La civilta islamica: osservazioni, calcolo e modelli in astronomia. Le critiche a Tolomeo
Le critiche a Tolomeo
La tradizione astronomica greca che fu assorbita in quella araba provocò, fin dai primi tempi, un vivace dibattito, iniziato subito dopo la prima traduzione in arabo dei testi greci sull'astronomia, nel IX sec., e proseguito, per quanto ne sappiamo, fino al XVI sec. inoltrato. Il testo greco che ebbe, per così dire, 'la parte del leone' in questo dibattito fu l'Almagesto o Syntaxis mathematica (in greco Megíste sýntaxis) di Claudio Tolomeo (II sec. d.C.), il più ampio dei testi astronomici greci.
Non possediamo tutti i dettagli sulla traduzione di questo testo in arabo: di essa non conosciamo neppure la data, né se vi siano state più versioni. Tuttavia, abbiamo almeno una di queste traduzioni, eseguita, pare, per volere del califfo abbaside al-Ma᾽mūn (r. 813-833) e completata per lui intorno all'829 (con il titolo di al-Maǧisṭī) da al-Ḥaǧǧāǧ ibn Yūsuf ibn Maṭar (m. 835 ca.) e Halyā ibn Sarǧūn al-Rūmī (noto come 'il Bizantino', attivo nell'830); essa è considerata la più antica di tutte quelle giunte fino a noi. Già da questa traduzione possiamo riconoscere l'approccio critico con cui il testo venne affrontato fin dai primissimi tempi.
In un famoso passo in cui Tolomeo cita Ipparco sulla determinazione della lunghezza del mese lunare, il testo greco recita: "Il numero di giorni che separa due eclissi che si verificano dopo un numero intero di rivoluzioni o di mesi lunari era di 126.007 giorni e 1 ora. Durante questo tempo la Luna aveva completato 4267 rivoluzioni" (Syntaxis mathematica, IV, 2). Tolomeo poi afferma che Ipparco aveva determinato la lunghezza media del mese lunare dividendo il suddetto numero di giorni (cioè 126.007 e 1 ora) per il numero di rivoluzioni lunari (4267), ottenendo così un mese lunare medio di 29 giorni, 31 minuti di un giorno, 50 secondi, 8 terzi e 20 quarti. La ragione per cui Tolomeo ha menzionato e adottato questo numero, sebbene esso non sia il reale risultato della divisione sopra citata ma piuttosto un vecchio numero canonico babilonese (Aaboe 1955-56), non ha importanza al momento. Quello che dovrebbe invece attirare la nostra attenzione è il fatto che tale divisione, quando eseguita realmente, non dà come risultato il mese lunare proposto da Tolomeo, ma un mese lunare di 29 giorni, 31 minuti di un giorno, 50 secondi, 8 terzi, 9 quarti e approssimativamente 20 quinti: questo è il numero conservato nella più antica traduzione esistente dell'Almagesto, cioè nella sopra citata di al-Ḥaǧǧāǧ. In una copia più tarda della stessa traduzione riportata nel XIII sec. dal famoso Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī (m. 1274) nel Taḥrīr al-Maǧisṭī (Redazione dell'Almagesto), la divisione viene spinta fino ai 12 sesti di un giorno ed è presentata come il valore corretto (wa-huwa al-ṣaḥīḥ).
Sebbene non esistano edizioni critiche di alcuna delle traduzioni arabe dell'Almagesto e nessuna di esse sia stata sottoposta a uno studio comparativo dettagliato con l'edizione greca del testo pervenutaci, questo singolo esempio dimostra chiaramente l'approccio critico tenuto già dai primi traduttori di questa meravigliosa opera. Altri esempi emergeranno certamente quando verrà eseguita un'edizione critica della traduzione araba. Quello che si vorrebbe sottolineare in questa sede è il fatto che fin dall'inizio l'esercizio della traduzione sembra essere stato al tempo stesso un esercizio critico; sembra, cioè, che i traduttori abbiano verificato i testi che traducevano. Sebbene in questo caso si trovi una ragione perfettamente comprensibile del perché il numero originale dato nel testo greco non fosse un vero errore, e del perché la 'correzione' proposta, peraltro registrata nella copia della traduzione di al-Ḥaǧǧāǧ, non sia mantenuta sistematicamente in tutta la traduzione, in cui lo stesso numero è usato più volte, rimane il fatto che a un primo sguardo il traduttore (oppure i traduttori) sembra essersi impegnato direttamente nella correzione del testo. Questa è la prova del tipo di traduzione che veniva eseguita.
Non sarebbe possibile spiegare così semplicemente gli errori che furono scoperti nel testo dell'Almagesto, né essi furono corretti tutti con la stessa facilità. Per esempio, l'affermazione tolemaica che il moto delle 'stelle fisse' (cioè la precessione) era dell'ordine di 1° per secolo, anche questa una scoperta di Ipparco, richiedeva osservazioni indipendenti per verificarne la veridicità. Tali osservazioni furono condotte nello stesso periodo in cui venivano completate le traduzioni, ossia durante e immediatamente dopo il regno dello stesso califfo al-Ma᾽mūn, e i loro risultati condussero a un nuovo valore per la precessione, che è molto più vicino a quello accettato ai nostri giorni.
Allo stesso modo, grazie all'osservazione diretta si determinò che l'apogeo solare, che Tolomeo aveva scoperto trovarsi in Gemelli a 5;30°, aveva un moto simile a quello delle stelle fisse e che al tempo di al-Ma᾽mūn esso si era spostato di circa 10° dal punto in cui si trovava al tempo di Tolomeo. Gli astronomi che composero le loro opere originali intorno allo stesso periodo della traduzione, come al-Farġānī, da allora in poi avrebbero registrato il moto dell'apogeo solare appena scoperto, sebbene a volte gli ascrivessero ancora il vecchio valore tolemaico di 1°/100 anni, come in realtà fa anche al-Farġānī.
Fu riconsiderata anche l'inclinazione dell'eclittica rispetto all'equatore, che Tolomeo aveva trovato essere di 23;51;20°, e si scoprì che essa era invece di 23;30°, un valore ancora ampiamente usato nei tempi moderni. Inoltre, le osservazioni che portarono alla determinazione del moto dell'apogeo solare coinvolsero anche la definizione di altri parametri di pari importanza, quali l'eccentricità solare e, di conseguenza, l'equazione del massimo solare. Il valore dell'eccentricità solare, come determinato da Tolomeo, era di 2 parti e 30 minuti, dove una 'parte' è pari a un sessantesimo del raggio della sfera solare eccentrica; le nuove osservazioni trovarono che esso era più vicino a due sole parti. Invece dell'equazione del massimo solare riportata da Tolomeo, che risultava di 2;23°, le nuove osservazioni diedero luogo a una moderna equazione del massimo solare, anch'essa molto più vicina ai 2°; gli Zīǧ al-mumtaḥan (Tavole astronomiche verificate) riportano 1;59°.
Tutte le osservazioni che abbiamo riportato sopra e i nuovi parametri ebbero una grande influenza sul tipo di astronomia che sarebbe poi stata praticata nella civiltà islamica. Gli astronomi, che avevano una grande ammirazione per Tolomeo, ragionavano nel modo seguente: se Tolomeo aveva errato in tanti parametri fondamentali dell'astronomia, aveva sbagliato perché non aveva conoscenze sufficienti, o per la scarsa precisione degli strumenti che adoperava, oppure a causa dei suoi metodi di osservazione? Per quanto ne sappiamo, nessun astronomo ha mai dubitato della buona fede di Tolomeo; ci si riferiva sistematicamente a lui in termini elogiativi come 'venerabile' od 'onorevole' e mai nessuno giunse a dire che Tolomeo era in qualche modo un astronomo incompetente: erano gli strumenti che egli aveva usato e i metodi che aveva sviluppato che potevano essere migliorati.
Per quanto riguarda gli strumenti, si scoprì che ovviamente quelli più grandi erano più precisi. I trattati del X sec. a noi noti, come l'opera di al-Ḫuǧandī (m. 1000 ca.) sul cosiddetto sestante faḫrī, erano, con ogni probabilità, una continuazione dei trattati e delle discussioni che da tempo erano in atto. Gli osservatori che, secondo la tradizione, furono costruiti con il supporto del califfo al-Ma᾽mūn a Baghdad e Damasco devono essere stati ideati allo scopo di migliorare gli strumenti. Nel caso dello strumento che si dice sia stato costruito da al-Ḫuǧandī a Rayy, vicino alla moderna Teheran, il tentativo era di portarne il diametro fino a venti cubiti e di graduarlo in minuti di arco. Questa tendenza, che sembra aver avuto il suo culmine in al-Ḫuǧandī, ebbe origine con ogni probabilità dall'esigenza di fissare una volta per tutte i parametri basilari che avevano indotto in errore Tolomeo.
Anche i metodi di osservazione di Tolomeo risultarono carenti a un'analisi più accurata. Ci si accorse infatti che il metodo impiegato da Ipparco, e adottato più tardi da Tolomeo, per determinare l'eccentricità solare presupponeva l'osservazione del Sole nei quattro punti sull'eclittica, due dei quali posti nei due rispettivi solstizi. Nel discutere queste osservazioni, e forse anche nel tentativo di replicarle per scoprire gli errori che ne derivavano, deve essere apparso chiaro che la difficoltà consisteva nel determinare con una qualche precisione il momento in cui il Sole sarebbe stato esattamente al solstizio, perché durante il periodo del solstizio la variazione della declinazione del Sole non avrebbe superato i 14″ di arco da un giorno all'altro per almeno due o tre giorni. Non vi erano strumenti che potessero misurare questo genere di variazione e ciò deve aver chiarito definitivamente che il metodo tolemaico aveva bisogno di una riforma radicale.
In quel primo periodo, cioè nel corso del IX sec., fu in effetti proposto un nuovo metodo per determinare l'apogeo e l'eccentricità solare, la cui caratteristica principale consisteva nell'effettuare l'osservazione del Sole durante i giorni centrali delle stagioni, cioè quando esso si trovava a 15° in Toro, Leone, Scorpione e Acquario. La variazione della declinazione del Sole da un giorno all'altro durante questi periodi si avvicina a mezzo grado e poteva perciò essere osservata per mezzo di strumenti costruiti con accuratezza. Il nuovo metodo fu poi indicato come fuṣūl, dalla parola faṣl, che significa 'stagione'; dal XIII sec. esso fu ulteriormente perfezionato e se ne sviluppò uno nuovo, il quale richiedeva che le osservazioni solari fossero prese su tre punti dell'eclittica, due dei quali diametralmente opposti.
