La Biennale di Tintoretto
La 54a edizione della Biennale internazionale d’arte di Venezia si è svolta sotto la direzione di Bice Curiger, fondatrice della nota rivista svizzero-americana Parkett, che sin dagli esordi, nel 1984, rivoluzionò il campo dei periodici d’arte contemporanea grazie alla qualità dei testi e all’originalità delle collaborazioni con gli artisti.
Il titolo da lei prescelto, ILLUMInazioni, ha offerto ad artisti e spettatori due distinte linee guida d’interpretazione: da un lato il valore dell’illuminazione intesa come visione ispirata e capacità intuitiva; dall’altro quello della nazione, quale controverso riferimento geografico a un’identità estetica e poetica che il circuito internazionale dell’arte tende a svuotare di ogni specificità ma che a Venezia torna a rivivere immancabilmente e, secondo alcuni, anacronisticamente, per l’ineludibile rigidità della suddivisione in padiglioni nazionali, sorti come architetture distinte agli albori della manifestazione e a ogni edizione sempre più numerosi, ospitati in diversi palazzi della città.
Nel 2011 sono giunti alla cifra record di 89, a fronte dei 77 della precedente edizione, con la partecipazione inedita di Andorra, Arabia Saudita, Bangladesh e Haiti e con il ritorno, a distanza di decenni, di paesi come India e Cuba. A questa struttura Bice Curiger ha affiancato alcuni ‘parapadiglioni’ invitando quattro artisti, la polacca Monika Sosnowska (n. Ryki, 1972), l’austriaco Franz West (n. Vienna, 1947), il cinese Song Dong (n. Pechino, 1966) e lo statunitense Oscar Tuazon (n. Seattle, Washington, 1975), a realizzare opere di scala ambientale, progettate per ospitare al loro interno lavori e interventi di altri artisti, nel dichiarato tentativo d’interrompere quell’infinita teoria di opere affiancate l’una all’altra che ogni Biennale irrimediabilmente produce, a discapito di un intelligibile percorso curatoriale fatto di rimandi tra opera e opera. Ha suscitato molta attenzione la scelta di presentare nella sala d’onore del padiglione centrale tre grandi tele del Tintoretto, poste a simbolo dell’arte d’illuminazione sia per il drammatico contrasto chiaroscurale sia per la loro natura visionaria ed epifanica. L’inserimento di opere storiche, seppure inedito per la kermesse veneziana, ha confermato un costume diffusosi in anni recenti, e di già logoro, di mescolare antico e contemporaneo senza troppa attenzione filologica, e in questo la Biennale della Curiger non ha dunque fatto eccezione. Alcuni tra gli artisti invitati hanno provato a misurarsi con aspetti iconografici e luministici del cinquecentesco pittore veneziano, ma con risultati poco convincenti, se non di cattivo gusto, come nel caso della svizzera Pipilotti Rist (n. Grabs, 1962), i cui video di vedute veneziane, frammiste alle trasparenze anatomiche tipiche della diagnostica medica per immagini, si presentano incastonati in barocche cornici dorate.
Per quanto la Biennale di Bice Curiger si sia distinta per la pulizia e l’eleganza del percorso espositivo, non passerà alla storia per originalità, né per particolare personalità di pensiero.
I nomi degli artisti selezionati sembrano il frutto di una metodologia curatoriale che ha acquisito la convenzionalità di una ricetta: il confronto con l’antico, alcune giovanissime star, intorpidito mostro sacro risvegliato per l’occasione, qualche repêchage di artisti storici dimenticati e una sostanziosa farcitura che assomiglia molto a tutto quanto il mercato promuove.
Resterà invece traccia indelebile tra le pagine di cronaca della sconcertante compagine di artisti italiani, oltre 200, presenti nel padiglione nazionale, segnalati al curatore Vittorio Sgarbi da più di un centinaio d’intellettuali, da lui selezionati, che si sono dimostrati particolarmente versati nell’arte delle nomine nepotistiche e clientelari. La tradizionale premiazione ha visto il Leone d’oro per la migliore partecipazione nazionale assegnato alla Germania per l’installazione di Christoph Schlingensief (1960-2010), mentre il Leone d’oro per il migliore artista è stato conferito allo statunitense Christian Marclay (n. San Rafael, California, 1955) per la sorprendente opera The Clock, montaggio filmico lungo 24 ore, composto di spezzoni tratti dalla storia del cinema, tutti dedicati a inquadrature di orologi la cui ora è perfettamente sincronizzata con l’effettivo orario di proiezione.
La prima edizione (1895)
La Biennale di Venezia nasceva ufficialmente, sulla carta, il 19 aprile 1893 quando una delibera dell’amministrazione comunale di Venezia disponeva l’istituzione di una «Esposizione biennale artistica nazionale» a partire dall’anno successivo, quel 1894 in cui Umberto I e la regina Margherita avrebbero festeggiato le nozze d’argento. Invero, la manifestazione aprì i battenti per la prima volta solo il 30 aprile 1895 con il nome di Esposizione internazionale d’arte della città di Venezia e fu allestita nel palazzo realizzato appositamente nei Giardini pubblici di Castello. L’affluenza fu di circa 200.000 visitatori. La manifestazione premiò la tempera intitolata La figlia di Jorio di Francesco Paolo Michetti e il Ritorno al paese natio di Giovanni Segantini. A ricevere il premio assegnato da un referendum popolare, a fine rassegna, fu, invece, il Supremo convegno di Giacomo Grosso, un’opera che fece scandalo. La tela, infatti, mostrava l’interno di una chiesa in cui trovava posto il feretro di un uomo, attorniato da cinque provocanti donne nude: l’artista piemontese aveva voluto rappresentare la morte di un seduttore. La prima edizione della futura Biennale d’arte fu anche l’occasione dell’incontro tra il principe ereditario Vittorio Emanuele di Savoia e la futura sposa Elena di Montenegro, giunta in laguna in compagnia della madre, la principessa Milena Vukotic´.
La Pietas di Fabre
Ha suscitato scandalo la dissacrante rivisitazione della Pietà di Michelangelo compiuta dall’artista belga Jan Fabre (n. Anversa, 1958) ed esposta nella mostra Pietas alla Scuola Grande di Santa Maria della Misericordia, nell’ambito degli eventi espositivi che hanno fatto da corollario alla Biennale nella cosiddetta settimana dei vernissage. L’opera riproduce, in scala 1:1 e in marmo di Carrara, la celeberrima scultura michelangiolesca, conferendo però alla Madonna le sembianze di un cadavere paludato e sostituendo il Cristo morto con l’autoritratto dell’artista, in abiti contemporanei, che stringe nella mano destra un cervello. Nelle intenzioni di Fabre, tale organo allude al potere dei neuroni di attivare negli esseri umani il sentimento della compassione. Più inquietante risulta la scelta di rappresentare entrambe le figure come corpi in decomposizione, aggrediti, indifferentemente, da mosche, farfalle e scarabei; elementi che, nel linguaggio dell’artista, traducono visivamente l’empatia che sopravvive, comunque, tra i corpi della madre e del figlio.