La certificazione dei contratti di lavoro
La certificazione dei contratti di lavoro si è rivelata, fin dalla sua introduzione, un istituto di difficile inquadramento sistematico, per la eterogeneità delle finalità perseguite, per la pluralità di funzioni attribuitele, per l’incerta definizione del suo stesso oggetto. L’inquadramento dell’atto di certificazione come atto di certazione amministrativa, benché ormai affermato, non convince del tutto. È necessario focalizzare con precisione la sua essenziale funzione qualificatoria, sostanzialmente, anche se non formalmente, assimilabile alla iurisdictio. In tal senso, il regime delle impugnazioni è la vera chiave di volta per la comprensione dell’istituto. Con gli ultimi interventi del 2010, il legislatore punta su una certificazione non meramente qualificatoria. La via della «derogabilità assistita», impraticabile in modo diretto, sembra volersi perseguire attraverso la combinazione della certificazione con il riformato arbitrato irrituale in materia di lavoro.
Quando, a seguito di una decennale gestazione dottrinale e di alcuni tentativi legislativi abortiti1, l’istituto della «certificazione dei contratti di lavoro» venne introdotto nel nostro ordinamento dal titolo VIII del d.lgs. n. 276/2003, la stessa dottrina per un verso ne diagnosticò unanimemente la problematicità sotto il profilo dogmatico; e per l’altro, ma con posizioni alquanto differenziate2, ne pronosticò un impatto e un’utilità scarse, quasi inversamente proporzionali rispetto alla sua complessità analitica3. A otto anni di distanza dalla sua introduzione, la diagnosi trova piena conferma; la prognosi resta incerta, sì da giustificare un reiterato intervento terapeutico del legislatore, atto a realizzare un rilancio e un potenziamento dell’istituto. Quanto all’oggetto, la certificazione era originariamente limitata ad alcuni contratti di lavoro, di natura subordinata, autonoma o associata, contestualmente introdotti o rivisitati dal d.lgs. n. 276/2003, e segnatamente: i contratti di lavoro intermittente, ripartito, a tempo parziale, a progetto, di associazione in partecipazione (art. 75, co. 1); i regolamenti interni delle società cooperative, nella parte in cui definiscono la «tipologia dei rapporti di lavoro» instaurabili (art. 83); il contratto di appalto di servizi o di opere, onde distinguerlo dal contratto di somministrazione di lavoro (art. 84). Il d.lgs. n. 251/2004 ne estese il campo di applicazione a tutti i «contratti di lavoro», in tal modo superando l’elencazione tassativa del 2003 ed includendo anche i contratti di lavoro subordinato prima esclusi e quelli di lavoro autonomo, anche diversi dal contratto di lavoro a progetto4, ma precludendo inavvertitamente la certificabilità di contratti non «di lavoro», come la somministrazione di lavoro e la stessa associazione in partecipazione, originariamente contemplata, e con dubbi residui sulla certificabilità dei contratti di collaborazione autonoma particolari, diversi dal contratto d’opera, disciplinati dal titolo IV del codice civile. Da ultimo, la l. n. 183/2010 ha completato l’opera di espansione, riferendo l’istituto a «qualsiasi tipo di contratto in cui sia dedotta, direttamente o indirettamente, una prestazione di lavoro»: quindi, oltre che la somministrazione di lavoro e l’associazione in partecipazione con apporto di lavoro, anche la società di persone con conferimento di attività lavorativa (artt. 2247, 2263, co. 2, 2286 co. 2, c.c.), la prestazione accessoria del socio di una società di capitali (artt. 2342, co. 5 e 2345 c.c.), e tutti i contratti di collaborazione autonoma facenti capo dogmaticamente5 alla figura del contratto d’opera.
1.1 L’incerto confine tra la funzione qualificatoria e l’interpretazione delle clausole
Quanto alla funzione, alla previsione originaria secondo cui la finalità dell’istituto era quella di «ridurre il contenzioso in materia di qualificazione dei contratti di lavoro», ne è subentrata, con la l. n. 183/2010, una più ampia, ma anche più generica, che assorbe la funzione giuridica della certificazione interamente nella finalità di ridurre il «contenzioso in materia di lavoro». La norma va letta alla luce di una ulteriore novella, introdotta anch’essa dalla l. n. 183/2010, secondo cui «nella qualificazione del contratto di lavoro e nell’interpretazione delle relative clausole il giudice non può discostarsi dalle valutazioni delle parti, espresse in sede di certificazione dei contratti di lavoro». Ne scaturisce il dubbio che la certificazione dei contratti di lavoro possa riguardare, oggi, non più solo la loro «qualificazione», ma altresì la «interpretazione» delle clausole del contratto di lavoro: con tutte le perplessità che ne seguono, a cominciare dalla stessa possibilità teorica di concepire una «certificazione» che non abbia ad oggetto la riconduzione della volontà contrattuale ad un determinato tipo negoziale (la «qualificazione» del contratto, appunto), ma la stessa volontà contrattuale, ossia l’insieme dei fatti voluti dalle parti e dai quali scaturisce, in una fase logicamente successiva, la loro qualificazione6. Nulla aggiunge, poi, alla problematica di cui sopra, l’ulteriore novella dell’art. 79 del d.lgs. n. 276/2003, pure introdotta dal comma 17 dell’art. 31 l. n. 183/2010, secondo cui «gli effetti dell’accertamento dell’organo preposto alla certificazione del contratto di lavoro, nel caso di contratti in corso di esecuzione, si producono dal momento di inizio del contratto, ove la commissione abbia appurato che l’attuazione del medesimo è stata, anche nel periodo precedente alla propria attività istruttoria, coerente con quanto appurato in tale sede». Questa previsione, a ben vedere, è superflua, perché la qualificazione di un contratto presuppone, appunto, la ricognizione e interpretazione della volontà contrattuale, espressa dalle parti sia per iscritto (ove uno scritto vi sia, oppure ove debba necessariamente esserci, in caso di contratto a forma vincolata), sia in forma non scritta, e quindi, tipicamente, attraverso la stessa esecuzione del contratto7. Semmai, desta perplessità il riferimento a una «attività istruttoria» che non si vede come le commissioni di certificazione possano operare, considerato che «non sono dotate di poteri istruttori né dispongono di risorse per effettuare indagini o assumere prove in ordine al concreto svolgimento del rapporto di lavoro »8. Gli ultimi interventi normativi, insomma, se sono abbastanza intelligibili quanto alla generica intenzione di potenziare l’istituto fino a farne il perno di un nuovo paradigma regolativo del diritto del lavoro, lo sono molto meno se misurati col metro dell’analisi giuridica.