Altri errori trovati nell'Almagesto erano di natura leggermente più sofisticata e non sembra che siano stati immediatamente notati quando l'opera fu tradotta in arabo per la prima volta. A questo riguardo due esempi saranno sufficienti. Il primo di questi si riferisce a un'affermazione di Tolomeo circa le dimensioni relative apparenti dei due astri quando danno luogo a un'eclissi. A questo punto egli non solo afferma che la dimensione apparente del disco solare sembra a un osservatore sulla Terra grande esattamente quanto il disco lunare quando la Luna si trova alla sua maggiore distanza dalla Terra, ma anche che è sempre così e che lo stesso osservatore non rileva alcun cambiamento nella dimensione. Naturalmente, quando la Luna è più vicina all'osservatore non si pone il problema della sua grandezza relativa rispetto al disco solare, perché la durata delle eclissi solari chiarisce la questione. Tuttavia, il verificarsi di eclissi anulari, un fenomeno di cui Tolomeo non fa neppure menzione, forniva certamente una prova contraria alla sua affermazione. Queste eclissi anulari potevano dimostrare che anche quando la Luna era alla sua massima distanza le sue dimensioni apparenti erano ancora inferiori a quelle del Sole, altrimenti esso, durante quelle eclissi, non sarebbe apparso come un anello intorno al disco della Luna. Nel Taḥrīr, al-Ṭūsī evidenziò proprio quel fenomeno e fornì registrazioni di osservazioni più recenti che documentavano la reale esistenza di queste eclissi anulari. Egli andò ancora oltre, dicendo che il disco solare apparente non era fisso, ma in realtà mutava di dimensioni, come si poteva evincere dai calcoli delle varie durate delle eclissi secondo le diverse posizioni relative dei due astri.
Alla stessa conclusione giunse circa un secolo più tardi Ibn al-Šāṭir (m. 1375) di Damasco, che arrivò perfino a calcolare le variazioni della dimensione apparente del disco solare e fu indotto a elaborare un modello matematico che descriveva il moto del Sole per tener conto di questi ultimi calcoli, basati probabilmente su analisi dettagliate delle eclissi. L'analisi di questa costruzione di Ibn al-Šāṭir sarà trattata nel contesto delle soluzioni alternative ai problemi tolemaici elaborate durante il periodo islamico (cap. XVII).
Il secondo esempio di errori trovati nel testo dell'Almagesto si riferisce specificamente alla configurazione matematica descritta da Tolomeo in connessione con i movimenti della Luna. In questa configurazione, che gli diede numerosi problemi prima di riuscire a raggiungere una versione definitiva, Tolomeo dovette ideare un meccanismo d'interpolazione che potesse rendere conto della variazione nella seconda equazione della Luna da un valore di circa 5;1°, quando la Luna era in congiunzione o in opposizione con il Sole, fino a uno di circa 7;40°, quando essa era in quadratura con il Sole. Il modello matematico di Tolomeo funzionò abbastanza bene quando si trattò di predire la posizione della Luna in longitudine ma, come fu correttamente osservato dallo stesso Ibn al-Šāṭir, questo modello "richiedeva anche che il diametro della Luna alla quadratura fosse doppio di quello all'inizio, cosa impossibile, poiché non lo si vedeva così (lam yura ka-ḏālika)" (Nihāyat al-sūl fī taṣḥīḥ al-uṣūl, f. 3r). Egli aveva assolutamente ragione quando affermava che dal modello elaborato da Tolomeo per il moto lunare risultava questa variazione della dimensione apparente della Luna. E proprio la sua fiducia nelle recenti osservazioni sulle eclissi, che egli sembra aver usato nei suoi calcoli, lo spinse a elaborare un modello alternativo per il moto della Luna, che sarà discusso nel contesto delle soluzioni alternative all'astronomia tolemaica.
Tutte queste correzioni, le nuove tecniche, le moderne soluzioni e i miglioramenti apportati non si sarebbero avuti se gli astronomi che li produssero non avessero letto il testo astronomico di Tolomeo con spirito critico. A livello dei fondamenti dell'astronomia quasi tutti i parametri incontrati nell'Almagesto si rivelarono inadeguati; si rese necessario quindi un programma base di osservazioni per correggerli. Ciò è esattamente quanto sembra essere avvenuto in questo primo periodo: gli astronomi, uno dopo l'altro, cercarono di trovare una strada per uscire dalle difficoltà create dall'Almagesto. Il risultato della loro attività fu un complesso di opere, siano esse trattati dedicati ai metodi di osservazione o l'elaborazione di nuove tavole astronomiche chiamate mumtaḥan (verificate) o simili, che possiamo considerare come il logico prodotto di quell'approccio critico con cui questi primi astronomi accolsero il capolavoro greco. Allo stesso tempo, questa nuova letteratura può essere anche considerata come un sottoprodotto del desiderio impellente di stabilire parametri più affidabili per il nuovo campo dell'astronomia che stava allora emergendo, parametri che alla fine potevano essere anche di gran lunga superiori a quelli che avevano provocato i problemi nascosti nell'Almagesto.
Tuttavia, la cultura ricevente non affrontò le difficoltà incontrate nel testo di Tolomeo soltanto a livello di critica e di correzione dei parametri fondamentali e dei metodi che li avevano causati. Una sezione dell'Almagesto, i Libri VII e VIII, trattava in modo specifico le costellazioni e la descrizione delle stelle che le costituivano, un argomento del quale la cultura ricevente aveva una certa esperienza, sebbene non sembra esservi stata una tabulazione sistematica di queste stelle. In tale campo però non abbiamo informazioni concrete su quanto avvenne in questo primo periodo; ciò che possiamo affermare, tuttavia, è che alcune modifiche del testo greco si verificarono già al livello delle varie traduzioni, dove si davano nomi alternativi alle costellazioni, in aggiunta a quelli che si traducevano dal greco o al posto di questi.
Intorno al X sec. la letteratura sulle stelle fisse cominciò a generare due diverse tradizioni in competizione tra loro. Una di queste derivava direttamente da quella greca, perciò era riportata nei manuali astronomici e simili e naturalmente si perpetuava nelle varie traduzioni dell'Almagesto e nelle opere derivanti da questo. L'altra tradizione, al contrario, è rappresentata da un'enorme mole di testi dedicati alla letteratura di anwā᾽, incentrata essenzialmente su temi riguardanti l'utilità del sorgere e del tramontare delle costellazioni nella vita quotidiana e che affrontava la materia secondo la tradizione indigena araba, lavorando sulle scienze e sulla conoscenza delle costellazioni note dalle fonti letterarie arabe, allora ampiamente diffuse.
Tutta questa enorme letteratura aveva bisogno di una sistemazione e ῾Abd al-Raḥmān al-Ṣūfī (m. 986) si accinse a quest'opera, creando un capolavoro sulle costellazioni che non ha avuto uguali fino ai tempi moderni. Il libro sulle costellazioni, Ṣuwar al-kawākib al-ṯābita (Le forme delle stelle fisse), conteneva una descrizione preliminare e generale di ogni costellazione e delle stelle che la costituiscono, nella tradizione greca e in quella araba, identificando quando era possibile i nomi multipli dati alla stessa stella o gruppi di stelle.
Esso comprendeva inoltre tavole sistematiche di longitudine, latitudine e magnitudo di ciascuna stella. Questo testo, che è disponibile soltanto in un'edizione preliminare stampata a Hyderabad, non è stato mai studiato in ogni dettaglio. Tuttavia, perfino una lettura superficiale ne rivela l'intenso dialogo con la tradizione greca e alcune delle critiche verso di essa. Non si può fare a meno di notare le frequenti occasioni in cui al-Ṣūfī afferma "che questa o quella stella o costellazione è così e così secondo Tolomeo, ma io dico che dovrebbe essere questa o quella; inoltre, gli Arabi ne parlano in questi termini" (Ṣuwar al-kawākib, pp. 78, 218). Grazie alla sua completezza, e forse anche all'autorità acquisita come modello di riferimento per le costellazioni, questo testo si prestava a essere prodotto in committenza regia e le sue copie hanno illustrazioni così belle che molte sono considerate capolavori dell'arte islamica.
In questo contesto dobbiamo menzionare altri due tipi di critiche mosse all'Almagesto di Tolomeo, sebbene esse tocchino questioni leggermente diverse da quelle discusse finora. Questo gruppo di idee critiche non riguardava l'argomento degli errori dell'Almagesto di per sé, come si era fatto prima, ma si soffermava piuttosto su altre due aree del testo, alle quali era possibile apportare qualche aggiornamento. In primo luogo, una critica che possiamo classificare nell'ambito dei tentativi di ammodernare il contenuto dell'Almagesto adeguando la matematica disseminata nel testo alle conoscenze matematiche del tempo. Per esempio, i famosi teoremi matematici, utilizzati all'inizio dell'opera per impostare il sistema trigonometrico che sarebbe stato usato in tutto il testo, impiegavano il classico teorema greco basato sulle funzioni della corda e noto come teorema di Menelao. A questa esposizione del teorema, e alla sua dimostrazione, Tolomeo aveva allegato una tavola delle corde per facilitare i calcoli successivi. Come fu trattato questo materiale dagli scrittori-astronomi arabi, che al tempo della traduzione dell'Almagesto possedevano chiaramente una scienza trigonometrica già matura, sviluppata con tutte le relative funzioni di seni, coseni e tangenti, per citarne solo alcune?
Non avremmo saputo nulla dell'esistenza di quest'altro campo della trigonometria, che era ignoto alla tradizione greca, attraverso i traduttori. Ma il migliore esempio di come la nuova matematica fosse usata per aggiornare il testo dell'Almagesto risale alla metà circa del XIII secolo. Nel Taḥrīr al-Maǧisṭī al-Ṭūsī affrontò questa sezione del testo greco nel modo seguente. Dopo aver concluso la sua esposizione della tavola delle corde nell'Almagesto, egli aggiunse la seguente annotazione: "Io dico che poiché il metodo dei moderni, che a questo punto usa i seni invece delle corde, è più facile da adoperare, come spiegherò più avanti, io desidero riferirmi anche a questo" (Taḥrīr, f. 5r). Egli dava poi un teorema del seno sferico equivalente a quello di Menelao e vi aggiungeva un'altra raffigurazione che impiegava la funzione della tangente anziché il seno. Inoltre, egli elaborò le tavole dei seni e delle tangenti per offrire un quadro completo degli strumenti matematici e trigonometrici per la parte seguente del libro.
Questo senso della critica di Tolomeo, sebbene non sia abbastanza evidenziato in letteratura, è d'importanza cruciale per capire la sorte dell'Almagesto nell'ambiente islamico. Dall'approccio di al-Ṭūsī al testo, che non fu sicuramente l'unico, si può facilmente comprendere come si cercasse una migliore fruizione dei contenuti dell'Almagesto, avvantaggiandosi delle ultime scoperte nel campo della matematica. Altri antichi autori di zīǧ (tavole astronomiche) che furono contemporanei dei traduttori dell'Almagesto, come per esempio Ḥabaš al-Ḥāsib (attivo nell'850), usarono anch'essi le funzioni trigonometriche più recenti e pienamente sviluppate, quando nei loro manuali di astronomia trattavano argomenti simili a quelli che si trovano nell'Almagesto. Se ne ricava il quadro di una comunità di astronomi che aveva a disposizione quest'opera ma che possedeva già una conoscenza matematica molto più sofisticata di quella che si trova in essa e, sotto tale aspetto, la loro critica del testo dell'Almagesto prese la forma dell'aggiornamento.
