiedevano burocrati di professione: essi si formarono prima in Lombardia e solo dagli anni Trenta nel Veneto, e anche allora più spesso tra la nobiltà di terraferma che nell’antica capitale(111). I contemporanei certo non avrebbero posto il problema in questi termini, né ciò avrebbe presumibilmente diminuito la loro ostilità verso quella che era percepita come un’invasione di burocrati stranieri. Funzionari «tedeschi» (in buona parte provenienti dal Trentino) erano nominati per le loro conoscenze linguistiche e per quelle giuridiche dei codici austriaci, assieme a triestini, boemi, sloveni, e altri dalle molte regioni dell’Impero. Ma un vero e proprio dito nella piaga fu la nomina da parte di Vienna di lombardi e per di più ex ufficiali napoleonici e perfino massoni. Come scriveva a Metternich nel 1819 il capo (lombardo) della polizia Antonio Mulazzani: «Il pubblico non è felice [...] di vedere aumentato il numero dei lombardi, che giunge ormai alla metà dei membri del governo»(112). In tutti i movimenti patriottici europei culminati nel 1848 gli avvocati ebbero una parte importante: a Venezia, il flusso di «foresti» fu tanto più sgradito agli avvocati in quanto l’introduzione del Codice austriaco segnò la perdita di posti e di status: i 268 avvocati veneziani del 1766 si erano ridotti a 59 nel 1847(113). A questa situazione risalgono le difficoltà della carriera prerivoluzionaria di Manin.
Dai resoconti dell’epoca risulta chiaramente che i militari e i burocrati stranieri rimasero essenzialmente al di fuori della vita sociale dei veneziani. Le signore dell’aristocrazia avevano chiuso i loro salotti nel 1801 in segno di protesta contro la dominazione austriaca; durante la Restaurazione gli ufficiali austriaci erano ancora esclusi dai salotti, mentre invece importanti stranieri colti erano molto ben accetti. All’altro estremo della piramide sociale, un nuovo tipo di locale, la birreria, accoglieva i soldati imperiali, ma i veneziani continuavano a frequentare le osterie.
I luoghi pubblici offrivano lo scenario per gesti simbolici carichi di emotività, particolarmente nei momenti di tensione politica. Il Teatro la Fenice assunse una funzione pubblica, sia come luogo di cerimonie ufficiali sia come sede privilegiata per la visibilità e la sociabilità dell’élite cittadina: durante il breve periodo della Municipalità democratica del 1797 vi si celebrò una festa patriottica; nel 1808 vi fu costruito un «palco del governo». Il pubblico della Fenice offriva un termometro tangibile dei rapporti con le autorità civili e militari austriache, al punto che vi fu un intervento della polizia contro la celebrazione in chiave politica da parte del pubblico del Macbeth di Verdi nella stagione 1847-1848; più tardi gli aristocratici proprietari del teatro lo chiusero, come atto di aperta sfida politica, dal 1860 fino alla fine della dominazione austriaca. Piazza S. Marco simboleggiava il possesso della città. Qui la maestria delle bande militari austriache, con le loro musiche focose, normalmente calamitava i veneziani; qui in momenti di particolare tensione politica la scelta di un percorso per la passeggiata oppure l’astensione erano segnali di protesta, come pure l’ostentata scelta di un caffè — il Quadri (per austriaci e austriacanti), lo Specchi (per i patrioti) o il Florian (per i turisti); un significato aveva anche, naturalmente, l’apparizione di un tricolore, o di scritte murali popolari(114). La Piazza mantenne a lungo questa sua importanza simbolica, anche dopo la scomparsa dell’«oppressore straniero»: fu il luogo prediletto per l’azione politica, che si trattasse delle dimostrazioni dei socialisti o delle violenze dei nazionalisti e dei fascisti.
Dagli anni Trenta in poi, con la ripresa e la rinascita della città, e soprattutto negli anni Quaranta, alcuni rappresentanti delle élites veneziane iniziarono a esprimere la propria individualità e a partecipare a dibattiti che ormai erano consueti altrove in Italia e in Europa, da un lato presso le istituzioni culturali create da Napoleone, in particolare l’Ateneo Veneto, dall’altro con iniziative economiche. La Società Ferdinandea per la costruzione della ferrovia attraverso la laguna servì a coagulare l’élite economica(115). Il passaggio all’opposizione culturale e poi politica fu insolitamente rapido a Venezia, occasionato dal IX congresso degli scienziati italiani, nel settembre 1847. Il congresso offrì l’occasione per una tipica combinazione di orgoglio civico competitivo e di partecipazione consapevole a quella che era ormai divenuta un’impresa nazionale italiana, espressa in una rete di rapporti, in rapida espansione, per tutta la penisola. L’orgogliosa presentazione ai 1.500 partecipanti di un congresso italiano «nazionale», ospitato dall’Istituto Veneto, dei volumi di Venezia e le sue lagune, della Bibliografia veneziana di Cicogna e del pantheon di busti di illustri personalità della Serenissima, costituì un’affermazione simultanea di «venezianità» e di «italianità». Come sostiene Piero Del Negro, servì anche da stimolo all’emergere di un fronte politico che avvicinò le diverse componenti sociali delle classi dirigenti veneziane(116).
Più di quella di qualsiasi altra città italiana, la rivoluzione veneziana del 1848-1849 avrebbe mostrato la relazione intima che esisteva tra la memoria del passato e l’Italia del futuro(117). L’invocazione della Repubblica di Venezia e il patriottismo italiano rimasero intrecciati in modo inestricabile. Nel contesto europeo, l’intera vicenda appare notevole in termini di solidarietà popolare, dalla prima sollevazione degli arsenalotti fino alla tenace resistenza del lungo assedio finale. La storiografia della rivoluzione ha giustamente sottolineato il ruolo carismatico di Daniele Manin, nonostante la sua diffidenza nei confronti dell’‘anarchia’ popolare. Nella seconda fase della rivoluzione, quando Venezia era divenuta luogo di rifugio per i mazziniani, fu l’intervento personale del ‘dittatore’ a sconfiggere il Circolo italiano di Giuseppe Sirtori. Fosse per la sua fede negli ideali democratici del repubblicanesimo o per ragioni pratiche legate alla politica quotidiana, l’azione di Manin offrì alle masse veneziane una partecipazione politica e un sostegno materiale senza precedenti: il suffragio universale maschile, il finanziamento municipale dell’occupazione e dei lavori pubblici, la riduzione delle tasse, la fornitura di combustibile. Tuttavia, è opportuno mettere in relazione l’importanza delle singole personalità, anche di un Manin, con l’unicità dell’ambiente veneziano. Se l’idea di una nazione è quella di una «comunità immaginata», per adottare l’eloquente formula di Benedict Anderson(118), in nessun’altra grande città, nel 1848, la prossimità fisica, le pratiche sociali, le tradizioni di sestiere e di corporazione rafforzarono l’esistenza di una lingua comune (il veneziano) e di memorie condivise di un passato glorioso, nel trasformare una comunità «immaginata» in una comunità reale, unita — in un lungo periodo di emergenza — contro un nemico straniero.