1.2 «Disponibilità assistita», «assistenza alle parti contrattuali», «derogabilità assistita»
E sì che la situazione – come s’è detto – non era affatto chiara fin dall’inizio, ché fin dall’inizio, alla funzione «qualificatoria» si aggiungeva una pluralità di altre funzioni, non ben distinte dalla prima. La meno problematica, tra tali funzioni ulteriori, era quella che chiameremo di «disponibilità assistita». Si tratta dell’assistenza alle parti (al lavoratore) nella stipulazione di negozi di disposizione di diritti derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti collettivi di lavoro (artt. 82 e 68 d.lgs. n. 276/2003); una funzione già forte di una consolidata tradizione, radicata nell’art. 2113 c.c., e rispetto alla quale la novità consiste semplicemente nell’aggiungere gli organismi di certificazione (v. § 2.2) a quelli già abilitati alla stregua della normativa vigente. Di agevole comprensione sarebbe altresì la funzione di «consulenza e assistenza alle parti contrattuali … in relazione alla stipulazione del contratto di lavoro e del relativo programma negoziale », contemplata dall’art. 81 d.lgs. n. 276/2003, se non fosse per l’inciso finale che così recita: «con particolare riferimento alla disponibilità dei diritti»; inciso che, riferito alla fase genetica del rapporto – quando non esiste alcun diritto di cui disporre, ma solo una disciplina (legale o negoziale) da determinare e applicare – , contiene già in sé un grave equivoco. Emerge qui uno dei punti più problematici dell’istituto in parola, tuttora irrisolto: se, cioè, alla certificazione dei contratti di lavoro possa assegnarsi altresì l’obiettivo di abilitare le parti, ove assistite dall’organismo di certificazione, a derogare a norme lavoristiche di fonte contrattuale collettiva o addirittura legale; una funzione che è lecito chiamare di «derogabilità assistita»9. Nel d.lgs. n. 276/2003, oltre al già citato inciso finale dell’art. 81, si deve menzionare l’art. 78, co. 4, che rimette a un decreto ministeriale da emanare entro 6 mesi (ma ad oggi non emanato), l’adozione di «codici di buone pratiche per l’individuazione delle clausole indisponibili in sede di certificazione dei rapporti di lavoro», che «recepiscono … le indicazioni contenute negli accordi interconfederali»10. La l. n. 183/2010 incrocia questo latente profilo funzionale della certificazione (quello «derogatorio») in più punti, sia pure con la già segnalata ambiguità sistematica. Tale profilo trapela ambiguamente nella previsione secondo cui «nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento, il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei … contratti individuali di lavoro ove stipulati con l’assistenza e la consulenza delle commissioni di certificazione»11. Ci si è chiesti, infatti – ma risolvendo la questione in senso negativo – se in tal modo il legislatore abbia voluto abilitare il contratto certificato a derogare in peius alle nozioni legali di giusta causa e di giustificato motivo soggettivo di licenziamento12. Ma, soprattutto, la valenza derogatoria della certificazione pare emergere con maggiore chiarezza, benché in maniera indiretta, nel contesto della nuova disciplina dell’arbitrato irrituale in materia di lavoro13, laddove il legislatore, dopo aver previsto che «in relazione alle materie di cui all’articolo 409 del codice di procedura civile, le parti contrattuali possono pattuire clausole compromissorie di cui all’articolo 808 del codice di procedura civile che rinviano alle modalità di espletamento dell’arbitrato di cui agli articoli 412 e 412 quater del codice di procedura civile14», introduce la condizione che «la clausola compromissoria, a pena di nullità», debba «essere certificata in base alle disposizioni di cui al titolo VIII del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, dagli organi di certificazione di cui all’articolo 76 del medesimo decreto legislativo ... Le commissioni di certificazione accertano, all’atto della sottoscrizione della clausola compromissoria, la effettiva volontà delle parti di devolvere ad arbitri le eventuali controversie nascenti dal rapporto di lavoro». Orbene, se si collega tale previsione con quella che ammette l’arbitrato irrituale di equità nelle controversie di lavoro15, si profila un chiaro tentativo di rendere le norme inderogabili semi-imperative, attraverso la via dell’arbitrato di equità, instaurato in attuazione di una clausola compromissoria legittimata dal contratto certificato: un tentativo giudicato, in dottrina, alla stregua di una «legittima scelta discrezionale del legislatore» da taluni16 e come una «liaison dangereuse» tra «certificazione dei contratti di lavoro e arbitrato» da altri17.
Possono ora passarsi in rassegna le questioni più importanti che pone l’istituto della certificazione dei contratti di lavoro.
2.1 La certificazione qualificatoria come presupposto del regime delle impugnazioni
Al di là delle plurime finalità confusamente attribuire alla certificazione dei contratti di lavoro, la funzione tipica dell’istituto, desumibile dal suo assetto regolativo, sembra essere quella qualificatoria. Basti, per convincersene, richiamare la disciplina delle impugnazioni dell’atto di certificazione contenuta nell’art. 80. Ivi si prevede che l’atto di certificazione possa essere impugnato, davanti al giudice del lavoro (oltre che per «vizi della volontà»18), solo per «erronea qualificazione del programma negoziale», oppure per «difformità tra il programma negoziale effettivamente realizzato» e quello «concordato in sede di certificazione». Come tale regime impugnatorio possa applicarsi a una certificazione che non abbia ad oggetto la qualificazione del contratto, resta del tutto oscuro, soprattutto ove si ponga mente all’impugnazione per erronea qualificazione del contratto, o per difformità tra il programma negoziale certificato e la sua successiva attuazione. Resterebbe la sola impugnazione per vizio della volontà, che però nulla aggiunge a quanto già esperibile iure communi, e quella avanti al giudice amministrativo, di cui si dirà più avanti. L’impressione che ne residua, è che il legislatore sia solo riuscito ad articolare frammenti semantici di una ratio legislativa che non è riuscita a tradursi in norme precise e cogenti. Del coacervo normativo orami accumulatosi attorno all’istituto in parola, pare che la sola certificazione con funzione qualificatoria possa ritenersi dotata di una fisionomia sufficientemente precisa, sì da poterne ipotizzare una qualche operatività ed efficacia, sul piano tecnico-giuridico tutta da verificare rimanendo, peraltro, la sua capacità di impattare, e con i risultati voluti (la riduzione del contenzioso in materia di lavoro), sulla disciplina del mercato del lavoro. Concentreremo quindi la nostra attenzione, nella restante parte di questo saggio, sulla sola certificazione qualificatoria, mentre dedicheremo brevi considerazioni finali alla certificazione della clausola compromissoria arbitrale: l’unica, tra le versioni «extra- tipiche» della certificazione, che ci sembra, allo stato attuale della legislazione, fornita di sufficiente intelligibilità sotto il profilo giuridico e nel contempo degna di interesse sotto il profilo applicativo.