Il secondo tipo di critica matematica è diverso dalla correzione degli errori o dall'aggiornamento dell'informazione a un livello matematico più sofisticato e fu piuttosto una specie di riedizione dell'Almagesto, con un occhio alla ricostruzione matematica del testo, da cui il materiale estraneo doveva essere rimosso, aggiungendone per contro dell'altro che potesse migliorarlo.
Anche questo tipo di critica implicita è molto ben illustrato nel Taḥrīr di al-Ṭūsī, in cui si trova un nuovo modo di trattare quei capitoli dell'Almagesto nei quali Tolomeo usa un metodo iterativo per calcolare l'eccentricità di un pianeta e poi lo ripete dettagliatamente per ciascuno degli altri pianeti. A questo punto al-Ṭūsī dovette avvertire che il testo dell'Almagesto era ridondante e che in realtà era sufficiente una sola esposizione del problema e del metodo matematico iterativo per determinare le eccentricità di tutti gli altri pianeti, dal momento che tale calcolo richiedeva la stessa tecnica. Questo è esattamente il metodo seguito nel Taḥrīr.
L'informazione aggiunta da al-Ṭūsī al testo dell'Almagesto è di natura analoga alle correzioni di cui si è discusso sopra, dove si è notato, per esempio, che l'affermazione di Tolomeo secondo cui il disco apparente del Sole è di misura uguale a quello della Luna quando quest'ultima è alla sua distanza massima dalla Terra era semplicemente non vera, poiché poteva essere confutata facilmente dall'informazione sulle eclissi anulari che al-Ṭūsī inserì nel Taḥrīr al-Maǧisṭī.
Seguendo la serie delle versioni arabe dell'Almagesto si nota facilmente che prima di diventare utile per la cultura ricevente esso fu sottoposto a numerosi cambiamenti. In base all'osservazione furono facilmente corretti gli errori materiali, si utilizzarono strumenti di dimensioni più grandi per ottenere risultati di maggiore precisione, si raccolsero dati con il metodo fuṣūl e vennero apportate ulteriori modifiche grazie alle nuove conoscenze matematiche, non ancora disponibili nelle fonti greche. L'Almagesto venne rielaborato anche laddove si riscontrarono carenze dovute alle ripetizioni di argomenti che potevano essere spiegati in maniera definitiva. Questi cambiamenti furono il risultato della lettura critica alla quale il testo venne sottoposto e che fu in parte diretta e facilmente riconoscibile e in parte più implicita e difficile da identificare. Queste tuttavia non furono le sole aree in cui il testo dell'Almagesto aveva bisogno di correzione. Nei paragrafi seguenti esamineremo obiezioni fondamentali al testo di Tolomeo.
Se oggetto dell'astronomia fosse stata soltanto la determinazione delle posizioni dei pianeti in momenti specifici, allora le correzioni finora suggerite, sia quelle al testo dell'Almagesto sia quelle alle osservazioni e ai risultati da esse ricavati, sarebbero state sufficienti a migliorare l'opera in modo da farne una guida ragionevolmente sicura per tale scopo. Tuttavia quando le opere di Tolomeo, specialmente l'Almagesto e le Ipotesi planetarie, si leggono insieme si capisce che egli parlava di un'astronomia che andava ben oltre la predizione della posizione dei pianeti in un dato momento. Egli intendeva piuttosto un tipo di astronomia che trattava del mondo celeste come di un vero mondo fisico, nei limiti in cui esso può essere immaginato nell'ambito dello schema di riferimento aristotelico. Si comprende anche che i modelli matematici descritti nell'Almagesto, e i loro corrispondenti fisici sviluppati ulteriormente nelle Ipotesi planetarie, avevano tutti l'obiettivo di 'salvare i fenomeni' basilari dell'astronomia greca, il più importante dei quali è quello del moto circolare uniforme dei pianeti intorno alla Terra, situata al centro dell'Universo aristotelico.
Le sfere solide e il problema dell'equante
Leggendo l'Almagesto da questa prospettiva ci imbattiamo in numerosi problemi connessi al modo in cui tale opera, accettando una simile realtà fisica, ne descrive il comportamento all'interno dei limiti posti dai dati aristotelici. Questi problemi sono di natura totalmente diversa tanto da quelli inerenti alle correzioni del testo o delle osservazioni, quanto da quelli relativi ai contenuti del testo stesso in termini di compatibilità con le conoscenze scientifiche del momento. I nuovi problemi riguardavano la vera natura dell'Universo in cui viviamo e il linguaggio più appropriato per descriverlo. Erano veri e propri problemi filosofici, nel senso medievale della filosofia naturale.
Uno di questi problemi è il seguente: se le sfere fisiche che si supponeva costituissero l'Universo aristotelico erano rappresentate semplicemente da cerchi, come aveva fatto Tolomeo nel testo dell'Almagesto, e se quei cerchi erano essi stessi mere astrazioni matematiche, allora i moti da loro descritti non erano seriamente discutibili, fin quando questi cerchi venivano usati come costrutti matematici la cui funzione consisteva nel creare modelli di moto che avrebbero portato essenzialmente a predizioni più o meno corrette delle posizioni planetarie. Una volta affermato però, in linea con Aristotele, che l'Universo era veramente composto di sfere fisiche, che a loro volta erano responsabili di questi moti apparenti dei pianeti, a quel punto sarebbe stato impossibile concepire una sfera fisica che potesse muoversi uniformemente intorno a un asse che non passava per il centro della sfera. Questa assurdità fisica, che era in effetti presente in tutti i modelli matematici descritti nel testo dell'Almagesto eccetto quello del Sole, non poteva passare inosservata a quegli astronomi che, come si è già dimostrato, esercitavano la loro critica su ogni altro aspetto del testo.
I dubbi sorti in questo senso cominciarono a prendere forma proprio mentre si traduceva l'Almagesto. Uno dei promotori di molte importanti traduzioni di testi scientifici e filosofici greci, Muḥammad ibn Mūsā ibn Šākir (m. 873), era egli stesso a buon diritto uno scienziato e fu tra i primi astronomi a porre in discussione i pilastri della fisica del sistema astronomico greco che stava entrando in quello arabo. Per esempio, in un trattato creduto a lungo perduto e recentemente recuperato, Muḥammad ibn Mūsā avanzò dubbi sulla possibile esistenza di una nona sfera che sarebbe stata responsabile della rotazione diurna dei cieli. Il suo argomento si basava sul fatto che nel sistema elaborato nell'Almagesto Tolomeo aveva postulato l'esistenza di una nona sfera, al di là di quella delle stelle fisse, che era responsabile della rotazione diurna dei cieli. Tuttavia, secondo questo sistema, la nona e l'ottava sfera erano concentriche e quindi l'una non poteva muovere l'altra, dal momento che entrambe avevano lo stesso centro ed erano costituite della stessa sostanza, l'etere. Infatti, perché quel moto si potesse verificare, si sarebbe dovuto presumere un qualche tipo di sforzo, per frizione per esempio, un concetto, questo, non applicabile alle sfere celesti e che non concordava con la natura delle sfere originariamente postulata da Tolomeo.
Nella prefazione all'Almagesto Tolomeo non aveva risolto tale problema fisico e si era limitato a dire semplicemente che i moti celesti non devono essere paragonati ai moti che osserviamo intorno a noi, perché essi appartengono a una qualche forma di deità. In verità, se il mondo celeste fosse abitato da divinità in grado di imprimere qualsiasi movimento a loro piacere, non vi sarebbe alcun problema ma, allo stesso tempo, se esistesse un simile mondo non vi sarebbe stata ragione per una scienza astronomica che cercava di predire questi movimenti. Chi è l'uomo per poter conoscere i capricci degli dei?
Il problema esisteva soltanto se si presumeva che le sfere avessero un comportamento simile a quello di una sfera materiale che si muove sulla Terra. Fu esattamente questo il problema sollevato da Ibn Šākir verso la metà del IX sec., quando l'Almagesto non era ancora stato tradotto da Isḥāq ibn Ḥunayn (m. 911). Se aggiungiamo queste obiezioni a quelle ricordate in precedenza, appare con chiarezza a quanti livelli sia stato criticato l'Almagesto fin dai primissimi tempi.
Intorno all'XI sec. cominciarono ad affiorare altri problemi simili, tutti riguardanti questioni relative alla mancanza di coerenza esistente tra i presupposti accettati da Tolomeo, come base del suo lavoro, e i modelli e le teorie che egli sosteneva in quegli stessi lavori. Un astronomo andaluso, ancora non identificato, ha lasciato addirittura un trattato, il cui titolo è ricordato in un altro suo lavoro intitolato Kitāb al-Hay᾽a (Libro dell'astronomia), attualmente conservato in un'unica copia presso la Biblioteca Osmania di Hyderabad (Deccan, India). Nel testo in questione l'autore afferma in diverse occasioni di aver raccolto quei problemi in un libro intitolato al-Istidrāk῾alā Baṭlamiyūs (Ricapitolazione su Tolomeo). Dal contesto in cui si menzionano questi problemi si può presumere che essi fossero molto simili a quelli elencati dagli autori più tardi, delle cui opere parleremo in seguito.
Abū ῾Ubayd al-Ǧūzǧānī (m. 1070), allievo di Avicenna, contemporaneo con ogni probabilità dell'ignoto astronomo andaluso di cui parlavamo, ha affermato esplicitamente di aver discusso il problema dell'equante in Tolomeo con il suo maestro. In breve, esso non è altro che l'assurdo fisico di cui si diceva prima: si tratta della configurazione in cui Tolomeo sostiene, come ha fatto per tutti i modelli planetari a eccezione del Sole, che il moto circolare uniforme di una sfera è tale che un punto della sua superficie descrive archi uguali in tempi uguali rispetto a un punto diverso dal centro della sfera stessa: questo è fisicamente impossibile.
Abū ῾Ubayd giunse a dire di aver trovato una soluzione per una simile assurdità, che esamineremo meglio nel contesto delle alternative proposte all'astronomia tolemaica dagli astronomi arabi.
A questo punto si deve porre in rilievo che Abū ῾Ubayd riferiva che il suo maestro Avicenna aveva affermato di aver trovato anch'egli una soluzione per lo stesso problema ma di non averne parlato con il suo allievo allo scopo di spingerlo a lavorare di sua iniziativa. L'allievo replicò prontamente di sospettare che la causa del silenzio fosse stata non tanto l'ingenerosità del suo maestro, quanto piuttosto il fatto che il primo ad aver trovato tale soluzione era stato un altro. Comunque, quello che bisogna notare a questo riguardo è che sia gli errori dell'astronomia tolemaica, sia le assurdità fisiche in essa contenute erano oggetto di discussione nei circoli filosofici, quale il circolo di Avicenna, già alla metà dell'XI sec., se non prima.