È evidente che la rivoluzione modificò necessariamente i rapporti non solo tra i veneziani, di tutte le classi, e i loro governanti austriaci, ma anche tra le classi all’interno della stessa società veneziana. Il governo militare di Radetzky, la sospensione delle esenzioni doganali, l’epurazione degli impiegati, il trasferimento della base navale imperiale da Venezia a Trieste, le misure punitive contro gli arsenalotti, tutto accentuò un comune sentimento di oppressione politica da parte dell’‘altro’. Le proteste si espressero secondo le forme caratteristiche dei diversi ceti sociali: boicottaggio dell’opera lirica da parte delle famiglie più importanti, graffiti murali e abbandono del Carnevale da parte del popolino. Questo non implicò necessariamente un’ostilità generale nei confronti dell’Austria: più di 5.000 spettatori vennero ad ascoltare la banda militare in occasione della festa del Redentore nel 1856. È certo che la visita di Francesco Giuseppe a Venezia, in quello stesso anno, costituì un certo sforzo per ridurre la distanza tra governanti e governati, ma le speranze dei veneziani in occasione della guerra del 1859 vanificarono qualsiasi possibilità di conciliazione. La separazione della Lombardia dal Veneto ebbe poi ripercussioni estremamente negative sull’economia cittadina. La disillusione produsse un senso psicologico di provvisorietà che colpì la società veneziana a tutti i livelli, perfino gli amministratori aristocratici della città. Il boicottaggio della presenza austriaca fu senza dubbio influenzato dal comitato patriottico segreto, ma era cionondimeno reale: si ebbero così sporadici incidenti di scontrosa ostilità da parte della plebe; la chiusura della Fenice; l’abbandono della passeggiata in Piazza; la separazione politica dei caffè del centro; persino il sabotaggio delle elezioni costituzionali del 1861 da parte degli aristocratici liberali(119).
L’unificazione all’Italia, come spiega Renato Camurri, condusse a un immediato e prolungato declino della vita politica veneziana(120). Né, per certi versi, questo deve sorprendere. La tensione patriottica che aveva raggiunto il culmine nel 1848-1849 e segnato gli ultimi anni della dominazione austriaca si allentò inevitabilmente quando venne meno la presenza dello ‘straniero’. Come le speranze negli effetti rigenerativi che dovevano seguire all’indipendenza politica dell’Italia nel 1860 erano andate deluse, così non si materializzarono le visioni veneziane di una rinascita economica che doveva venire dall’apertura del canale di Suez (1869). Ma la disillusione dei veneziani non è una spiegazione sufficiente: vi era anche una riluttanza a riconoscere la collocazione periferica del porto veneziano rispetto a quello di Genova nella geografia economica dell’Italia. E anche se i commenti politici continuavano a sottolineare l’importanza economica dei crescenti rapporti con la terraferma, la retorica della vocazione marittima di Venezia condusse in pratica a un chiuso provincialismo, un atteggiamento cioè che rese cieco il ceto politico veneziano di fronte alle trasformazioni di un Veneto che, già negli anni Settanta e Ottanta, sfruttava le opportunità nate dal suo ingresso nel mercato nazionale italiano, economico e politico(121). Venezia sarebbe emersa dalla sua laguna soltanto nei primi anni del nuovo secolo, non tanto grazie a iniziative imprenditoriali e a un dibattito politico autoctoni, quanto per le ambizioni nazionaliste, le risorse finanziarie e industriali e i legami politici del «gruppo veneziano» guidato da Foscari, Volpi e Grimani, impiantato sulla mitologia storica della Repubblica con l’ausilio della retorica di D’Annunzio(122).
Il ritardato ingresso in Italia significò che, a livello nazionale, le battaglie parlamentari attorno a differenti proposte per il futuro erano già state combattute. Per un’ironia della storia, avvocati e uomini politici veneziani, che si trovavano ora a fronteggiare l’imposizione dei sistemi amministrativo e giudiziario italiani, furono d’improvviso indotti a riscoprire le virtù dell’amministrazione e dei codici austriaci. Dettero allora inizio a una campagna difensiva analoga a quella dei loro predecessori, che avevano sperimentato una riscoperta per così dire postuma — col ritorno dell’Austria — dei pregi dell’amministrazione napoleonica. Al contrario dei loro predecessori però, come mostra Maria Rosa Di Simone, il liberalismo dello Stato italiano garantiva ai difensori dell’autonomia di Venezia la possibilità di esprimere pubblicamente le proprie opinioni, sui giornali e in Parlamento(123). Essi erano invece svantaggiati nella loro campagna a favore di eccezioni istituzionali per le province venete, dato che la politica ufficiale del governo era ora caratterizzata da un forte centralismo. Vista nel lungo periodo, la nuova organizzazione amministrativa segnava la tappa finale di un processo di graduale diminuzione dell’autonomia locale — dalla Serenissima ai governi francese, austriaco, e infine italiano.
Lo Stato italiano a Venezia iniziò con il vantaggio di una più ampia base di consenso rispetto a tutti i precedenti governi dalla caduta della Serenissima in poi. Qualunque fossero le differenze di vedute attorno a problemi importanti quali quelli posti dai nuovi codici e dalle nuove strutture amministrative, vi era un’ampia convergenza di opinioni tra la classe dirigente veneziana e i rappresentanti del governo nazionale. Né questo deve sorprendere, date le convinzioni liberali moderate di entrambe le parti e gli sforzi — illustrati qui da Renato Camurri e Nico Randeraad — del primo commissario Giuseppe Pasolini e dei primi prefetti per ottenere il sostegno delle ‘consorterie’ moderate locali, a svantaggio degli esuli e dei democratici(124).