2.2 Gli organi della certificazione
La certificazione qualificatoria consiste, nella sua essenza, in una speciale imputazione soggettiva dell’operazione qualificatoria. L’«operazione logica» con cui l’‘interprete afferma o nega la riconducibilità’ di un concreto contratto «a un determinato tipo contrattuale», conseguentemente stabilendo «se al contratto sia applicabile la disciplina di qualche tipo, e se sì, di quale tipo»19, viene imputata infatti, con effetti provvisoriamente vincolanti, ad appositi organi amministrativi. Nell’individuare tali organi amministrativi, il legislatore si è ispirato a un disegno pluralistico e policentrico. A soggetti dotati di legittimazione politico-amministrativa, quali le Provincie e le Direzioni provinciali del lavoro, si affiancano soggetti portatori di una legittimazione «sindacale», gli «enti bilaterali», come definiti dall’art. 2, lett. h), e soggetti che sono invece portatori di una legittimazione «tecnica»20, le «università pubbliche e private, comprese le fondazioni universitarie»21 . L’individuazione degli organi «politici» abilitati alla certificazione appare ispirata alla massima larghezza. Il generico riferimento, operato dall’art. 5, co. 1, lett. b), della legge delega n. 30/2003, alle «strutture pubbliche aventi competenze in materia», è stato salomonicamente tradotto (art. 76, co. 1, lett. b) nella attribuzione della competenza certificatoria sia alle Province che alle Direzioni provinciali del lavoro22 . Peraltro, riconducendo implicitamente il potere certificatorio attribuito alle Province all’ambito della legislazione esclusiva dello Stato, la legge ha assoggettato l’istituzione delle commissioni di certificazione presso entrambi i suddetti organi di governo del mercato del lavoro alla disciplina stabilita «da apposito decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali»23. Anche la iniziale limitazione della competenza certificatoria dell’«atto di deposito del regolamento interno delle cooperative riguardante la tipologia dei rapporti di lavoro attuati o che si intendono attuare … con i soci lavoratori», alle sole Province (nell’ambito di specifiche commissioni dotate di una peculiare rappresentatività sociale-sindacale), è stata superata dalla l. n. 183/201024 . L’inclusione degli «enti bilaterali» tra i soggetti legittimati a istituire commissioni di certificazione dei contratti di lavoro non meritava e non merita le critiche inizialmente piovute su tali organismi da settori importanti della dottrina25. L’istituzione e l’operatività delle commissioni di certificazione presso gli enti bilaterali si conformano al principio di libertà sindacale e pertanto le modalità costitutive e di funzionamento delle commissioni in parola sono demandate all’autonomia collettiva, alla quale è pure rimessa la scelta se istituire commissioni con competenza territorialmente limitata ovvero nazionale, a seconda dell’ambito di riferimento del relativo ente bilaterale, come pure quella di offrire i propri uffici a chiunque, ovvero limitarli – come la legge prevede – agli aderenti alle «rispettive26 associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro»27. Quanto alle prospettive di sviluppo di questo canale certificatorio, ci sembra che esse siano strettamente legate allo sviluppo effettivo dell’arbitrato, come riformato a seguito della l. n. 183/2010. Infatti, l’istituzione concomitante di commissioni di certificazione in seno agli enti bilaterali e di collegi sindacali di conciliazione e arbitrato ai sensi del novellato art. 412 ter c.p.c., ovvero di camere arbitrali secondo il disposto dell’art. 31, co. 12, l. n. 183/2010, potrebbe aprire spazi reali e collettivamente governati di innovazione nella regolazione del lavoro, anche sul piano della flessibilizzazione del rapporto tra norma inderogabile e autonomia individuale. In particolare, si potrebbero profilare ipotesi di derogabilità individuale «certificata», previste dalla stessa contrattazione collettiva, una sorta di replica a livello individuale delle clausole di apertura già sperimentate nel rapporto tra contrattazione nazionale e decentrata e da ultimo avallate dall’accordo interconfederale del giugno 2011. Ulteriore tipologia di organismo certificatorio contemplata dal legislatore è quella delle commissioni di certificazione istituite presso «università pubbliche e private, comprese le fondazioni universitarie ». Queste possono «abilitarsi» all’uopo mediante «registrazione » in un «apposito albo», da istituirsi a opera del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con quello dell’istruzione dell’università e della ricerca28 . Le funzioni certificatorie potranno svolgersi «nell’ambito di rapporti di collaborazione e consulenza attivati con docenti di diritto del lavoro di ruolo». In merito a tale canale certificatorio, se per un verso possono in parte condividersi le preoccupazioni circa il profilarsi di situazioni di conflitto d’interessi, soprattutto con riferimento alle attività professionali-forensi e consulenziali sovente, e anzi normalmente svolte dai docenti-certificatori29, per l’altro va osservato che il ruolo della certificazione «accademica» può essere meglio inteso se collocato sullo sfondo della filosofia ispiratrice dell’istituto, la quale va a nostro avviso colta nella valorizzazione del cd. «metodo tipologico» e dunque nella fiducia (o scommessa?) che dalla «prassi», rilevata e mediata da soggetti muniti di legittimazione indifferentemente istituzionale, sindacale o scientifica, possano sorgere nuovi «indici» utili alle operazioni qualificatorie. A quelli sopra menzionati, previsti dal testo originario del d.lgs. n. 276/2003, l’art. 1, co. 256, l. n. 256/2005 ha aggiunto due ulteriori organismi di certificazione, aggiungendo all’art. 76, co. 1, le lettere c) bis e c) ter, che, rispettivamente, prevedono l’istituzione di una commissione di certificazione presso «il Ministero del lavoro e delle politiche sociali – Direzione generale della tutela delle condizioni di lavoro; e presso «i consigli provinciali dei consulenti del lavoro di cui alla legge 11 gennaio 1979, n. 12»30. La consapevolezza dei rischi insiti in un assetto così sfilacciato degli organismi di certificazione ha indotto il legislatore a prevedere, dapprima, nello stesso d.lgs. n. 276/2003, che le «commissioni istituite ai sensi dei commi che precedono» (tutte, quindi, e non solo quelle «disciplinate» dal d.m. 21.7.2004) possano «concludere convenzioni con le quali prevedano la costituzione di una commissione unitaria di certificazione» (art. 76, co. 3); e successivamente, in sede di riforma dei servizi ispettivi del lavoro, a stabilire addirittura che «la Direzione provinciale del lavoro », «sulla base di direttive del Ministro del lavoro e delle politiche sociali», possa dettare «i criteri volti a uniformare l’azione dei vari soggetti abilitati alla certificazione dei rapporti di lavoro»31. Infine, a conferma del rilievo che il problema dell’assetto organizzativo degli organismi certificatori assume agli occhi del legislatore, anche e soprattutto alla luce delle competenze da ultimo loro attribuite in materia arbitrale, l’art. 31, co. 12, l. n. 183/2010 ha previsto che «le commissioni di cui al citato articolo 76 … possono concludere convenzioni con le quali prevedano la costituzione di camere arbitrali unitarie».
2.3 Natura ed efficacia giuridica dell’atto di certificazione
Fin dai primi commenti dottrinali si è affermata la tesi secondo cui l’atto di certificazione sarebbe un atto amministrativo, riconducibile alla figura della «certazione amministrativa»32, emanabile su domanda congiunta delle parti del contratto da certificare33. Le certazioni si differenziano dai meri accertamenti, «in quanto non si limitano ad attribuire una qualità giuridica ad altra entità giuridica esistente»34, «bensì creano esse stesse delle qualificazioni giuridiche»35. Tuttavia, non va dimenticato che la sostanza della certificazione dei contratti di lavoro è quella della riconduzione del contratto a un determinato tipo negoziale, con l’unica particolarità che, pur non essendo compiuta da un organo giurisdizionale, essa s’impone coi caratteri della «certezza legale» fino all’accertamento giudiziale contrario (v. § 3.1). Sorge allora il dubbio che la riconduzione alla categoria delle certazioni amministrative sia frutto di un equivoco tra la qualificazione intesa come «immissione nel mondo giuridico di una nuova realtà giuridica imponendone l’uso a tutti» e la qualificazione intesa come riconduzione della fattispecie concreta a quella astratta prevista da una norma e dunque, in ultima analisi, come individuazione della disciplina giuridica applicabile. Nel caso della certificazione dei contratti di lavoro, infatti, la «certezza pubblica » non è riferita né all’accertamento di una preesistente qualità (come nel caso degli esami, delle verificazioni, delle collaudazioni), né all’accertamento di una nuova realtà giuridica prima inesistente (come, per esempio, nel caso delle dichiarazioni di acquisto e perdita della cittadinanza, della natura di bene d’interesse culturale e artistico di una cosa, dello stato di sana e robusta costituzione fisica di una persona), bensì alla valutazione compiuta dall’organo certificante in ordine alla qualificazione giuridica di una fattispecie negoziale e dunque alla individuazione del diritto oggettivo ad essa applicabile36. Nella «certificazione del contratto di lavoro» non si attribuisce al contratto alcuna qualità che esso non abbia già, per così dire, «in sé»; piuttosto, si attribuisce certezza legale (reversibile) alla qualificazione giuridica (ossia all’operazione di riconduzione di un fatto concreto a una fattispecie astratta) provvisoriamente operata da un organo non giurisdizionale37. Può dirsi, conclusivamente, che quello di certificazione sia un atto amministrativo complesso, comprensivo di una dichiarazione di scienza riferita alla «dichiarazione delle parti di porre in essere un rapporto di lavoro con determinate caratteristiche», e di una «manifestazione di giudizio» circa la qualificazione giuridica del rapporto38. A quest’atto la legge conferisce un «effetto preclusivo», consistente nell’«eliminazione di un possibile conflitto di apprezzamenti intorno a una realtà giuridica passata»39. In conclusione ed in sintesi: non si tratta di produrre una qualità giuridica di un atto (nella fattispecie, un contratto di lavoro), ma di dare certezza alla qualificazione di quell’atto. Senonché, l’unica qualificazione certa e stabile, in un ordinamento di diritto, è quella giudiziale; e pertanto la certificazione amministrativa dei contratti di lavoro non può che essere interinale e succedanea, destinata a fornire certezze fino alla qualificazione giudiziale: una sorta di presunzione relativa di qualificazione. È questa anche la ragione per cui la certificazione dei contratti di lavoro non è imputabile alle parti. Una qualificazione convenzionale – così come un arbitrato libero sulla controversia qualificatoria40– avrebbe in realtà a oggetto la disposizione dei diritti delle parti, attraverso un’attività solo nominalmente di natura qualificatoria, ma in realtà dispositivo-derogatoria.