Con un atteggiamento simile, e all'incirca nello stesso periodo, anche il famoso astronomo al-Bīrūnī (973-1048 ca.) ebbe occasione di indicare le assurdità fisiche del sistema tolemaico. In un libro, oggi perduto, intitolato Ibṭāl al-buhtān bi-īrād al-burhān (L'invalidazione della falsità mediante l'esibizione delle prove) e citato dall'astronomo Quṭb al-Dīn al-Šīrāzī (m. 1311), al-Bīrūnī disse riguardo alla descrizione tolemaica dei moti latitudinali dei pianeti che, per quanto attiene ai moti in inclinazione dei cinque apogei epiciclici, come è comunemente noto e come è riferito nell'Almagesto, questi richiedono moti che sono adatti ai congegni meccanici di Banū Mūsā e non appartengono ai principî dell'astronomia (Saliba 1994a). Tale era il livello della critica a Tolomeo.
Ibn al-Hayṯam
La critica a Tolomeo di maggior portata che emerge in questo periodo, vale a dire intorno alla prima metà dell'XI sec., fu scritta dall'enciclopedico Ibn al-Hayṯam (m. dopo il 1040), la cui opera sull'ottica lo aveva reso famoso nell'Occidente latino con il nome di Alhazen. Tale critica all'astronomia tolemaica è contenuta in un unico trattato che egli intitolò al-Šukūk ῾alā Baṭlamiyūs (Dubbi su Tolomeo, noto nel Medioevo latino con il titolo di Dubitationes in Ptolomaeum).
In questo trattato Ibn al-Hayṯam scelse dalle tre opere di Tolomeo, l'Almagesto, le Ipotesi planetarie e l'Ottica, soltanto quei problemi o quei dubbi (šukūk) che rivelavano contraddizioni irrisolvibili. Quanto ai restanti dubbi, Ibn al-Hayṯam affermava che essi potevano essere risolti senza dover cambiare o contraddire alcuno dei principî fondamentali. Egli continuava poi con l'enumerare quei problemi, cominciando dall'Almagesto, passando poi alle Ipotesi, per finire con l'Ottica. Il trattato di Ibn al-Hayṯam non è ancora disponibile in una lingua europea moderna; in questo spazio limitato saranno pertanto elencate solo alcune delle sue critiche registrate nel trattato stesso, mettendo in evidenza soltanto quelle riferibili alla teoria astronomica.
Per cominciare, Ibn al-Hayṯam si occupa piuttosto rapidamente del Libro I dell'Almagesto, elencando alcuni problemi inerenti alle osservazioni e ai calcoli, per poi passare direttamente al quinto capitolo del Libro V, dove è trattata la questione del punto di prosneusi della Luna (v. fig. 4, cap. XV). Dopo aver descritto il modello matematico usato da Tolomeo per rappresentare il moto della Luna, Ibn al-Hayṯam nota che tale modello conteneva l'affermazione che il diametro sul quale si misurava il moto medio della Luna sul proprio epiciclo doveva essere sempre diretto verso un punto (il punto di prosneusi), la cui posizione rispetto al centro del mondo era diametralmente opposta al centro della sfera deferente, che era causa del moto dell'intero epiciclo lunare, e si trovava a una distanza uguale a quella del centro del deferente dal centro del mondo. Questa configurazione fu giudicata da Ibn al-Hayṯam con queste semplici parole: "Il diametro epiciclico è una linea immaginaria, e una linea immaginaria non si muove da sola in alcun modo osservabile tale da produrre un'entità esistente in questo mondo". Egli quindi aggiunse: "Niente si muove in alcun modo osservabile tale da produrre un'entità esistente in questo mondo eccetto il corpo che [realmente] esiste in questo mondo". Nel corso della discussione egli sostenne ancora una volta che "non esiste moto in questo mondo in alcun modo osservabile eccetto il moto dei corpi [reali]" (Šukūk, p. 16). Egli concludeva questa parte affermando che nessun epiciclo avrebbe potuto muovere la Luna con il suo moto anomalo e contemporaneamente muoverla in modo tale che il suo diametro fosse diretto sempre verso il punto di prosneusi. Se questo potesse accadere, una singola sfera dovrebbe muoversi contemporaneamente con due moti diversi, il che è impossibile.
Dopo aver discusso un argomento minore relativo alla teoria delle eclissi nel Libro VI dell'Almagesto, Ibn al-Hayṯam passò al Libro IX, dove si discute dell'equante. In Almagesto IX, 2, Tolomeo affermava, senza possibilità di equivoco, che i pianeti superiori (Marte, Giove, Saturno) si muovevano con moto circolare uniforme proprio come gli altri pianeti di cui aveva discusso prima. In Almagesto IX, 5, però, lo stesso Tolomeo aveva preparato il terreno per il problema dell'equante insistendo che "noi troviamo, anche, che il centro dell'epiciclo si muove su un cerchio eccentrico che, sebbene sia di misura uguale all'eccentrico che produce l'anomalia, non è descritto a partire dallo stesso centro di quest'ultima". Qui egli segna la distinzione tra la sfera deferente, responsabile del movimento della sfera dell'epiciclo come richiesto dal moto descritto, e la sfera dell'equante, che è di misura uguale al deferente ma con un centro diverso da cui essa imprime il moto uniforme richiesto. Nel capitolo successivo dell'Almagesto Tolomeo descrive il centro dell'equante molto più esplicitamente, definendolo come un punto lungo la linea dell'apside tale che la sua distanza dal centro del deferente è uguale a quella del deferente dal centro del mondo. Inoltre la linea che congiunge questo punto dell'equante al centro dell'epiciclo, se prolungata, costituisce la linea su cui misurare il moto medio dell'epiciclo. In effetti, questo produce una situazione che possiamo descrivere nei termini seguenti: la sfera deferente che muove l'epiciclo è forzata a muoversi uniformemente intorno a un centro, chiamato ora equante diverso dal suo proprio centro, cosa che sarebbe impossibile se si pensa che la sfera deferente sia una sfera reale e non una immaginaria come la sfera dell'equante.
Su questo grave problema Ibn al-Hayṯam annota: "quella che abbiamo riportato è la verità di ciò che Tolomeo aveva stabilito per il moto dei pianeti superiori; e questa è una nozione che comporta una contraddizione" (Šukūk, p. 26). La prova della contraddizione viene poi costruita secondo le linee seguenti: Tolomeo aveva accettato il moto uniforme dei pianeti superiori. Il centro dell'epiciclo di quei pianeti era mosso da un deferente che si supponeva muoversi con questo moto uniforme. Con l'ipotesi dell'equante però si veniva a dire che il centro dell'epiciclo descriveva archi uguali in tempi uguali, cioè si muoveva uniformemente intorno a un centro che non era quello del deferente che lo muoveva. Secondo quanto provato proprio da Tolomeo, nel Libro III dell'Almagesto, se un corpo si muove in modo uniforme intorno a un punto non può muoversi uniformemente intorno a nessun altro punto. Perciò il centro dell'epiciclo deve muoversi in modo non uniforme intorno al centro del suo motore, il deferente. Dal momento che la sfera dell'equante era fittizia e quindi non poteva produrre alcun moto proprio osservabile, come affermato più volte da Ibn al-Hayṯam, la sola sfera che potesse produrre un moto reale era quella del deferente, e adesso c'era la prova che esso si muoveva in modo non uniforme intorno al proprio centro. Questo contraddice la tesi del moto uniforme accettata in partenza da Tolomeo. L'alternativa era di ipotizzare che la stessa sfera fisica, il deferente, potesse muoversi uniformemente intorno a un asse che non passava per il suo centro, e ciò è appunto l'assurdo fisico di cui si parlava.
A questo punto bisogna dire che lo stesso problema si trova in tutti i modelli descritti da Tolomeo per gli altri pianeti, eccetto che per il Sole. Nel caso della Luna, si supponeva che anche il suo epiciclo fosse mosso su un deferente che si muoveva in modo tale che il centro dell'epiciclo della Luna non descrivesse archi uguali in tempi uguali intorno al centro del suo deferente, ma piuttosto intorno al centro del mondo. Anche qui una sfera era obbligata a muoversi uniformemente intorno a un asse che non passava per il suo centro.
Similmente, il modello di Mercurio richiedeva anch'esso l'esistenza di un deferente che ne muoveva l'epiciclo con un moto che non era uniforme intorno al centro del deferente ma intorno a un punto che si trovava lungo la linea dell'apside, a mezza strada tra il centro del mondo e quello di un'altra sfera direttrice che muoveva la sfera deferente di Mercurio.
Si deve anche notare che Tolomeo asseriva che l'equante di Mercurio e dei pianeti superiori occupava la posizione data senza fornire alcuna prova per nessuno dei due casi. Questo problema specifico fu sollevato dall'astronomo andaluso Ǧābir ibn Aflaḥ, attivo nella metà del XII secolo. Per quanto riguarda Ibn al-Hayṯam, egli poteva trarre una sola conclusione dai modelli dei moti planetari di Tolomeo. Tuttavia, prima di proporla, egli ricorda al lettore l'affermazione di Tolomeo in Almagesto IX, 2, dove aveva dichiarato in termini univoci di usare un modello contrario ai principî accettati (ḫāriǧa ῾an al-qiyās). Ibn al-Hayṯam conclude quindi dicendo: poiché Tolomeo
aveva già ammesso che la sua ipotesi di moto lungo cerchi immaginari era contraria ai principî [accettati], questo vale tanto più per linee immaginarie che si muovono intorno a punti ipotetici. E se il moto del diametro dell'epiciclo intorno al centro distante [cioè l'equante] era contrario anche ai principî, e se l'ipotesi di un corpo che muoveva quel diametro intorno a questo centro era anche contraria ai principî perché contraddiceva le premesse, allora anche la sistemazione organizzata da Tolomeo per il moto dei cinque pianeti era contraria ai principî. Ed è impossibile per il moto dei pianeti, che è perpetuo, uniforme e immutabile, essere contrario ai principî. Né dovrebbe essere possibile attribuire un moto uniforme, perpetuo e immutabile a null'altro che a principî esatti, che discendono necessariamente da presupposti accettati e che non danno adito a dubbi. Allora diventa chiaro, da tutto quanto dimostrato finora, che la configurazione che Tolomeo ha stabilito per i cinque pianeti è una falsa configurazione (hay᾽a bāṭila) e che il moto di questi pianeti deve avere una corretta configurazione, che includa corpi che si muovano con moto uniforme, perpetuo e continuo, senza che essa presenti alcuna contraddizione o che possa essere intaccata da alcun dubbio. Questa configurazione deve essere diversa da quella stabilita da Tolomeo. (Šukūk, pp. 33-34)
Questa non era più una critica a Tolomeo; era piuttosto una condanna molto ben articolata di tutte le basi dell'astronomia tolemaica. Essa non soltanto rivelava l'alto livello di conoscenza degli errori dell'astronomia di Tolomeo, ma costituiva un sistema alternativo di principî su cui la nuova astronomia avrebbe dovuto fondarsi.