Da un punto di vista pratico e ideologico, la politica dei governi italiani aprì nuove prospettive pur rappresentando, più che una rottura, una continuazione e un rafforzamento degli orientamenti del passato governo austriaco. Le continuità sono evidenti innanzitutto nel campo dell’istruzione primaria — come dimostra Claudia Salmini — sia dal punto di vista delle personalità (Giovanni Codemo) che dell’organizzazione. L’unificazione significò, al livello dell’istruzione superiore, con la rapida creazione della Scuola Superiore di Commercio, il distacco parziale di Venezia dalla dipendenza storica dall’Università di Padova. D’altra parte, in modo meno apparente, la politica anticlericale della nuova Italia rappresentò un ritorno alla tradizionale politica austriaca di limitazione dell’intrusione clericale, prima del concordato del 1855, e come tale fu probabilmente percepita dai liberali veneziani(125).
La democrazia rappresentativa, un’esperienza nuova a Venezia come altrove in Italia (fatta eccezione per il Piemonte), portò all’elaborazione di nuove pratiche e di tacite convenzioni: se da un lato vi era ancora un diritto di voto estremamente limitato, unito a uno stretto controllo da parte dei prefetti e a interventi governativi nelle elezioni, dall’altro si registravano il ruolo nuovo e sempre più importante dei giornali nell’orientare l’opinione pubblica, un rapido sviluppo delle associazioni come luoghi di acculturazione politica e il coinvolgimento nelle attività politiche e sindacali di circoli sempre più ampi di veneziani. Dal 1889, i consiglieri comunali non comprendevano più solo possidenti e commercianti, ma includevano avvocati, medici, ingegneri, giornalisti, artisti, perfino un operaio(126). A Venezia mancava però una classe dirigente animata da una visione politica idealista, come era stata la generazione del 1848-1849. Ma forse l’aspetto più caratteristico della vita politica della città, vista nel contesto nazionale, e tanto più sorprendente dato l’isolamento di Venezia rispetto alla terraferma, era l’assenza di una grande figura politica che fosse al tempo stesso presente a livello sia municipale che nazionale, e che potesse rafforzare, anche con pratiche clientelari, una solidità politica di base. Il rapporto di Filippo Grimani con Luigi Luzzatti non sembra controbilanciare, in termini di patronato politico, la sua mancanza di una dimensione nazionale. Fino agli anni Novanta, l’assenza di una personalità locale dominante, scelta per la sua riconosciuta influenza sul «basso popolo», quali erano stati Daniele Renier o Giovanni Correr nel periodo dei governi stranieri, complicò il ruolo dei prefetti e rafforzò l’importanza dei giornali, dalla «Gazzetta di Venezia», alla cattolica «Difesa» o al socialista «Secolo Nuovo». Pompeo Molmenti e Antonio Fradeletto furono figure tipiche dei limitati orizzonti politici del moderatismo e del radicalismo veneziani e della riduzione culturale dell’esperienza del 1848-1849 a un’interpretazione conservatrice, localistica e retorica di Manin e della rivoluzione(127). La litigiosità di questa classe dirigente spiega tanto l’inatteso successo dei progressisti nel 1889, che condusse all’importante ma anomala esperienza dell’amministrazione di Riccardo Selvatico, quanto il precoce e prepotente emergere dell’intransigentismo politico cattolico che trionfò nel 1895.
Da palude provinciale della politica italiana, Venezia cambiò profilo nei due decenni che precedettero la prima guerra mondiale. Da un punto di vista culturale, il ruolo unico della città nell’immaginazione europea offrì al sindaco-poeta Selvatico un contesto favorevole per sfruttare la sua rete di relazioni cosmopolite, in un momento di intensa sperimentazione artistica, e per sfidare la rappresentazione egemonica di Venezia come città ossessionata dal suo passato, con la creazione della Biennale — un’iniziativa che ridisegnò l’immagine di Venezia facendone, nel mondo internazionale dell’arte contemporanea, un importante luogo di avanguardia. Il fatto che la Biennale divenisse una grande attrazione turistica (224.000 visitatori alla I Esposizione nel 1895, 437.000 alla VII nel 1909), senza dubbio garantì la sua continuazione oltre Selvatico. La mostra internazionale d’arte, sotto la cauta direzione culturale di Fradeletto, e presto in rivalità con la Galleria d’Arte Moderna a Ca’ Pesaro e con l’Opera Bevilacqua La Masa, dirette dal combattivo Nino Barbantini, garantì a Venezia il diritto di cittadinanza nel mondo della modernità artistica(128).
In quegli stessi due decenni, Venezia divenne un «laboratorio politico di importanza nazionale»(129). In termini politici, l’elezione di Grimani a sindaco, nel 1895, segnò la trionfale conclusione della lunga marcia dell’intransigentismo cattolico a Venezia. Come spiega Giovanni Vian, dal 1848 i patriarchi della città avevano predicato e praticato un’opposizione senza compromessi ad ogni manifestazione di progresso. Esercitando un’autorità fortemente centralizzata, la Chiesa veneziana non lasciava spazio ai preti liberali, come accadeva altrove nel Veneto, e il modernismo era proibito. Il sostegno offerto all’associazionismo sociale cattolico e all’Opera dei Congressi precedette la nomina a patriarca di Giuseppe Melchiorre Sarto (1894). Il futuro papa Pio X predicò ripetutamente contro l’apostasia moderna, riorganizzò le associazioni cattoliche e intervenne politicamente contro l’amministrazione anticlericale di Selvatico. Il blocco clerico-moderato che sconfisse Selvatico si era costituito a Venezia dieci anni prima che i cattolici partecipassero, a livello nazionale, alle elezioni politiche del 1904 per reagire contro la minaccia del socialismo. La guida di Sarto condizionò l’amministrazione Grimani e contrastò l’associazionismo socialista veneziano, nelle fabbriche come nelle parrocchie, ostacolando efficacemente l’avanzata del partito socialista guidato dal massimalista Elia Musatti(130).
Il nazionalismo politico e culturale nel decennio precedente la guerra fece di nuovo di Venezia un laboratorio politico. L’imperialismo di Piero Foscari e Giuseppe Volpi, l’irredentismo di Giovanni Giuriati e Piero Marsich, il protonazionalismo di scrittori e artisti dell’élite culturale veneziana (come i «Sette Savi», che si incontravano all’osteria «da Codroma»), e soprattutto il giornalismo di Gino Damerini nelle pagine de «Il Dovere Nazionale», fecero di Venezia il terreno di prova prescelto dal nazionalismo aggressivo e antisocialista di Alfredo Rocco. La crisi dell’interventismo trasformò sempre più l’accesa dialettica politica in azione violenta con la conquista della Piazza — da parte degli interventisti — nel maggio 1915(131).