Il regime delle impugnazioni è la vera chiave di volta per la comprensione dell’istituto. L’esatto inquadramento della sua funzione qualificatoria consente di sgombrare il campo da alcuni equivoci concettuali.
3.1 Il regime di impugnazione dell’atto di certificazione
Per la ragione sopra esposta – prima ancora che per la cd. «indisponibilità del tipo legale» in materia di lavoro, affermata dalla Corte costituzionale41 – l’effetto caratterizzante della certificazione del contratto di lavoro non può essere collocato sul piano di una ipotetica alternativa alla giurisdizione, bensì, pragmaticamente, sul piano della speciale «stabilità» di cui gode la qualificazione del contratto fino all’eventuale difforme accertamento giudiziale. Ciò spiega il drastico ridimensionamento del grado di «immunità giudiziaria » che originariamente si era immaginato di attribuire all’istituto. Si è passati, infatti, dalla non impugnabilità del contratto certificato, «se non per vizi del consenso»42; alla non impugnabilità, «se non in caso di erronea qualificazione del programma negoziale … e di difformità tra il programma negoziale effettivamente realizzato» e quello «concordato in sede di certificazione», alla stregua della legge delega (art. 5, co. 1, lett. e); per giungere, con l’art. 80 del decreto delegato, alla impugnabilità, oltre che in tutte le ipotesi previste sia dal «progetto» del 1998 che dalla legge delega43, anche per «violazione del procedimento» e per «eccesso di potere», dinanzi al giudice amministrativo; e con salvezza, comunque, dei procedimenti cautelari. Ma sui cennati rimedi giudiziali va fatta chiarezza, in primis, sotto il profilo concettuale. Innanzi tutto, se l’atto di certificazione consiste nell’operazione logico-giuridica di qualificazione del contratto, allora tale operazione non è suscettibile di «errore» inteso come vizio della volontà (né delle parti, né dei certificatori), bensì di «erroneità», intesa come disapplicazione o errata applicazione delle norme giuridiche che definiscono il contratto e ne dettano la disciplina giuridica. L’impugnazione per erroneità della qualificazione, insomma, è un’ordinaria azione di accertamento della natura giuridica del rapporto, che presuppone una cognizione, con conseguente potere di disapplicazione, dell’atto amministrativo illegittimo. Il giudice del lavoro disapplica l’errata (più che «erronea») certificazione perché illegittima, e conseguentemente (ri)qualifica il rapporto privatistico44. Ne consegue che l’«erronea qualificazione del contratto» di cui al primo comma dell’art. 80 non va confusa con l’errore di diritto di cui all’art. 1429 c.c. e allo stesso art. 80, co. 1, secondo periodo, d.lgs. n. 276/200345; e pertanto, mentre l’impugnazione per erroneità della qualificazione ha ad oggetto l’atto di certificazione e coinvolge l’organo di certificazione, quella per «vizi della volontà» ha ad oggetto il contratto in sé e coinvolge le parti del medesimo. D’altro canto, se la predetta erroneità consiste nella violazione di norme di legge sulla interpretazione e qualificazione dei contratti, ben si spiega perché il legislatore abbia ammesso l’impugnazione avanti al giudice amministrativo solo «per violazione del procedimento o per eccesso di potere»46, escludendo la «violazione di legge». Quanto all’impugnazione per «difformità tra il programma negoziale certificato e la sua successiva attuazione», questa, oltre ad essere anch’essa un’ordinaria azione di accertamento della natura giuridica del rapporto, non presuppone nemmeno una cognizione dell’accertamento amministrativo, poiché nessun accertamento può essere intervenuto sui fatti sopravvenuti (che integrano una novazione oggettiva del contratto di lavoro). L’impugnazione giudiziale, tuttavia, è resa necessaria dalla previsione secondo cui gli effetti della certificazione «permangono fino al momento in cui sia stato accolto con sentenza di merito … uno dei ricorsi giurisdizionali». In altre parole, serve per restituire ai terzi, e segnatamente agli enti previdenziali, quel potere di agire in via imperativa ed esecutoria a tutela dei propri crediti contributivi, che la certificazione gli ha interinalmente inibito, anche nelle ipotesi in cui il giudizio qualificatorio sia riferito a fatti che non sono stati posti a base della certificazione. Sicché parrebbe corretto qualificare tale ricorso non propriamente come un’impugnazione (che presuppone un vizio dell’atto impugnato), ma come un’azione intesa a privare la certificazione dell’effetto preclusivo attribuitole dall’art. 79, con dubbi più che legittimi circa la razionalità e la conformità al principio costituzionale del buon andamento della pubblica amministrazione, della descritta normativa47 . Un altro punto su cui da tempo si affastellano (anche in dottrina) equivoci è quello attinente alla presunta «efficacia probatoria» della certificazione. Muovendo dall’errato presupposto che la certificazione del contratto di lavoro abbia ad oggetto la fattispecie negoziale (i fatti voluti dalle parti) e non la sua (interpretazione e) qualificazione, si coltiva l’idea di creare una serie di sbarramenti – una sorta di «imbuto», si è detto – che rendano più difficile provare una volontà diversa da quella certificata e più costoso sul piano delle spese processuali intentare cause di lavoro dirette a smentire la certificazione, quando queste si rivelino infondate. Il legislatore delegato, restringendo opportunamente l’ambito delle opzioni rese disponibili dalla delega, ha confinato la rilevanza del «comportamento complessivo tenuto dalle parti in sede di certificazione del rapporto di lavoro» al piano della mera ripartizione delle spese processuali (artt. 91, 92, 96 c.p.c.), rendendolo irrilevante ai fini della prova dei fatti costitutivi della domanda, cioè ai fini del merito del giudizio. Certo, può darsi che quel che le parti hanno voluto davanti al certificatore non fosse ab initio conforme alla loro volontà reale (simulazione), oppure che la difformità sia sopravvenuta (novazione). Ma in tal caso di nessun ausilio potranno essere per il giudice – alle prese con il problema di raggiungere la prova della volontà reale onde poi riqualificare il contratto – le dichiarazioni e i comportamenti delle parti in sede di certificazione, poiché nel caso di simulazione ab initio si tratterà di qualificare il contratto in base alle dichiarazioni e ai comportamenti effettivi e non a quelli simulati; e nel caso di novazione, si tratterà di individuare il contenuto dell’accordo novativo (o, per usare l’espressione in voga ma equivoca, di «accertare la realtà effettuale contro la volontà negoziale»), per definizione diverso da quello iniziale. Senonché, a ben vedere, il comportamento tenuto dalle parti in sede di certificazione è irrilevante anche ai fini delle spese processuali. Per rendersene conto, è sufficiente osservare che a esso non potrebbe riconoscersi alcun rilievo in caso di erroneità della qualificazione operata dai certificatori. In tal caso, infatti, non viene in considerazione nessun comportamento delle parti, essendo la qualificazione, e la sua erroneità, imputabili al certificatore. Resterebbe la possibilità di invocare quei comportamenti in caso di difformità tra il contratto certificato e quello effettivamente realizzato. In tal caso, infatti, il giudice potrebbe tener conto di quei comportamenti (per esempio, della condotta del datore di lavoro che non tiene fede al contratto certificato e impone alla volontà del lavoratore un diverso contratto), per accollare le spese alla parte che, per così dire, ha unilateralmente «cambiato idea». Una sorta di sanzione contro il datore di lavoro «in mala fede». Ma il dato normativo elimina anche questo possibile effetto pratico, poiché il terzo comma dell’art. 80 si riferisce testualmente alla condotta tenuta in sede di certificazione e non al di fuori di quella sede. In conclusione, pare di poter dire che la misura di cui all’art. 80, co 3, se riferita alla certificazione qualificatoria, è del tutto inutile.