Nella sezione dedicata alla teoria tolemaica della latitudine, che era meno soddisfacente di quella riguardante il moto longitudinale, Ibn al-Hayṯam andò ancora oltre e terminò annunciando: "Questa è un'assurda impossibilità (muḥāl fāḥiš), in netta contraddizione con la sua [di Tolomeo] precedente affermazione sui moti celesti ‒ che sono continui, uniformi e perpetui ‒ perché questo moto deve appartenere a un corpo che si muove in questo modo [cioè uniforme], e perché non esiste moto osservabile eccetto quello che appartiene a un corpo reale" (ibidem, p. 36). Oltre a questo, Ibn al-Hayṯam denuncia che la descrizione del moto alterno dei piani dei deferenti nelle latitudini planetarie è un grave errore nel sistema tolemaico, perché esso in definitiva forza un corpo a muoversi in due direzioni opposte, cosa di per sé stessa impossibile.
La continua richiesta di Ibn al-Hayṯam di una rappresentazione astronomica che descrivesse i moti dei corpi reali piuttosto che quelli immaginari è ripetuta numerose volte, come a sottolineare i nuovi principî per cui egli si batteva, vale a dire la realtà fisica dell'Universo in cui viviamo e la necessità di armonizzare la realtà stessa con i modelli con cui viene rappresentata: "la contraddizione nella configurazione dei pianeti superiori che è stata rilevata in lui [Tolomeo] è dovuta al fatto che egli ipotizzava che i moti avvenissero lungo linee e cerchi immaginari e non in corpi esistenti. Una volta che questi [moti] sono stati ipotizzati in relazione a corpi esistenti [i pianeti] ne è sorta la contraddizione" (ibidem, p. 38).
Inoltre, Tolomeo sapeva molto bene di andare incontro a una simile contraddizione quando affermava, come riportato da Ibn al-Hayṯam: "Noi sappiamo che l'uso di queste cose non è dannoso per il nostro scopo, fin quando a causa loro non vengono introdotti eccessi significativi" (ibidem). Ibn al-Hayṯam si sofferma su questa posizione dicendo:
Egli vuol dire che la configurazione che ha disposto non può sopportare eccessi nel moto dei pianeti. Questa affermazione, tuttavia, non dovrebbe essere una scusa per ipotizzare false configurazioni che non possono esistere in alcun modo. Perché se egli avesse ipotizzato una configurazione che non può esistere in alcun modo e se quella configurazione avesse previsto i moti reali dei pianeti come egli immaginava, questo non lo avrebbe sollevato dall'errore di aver assunto tale configurazione. Perché non è accettabile che i moti reali dei pianeti siano stabiliti da una configurazione che non può in alcun modo esistere. La sua affermazione riguardo al presupporre cose che sono contrarie ai principî accettati ‒ queste sono soltanto ipotetiche e non reali e di conseguenza non sono di danno ai moti dei pianeti ‒ non è neppure una scusa per consentirgli di commettere simili assurdità (muḥālāt), che non dovrebbero esistere nei modelli di moto dei corpi celesti. Inoltre, quando egli dice che 'le cose che sono stabilite senza prova dovrebbero essere ottenute con un qualche metodo scientifico, dopo aver visto che esse concordano con i fenomeni osservabili, anche se è difficile descrivere il metodo con cui si ottengono', è un'affermazione valida. Ma quello che io penso è che egli abbia davvero seguito un qualche metodo scientifico quando ha ipotizzato ciò che ha ipotizzato sotto forma di modelli geometrici del moto.
A eccezione del fatto che il metodo che egli ha seguito lo ha portato ad ammettere di aver ipotizzato cose che erano contrarie ai principî accettati. Dal momento che egli sapeva che questo era contrario ai principî, non aveva scuse per ipotizzarlo, dicendo che esso non andava a danno dei moti dei pianeti, a meno che non fosse pronto ad ammettere che la configurazione reale era diversa da quella ipotizzata e che non era riuscito a coglierne l'essenza. Solo allora egli sarebbe stato scusato per aver fatto quello che ha fatto, e si sarebbe saputo che le configurazioni che aveva assunto non erano quelle reali. (ibidem, pp. 38-39)
Questa lunga citazione chiarisce molto bene le intenzioni di Ibn al-Hayṯam. Egli stava ovviamente affermando che i corpi fisici reali esistono nell'Universo e devono essere rappresentati con modelli matematici che non violino la loro vera natura fisica, come era avvenuto nel caso dell'equante, quando si era presunto che una sfera fisica si muovesse senza traslare uniformemente intorno a un asse che non passava per il suo centro, il che è fisicamente assurdo. Ma la stessa citazione dimostra anche il livello critico raggiunto già intorno alla metà dell'XI secolo.
Dopo aver descritto brevemente i modelli assunti da Tolomeo per i moti dei pianeti, Ibn al-Hayṯam concludeva la sua critica all'Almagesto con la seguente affermazione:
Noi dobbiamo chiarire il metodo seguito da Tolomeo per determinare le configurazioni dei pianeti. Egli, cioè, raccolse insieme tutti i moti dei singoli pianeti che aveva potuto verificare con le proprie osservazioni o con quelle di coloro che lo avevano preceduto. Cercò allora una configurazione realmente possibile per i corpi reali che si muovono con quei moti e non riuscì a trovarla. Ipotizzò una configurazione immaginaria con linee e cerchi immaginari che potesse muoversi con quel moto, sebbene soltanto alcuni di quei moti potessero realmente verificarsi nei corpi [reali] che si muovevano con quei moti. Egli fu costretto a seguire quella strada perché non seppe trovarne un'altra.
Ma se uno prendesse una linea immaginaria e la facesse muovere nella sua immaginazione non ne conseguirebbe che vi debba essere una linea corrispondente che si muova nel cielo con quel movimento. Né sarebbe vero che se si immaginasse un cerchio nel cielo e un pianeta che si muova su quel cerchio, il pianeta [reale] si muoverebbe [realmente] lungo quel cerchio immaginario. E se questo è vero, allora le configurazioni ipotizzate da Tolomeo per i cinque pianeti erano false configurazioni ed egli le aveva ipotizzate pur sapendo che erano false, perché era incapace di ottenerne altre. I moti dei pianeti, tuttavia, hanno configurazioni precise nei corpi [reali] esistenti, che Tolomeo non arrivò a comprendere né poté ottenere. Perché non è ammissibile che si trovi un moto osservabile, perpetuo e uniforme senza che esso abbia una configurazione precisa in corpi [reali] esistenti. Questo è tutto quello che abbiamo da dire riguardo al libro dell'Almagesto. (ibidem, pp. 41-42)
Con questa condanna sommaria dell'astronomia tolemaica, Ibn al-Hayṯam pose su basi completamente nuove l'astronomia araba. Egli non avrebbe potuto sottolineare con maggiore forza la necessità di costruire modelli matematici per i moti planetari che non violassero la realtà fisica delle sfere dalle quali si pensava fosse composto il mondo, secondo quello che possiamo chiamare un principio di coerenza. Per dirla brevemente, non si accetta una serie di principî sulla formazione fisica dell'Universo e poi si sviluppano modelli matematici di quello stesso Universo che implicano una diversa organizzazione fisica, negando i principî originariamente accettati.
Critiche analoghe erano state mosse ai testi di Tolomeo nei secoli precedenti, come abbiamo documentato, e alcune di esse avevano suggerito questo nuovo approccio basato sulla coerenza tra il mondo fisico e i suoi presunti comportamenti, ciononostante mai prima di Ibn al-Hayṯam questa concezione dei principî fondamentali dell'astronomia era stata così ben articolata.
Il testo delle Ipotesi planetarie non fu oggetto di maggiore stima da parte di Ibn al-Hayṯam e certamente non diede alcun contributo al nuovo modo di concepire l'astronomia. A differenza dell'Almagesto, per il quale si potrebbero trovare motivazioni ricordando che Tolomeo si riferiva a linee e cerchi immaginari, cioè a modelli matematici, e non a corpi fisici reali i cui movimenti avrebbero evidenziato le assurdità riportate, nel caso delle Ipotesi planetarie Tolomeo parlava esplicitamente di corpi fisici e quindi il tipo di critiche avanzato da Ibn al-Hayṯam diventava ancora più pertinente. Oltre a ciò, Ibn al-Hayṯam ebbe anche il vantaggio di poter mettere a confronto il pensiero di Tolomeo al riguardo in due diversi stadi della sua carriera scientifica e in due differenti opere. Egli analizzò il secondo lavoro, le Ipotesi planetarie, per accertare se fossero state poi risolte le assurdità dell'Almagesto. Al contrario, trovò che i problemi erano perfino peggiorati: invece di risolverne alcuni dei principali dell'Almagesto, Tolomeo, nelle Ipotesi planetarie, ne aveva aggiunti di nuovi.
Ibn al-Hayṯam esaminò entrambi i testi ed elaborò una lista comparativa delle sfere e dei moti descritti nell'Almagesto che risultavano cambiati nelle Ipotesi planetarie. Mentre la configurazione tracciata per il Sole restava la stessa nei due testi, e i moti della Luna erano nominalmente uguali, il moto che secondo la descrizione dell'Almagesto produceva la correzione per il fenomeno della prosneusi non era riportato nelle Ipotesi planetarie. Nel caso di Mercurio restavano solo cinque dei moti descritti nell'Almagesto, mentre tre erano stati tralasciati. Lo stesso avveniva nel caso di Venere, con quattro moti conservati e tre omessi. I pianeti superiori conservavano tutti i moti descritti nell'Almagesto e soltanto il moto latitudinale intorno ai piccoli cerchi non era stato riconsiderato. Si riscontravano però ulteriori drastici cambiamenti nel resto della sistemazione che Tolomeo aveva elaborato per il moto dei pianeti in latitudine.
Dopo aver compiuto un'analisi comparativa abbastanza dettagliata, Ibn al-Hayṯam giunse alla conclusione preliminare che la configurazione descritta nelle Ipotesi planetarie era diversa da quella dell'Almagesto, se non altro perché una decina di moti non era più menzionata nel nuovo testo e il moto in latitudine era stato completamente rivisto. Ibn al-Hay-ṯam afferma: "questa sistemazione, che è esposta dettagliatamente nel primo libro delle Ipotesi planetarie, è contraria a quella proposta nell'Almagesto ed è anche contraria ai moti latitudinali osservati nei pianeti al nord o al sud, quando sono vicini all'apogeo del loro epiciclo. Quindi appare evidente che la configurazione descritta nel primo libro delle Ipotesi planetarie è contraria non solo all'osservazione ma anche a quanto egli aveva sostenuto nell'Almagesto" (Šukūk, p. 44).
Dopo un esame della descrizione fornita da Tolomeo dei diversi moti e delle loro ragioni, Ibn al-Hayṯam citava numerosi passaggi in cui l'astronomo asseriva che tutti quei moti erano dovuti a corpi sferici reali che ne erano responsabili. Egli concludeva poi che Tolomeo in realtà si era impegnato "a trovare, per ogni moto menzionato nell'Almagesto, un corpo corrispondente che lo imprimesse" (ibidem, p. 46).