La guerra segnò una rottura profonda in ogni aspetto di quella che era stata la traiettoria di Venezia nel XIX secolo, come spiega nel suo contributo Bruna Bianchi(132). La scelta di Venezia come Piazza marittima pose la città sotto governo militare e segnò irrimediabilmente la fine di qualsiasi possibilità di dibattito politico. La struttura economica cittadina fu trasformata in modo permanente, inizialmente per il crollo del turismo, del commercio portuale e delle manifatture artistiche; dopo l’ingresso nel conflitto, per i bombardamenti e il trasferimento delle industrie in luoghi più sicuri; infine, nel 1917, per l’avvio improvviso e segreto del nuovo progetto industriale a Marghera. La disoccupazione e la fame resero le condizioni di vita della popolazione tanto disperate quanto lo erano state nel lungo assedio del 1813-1814. I quarantadue attacchi aerei su Venezia, e poi Caporetto, condussero all’evacuazione, organizzata in modo disastroso, di 70.000 cittadini verso città più protette (come Rimini, Genova, Alessandria), dove la presenza dei profughi suscitò risentimenti. L’inflazione, le razioni insufficienti, la speculazione sui prezzi e l’incapacità dell’amministrazione, portarono alla moltiplicazione delle proteste e degli scioperi. L’immagine convenzionale dei veneziani come cittadini pacifici venne meno: commercianti, piccoli proprietari immobiliari e la piccola borghesia, particolarmente colpita dall’inflazione e dalla minaccia di veder scomparire i propri averi, espressero il proprio risentimento contro le classi popolari e la propria perdita di fiducia nei confronti della classe dirigente cittadina. Con il senno di poi, lo storico può dire che i segni della crisi del dopoguerra erano già chiaramente visibili.
Traduzione di Simon Levis Sullam
1. Norman Davies, God’s Playground. A History of Poland, I-II, Oxford 1981.
2. Giovanni Scarabello, Da Campoformido al congresso di Vienna: l’identità veneta sospesa, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 6, Dall’età napoleonica alla prima guerra mondiale, Vicenza 1986, pp. 1-20.
3. John Pemble, Venice Rediscovered, Oxford 1996; John Eglin, Venice Transfigured. The Myth of Venice in ;British Culture, 1660-1797, New York 2001.
4. Adolfo Bernardello-Piero Brunello-Paul Ginsborg, Venezia 1848-49. La rivoluzione e la difesa, Venezia 1979; Stefano Pillinini, ‘La storia delle cose di Venezia sott’occhio’: la pubblicistica del 1848-1849 e il mito della Serenissima, in Venezia Quarantotto. Episodi, luoghi e protagonisti di una rivoluzione 1848-1849, catalogo della mostra, a cura di Giandomenico Romanelli-Michele Gottardi-Franca Lugato-Camillo Tonini, Milano 1998, pp. 55-57.
5. Nadia Maria Filippini, Figure, fatti e percorsi di emancipazione femminile (1797-1880), in questo volume.
6. Il linguaggio del discorso di Manin alla folla veneziana, il 22 marzo 1848, è esplicito: «Il [governo] più adatto ci sembra quello della Repubblica, che rammenti le glorie passate, migliorato dalle libertà presenti», cf. Paul Ginsborg, Daniele Manin e la rivoluzione veneziana del 1848-49, Milano 1978, pp. 114-115; Gino benzoni, La storiografia, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 6, Dall’età napoleonica alla prima guerra mondiale, Vicenza 1986, p. 605 (pp. 597-623).
7. G. Benzoni, La storiografia, pp. 605-606; Laura Alban, Il monumento a Daniele Manin, «Venetica», 5, 1996, pp. 11-44; Eva Cecchinato, La rivoluzione restaurata. Il 1848-49 a Venezia fra memoria e oblio, tesi di laurea, Università degli Studi di Venezia, a.a. 1999-2000; Luciano Pomoni, Il Dovere Nazionale. I nazionalisti veneziani alla conquista della piazza (1908-1915), Padova 1998.
8. Piero Del Negro, La memoria dei vinti. Il patriziato veneziano e la caduta della Repubblica, in L’eredità dell’Ottantanove e l’Italia, a cura di Renzo Zorzi, Firenze 1992, pp. 351-370; Jaroslaw Czubaty, Quelques remarques sur le principe de ‘deux consciences’, relazione presentata al convegno L’époque napoléonienne, anciens territoires, nouveaux domaines de recherche, nouvelles expériences, Ostróda, 22-25 settembre 2001, in corso di pubblicazione.
9. Claudio Povolo, The Creation of Venetian Historiography, in Venice Reconsidered. The History and Civilization of an Italian City-State 1297-1797, a cura di John Martin-Dennis Romano, Baltimore-London 2000, pp. 491-519.
10. Mario Infelise, Venezia e il suo passato. Storie miti «fole», in questi volumi.
11. J. Pemble, Venice Rediscovered; Mario Isnenghi, Fine della Storia?, in Venezia. Itinerari per la storia della città, a cura di Stefano Gasparri-Giovanni Levi-Pierandrea Moro, Bologna 1997, pp. 407-408 (pp. 405-436); Eduard Hüttinger, Il ‘mito’ di Venezia, e Anna Giubertoni, Venezia nella letteratura austriaca moderna, entrambi in Venezia Vienna, a cura di Giandomenico Romanelli, Milano 1983, rispettivamente pp. 187-226 e 105-126.
12. Agostino Sagredo, Storia civile e politica, in Venezia e le sue lagune, I, Venezia 1847, pp. 130-131 (pp. 1-214).
13. Gioacchino Brognoligo, La cultura veneta, «La Critica», 20, 1922, cit. in C. Povolo, The Creation, p. 514 n. 34.
14. Nel 1821 Leopoldo Cicognara fu costretto a difendersi dalle accuse di aver tratto profitto dal mercato internazionale antiquario di Venezia: Fernando Mazzocca, La promozione delle arti da Leopoldo Cicognara a Pietro Selvatico, in Venezia e l’Austria, a cura di Gino Benzoni-Gaetano Cozzi, Venezia 1999, p. 27 (pp. 21-36). Su Parigi come centro del collezionismo, cf. Krzysztof Pomian, Collectionneurs, amateurs et curieux. Paris, Venise: XVIe-XVIIIe siècle, Paris 1987, il quale stima (p. 185) che circa 500 collezioni d’arte furono vendute a Parigi tra il 1750 e il 1790.