3.2 L’efficacia della certificazione verso i terzi
A ben vedere, alcuni dei più rilevanti effetti pratici dell’istituto vanno ricercati su un piano diverso da quello della tenuta giudiziaria. Secondo la tesi ormai affermatasi48, sarebbe precluso alle autorità pubbliche di adottare «legittimamente atti amministrativi (ad esempio, ordinanze-ingiunzioni oppure provvedimenti di diniego dell’iscrizione alla gestione separata INPS per i collaboratori coordinati e continuativi oppure ancora semplici intimazioni a normalizzare la situazione lavorativa)» che si fondino su una qualificazione negoziale diversa da quella certificata49. Non ha trovato accoglimento la tesi secondo cui l’effetto provvisoriamente preclusivo rileverebbe sul piano dell’attuazione effettiva del diritto, inibendo non già il potere amministrativo, ma solo la sua esecutorietà50; o quella secondo cui l’atto di certificazione potrebbe essere contestato, dai terzi51, anche in via di eccezione o riconvenzionale nell’ambito di un giudizio già pendente52. In attesa di riscontri giurisprudenziali, non vale la pena insistere sul punto. È invece utile interrogarsi su quali possano essere le ulteriori implicazioni della tesi corrente e quali gli ulteriori effetti pratici della certificazione «qualificatoria» dei contratti di lavoro. Quanto all’effetto preclusivo nei confronti di accertamenti e provvedimenti degli enti previdenziali, assicurativi, degli organi periferici del Ministero del lavoro e dell’amministrazione finanziaria, va precisato, con l’INPS53, che la certificazione non blocca le attività ispettive di nessuno dei suddetti enti ed organi pubblici54; e che anzi, detti accertamenti ispettivi non si intendono perfezionati finché il giudizio impugnatorio non venga definito con sentenza favorevole all’ente ricorrente, con conseguente sospensione del termine di decadenza per l’iscrizione a ruolo, ex art. 25 d.lgs. n. 46/199955. Tuttavia, non può tacersi della direttiva del Ministero del lavoro, servizi ispettivi e attività di vigilanza, del 18.9.2008, con cui si invitano gli organi ispettivi a «concentrare l’accertamento ispettivo esclusivamente» sui contratti «che non siano già stati sottoposti al vaglio di una delle commissioni di certificazione di cui all’articolo 76 del decreto legislativo n. 276 del 2003, in quanto positivamente certificati o ancora in fase di valutazione, salvo che non si evinca con evidenza immediata e non controvertibile la palese incongruenza tra il contratto certificato e le modalità concrete di esecuzione del rapporto di lavoro». «I contratti certificati» – si aggiunge – «saranno oggetto di verifica ispettiva soltanto a seguito di richiesta di intervento del lavoratore interessato e sempreché sia fallito il preventivo tentativo di conciliazione monocratica». Non potrà trascurarsi l’effetto lenitivo che la certificazione potrà sortire sul regime sanzionatorio delle omissioni ed evasioni contributive, in caso di riqualificazione giudiziale per erroneità del giudizio qualificatorio. La certificazione giudizialmente annullata per erroneità della qualificazione, infatti, per un verso escluderà, almeno di norma, la ricorrenza della fattispecie evasiva, poiché non sarà configurabile «l’occultamento del rapporto» con «l’intenzione specifica di non versare i contributi o premi», di cui all’art. 116, co. 8, lett. b), l. n. 388/2000; e dall’altro renderà pressoché automaticamente operante la misura di favore per il contribuente, prevista dal comma 15 del medesimo articolo, che prevede la riduzione fino alla misura degli interessi legali, delle sanzioni civili per omessa contribuzione previdenziale, in caso di «rilevanti incertezze interpretative»: incertezze tra le quali si menzionano espressamente quelle derivanti da «contrastanti ovvero sopravvenut( e) … determinazioni amministrative sulla ricorrenza dell’obbligo contributivo successivamente riconosciuto in sede giurisdizionale o amministrativa»56. Infine, la certificazione può rilevare ai fini della fattispecie di cui all’art. 116, co. 20, l. n. 388/2000, che, superando le precedenti incertezze giurisprudenziali e dottrinali, introduce espressamente nel nostro ordinamento il principio dell’efficacia liberatoria del pagamento effettuato in buona fede a un ente previdenziale diverso da quello creditore57. Si pensi al versamento dei contributi previdenziali alla cd. «quarta gestione» INPS, in base a un contratto di lavoro certificato come «a progetto», ma poi riqualificato giudizialmente come contratto di lavoro subordinato alle dipendenze di un’impresa teatrale, con obbligo contributivo a favore dell’ENPALS58.
3.3 La certificazione tra diritto giurisprudenziale, flessibilizzazione delle fonti e giustizia privata
Il modello culturale di riferimento cui la riforma del 2003 intendeva ispirarsi era quello del realismo giuridico di stampo anglosassone. Nel «Libro bianco» dell’ottobre 2001 si auspica una «modernizzazione dell’ordinamento del lavoro», da realizzarsi «sul piano delle tecniche di regolazione» mercé il ricorso a strumenti importati dalla common law, «come ad esempio i codes of practices e, più in generale, le soft laws». «Una nuova gamma di strumenti regolatori che già sono in uso in Paesi con cui l’Italia si confronta nella competizione globale»59. Altrettanto chiara è la propensione culturale di questo legislatore – così com’era nota la vocazione comparatistica di Marco Biagi, padre, se non della riforma, certo del «Libro bianco»60 – per la contaminazione tra diritto e società (spinta forse fino all’atecnicismo e al prassismo regolativo, con il d.lgs. n. 276/2003). Una propensione culturale cui fa da pendant, al livello delle tecniche qualificatorie, il cd. «metodo tipologico» di interpretazione e qualificazione dei contratti, che, com’è noto, consente un processo di aggiornamento giurisprudenziale della nozione di subordinazione in base all’evoluzione dei modelli sociali61. È sull’interrelazione virtuosa col metodo «tipologico» che potrebbero, forse, giocarsi le fortune dell’esperimento della certificazione dei contratti di lavoro. In questo metodo, infatti, assume un rilievo centrale, ai fini delle operazioni qualificatorie, la prassi creatrice degli «indici » rivelatori del «tipo negoziale». E s’è già visto come vi sia traccia di ciò in più disposizioni del d.lgs. n. 276/2003: basti qui ricordare l’art. 78, co. 4 e 5, e l’art. 84, co. 2. La verità è che, nell’intento del legislatore, la certificazione non mira a sostituire l’attività interpretativo-sussuntiva del giudice con quella dei certificatori, bensì a individuare nuovi indici utili all’applicazione tipologica delle norme. Di qui sia la difficoltà dei giuristi a comprendere il senso della certificazione, sia la presenza, nel testo legislativo, di apparenti dissonanze, in realtà riconducibili all’adozione, da parte del legislatore, di linguaggi di volta in volta diversi, ispirati ora ai «concetti» giuridici, ora agli «indici tipologici». È esemplare, in proposito, l’apparente contrasto tra la norma che valorizza, nell’appalto, il dato di fattispecie della «reale organizzazione dei mezzi» (art. 84, co. 2) e quella che valorizza invece l’indice tipologico dell’«esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto» (art. 29). Analogamente accade con riferimento al lavoro coordinato, la