Ibn al-Hayṯam constatò anche che Tolomeo si contraddiceva perfino nella stessa opera. Infatti, nel secondo libro delle Ipotesi planetarie egli affermava che il moto sotto l'azione di una forza esterna non era ammissibile nelle sfere celesti, mentre nel primo libro aveva già affermato che ciascuna di quelle sfere doveva avere un moto suo proprio e un altro moto esercitato su di essa.
Riguardo ai nuovi corpi fisici introdotti da Tolomeo nelle Ipotesi planetarie, vale a dire le sezioni di sfera (manšūrāt) invece delle sfere intere da lui stesso ipotizzate nell'Almagesto, Ibn al-Hayṯam pensava che le manšūrāt rappresentassero un passo nella direzione sbagliata, perché queste sezioni, a loro volta, comportavano "assurde impossibilità (muḥālāt fāḥiša), che sono di due tipi: una si verifica quando il corpo lascia vuoto uno spazio per riempirne un altro e la seconda quando il corpo si deve muovere con moti diversi e contrari" (ibidem, p. 59). Nel caso delle sfere intere ipotizzate nell'Almagesto, almeno esse "comportavano un solo tipo di assurdità, cioè i moti diversi e contrari, e non comportavano l'altro tipo, ossia lo svuotamento di uno spazio e il riempimento di un altro" (ibidem, p. 60). L'esempio delle sfere che devono muoversi secondo moti differenti e contrari è ricordato ancora una volta in riferimento al problema dell'equante, già affrontato nell'Almagesto.
L'atteggiamento di Ibn al-Hayṯam verso queste sezioni di sfera nelle Ipotesi planetarie trova un'eco nell'opera di Mu᾽ayyad al-Dīn al-῾Urḍī (m. 1266), il quale afferma anche che, per quanto concerne le sezioni di sfera, "l'assurdità che ne deriverebbe è addirittura peggiore (aqbaḥ) e meno elegante di quella delle sfere intere, perché esse darebbero luogo alle stesse assurdità indicate prima, come il loro muoversi non uniformemente intorno al loro centro, e in più esse comporterebbero orbite non sferiche, ma piuttosto superfici dissimili discontinue, cosa che è impossibile nelle scienze naturali" (Kitāb al-Hay᾽a, p. 212).
Tornando al moto latitudinale, che Tolomeo aveva descritto usando un sistema di due piccoli cerchi che dovevano muovere i raggi dell'epiciclo, e che era stato abbandonato nelle Ipotesi planetarie, Ibn al-Hayṯam affermava: "allora appare chiaro che o Tolomeo era in errore quando ha trascurato la descrizione di questa configurazione, oppure ha errato nello stabilire questo moto per i pianeti quando ha determinato il moto latitudinale nell'Almagesto" (šukūk, p. 54).
Allo stesso modo, nel caso dei pianeti inferiori (Mercurio e Venere), i piccoli cerchi descritti nell'Almagesto per spiegare il moto dei loro epicicli lungo la latitudine, in seguito abbandonati nelle Ipotesi planetarie, dovevano condurre alla conclusione che Tolomeo aveva sbagliato o nell'abbandonarli ora, o nel nominarli prima nell'Almagesto. In ogni caso, il procedimento nei due testi risultava contraddittorio.
Verso la fine del secondo libro delle Ipotesi planetarie, Tolomeo sembrava disposto a credere che fosse possibile pensare a pianeti che si muovessero di moto proprio, cioè che non richiedessero una sfera per muoverli. Ibn al-Hayṯam documenta molto attentamente queste affermazioni solo per concludere che non dovrebbe essere ammesso neppure il moto di rivoluzione (tadaḥruǧ). Perché "se Tolomeo dovesse trovare che è ammissibile che un pianeta si muova da solo, senza nessun altro corpo che lo muova, allora questa possibilità renderebbe non valide tutte le sezioni di sfera e le sfere [stesse]" (šukūk, p. 62).
In sostanza, Ibn al-Hayṯam voleva dire che, se i pianeti potessero mostrare tutti questi moti propri, senza la presenza di un corpo che li muova, allora tutte quelle ipotesi di sfere e sezioni di sfere e simili sarebbero completamente superflue. Anche in questo caso al-῾Urḍī assume un atteggiamento simile nella sua critica a Tolomeo in un contesto leggermente diverso quando afferma: "se dovessimo accettare tali assurdità in questa scienza (ṣinā῾a), tutto sarebbe stato vano, e sarebbe stato sufficiente prendere soltanto una sfera concentrica per ogni pianeta, rendendo così superflue le sfere eccentriche ed epicicliche" (Kitāb al-Hay᾽a, p. 218).
Nel concludere la sua critica alle Ipotesi planetarie di Tolomeo, Ibn al-Hayṯam riassume la sua argomentazione:
Egli [Tolomeo] o conosceva le assurdità che sarebbero scaturite dalle condizioni che ha presunte e stabilite, o non le conosceva. Se le ha accettate senza conoscere le assurdità che ne conseguivano, allora egli sarebbe un incompetente nel suo campo, sviato nel suo tentativo di immaginarlo e di idearne la configurazione. E non potrebbe mai essere accusato per questo. Ma se egli ha stabilito quanto ha stabilito pur sapendo quanto ne sarebbe necessariamente risultato ‒ e questo è il caso più probabile ‒ per il motivo di essere obbligato a farlo perché non riusciva a trovare una soluzione migliore, e ha continuato coscientemente a scavare dentro queste contraddizioni, allora avrebbe errato due volte: la prima per aver asserito nozioni che producono tali assurdità, la seconda per aver commesso un errore pur sapendo che era un errore.
Una volta considerato tutto questo e per essere onesto, Tolomeo avrebbe dovuto determinare per i pianeti una configurazione che fosse priva di queste assurdità, e non avrebbe dovuto rifugiarsi in ciò che egli aveva stabilito ‒ con tutte le gravi conseguenze che ne risultano ‒ né avrebbe dovuto accettarlo, se poteva produrre qualcosa di meglio.
La verità senza dubbio è che vi sono configurazioni corrette per i moti dei pianeti, che esistono, sono coerenti e non comportano alcuna di queste assurdità e contraddizioni, ma esse sono diverse da quelle stabilite da Tolomeo. Egli però non seppe comprenderle, né la sua immaginazione attinse la loro vera natura. (šukūk, pp. 63-64)
Il resto degli šukūk è dedicato all'Ottica di Tolomeo, che secondo Ibn al-Hayṯam mostrava anch'essa diverse contraddizioni. In questo contesto la critica delle opere astronomiche di Tolomeo dovrebbe darci sufficienti indicazioni sulla vitalità della tradizione astronomica araba e sul livello da essa raggiunto fin dall'XI secolo.
Altre critiche a Tolomeo
Non è possibile citare molti altri autori che espressero opinioni simili sull'astronomia tolemaica, e si è già fatto al riguardo qualche riferimento ad alcuni di quegli astronomi. Qui di seguito, tuttavia, alcune critiche del periodo successivo a Ibn al-Hayṯam saranno prese come esempio della continuità di questa tradizione critica e del tipo di trasformazione cui essa è stata soggetta.
Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī, che abbiamo ricordato sopra con riferimento alle diverse critiche al testo tolemaico dell'Almagesto, aveva dubbi anche sui contenuti relativi alla filosofia naturale. Prima nel Taḥrīr al-Maǧisṭī, in cui criticava occasionalmente Tolomeo, poi nella sua opera più tarda, la Taḏkira fī'ilm al-hay᾽a (Memorandum di astronomia), che fu ultimata nel 1260 e in cui dedicò ben più lunghe sezioni alla critica filosofica sul piano teorico, egli concluse formulando modelli matematici per correggerne alcuni di Tolomeo. Il testo della Taḏkira potrà essere meglio discusso nel contesto della lunga tradizione dei modelli non-tolemaici che si svilupparono durante il periodo islamico. La discussione che segue sarà focalizzata soltanto sulle prime critiche di al-Ṭūsī, quali si possono dedurre dal più antico Taḥrīr, poiché esse sembrano rappresentare i primi casi in cui l'autore cominciò a valutare la gravità dei problemi di filosofia naturale dell'astronomia tolemaica.
Nel Taḥrīr, discutendo il modello lunare di Tolomeo contenuto in Almagesto V, 2, al-Ṭūsī concludeva il capitolo dicendo: "riguardo alla possibilità di un moto semplice lungo una circonferenza di un cerchio, uniforme intorno a un punto diverso dal centro, questo è un argomento delicato che dovrebbe essere verificato" (Taḥrīr, f. 24v). Senza dubbio, questa irregolarità si può verificare soltanto quando si pensa al cerchio come elemento di una sfera, e quando essa viene fatta muovere uniformemente, senza traslare, intorno a un asse che non passa per il suo centro. Questa è l'assurdità dell'equante che permeava l'intera astronomia di Tolomeo, come si è detto in precedenza.
Per quanto riguarda il punto di prosneusi, ossia l''assurdità' che fu impiegata soltanto nel modello lunare, al-Ṭūsī afferma: "Questo moto è simile a quello dei cinque [pianeti] nell'inclinazione e nell'obliquità, come si mostrerà in seguito, soltanto che uno è in latitudine mentre l'altro è in longitudine. Bisogna esaminare la possibilità dell'esistenza di moti circolari completi che producano tali moti osservabili [cioè simili al moto oscillante di prosneusi del diametro dell'epiciclo]. Lo si dovrà verificare" (ibidem, f. 25r).
Si può facilmente capire come questa perplessità possa essere stata all'origine del pensiero di al-Ṭūsī e lo abbia portato, più tardi, a inventare il suo famoso teorema matematico, chiamato ora nella letteratura 'coppia di al-Ṭūsī', un teorema che dimostra proprio come un moto circolare ne produca uno oscillatorio.
L'analogo moto latitudinale dei cinque pianeti, in relazione al quale Tolomeo aveva fornito una spiegazione anche più strana, fu oggetto dei più acuti strali della critica di al-Ṭūsī. Il suggerimento di Tolomeo per spiegare il moto in latitudine dei piani inclinati dei pianeti fu quello di aggiungere sulle estremità dei diametri di questi pianeti piccoli cerchi lungo i quali si muovevano tali estremità dei diametri dei suddetti pianeti. Egli sapeva tuttavia che non si stava attenendo ai principî accettati e, nel giustificare questi piccoli cerchi, fece ricorso ad affermazioni come la seguente: "considerando la natura complessa dei nostri schemi, nessuno dovrebbe giudicare queste ipotesi come troppo elaborate. Poiché non è opportuno paragonare le umane [costruzioni] con quelle divine, né formare le proprie convinzioni su cose così grandi sulla base di analogie molto dissimili" (Syntaxis mathematica, III, 2). A questo, al-Ṭūsī poté solo ribattere:
Tale affermazione è, a questo punto, estranea all'arte [dell'astronomia] (ḫāriǧ ῾an al-ṣinā῾a). Perché è un dovere di chi opera in essa posizionare cerchi e parti che si muovono uniformemente in modo tale che tutti i diversi moti osservati siano il risultato di una combinazione di questi moti regolari. Inoltre, poiché i diametri degli epicicli dovevano essere trasportati da piccoli cerchi per poter essere mossi in direzione nord e sud, era necessario che essi si spostassero anche rispetto al piano dell'eccentrico [cioè il deferente] così che non avrebbero più puntato nella direzione del centro dell'eclittica, né sarebbero stati paralleli ai diametri specifici sul piano dell'eclittica, ma avrebbero oscillato avanti e indietro in longitudine per uno spazio uguale alla loro latitudine; e ciò è contrario alla realtà. Non si può neppure dire che questa variazione sia avvertita soltanto nel caso della latitudine e non in quello della longitudine, poiché esse hanno uguale grandezza e sono ugualmente distanti dal centro dell'eclittica. (Taḥrīr, f. 58r)
Con questa aspra critica a Tolomeo, al-Ṭūsī non soltanto ridefinì la funzione dell'astronomo in base ai metodi matematici mediante i quali le osservazioni dovrebbero essere spiegate, ma arrivò anche a proporre un nuovo teorema che potesse risolvere questa specifica difficoltà di Tolomeo. Tale teorema divenne più tardi la base per la coppia di al-Ṭūsī che abbiamo appena ricordato e di cui ci occuperemo nel contesto dei modelli non tolemaici.