15. Leopoldo Cicognara-Antonio Diedo-Giannantonio Selva, Le Fabbriche più cospicue di Venezia, misurate, illustrate ed intagliate dai membri della Veneta Reale Accademia di Belle Arti, I-II, Venezia 1815-1820; Emmanuele Antonio Cicogna, Delle inscrizioni veneziane raccolte ed illustrate, I-VII, Venezia 1824-1853.
16. Francesca Cavazzana Romanelli-Stefania Rossi Minutelli, Archivi e biblioteche, in questi volumi; F. Mazzocca, La promozione delle arti, pp. 28-30.
17. G. Benzoni, La storiografia, p. 613.
18. Giampietro Berti, Censura e circolazione delle idee nel Veneto della Restaurazione, Venezia 1989.
19. Gino Benzoni, Dal rimpianto alla ricostruzione storiografica, in Venezia e l’Austria, a cura di Id.-Gaetano Cozzi, Venezia 1999, pp. 343-370.
20. Sergio Barizza, Il Comune di Venezia 1806-1946. L’istituzione, il territorio, guida-inventario dell’Archivio Municipale, Venezia 19872, pp. 139-152.
21. Ippolito Nievo, Venezia e la libertà d’Italia, in Id., Due scritti politici, a cura di Marcella Gorra, Padova 1988, pp. 87-106, commentato da Cesare De Michelis, Il letterato e la storia. Ippolito Nievo, in Venezia e l’Austria, a cura di Gino Benzoni-Gaetano Cozzi, Venezia 1999, pp. 53-72.
22. Renato Camurri, Istituzioni, associazioni e classi dirigenti dall’Unità alla Grande guerra; Paolo Pecorari, Luigi Luzzatti e Venezia; Maurizio Reberschak, Filippo Grimani e la «nuova Venezia», tutti in questo volume.
23. M. Isnenghi, Fine della Storia?, p. 409.
24. Wladimiro Dorigo, Venezia e il Veneto, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. Il Veneto, a cura di Silvio Lanaro, Torino 1984, pp. 1037-1065.
25. Silvio Lanaro, Genealogia di un modello, ibid., pp. 5-24 (pp. 5-96).
26. Giandomenico Romanelli, Venezia Ottocento. L’architettura, l’urbanistica, Venezia 19882, pp. 289-323.
27. Monica Donaglio, Un esponente dell’élite liberale: Pompeo Molmenti politico e storico di Venezia, tesi di dottorato, Università degli Studi di Venezia, a.a. 2000-2001.
28. Mario Isnenghi, La cultura, in Venezia, a cura di Emilio Franzina, Roma-Bari 1986, pp. 427-429 (pp. 381-482); M. Reberschak, Filippo Grimani, all’altezza delle nn. 56 ss.
29. Maurizio Reberschak, L’industrializzazione di Venezia (1866-1918), in Venezia. Itinerari per la storia della città, a cura di Stefano Gasparri-Giovanni Levi-Pierandrea Moro, Bologna 1997, pp. 371-372 (pp. 369-404). Il riferimento è all’elogio funebre dell’arte gotica di John Ruskin, in The Stones of Venice, I-III, Venice 1851-1853.
30. Ciò era meno evidente nel caso di Torino, per cui gli storici piemontesi potevano imporre una continuità ideale rappresentata dalla dinastia dei Savoia che aveva guidato la storia della città oltre l’unificazione, fino alla perdita del suo status di capitale.
31. G. Romanelli, Venezia Ottocento, pp. 37-131; G. Scarabello, Da Campoformido al congresso di Vienna.
32. Stuart Woolf, Napoleone e la conquista dell’Europa, Roma-Bari 1990; Id., Porca miseria. Poveri e assistenza nell’età moderna, Roma-Bari 1988, p. 130; Giovanni Ricci, Povertà, vergogna, superbia. I declassati fra medioevo e età moderna, Milano 1996.
33. G. Scarabello, Da Campoformido al congresso di Vienna, p. 1.
34. Emilio Franzina, La Società, in Venezia, a cura di Id., Roma-Bari 1986, p. 303 (pp. 301-322).
35. Venezia a parte, dodici prefetti provenivano dai territori veneti (incluse le ex province lombarde della Repubblica, Brescia e Bergamo), rispetto ai quindici dalla ex Lombardia, cf. Livio Antonielli, I prefetti dell’Italia napoleonica. Repubblica e Regno d’Italia, Bologna 1983, pp. 541-565.
36. Marco Meriggi, Amministrazione e classi sociali nel Lombardo-Veneto (1814-1848), Bologna 1983, pp. 143-145.
37. Fabrizio Magani, La storia scolpita: il ‘Pantheon Veneto’, in Venezia e l’Austria, a cura di Gino Benzoni-Gaetano Cozzi, Venezia 1999, pp. 371-382.
38. Alfredo Viggiano, Da patrizi a funzionari. Classe di governo e pratica degli uffici a Venezia nella prima dominazione austriaca, in Dopo la Serenissima. Società, amministrazione e cultura nell’Ottocento veneto, a cura di Donatella Calabi, Venezia 2001, pp. 352, 361 (pp. 349-362).
39. Renzo Derosas, Aspetti economici della crisi del patriziato veneziano tra fine Settecento e primo Ottocento, «Cheiron», 6-7, 1989-1990, nrr. 12-13, pp. 11-61; Id., Riflessi privati della caduta della Repubblica, in Venezia. Itinerari per la storia della città, a cura di Stefano Gasparri-Giovanni Levi-Pierandrea Moro, Bologna 1997, pp. 271-303; Id., Dal patriziato alla nobiltà. Aspetti della crisi dell’aristocrazia veneziana nella prima metà dell’Ottocento, in Les noblesses européennes au XIXe siècle. Atti del convegno, a cura di Gerard Delille, Roma 1988, pp. 333-363; M. Meriggi, Amministrazione e classi sociali, in partic. i capp. 2 e 3; Michele Gottardi, Da Manin a Manin: istituzioni e ceti dirigenti dal ’97 al ’48, in questo volume.
40. Livio Antonielli, Venezia nel Regno italico: un’annessione di ‘basso profilo’, in Dopo la Serenissima. Società, amministrazione e cultura nell’Ottocento veneto, a cura di Donatella Calabi, Venezia 2001, pp. 146, 148 (pp. 123-151).