cui fattispecie viene, dall’art. 61 d.lgs. n. 276/2003, ridefinita assumendo come elemento essenziale la sussistenza di un «progetto o programma o fase di esso», che è invece, semmai, un indice della natura autonoma e non subordinata del rapporto. Resta il dubbio, insomma, che l’importazione di una «strumentazione regolatoria» (per usare le parole del «Libro bianco») estranea al nostro sistema, prima che alla nostra cultura giuridica, abbia prodotto una sorta di corto circuito concettuale tra metodo tipologico e metodo sussuntivo, tra sistema giuridico e law in action, tra concetti e metodi della common law e della civil law. Il giudizio finale che ci pare di poter esprimere in proposito, allora, è che l’introduzione nel nostro ordinamento dell’istituto della certificazione (qualificatoria) dei contratti di lavoro sia un’operazione culturale, prima e più che tecnico-giuridica; e un’operazione ad altissimo rischio di fallimento. Il legislatore, con tutta probabilità, se n’è avveduto: e ciò spiega il tentativo tardivo di mutare la rotta, puntando sulla certificazione dispositiva e, soprattutto, su quella «derogatoria» (la «derogabilità assistita»). Il revirement non poteva, però, essere diretto e programmatico, perché una declinazione diretta e trasparente del tema della «derogabilità assistita» del diritto del lavoro si sarebbe scontrata con scontate resistenze sindacali (molto probabilmente di tutti i sindacati), oltre che dottrinali, culturali, forse giudiziarie. Il legislatore del 2010 ha pensato allora di affrontare il tema dal lato delle «alternative disputes resolution» (ADR), declinando congiuntamente l’arbitrato irrituale di equità con la clausola compromissoria «certificata». Il legislatore intende investire, in prospettiva, su una certificazione non meramente qualificatoria, ma atta a incidere sul sistema delle fonti regolative dei rapporti di lavoro. Ma è chiaro che la certificazione della clausola compromissoria poco ha a che vedere con l’istituto disciplinato dagli artt. 75 ss. d.lgs. n. 276/2003. Basta constatare in quali termini il comma 10 dell’art. 31 l. n. 183/2010 definisca lo scopo di tale certificazione: «le commissioni di certificazione accertano, all’atto della sottoscrizione della clausola compromissoria, la effettiva volontà delle parti di devolvere ad arbitri le eventuali controversie nascenti dal rapporto di lavoro». Si tratta, dunque, di verificare la genuinità della volontà espressa dalle parti (ossia, dalla parte debole del rapporto, il lavoratore), secondo uno schema assimilabile a quello dell’art. 2113, co. 4, c.c., più che a quello della qualificazione amministrativa del rapporto. Ma con la differenza, rispetto allo schema di cui all’art. 2113 c.c., che in quello schema viene in rilievo la volontà di disporre di diritti maturati, mentre la «certificazione» (ma sarebbe meglio dire «la stipulazione assistita») della clausola compromissoria riguarda controversie, e quindi situazioni giuridiche, future, e quindi ipotesi di «derogabilità», più che di disponibilità, «assistita». Del resto, non è detto che questa non possa essere la via giusta per portare l’istituto fuori dalle secche in cui si è impantanato fin dall’inizio. La via potrà rivelarsi giusta, a condizione che incroci, e non impatti contro, l’autonomia collettiva. Ciò potrà accadere, se verrà intrapresa con convinzione, dalla stessa autonomia collettiva, la strada della derogabilità assistita dei contratti collettivi di lavoro: si realizzerebbe così una sorta di «canale individuale», collettivamente governato e assistito tramite certificazione del decentramento e della flessibilizzazione delle fonti di regolazione dei rapporti di lavoro.
1 Per una ricostruzione di entrambi, v. Tursi, La certificazione dei contratti di lavoro, in Magnani– Varesi (a cura di), Organizzazione del mercato del lavoro e tipologie contrattuali, Torino, 2005, § 2.
2 A difesa dell’istituto, Tiraboschi, Nuova tutele sul mercato: le procedure di certificazione, in Aa. Vv., La riforma Biagi del mercato del lavoro, Milano, 2004. Tra i critici più equilibrati, v. Nogler, La certificazione dei contratti di lavoro, C.S.D.L.E. «Massimo D’Antona », wp n. 23/2003, inwww.lex.unict.it
3 V., per tutti, De Angelis, Certificazione dei rapporti di lavoro e poteri del giudice: quale deflazione del contenzioso?, in De Luca Tamajo-Rusciano-Zoppoli (a cura di), Mercato del lavoro riforma e vincoli di sistema, Napoli, 2004, 296; Speziale, La certificazione dei rapporti di lavoro nella legge delega sul mercato del lavoro, in Riv. giur. lav., 2003, I, 271 ss.
4 E quindi le collaborazioni coordinate e continuative senza progetto, ex art. 61, co. 2 e 3, d.lgs. n. 276/2003; il contratto di agenzia; il contratto d’opera (art. 2222 c.c.), anche intellettuale (artt. 2230 ss.).
5 Ma non sistematicamente: ché, nella sistematica del codice civile, quella di cui agli artt. 2222 ss. c.c. è figura residuale rispetto agli altri contratti di collaborazione autonoma di cui al libro IV dello stesso codice (agenzia, mandato, trasporto, commissione, spedizione, mediazione, deposito) o extracodicistici (ad esempio: affiliazione commerciale o franchising; engineering). V. Perulli, Il lavoro autonomo: contratto d’opera e professioni intellettuali, in Tratt. Cicu Messineo, Milano, 1996, 58 ss.
6 Per una interpretazione sostanzialmente «abrogante», secondo cui la norma non farebbe che confermare la regola secondo cui «per determinare la comune intenzione delle parti, si deve valutare il loro comportamento complessivo» (art. 1362 c.c.), v. Carinci, Clausole generali, certificazione, e limiti al sindacato del giudice, in Mazzotta (a cura di), Il diritto del lavoro dopo il «collegato», Montecastrilli, 2010, 31-32. Per una tesi appena più generosa, secondo cui la norma avrebbe inteso valorizzare il canone dell’interpretazione letterale, rispetto a quelli oggettivi e meta-letterale, v. De Angelis, Collegato lavoro 2010 e diritto processuale, in Lav. giur., 2010, 160 ss.
7 L’ultimo periodo della disposizione in parola aggiunge poi la previsione che «In caso di contratti non ancora sottoscritti dalle parti, gli effetti si producono soltanto ove e nel momento in cui queste ultime provvedano a sottoscriverli, con le eventuali integrazioni e modifiche suggerite dalla commissione adita». Anche questa norma è di difficile comprensione, considerato, per un verso, che il contratto di lavoro da certificare può non essere a forma vincolata e, per l’altro, che nel periodo precedente si riconosce invece l’efficacia della certificazione dal momento di inizio del contratto. L’unica interpretazione possibile ci sembra la seguente: la redazione scritta e sottoscritta del contratto da certificare è una condizione (non certo per la sua validità o prova, ove la forma scritta non sia connaturata al tipo di contratto stipulato, ma) legale per ottenerne la certificazione; indipendentemente dall’esistenza di un iniziale contratto scritto, se il contratto di lavoro ha già avuto esecuzione, l’efficacia della certificazione si produce dall’inizio del contratto, alle condizioni sopra illustrate; se invece l’esecuzione del contratto non è ancora iniziata, quale che sia la data del contratto scritto eventualmente già stipulato, l’efficacia della certificazione decorre dal momento della certificazione.