Alla fine del XV sec., i problemi (šukūk/iškālāt) dell'astronomia tolemaica divennero così famosi e universalmente noti da diventare essi stessi oggetto di studio e di opere individuali. Una di queste ultime (un manoscritto di circa quaranta fogli) fu composta da Muḥyī 'l-Dīn Muḥammad ibn Qāsim, noto come al-Aḫawayn (m. 1500). Il titolo della sua opera, al-Iškālāt fī ῾ilm al-hay᾽a (Problemi di astronomia) sembra essere stato preso dalla prima frase del testo, subito dopo l'abituale introduzione. La frase cominciava direttamente con l'enumerazione dei famosi problemi di astronomia. Secondo il calcolo di al-Aḫawayn, questi problemi erano riducibili a sette e rientravano tutti nell'ambito dell'astronomia ereditata da Tolomeo.
Il trattato di al-Aḫawayn esordiva nel modo seguente:
Sappiate che i famosi problemi relativi alla scienza dell'astronomia (al-iškālāt fī ῾ilm al-hay᾽a) e riguardanti le configurazioni delle sfere sono sette. Il primo è il problema del moto accelerato, decelerato e medio […]. Il secondo [concerne l'aspetto] dei corpi planetari, che a volte sono piccoli e a volte grandi. Il terzo [riguarda] le posizioni, il moto retrogrado e quello diretto […]. Il quarto [riguarda] il moto uniforme intorno a un punto diverso dal centro del motore. Cioè, quando un motore imprime a un altro corpo un moto circolare e il secondo corpo percorre angoli uguali in tempi uguali intorno a un punto diverso dal centro del suo motore. Il quinto [concerne] un moto che è uniforme intorno a un punto specifico quando si avvicina a quel punto e quando se ne allontana. Il sesto [concerne] l'inclinazione della direzione del diametro di una sfera rispetto al centro di un'altra sfera da cui la prima viene mossa. Il settimo [concerne] la mancanza di rivoluzioni complete tra i moti celesti, come si spiegherà in dettaglio. (al-Iškālāt fī῾ilm al-hay᾽a, ff. 4v-5r)
In antitesi all'opera dell'XI sec. di Ibn al-Hayṯam, a cui il trattato sopra menzionato può essere facilmente paragonato, al-Aḫawayn non solo era in grado di enumerare i famosi problemi dell'astronomia tolemaica ma, ai suoi tempi, poteva anche offrirne le soluzioni. Alcune, semplici e dirette, erano già suggerite negli stessi testi tolemaici; altre richiedevano una capacità molto superiore e furono sviluppate dagli ultimi astronomi operanti nella civiltà islamica. Al-Aḫawayn citava entrambe le soluzioni quando poteva, ma sempre in maniera concisa, come se egli considerasse il suo trattato un testo introduttivo per un corso superiore di astronomia, in cui l'interesse dello studente dovesse essere soltanto sollecitato da questi problemi e da queste soluzioni a investigare ulteriormente nei testi più avanzati.
Con questa disposizione il trattato riusciva non solo a sintetizzare lo stato dei problemi riguardanti l'astronomia tolemaica fino all'epoca, relativamente tarda, della sua stesura, ma dava anche conto delle numerose soluzioni allora dispo- nibili. Al-Aḫawayn non esponeva tutte le soluzioni note per ogni problema ma si limitava soltanto a poche ben selezionate. Egli sceglieva nel vastissimo corpus di soluzioni che si era creato durante i secoli precedenti, e che era stato ben documentato anche dalla moderna ricerca, le soluzioni che preferiva, dando in questo modo un'impronta personale alla sua antologia. Inoltre, egli affermava esplicitamente che alcuni problemi si riferivano a pianeti specifici e che non ci si doveva aspettare di trovare quegli stessi problemi in tutti i pianeti per i quali Tolomeo aveva suggerito una configurazione.
Dopo questa esposizione introduttiva, al-Aḫawayn dedicò il resto del trattato a un'esposizione sistematica delle configurazioni di ogni pianeta fornite dalla famosa astronomia tolemaica, elencando i numerosi problemi che inficiavano ogni specifica configurazione e procedendo poi a darne le soluzioni da lui scelte tra quelle che conosceva. In questo modo il suo trattato costituisce un'interessante antologia semplificata del genere di ricerca condotta durante il periodo islamico sugli errori dell'astronomia tolemaica e sulle loro correzioni.
Anche altri astronomi che operarono in questo periodo tardo misero in evidenza i problemi dell'astronomia tolemaica, non perché intendessero criticare dichiaratamente Tolomeo ma perché la conoscenza di questi problemi era diventata molto diffusa, come si diceva prima, e la stessa disciplina dell'astronomia, così come era stata ricostituita da generazioni successive di critici, non poteva più essere praticata da astronomi seri senza almeno ricordare l'esistenza di tali problemi. Quelli che cercarono di correggerli erano seguaci di una diversa tradizione, che voleva ricostruire l'astronomia tolemaica piuttosto che limitarsi a criticarla, come aveva fatto Ibn al-Hayṯam, che era a sua volta oggetto di critica per questo.
Non era neppure raro trovare astronomi che affrontavano questi problemi uno alla volta invece di intraprendere un esame completo dell'astronomia tolemaica, per criticarla o per ricostruirla. L'astronomo del XV sec. ῾Alā᾽ al-Dīn al-Qušǧī (m. 1474) fu tra questi. Egli scelse uno dei problemi dell'astronomia tolemaica, precisamente quello dell'equante di Mercurio, esaminandolo in ogni dettaglio, e ne offrì una sua soluzione che sarà meglio discussa nel contesto della tradizione che mirava a una ricostruzione del sistema di Tolomeo (v. cap. XVII). Per quanto concerne la critica, tuttavia, questi tentativi specifici di isolare singoli problemi non potevano essere più eloquenti nell'esprimere l'insoddisfazione almeno per alcuni aspetti della tradizione tolemaica.
Il nipote di al-Qušǧī, Mīrim Çelebi (m. 1525), che fu anch'egli astronomo, nonché nipote di un altro eminente astronomo, Qāḍī Zāda al-Rūmī (1364-1436), ha lasciato numerose opere, alcune delle quali erano commenti personali ai testi più generali del nonno. In uno di questi commenti, egli affermò esplicitamente di volersi soffermare sui problemi dell'astronomia tolemaica in un trattato a parte, intitolato Ḏayl al-Fatḥiyya (Appendice alla Fatḥiyya); la Fatḥiyya era l'opera del nonno al-Qušǧī che conteneva una critica piuttosto franca dell'esposizione del sistema di Tolomeo. I casi in cui egli menzionava il Ḏayl erano in relazione con i problemi dei modelli tolemaici per la Luna e per Mercurio; ma finché il testo del Ḏayl non sarà ritrovato e studiato il suo contenuto resterà per noi sconosciuto.
Nel XVI sec., tentativi simili furono fatti in Persia, da astronomi quali Ġiyāṯ al-Dīn Manṣūr ibn Muḥammad al-Ḥusaynī al-Daštāgī al-šĪrāzī (m. 1542/1543), in almeno due suoi testi ‒ al-Hay᾽a al-manṣūriyya (L'astronomia dedicata ad al-Manṣūr) e al-Lawāmi῾ wa-'l-ma῾āriǧ (Le scintille e le ascensioni) ‒ da noi conosciuti solo grazie a un resoconto che si trova in una terza opera, al-Safīr (Il nunzio), nella quale affermava che nelle altre due egli non soltanto aveva criticato Tolomeo ma aveva anche proposto nuove soluzioni per i problemi tolemaici presi in esame, e parlava con grande orgoglio delle soluzioni che aveva elaborato nella seconda opera. Citiamo un passo in cui discute del modello lunare in al-Safīr: "Il [fatto che il] moto è uniforme intorno al centro del mondo, piuttosto che intorno al suo proprio centro [intendendo il centro del deferente], questo è uno dei problemi (iškālāt) di questa scienza […]. Io ho diversi altri metodi [per risolverlo], che ho spiegato nel [libro] al-Hay᾽a al-manṣūriyya, e ho fatto anche riferimento ad altri meravigliosi metodi nel [libro] al-Lawāmi῾ wa-'l-ma῾āriǧ" (al-Safīr, pp. 284-285).
Quando affronta il problema della prosneusi, egli afferma anche: "questa prosneusi è anch'essa tra le iškālāt […]. La verità al riguardo è quella che io ho fornito in al-Hay᾽a al-manṣūriyya, che splende con le scintille (lawāmi῾) della luce" (ibidem, p. 285). Al momento di discutere il problema dell'equante nella configurazione per i pianeti superiori dice: "Anche questo è tra le iškālāt che al-Hay᾽a al-manṣūriyya è capace di risolvere".
Tutte queste citazioni forniscono una chiara prova che questo astronomo del XVI sec. era effettivamente interessato a proseguire la tradizione critica che già si era sviluppata sui problemi dell'astronomia tolemaica. Tuttavia, a meno che le altre sue due opere non vengano identificate e studiate approfonditamente, il loro reale contenuto e la loro effettiva importanza resteranno per noi un enigma.
Nello stesso secolo, un astronomo siriaco, Ġars al-Dīn Aḥmad ibn Ḫalīl al-Ḥalabī (m. 1563), espresse simili interessi in un notevole trattato che intitolò Tanbīh al-nuqqād ῾alā mā fī 'l-hay᾽a al-mašhūra min al-fasād (Nota sulle critiche riguardo agli errori dell'astronomia generalmente accettata). In tale trattato egli sollevò anche una questione ‒ che non è stata ancora affrontata in questa discussione ma che sarà esaminata nel prossimo capitolo ‒ e precisamente l'ammissibilità degli eccentrici usati nei modelli tolemaici. Ġars al-Dīn dichiarava: "poiché l'astronomia generalmente accettata non è aliena da dubbi (šukūk), specialmente quelli riguardanti gli eccentrici, io li ho confrontati in questo trattato, non per sminuire i principî di quest'arte [l'astronomia] ma per [evidenziare] gli errori in cui l'intenzione non ha raggiunto [i risultati], e per portarli come prova di ciò che abbiamo scritto [altrove]" (Tanbīh al-nuqqād, p. 286). Il quarto capitolo di questo trattato era dedicato ai problemi del modello lunare e il trattato stesso porta la data del 1551.