41. Alvise Zorzi, Venezia austriaca (1798-1866), Roma-Bari 1985, pp. 196-197: il N.H. Angelo Primo Memmo fece domanda per diventare commissario di polizia, con l’ingenua speranza di «procurar di migliorare la propria condizione onde abilitarsi a veder perfezionata l’Educazione dei di lui Figli»; come notò Mulazzano: «Ha moglie e molti figli, che formano la sola sua occupazione esemplare ed amorosa».
42. Monica Donaglio, La serie ‘contratti’ dell’archivio municipale di Venezia: formazione e gestione del patrimonio immobiliare del Comune (1806), in Dopo la Serenissima. Società, amministrazione e cultura nell’Ottocento veneto, a cura di Donatella Calabi, Venezia 2001, p. 322 (pp. 307-326). Hugo von Hofmannsthal, Lettera dell’ultimo Contarin (1902), cit. in A. Giubertoni, Venezia nella letteratura austriaca, p. 118.
43. E. Franzina, La Società, pp. 306-307.
44. Michele Gottardi, Stato e carriere tra Veneto austriaco e Regno d’Italia, in Dopo la Serenissima. Società, amministrazione e cultura nell’Ottocento veneto, a cura di Donatella Calabi, Venezia 2001, pp. 110-114; Eurigio Tonetti, Il Comune prima dell’Unità, e M. Reberschak, Filippo Grimani, entrambi in questo volume.
45. Peter Burke, Venice and Amsterdam. A Study of 17th Century Élites, Cambridge 1994.
46. V., in questo volume, Renzo Derosas, La demografia dei poveri. Pescatori, facchini e industrianti nella Venezia di metà Ottocento, § 3.
47. W. Dorigo, Venezia e il Veneto; S. Lanaro, Genealogia di un modello, p. 21.
48. Adolfo Bernardello, Iniziative economiche, accumulazione e investimenti di capitale (1830-1866), in questo volume.
49. Vincenzo Zanetti e la Murano dell’Ottocento, catalogo della mostra, Murano 1984; Perle e impiraperle. Un lavoro di donne a Venezia tra ’800 e ’900, catalogo della mostra storico-documentaria, a cura di Anna Bellavitis-Nadia M. Filippini-Maria Teresa Sega, Venezia 1990; Comune di Venezia - Consorzio dei merletti di burano - Fondazione A. Marcello, La scuola dei merletti di Burano, catalogo della mostra, Venezia 1981.
50. Andrea Zannini, La costruzione della città turistica; A. Bernardello, Iniziative economiche; M. Reberschak, Filippo Grimani, tutti in questi volumi.
51. A. Bernardello, Iniziative economiche, e Antonio Lazzarini, Possidenti e bonificatori ebrei: la famiglia Sullam, in questo volume. Sulla Lombardia, cf. Bruno Caizzi, L’economia lombarda durante la restaurazione (1814-1859), Milano 1972; Mario Romani, L’economia milanese nell’età della restaurazione, in Storia di Milano, XIV, Milano 1960, pp. 675-740; su Napoli, cf. John A. Davis, Società e imprenditori nel Regno borbonico (1815-1860), Roma-Bari 1979.
52. Adolfo Bernardello, La prima ferrovia fra Venezia e Milano. Storia della imperial-regia privilegiata strada ferrata Ferdinandea lombardo-veneta (1835-1852), Venezia 1996; David S. Laven, Punti di vista britannici sull’economia veneziana, 1814-1848, «Cheiron», 6-7, 1989-1990, nrr. 12-13, pp. 93-114.
53. P. Pecorari, Luigi Luzzatti, all’altezza delle nn. 25-26.
54. Piero Del Negro, Il 1848 e dopo, all’altezza di n. 105. Il terzo desiderio era di ottenere il riconoscimento dell’indipendenza del magistrato alla Sanità di Venezia.
55. Maurizio Reberschak, L’economia, in Venezia, a cura di Emilio Franzina, Roma-Bari 1986, pp. 229-237 (pp. 227-298); Cesco Chinello, Porto Marghera 1902-1926. Alle origini del ‘problema di Venezia’, Venezia 1979, pp. 7-65.
56. C. Chinello, Porto Marghera 1902-1926, pp. 239-240; Jürgen Julier, Il mulino Stucky a Venezia, Venezia 1978; Venezia, città industriale. Gli insediamenti produttivi del 19° secolo, Venezia 1980.
57. C. Chinello, Porto Marghera 1902-1926; Rolf Petri-Maurizio Reberschak, La Sade di Giuseppe Volpi e la ‘nuova Venezia industriale’, in Storia dell’industria elettrica in Italia, II, Il potenziamento tecnico e finanziario. 1914-1925, a cura di Luigi De Rosa, Roma-Bari 1993, pp. 317-346. Su Porto Marghera, cf. i contributi di Maurizio Reberschak, Gli uomini capitali: il «gruppo veneziano» (Volpi, Cini e gli altri), Cesco Chinello, Storia operaria di Porto Marghera, e Sergio Barizza, Mestre, la città del Novecento, in questi volumi.
58. Cit. in A. Zorzi, Venezia austriaca, p. 182.
59. Piero Del Negro, L’esercito austriaco, in Il Veneto austriaco 1814-1866, a cura di Paolo Preto, Padova 2000, pp. 154-155.
60. Massimo Costantini, Dal porto franco al porto industriale, in Storia di Venezia, Temi, Il Mare, a cura di Alberto Tenenti-Ugo Tucci, Roma 1991, p. 912 (pp. 879-914).
61. In questo volume, Luca Pes, Le classi popolari, § 3.
62. In questo volume, Giovanni Vian, La Chiesa cattolica e le altre Chiese cristiane, § 13.
63. Adriana Salviato, Pellagra e pazzia: i manicomi di S. Servolo e di S. Clemente, in questi volumi.
64. I veneziani dell’epoca erano ben consapevoli del fascino della laguna, come è evidente già nel volume Le isole della laguna di Venezia rappresentate e descritte, Venezia 1828, ma soprattutto nell’opera Venezia e le sue lagune , I-II, Venezia 1847.
65. M. Reberschak, L’economia, pp. 231-237.
66. Id., Filippo Grimani, all’altezza di n. 104.
67. W. Dorigo, Venezia e il Veneto, pp. 1050-1051.
68. M. Costantini, Dal porto franco al porto industriale, pp. 906-907.
69. Mona Ozouf, Architecture et urbanisme: l’image de la ville chez Claude-Nicolas Ledoux, «Annales E.S.C.», 21, 1966, pp. 1273-1304; Stuart Woolf, L’administration centrale et le développement de l’urbanisme à l’époque napoléonienne, in Villes et territoire pendant la période napoléonienne (France et Italie), Roma 1987, pp. 25-34; Georges Teyssot, Types, programmes et régularités. La diffusion des principes architecturaux au sein du Conseil des bâtiments civils sous le Consulat et l’Empire, ibid., pp. 231-254. Su Milano napoleonica, cf. Patrizia Guidicelli Falguières, Espace privé et espace publique à Milan (1796-1814), ibid., pp. 261-284.