8 Lo osserva Carinci, Clausole generali, certificazione, cit., 30, nt. 42.
9 L’avvio del dibattito sul punto può farsi risalire a Vallebona, Norme inderogabili e certezza del diritto: prospettive per la volontà assistita, in Dir. Lav., 1992, 479 ss.; Id., L’incertezza del diritto del lavoro ed i necessari rimedi, Riv. it. dir. lav, 2004, I, 3 ss. Successivamente, v., in particolare Garofalo, La legge delega sul mercato del lavoro: prime osservazioni, in Riv. giur. lav., 2003, I, 376; Nogler, La certificazione dei contratti di lavoro, cit., spec., § 6; Tursi, La volontà assistita nel. D. lgs. n. 276/2003, in Dir. rel. ind, 2004, II, 247 ss.; Bellavista, La derogabilità assistita nel d.lgs. n. 276/2003, C.S.D.L.E. «Massimo d’Antona», wp n. 35/2004.
10 Alla funzione qualificatoria, invece, va ricondotta la previsione di cui all’art. 78, co. 5, che fa riferimento ad «appositi moduli e formulari per la certificazione del contratto o del relativo programma negoziale, che tengano conto degli orientamenti giurisprudenziali prevalenti in materia di qualificazione del contratto di lavoro, come autonomo o subordinato, in relazione alle diverse tipologie di lavoro».
11 Inoltre, «Nel definire le conseguenze da riconnettere al licenziamento ai sensi dell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni, il giudice tiene egualmente conto di elementi e di parametri fissati dai predetti contratti».
12 Carinci, Clausole generali, certificazione e limiti, cit., 22 ss.
13 Art. 31, co. 10, l. n. 183/2010.
14 Ma solo «ove ciò sia previsto da accordi interconfederali o contratti collettivi di lavoro stipulati dalle organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale».
15 V. gli artt. 412, co. 2, n. 2 e 412 quater, co. 4, c.p.c., come modificati rispettivamente dai co. 5 e 8 dell’art. 31 l. n. 183/2010, disposizioni alle quali il co. 10 dello stesso art. 31 rinvia, nel disciplinare la clausola compromissoria.
16 Vallebona, Intervento alla Tavola rotonda tenuta presso il CNEL il 23.4.2010, in Aa. Vv., Per una tutela effettiva dei diritti dei lavoratori, in Riv. giur. lav., 2010, I, 378.
17 Zoppoli, Certificazione dei contratti di lavoro e arbitrato: le liaisons dangereuses, C.S.D.L.E. «Massimo D’Antona», wp n. 102/2010, in www.lex.unict.it/eurolabor/ ricerca/presentazione, spec. § 9 e 10.
18 Ma ciò concerne un profilo estraneo all’atto di certificazione e proprio invece del contratto certificato, quale atto di autonomia negoziale.
19 Roppo, Il contratto, Milano, 2001, 429 ss.
20 Per questa terminologia, v. Garofalo, La certificazione dei rapporti di lavoro, cit., 429.
21 Benché tale giudizio vada parzialmente corretto ove si consideri il ruolo attivo che in materia di mercato del lavoro è riconosciuto alle Università, quali soggetti sia autorizzati allo svolgimento di attività di intermediazione, sia accreditabili dalle Regioni quali erogatori di «servizi al lavoro» (v. gli artt. 6, co. 1, 7, e 2, lett. e) ed f), d.lgs. n. 276/2003).
22 Per un approfondimento in merito all’inquadramento della certificazione nel nuovo assetto federalista dei poteri legislativi e delle funzioni amministrative, v. Nogler, La certificazione dei contratti di lavoro, cit., § 7.
23 Si tratta del d.m. lavoro 21.7.2004, seguito dalla circolare n. 48/2004.
24 Che ha abrogato il comma 2 dell’art. 83 d. lgs. n. 276/2003.
25 V., per esempio, Garofalo, La certificazione, cit., 429; Pizzoferrato, Giustizia privata del lavoro, cit., 206. Ma contra, Nogler, La certificazione, cit., § 13; Ghera, La certificazione dei contratti di lavoro, in De Luca Tamajo-Rusciano-Zoppoli, Mercato del lavoro. Riforma e vincoli di sistema, 2004, 277 ss. V. pure, sostanzialmente, Speziale, La certificazione, cit., 281; Id., Gli organi abilitati alla certificazione, in Carinci (coordinato da), Commentario al D.Lgs. n. 276/2003, cit., IV, 164.
26 Termine non interpretabile, a nostro avviso, in maniera restrittiva, riferendolo alla «categoria organizzata dalle associazioni di riferimento» (così, Garofalo, La certificazione, cit., 430), per la semplice ragione che potrebbero esistere diversi enti bilaterali, e diverse commissioni di certificazione, per la medesima «categoria».
27 Diversamente dalle commissioni di estrazione burocratica (istituite presso le DPL e le Provincie), la cui competenza territoriale è direttamente individuata, sulla falsariga dell’art. 413 c.p.c., dal luogo in cui «si trova l’azienda o una sua dipendenza alla quale sarà addetto il lavoratore ».
28 È stato emanato a tal fine il d.m. 14.6.2004. L’abilitazione può avvenire e perpetuarsi a condizione che le università inviino, «all’atto della registrazione e ogni 6 mesi, studi ed elaborati contenenti indici e criteri giurisprudenziali di qualificazione dei contratti di lavoro, con riferimento a tipologie di lavoro indicate dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali».
29Ma il conflitto di interessi andrebbe «appurato in concreto e caso per caso, eventualmente mutuando le regole processualcivilistiche in tema di astensione e ricusazione» (come suggerisce Magnani, Diritto dei contratti di lavoro, Milano, 2009, 154), e non limitando la funzione certificatoria ai soli docenti di diritto del lavoro a tempo pieno (come invece sostiene debba interpretarsi l’art. 76 d.lgs. n. 276/2003, Tiraboschi, Le sedi universitarie, in Enrico- Tiraboschi (a cura di), Compendio critico, cit., 110.
30 Ma «esclusivamente per i contratti di lavoro instaurati nell’ambito territoriale di riferimento … e comunque unicamente nell’ambito di intese definite tra il Ministero del lavoro e delle politiche sociali e il Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro, con l’attribuzione a quest’ultimo delle funzioni di coordinamento e vigilanza per gli aspetti organizzativi». Quest’ultima previsione, relativa all’intesa tra il Consiglio nazionale dell’ordine professionale e il Ministero del lavoro e al coordinamento e alla vigilanza del Ministero del lavoro, è stata introdotta dall’art. 30, co. 5, l. n. 183/2010, evidentemente allo scopo di porre un rimedio di tipo istituzionale al rischio di conflitto di interessi che anche in questo caso, e in maniera ancora più accentuata, si profila.
31 V., in proposito, Rausei, La certificazione dei contratti di lavoro, in Ciocca (a cura di), Le trasformazioni del mercato del lavoro, Macerata, 2011, 64.
32Ghera, Nuove tipologie contrattuali, cit. 533; Nogler, La certificazione, cit., § 2.
33 La volontarietà della procedura certificatoria è espressamente stabilita dall’art. 78 d.lgs. n. 276/2003, che prescrive altresì la forma scritta della relativa «istanza comune delle parti del contratto di lavoro». Ciò non esclude la possibilità che lo stesso contratto di lavoro preveda, tra le sua clausole, il ricorso alla procedura certificatoria: in tal senso, Rausei, La certificazione, cit., 68, not. 19.
34 Per esempio: gli «esami», coi quali si attribuiscono qualità giuridiche (idoneità, meritevolezza, ecc..) a persone; o le «collaudazioni», con le quali si attribuiscono qualità giuridiche (idoneità all’uso) a cose. Esempi tratti da Giannini, Diritto amministrativo, Milano, 1970, 964.
35 Giannini, Diritto amministrativo, Milano, 1970, 964. Esempi: la dichiarazione di acquisto, riacquisto o perdita della cittadinanza, con riferimento a persone; la notifica di particolare interesse artistico e storico, con riferimento a cose.
36 In termini sostanzialmente analoghi si esprime Ghera, La certificazione dei contratti di lavoro, cit., 293.
37 In un ordine di idee abbastanza vicino a quelle esposte si colloca l’opinione dottrinale secondo cui la certificazione del contratto costituisce «una forma che ha la capacità di munirlo anche di fronte ai terzi di stabilità del tipo», una stabilità «provvisoria, in quanto cede al solo, difforme accertamento giudiziale» e che è impressa al contratto da un requisito formale a esso «estern(o)», in qualche modo assimilabile alla «sindacalità» o alla «riferibilità alla commissione della conciliazione raggiunta ai sensi degli artt. 410 e 411 c.p.c.», De Angelis, Le certificazioni all’interno della riforma del mercato del lavoro, in Riv. it. dir. lav., 2004.
38 Così, sostanzialmente, Ghera, Nuove tipologie contrattuali, cit., 533-534. V. pure Vallebona, La riforma del lavori, Torino, 2004, 136, che parla di «dichiarazione valutativa (parere)» sulla «qualificazione» del contratto.
39 Giannini, Accertamento - diritto costituzionale e amministrativo, in Enc. dir., 220.
40 In quest’ordine di idee, v. Nogler, La certificazione, cit., §§ 3-4.
41 C. cost., sent. n. 121/1993 e sent. n. 115/1994. Per un approfondimento critico sul punto, v. Tursi, La certificazione, cit., § 4.4.1.
42 Secondo il «progetto Biagi» del 1998 (art. 38, co. 1, lett. c), vedilo in Treu, Politiche del lavoro: insegnamenti di un decennio, Bologna, 2001, 317 ss.
43 Con previsione, quale condizione di procedibilità per l’azione avanti il giudice ordinario, del tentativo obbligatorio di conciliazione davanti alla medesima commissione che ha emanato l’atto di certificazione (art. 80, co. 4, d.lgs. n. 276/2003). Si tratta dell’unico caso sopravvissuto all’abolizione dell’istituto, disposta dall’art. 31 l. n. 183/2010 (v. il co. 2 del medesimo articolo).
44 V. l’iter argomentativo seguito da Trib. Bergamo 20.5.2010, n. 416, in uno dei rarissimi casi di impugnazione giudiziale di un contratto certificato ad oggi noti: il giudice, dopo aver affermato la riconducibilità di un simulato contratto a progetto alla fattispecie del lavoro subordinato, solo in chiusura e a margine della motivazione liquida, in poche battute, l’avvenuta certificazione, osservando che i suoi effetti si arrestano di fronte alla «sentenza di merito con cui sia stato accolto uno dei ricorsi giurisdizionali esperibili ai sensi dell’art. 80» e che quello in oggetto – che, si noti, era un comune ricorso ex art. 414 c.p.c. con cui si domandava (non già l’annullamento dell’atto di certificazione, ma semplicemente) la riqualificazione giudiziale del contratto di lavoro – era, appunto, uno di tali rimedi. Vedila in Note informative, 17.1.2011, 2011, 50, con commento di Falsone.
45 Così, invece, Speziale, L’impugnazione giurisdizionale della certificazione, cit., 195-196.
46 A tale proposito, va altresì puntualizzato che, non costituendo la certificazione dei contratti di lavoro una manifestazione di volontà dell’amministrazione («provvedimento»), e quindi non rivestendo carattere propriamente discrezionale (ma essendo caratterizzata da mera «discrezionalità tecnica»), dovrà escludersi l’applicabilità della norme sul procedimento di cui alla l. n. 241/1990, che presuppongano la natura provvedimentale dell’atto e che non siano espressamente riprodotte dai primi tre commi dell’art. 78, che disciplinano espressamente il «procedimento di certificazione ». Né la natura provvedimentale dell’atto può dedursi dal prescritto obbligo di motivazione (art. 80, lett. c). Nella certificazione dei contratti di lavoro la motivazione è la giustificazione di una valutazione para-giudiziale sulla qualificazione del rapporto di lavoro, e non di provvedimento amministrativo. Troveranno applicazione le disposizioni della l. n. 241/1990 in materia di diritto di intervento e di accesso agli atti del procedimento da parte di terzi venendo in rilievo la molto più limitata previsione dell’art. 78, co. 2, lett. a), secondo cui «le autorità pubbliche possono presentare osservazioni alle commissioni di certificazione».
47 Ne dubita Nogler, La certificazione, cit., §§ 3-4.
48 V., da ultimo, Rausei, La certificazione, cit., 85 ss.
49 Nogler, La certificazione, cit., § 6; Ghera, La certificazione dei contratti, cit., 290; Speziale, L’efficacia giuridica della certificazione, cit., 184 ss.
50 V., con diverse sfumature, Tursi, La certificazione, cit., 43; Costantino, Riforma Biagi: la certificazione dei contratti di lavoro, in Guida lav., 2004, 8, 52 ss.; Garofalo, La certificazione dei rapporti di lavoro, cit., 436. V. pure Ianniello, La certificazione dei rapporti di lavoro, Dir. lav. online, in www.di-elle.it/Approf/Ianniello - Certificazione. htm, § 6.
51 Se a ricorrere è lo stesso lavoratore, sembra infatti che nessun effetto abbia la certificazione sulla struttura della domanda: si tratterà sempre e comunque di una domanda di acceramento della natura del contratto, e non di un’impugnazione della certificazione: v. nt. 44.
52 Dubitativamente, Perina, La certificazione nel D.Lgs. n. 276/2003, cit.
53 Circ. INPS n. 71/2005.
54 Sul punto, la dottrina era pressoché unanime. Ma v., per una posizione diversa, Pinto, Lavoro e nuove regole. Dal Libro Bianco al decreto legislativo 276/2003, Roma, cap. III.
55 Rausei, La certificazione, cit., 91, che richiama sul punto Costantino, Riforma Biaci, cit. Analoga conclusione ci sembra debba valere anche per la sospensione del termine per l’irrogazione delle sanzioni amministrative, ex art. 14 l. n. 689/1981.
56 In generale, sulla riforma del regime delle omissioni ed evasioni contributive, operata dalla l. n. 388/2000, v. Bollani, La revisione dell’apparato sanzionatorio in materia di inadempimento contributivo, in Riv. prev. pub. e priv., 2001, 1, 78 ss., spec. 91.
57 V., in generale, Magnani, Obbligazione contributiva e pagamento al creditore apparente (in margine al cosiddetto pluralismo previdenziale), in Riv. prev. pub e priv., 2001, 1, 42 ss.
58 Sulla questione v. Martone, Continua la caccia al tesoro: l’assoggettabilità a contribuzione previdenziale ENPALS dei compensi percepiti dai lavoratori delle sale di registrazione e dai cantanti di musica leggera, in Argomenti dir. lav., 2003, 3, 877 ss.
59 Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Libro bianco sul mercato del lavoro in Italia, I.3.3, Roma, 2001.
60 V. Pedrazzoli, Marco Biagi e le riforme possibili: l’ostinazione del progetto, Riv. it. dir. lav., I, 2002, 2, 123 ss.
61 Per una puntuale analisi della giurisprudenza, v. Menghini, Subordinazione e dintorni: itinerari della giurisprudenza, in Quad. dir. lav. rel. ind., 1998, 143 ss. Per un agile resoconto anche teorico, Nogler, Metodo e casistica nella qualificazione dei rapporti di lavoro, in Dir. lav. rel. ind., 1991, 107 ss.