70. Giandomenico Romanelli, Venezia nell’Ottocento, in questi volumi.
71. Gaetano Pinali, Relazione dello stato materiale di Venezia ricercata da un Amico assente dall’Italia (1814), in Giandomenico Romanelli, Venezia Ottocento. L’architettura, l’urbanistica, Venezia 19882, pp. 136-138, v. anche pp. 75-97, 129 n. 154.
72. G. Romanelli, Venezia Ottocento, pp. 426-435; M. Reberschak, L’economia, p. 237.
73. Agostino Sagredo, Note sugli ammiglioramenti di Venezia, «Annali Universali di Statistica», maggio 1844, pp. 208-209, 212-213 (pp. 201-221).
74. Donatella Calabi, La città e le sue periferie: le case, i ponti, le strade, in Dopo la Serenissima. Società, amministrazione e cultura nell’Ottocento veneto, a cura di Ead., Venezia 2001, pp. 491-500 (pp. 471-511).
75. G. Romanelli, Venezia Ottocento, pp. 324-344; Nico Randeraad, I prefetti e la città nei primi decenni postunitari, in questo volume, all’altezza delle nn. 41-42.
76. G. Romanelli, Venezia Ottocento, pp. 283-303; D. Calabi, La città e le sue periferie, pp. 501-509.
77. G. Romanelli, Venezia Ottocento, pp. 365-366.
78. Ibid., pp. 101-103, 151, 154-155; D. Calabi, La città e le sue periferie, pp. 481-483; E. Tonetti, Il Comune, Tab. 1; Sergio Barizza, Il gas a Venezia. La prima volta del ‘nuovo’, le contraddizioni di sempre, «Cheiron», 6-7, 1989-1990, nrr. 12-13, pp. 147-158; M. Reberschak, L’economia, p. 26; Leopoldo Magliaretta, La qualità della vita, in Venezia, a cura di Emilio Franzina, Roma-Bari 1986, p. 331 (pp. 323-380); W. Dorigo, Venezia e il Veneto, pp. 1048-1049.
79. Maurizio Reberschak, Renzo Derosas, Luca Pes e Maria Teresa Sega esaminano aspetti diversi di questo processo nei loro contributi a questi volumi.
80. L. Magliaretta, La qualità della vita, pp. 346-347.
81. R. Derosas, La demografia dei poveri, all’altezza delle nn. 58-62. Nel mezzo secolo compreso tra il 1871 e il 1921, l’incremento della popolazione veneziana fu di 32.000 unità (passando da 129.000 a 161.000 abitanti).
82. Due ispezioni sulle condizioni abitative da parte delle autorità municipali nel 1873 e nel 1906, e una serie di indagini del medico e funzionario del Comune di Venezia Raffaele Vivante (Paola Somma, L’attività di Raffaele Vivante al Comune di Venezia nella prima metà del secolo, «Storia Urbana», 5, 1981, nr. 14, pp. 213-231).
83. M. Reberschak, Filippo Grimani; L. Magliaretta, La qualità della vita, pp. 323-346.
84. P. Pecorari, Luigi Luzzatti; La politica della casa all’inizio del XX secolo. Atti della prima giornata di studi, a cura di Donatella Calabi, Venezia 1995.
85. L. Magliaretta, La qualità della vita, p. 327.
86. Paola Somma, La municipalizzazione a Venezia, in Il Comune democratico. Riccardo Dalle Mole e l’esperienza delle giunte bloccarde nel Veneto giolittiano (1900-1914), a cura di Renato Camurri, Venezia 2000, pp. 231-247; Andrea Zannini, La costruzione della città turistica, all’altezza delle nn. 74-75; M. Reberschak, Filippo Grimani, all’altezza delle nn. 13-14.
87. L. Magliaretta, La qualità della vita, pp. 329, 338-340.
88. Giovanni Scarabello-Veronica Gusso, Processo al moro. Venezia 1811. Razzismo, follia, amore e morte, Roma 2000. L’episodio (un amore illecito tra un soldato nero e una domestica bianca a palazzo Gritti) ebbe luogo negli anni della dominazione francese, in teoria più tollerante dell’ex Repubblica di Venezia.
89. Marino Berengo, Intellettuali e librai nella Milano della Restaurazione, Torino 1980; Carmelo Alberti, Teatro, musica e stagione teatrale, in questi volumi.
90. Laura Lepscky Mueller, Tra medicina e cultura al tempo della Restaurazione: la figura di Paolo Zannini medico e letterato, in questo volume.
91. Casimira Grandi, Assistenza e beneficenza, e Maria Teresa Sega, Lavoratrici, entrambi in questi volumi; Nadia M. Filippini, ‘Come tenere pianticelle’. L’educazione della prima infanzia: asili di carità, giardinetti, asili per lattanti, e Pisana Visconti, L’infanzia nelle istituzioni. Gli orfanotrofi e l’Istituto Manin, in La scoperta dell’infanzia. Cura, educazione e rappresentazione. Venezia 1750-1930, a cura di Nadia M. Filippini-Tiziana Plebani, Venezia 1999, rispettivamente alle pp. 91-112 e 151-165; Stuart Woolf, The Poor and How to Relieve Them: the Restoration Debate on Poverty in Italy and Europe, in Society and Politics in the Age of the Risorgimento, a cura di John A. Davis-Paul Ginsborg, Cambridge 1991, pp. 49-69. Per la politica sociale della Repubblica, cf. Brian Pullan, La politica sociale della Repubblica di Venezia 1500-1620, I-II, Roma 1982.
92. Marco Fincardi, I luoghi delle relazioni sociali, in questo volume.
93. John Rosselli, La vita musicale a Venezia, in Venezia e l’Austria, a cura di Gino Benzoni-Gaetano Cozzi, Venezia 1999, p. 44; Renato Camurri, Istituzioni, associazioni e classi dirigenti dall’Unità alla Grande guerra, in questo volume, all’altezza di n. 340.
94. M. Meriggi, Amministrazione e classi sociali, p. 143.
95. Ibid., pp. 143, 282-283.
96. Giuseppe Gullino, Istituzioni di cultura, in questi volumi; L. Lepscky Mueller, Tra medicina e cultura.
97. Gilberto Pizzamiglio, Letterati, poeti, narratori, pubblico nella Venezia dell’Ottocento, in questi volumi.
98. Gadi Luzzatto Voghera, Gli ebrei; Claudia Salmini, L’istruzione pubblica tra primo Ottocento e primo Novecento: le scuole elementari; G. Vian, La Chiesa cattolica e le altre Chiese cristiane, tutti in questo volume, gli ultimi due rispettivamente all’altezza delle nn. 34-38 e 260-303.
99. P. Del Negro, Il 1848 e dopo, all’altezza di n. 43; Gaetano Cozzi, ‘Venezia e le sue lagune’ e la politica del diritto di Daniele Manin, in Venezia e l’Austria, a cura di Gino Benzoni-Gaetano Cozzi, Venezia 1999, pp. 323-341.
100. J. Rosselli, La vita musicale a Venezia, pp. 48-49.
101. George Sand, Lettres d’un voyageur, Paris 1837, cit. in P. Del Negro, Il 1848 e dopo, all’altezza di n. 374.
102. Erika Kanduth, Nobili veneziani al servizio dell’Austria, in Venezia e l’Austria, a cura di Gino Benzoni-Gaetano Cozzi, Venezia 1999, pp. 255-256 (pp. 243-263).
103. Emmanuele A. Cicogna, Diario veneto, e Francesco Dall’Ongaro, Venezia l’11 agosto 1848. Memorie storiche, cit. entrambi in P. Del Negro, Il 1848 e dopo, all’altezza delle nn. 153-156; Piero Brunello, Voci per un dizionario del Quarantotto. Venezia e Mestre, marzo 1848-agosto 1849, Venezia 1999.
104. L. Magliaretta, La qualità della vita, pp. 372-374; M. Fincardi, I luoghi delle relazioni sociali, all’altezza di n. 15.
105. M.T. Sega, Lavoratrici.
106. R. Derosas, La demografia dei poveri, §§ 6-7.
107. L. Magliaretta, La qualita della vita, pp. 368-374; L. Pes, Le classi popolari, all’altezza delle nn. 9-10; M. Fincardi, I luoghi delle relazioni sociali, all’altezza della n. 51.
108. M.T. Sega, Lavoratrici, e L. Pes, Le classi popolari; L. Magliaretta, La qualita della vita, pp. 355, 368-369, 375-377.
109. M.T. Sega, Lavoratrici, § 6.
110. M. Meriggi, Amministrazione e classi sociali, pp. 129-130.
111. Ibid., pp. 225-230.
112. Ibid., p. 215.
113. Andrea Zannini, Vecchi poveri e nuovi borghesi. La società veneziana nell’Ottocento asburgico, in Venezia e l’Austria, a cura di Gino Benzoni-Gaetano Cozzi, Venezia 1999, pp. 186-187 (pp. 169-194).
114. C. Alberti, Teatro, musica e stagione teatrale e P. Del Negro, Il 1848 e dopo; P. Brunello, Voci per un dizionario del Quarantotto; J. Rosselli, La vita musicale a Venezia, p. 45.
115. A. Bernardello, La prima ferrovia fra Milano e Venezia.
116. P. Del Negro, Il 1848 e dopo.
117. P. Ginsborg, Daniele Manin e la rivoluzione veneziana; Adolfo Bernardello, La paura del comunismo e dei tumulti popolari a Venezia e nelle province venete nel 1848-49, «Nuova Rivista Storica», 54, 1970, pp. 50-113, ora in Id., Veneti sotto l’Austria. Ceti popolari e tensioni sociali (1840-1866), Verona 1997, pp. 53-145; P. Brunello, Voci per un dizionario del Quarantotto; Guida alla Venezia del Quarantotto. Luoghi e avvenimenti del 1848-49 a Venezia e a Mestre, a cura di Adolfo Bernardello-Piero Brunello-Paul Ginsborg, Venezia 1980; Riccardo Carnesecchi, ‘Venezia sorgesti dal duro servaggio’. La musica patriottica negli anni della Repubblica di Manin, Venezia 1994.
118. Benedict Anderson, Comunità immaginate. Origine e diffusione dei nazionalismi, Roma 1996.
119. P. Del Negro, Il 1848 e dopo; J. Rosselli, La vita musicale a Venezia, pp. 45-47.
120. R. Camurri, Istituzioni, associazioni e classi dirigenti.
121. S. Lanaro, Genealogia di un modello; Giovanni L. Fontana, Patria veneta e Stato italiano dopo l’Unità: problemi di identità e di integrazione, in AA. VV., Storia della cultura veneta, 6, Dall’età napoleonica alla prima guerra mondiale, Vicenza 1986, pp. 553-596; Renato Camurri, La nascita di una regione politica: élites e morfologia del potere nel Veneto (1866-1900), «Memoria e Ricerca», 3, 1994, pp. 45-57.
122. M. Reberschak, Gli uomini capitali; Mario Isnenghi, D’Annunzio e l’ideologia della venezianità, «Rivista di Storia Contemporanea», 19, 1990, nr. 3, pp. 419-431.
123. Maria Rosa Di Simone, Diritti e istituzioni nel passaggio dall’Impero d’Austria al Regno d’Italia, in questo volume.
124. R. Camurri, Istituzioni, associazioni e classi dirigenti; N. Randeraad, I prefetti e la città nei primi decenni postunitari.
125. C. Salmini, L’istruzione pubblica; Danilo Bano, La Scuola Superiore di Commercio; G. Vian, La Chiesa cattolica e le altre Chiese cristiane, tutti in questo volume.
126. S. Barizza, Il Comune di Venezia 1806-1946, pp. 52-53.
127. M. Donaglio, Un esponente dell’élite liberale; Daniele Ceschin, La ‘voce’ di Venezia. Antonio Fradeletto e l’organizzazione della cultura tra Otto e Novecento, Padova 2001; E. Cecchinato, La Rivoluzione restaurata.
128. M. Isnenghi, La cultura, pp. 439-449; Giandomenico Romanelli, Le arti, in questi volumi.
129. M. Isnenghi, Fine della Storia?; R. Camurri, Istituzioni, associazioni, classi dirigenti.
130. G. Vian, La Chiesa cattolica e le altre Chiese cristiane, M.T. Sega, Lavoratrici, all’altezza delle nn. 165-171.
131. L. Pomoni, Il Dovere Nazionale.
132. Bruna Bianchi, Venezia nella Grande guerra, in questo volume.