Nel secolo successivo, Bahā᾽ al-Dīn al-῾Āmilī (m. 1622) non sembra aver affrontato direttamente i problemi tolemaici, perché questi non sono menzionati esplicitamente nel suo scritto Tašrīḥ al-aflāk (Descrizione delle sfere celesti). I suoi commentatori tuttavia, compresi quelli che hanno chiosato questo suo ponderoso e diffusissimo trattato, puntualizzavano le loro osservazioni richiamando l'attenzione sui ben noti errori dell'astronomia tolemaica. Per evitare che l'ignaro lettore fosse portato a considerare l'astronomia tolemaica semplificata esposta da al-῾Āmilī esente da difetti, uno di questi commentatori aggiunse una nota a margine che ci tratteggia, per così dire, una storia degli errori e delle persone che li avevano espressi in precedenza. In un manoscritto, la nota dice:
Il primo dei moderni che ha parlato della soluzione agli insolubili [problemi] è stato ῾Abd al-Waḥīd al-Ǧurǧānī [sic, ma si intende ῾Abd al-Waḥīd al-Ǧūzǧānī], l'allievo di al-Ra᾽īs Abū ῾Alī ibn Sīnā. Egli ha scritto un trattato, che ha chiamato Tarkīb al-aflāk (La struttura delle sfere [celesti]), in cui ha citato i modelli con i quali si potevano risolvere questi problemi (iškālāt). Dopo di lui venne Abū ῾Alī ibn al-Hayṯam, poi il ricercatore al-Ṭūsī, e poi il dotto al-Šīrāzī, che collazionò dai suoi contemporanei, tra cui Muḥyī 'l-Dīn al-Maġribī ‒ perché il principio dell'inclinato (al-mumayyila/al-mumīla) è copiato da lui ‒ e poi l'ottimo maestro Šams al-Dīn Muḥammad ibn ῾Alī ibn Muḥammad al-Ḥammādī [?]. Dovete notare che le affermazioni di Abū ῾Ubayd erano molto deboli e che nulla si può risolvere con le parole di Ibn al-Hayṯam, come è stato già affermato nella Taḏkira dallo studioso al-Ṭūsī. Con le parole dello studioso stesso [al-Ṭūsī], poiché abbiamo copiato di queste la parte essenziale, non si possono risolvere i problemi della prosneusi, dell'equante di Mercurio e le latitudini dei cinti (manāṭiq) degli epicicli e dei deferenti. Quanto all'autore della Tuḥfa [al-Šīrāzī] egli ha ampliato troppo. Il maestro Muḥammad al-Munaǧǧim al-Ḥammādī ha composto un trattato in cui sosteneva che questi problemi potevano essere tutti risolti con centoquaranta sfere. Di fatto egli stabilì tre principî, che in realtà erano erronei. Chiunque desideri [maggiori informazioni su] questi li può cercare nei Ma῾āriǧ [sezione] dei Lawāmi῾ al-manṣūriyya. (Saliba 1994a, pp. 287-288)
Pur con tutti i suoi difetti, questo riassunto storico rivela che i problemi dell'astronomia tolemaica erano ancora oggetto di discussione dopo la metà del XVII sec., periodo in cui probabilmente fu scritta questa nota. Inoltre, esso rivela che le opere di al-Daštāgī erano divenute già a quel tempo un riferimento classico, almeno per quanto riguarda l'autore di queste note a margine.
La ricerca moderna sull'astronomia araba non ha condotto indagini per determinare il livello raggiunto dagli astronomi nei secoli successivi della critica all'astronomia tolemaica loro trasmessa, e per valutare, inoltre, in quale misura queste critiche, se ve ne furono, coincidessero con l'accoglimento della moderna astronomia postcopernicana nei paesi islamici. Per quanto poche siano le ricerche fatte nel campo della critica basata su presupposti di filosofia naturale, esse ci rivelano che durante l'ultima parte del XIX sec. vi era ancora chi difendeva l'astronomia tolemaica contro i suoi detrattori, che invece avevano adottato la più moderna astronomia copernicana.
L'ultimo gruppo di obiezioni mosso contro l'astronomia tolemaica era di un tipo ancora differente. Le possiamo classificare come di natura teoretica, nel senso che i loro autori sollevarono questioni che toccano problemi fondamentali, riguardanti tutte le attività scientifiche, non solo quelle astronomiche. Da questo punto di vista, l'attività di costruzione dei modelli, che sarà discussa nel cap. XVII, è essa stessa una presa di distanza da Tolomeo: nessuno cercherebbe infatti di sostituire un complesso di configurazioni sferiche con un altro se fosse soddisfatto delle soluzioni esistenti. Gli autori di quelle modifiche non avevano bisogno di dire che cosa esattamente dell'astronomia tolemaica non condividessero: la loro intenzione di ricostruzione era comunque un sintomo di insoddisfazione. Il capitolo sulla costruzione di modelli non tolemaici potrà essere letto con profitto tenendo presente questa considerazione.
Altre questioni di uguale interesse teoretico si appuntavano sul ruolo stesso dell'astronomo, quando questi criticava i suoi colleghi. A che cosa esattamente era lecito opporsi, e quale tipo di prova si doveva portare alla discussione per aprire il caso? Qual era il ruolo delle osservazioni in astronomia e quando una spiegazione si poteva considerare accettabile? Il più rappresentativo per questo tipo di domande fu l'astronomo damasceno Mu᾽ayyad al-Dīn al-῾Urḍī, già menzionato in precedenza. Nel suo ampio trattato, Kitāb al-Hay᾽a (Libro dell'astronomia), che potrebbe essere letto nella sua totalità come un'esposizione completa delle obiezioni all'astronomia tolemaica, egli enucleò tali questioni, in particolare, quando tentò di riformare i modelli proposti da Tolomeo per il pianeta Mercurio. Dopo aver descritto le varie sfere, i loro moti e le loro posizioni relative l'una rispetto all'altra, egli afferma: "le condizioni risultanti dalle osservazioni ricordate ‒ intendo quelle per cui queste condizioni sono note ‒ sono soltanto i moti dell'apogeo e del perigeo del deferente. Quanto alle direzioni di questi moti, esse non erano necessariamente conseguenti [alle osservazioni], ma furono semplicemente date da Tolomeo. Se questi moti fossero stati come egli aveva presunto e se non avessero contraddetto i principî, allora egli avrebbe raggiunto il suo scopo" (Kitāb al-Hay᾽a, pp. 249-250).
Dopo aver spiegato perché non era soddisfatto delle soluzioni di Tolomeo, che pure tenevano conto delle osservazioni, al-῾Urḍī passò a confrontarsi con lui su un altro livello ancora. Nel parlare delle parti costitutive della configurazione totale di Mercurio, egli dichiara:
Questa [configurazione] totale era il risultato di molti fattori: le osservazioni, le prove che sono basate sulle osservazioni, i moti periodici, la configurazione (hay᾽a) che egli aveva ipotizzato e le direzioni dei [diversi] moti [implicati]. Riguardo alle osservazioni, alle prove e ai moti non si può muovere alcuna critica, perché non è emerso nulla che li contraddica.
Quanto al percorso di ipotesi (ḥads), egli [Tolomeo] non ha qui alcun diritto di precedenza, [specialmente] dopo che sono stati svelati i suoi errori. Se qualcun altro dovesse mai trovare qualcosa che concorda con i principî, così come i moti particolari del pianeta trovati in base all'osservazione, allora quella persona avrebbe un maggior diritto di proclamarsi nel vero.
Quando abbiamo visto l'errore in questa opinione, e abbiamo cercato di correggerla, come abbiamo fatto nel caso degli altri pianeti, abbiamo trovato che potevamo perfezionarla invertendo le direzioni dei due moti menzionati in precedenza ‒ io intendo i moti del cerchio direttore e di quello deferente. (ibidem, pp. 250-251)
Questo spiega in poche parole la posizione che al-῾Urḍī aveva cercato di assumere nei confronti della tradizione tolemaica. Egli ne accettava alcune parti, quando non aveva osservazioni migliori da fare, ma ne accoglieva ugualmente altre, come i periodi dei pianeti, forse perché erano state trasmesse da una tradizione molto più antica. Non c'era niente di sbagliato nelle dimostrazioni matematiche che Tolomeo usava per spiegare le osservazioni ma, quando si arrivava alla teorizzazione ‒ il termine usato da al-῾Urḍī è ipotesi (ḥads) ‒, Tolomeo non aveva alcuna precedenza. Infatti a quel livello chiunque fosse in grado di ideare un modello matematico atto a spiegare le osservazioni senza violare i principî filosofici dell'astronomia classica già accettata dalla tradizione aristotelica, questi aveva maggior diritto di considerarsi nel vero. L'autorità di Tolomeo, per quanto grande fosse, doveva arrendersi a ciò.
Da questo tipo di critica appare evidente che la tradizione astronomica araba aveva raggiunto una notevole fiducia nei nuovi fondamenti che erano stati posti durante il periodo medievale islamico e che erano orientati in modo specifico a mostrare gli errori di Tolomeo, nonché e a riformare la sua astronomia. La libertà guadagnata con la decadenza dell'autorità di Tolomeo aprì la strada a nuovi modi di guardare all'Universo, alla scienza e agli strumenti che si erano diffusi con il progredire dell'astronomia. Ma, soprattutto, si esploravano questioni che toccavano il fondamento filosofico di ogni scienza.
In questo caso il dibattito sull'ammissibilità degli eccentrici e degli epicicli tra le sfere celesti non si concentrò tanto sul problema del moto uniforme delle sfere intorno al loro centro, quanto sulla possibilità che il regno celeste potesse realmente ammettere tali configurazioni. L'origine del problema è da ricercare in numerose opere di Aristotele, e soprattutto nel De caelo, in cui egli prova con impeccabile rigore filosofico non solo che l'intero Universo è sferico, ma che la Terra è al centro di esso. L'argomentazione non si fondava sul fatto che questa fosse una disposizione conveniente, ma sul fatto che se si fosse trovato che la Terra non era il centro dell'Universo, si sarebbe dovuto necessariamente supporre una Terra che possedesse la qualità della pesantezza, per essere posta al centro dell'Universo. Questa Terra 'teorica' doveva anche essere immobile, perché il centro di ogni sfera mobile è necessariamente immobile.
L'obiezione agli eccentrici risiedeva nel fatto che essi avrebbero introdotto un centro di pesantezza diverso dalla Terra intorno al quale si sarebbero mossi i corpi celesti semplici. Contro questa obiezione, Tolomeo proponeva l'uso del teorema di Apollonio, che trasferiva gli effetti di un cerchio eccentrico a una sfera concentrica semplice che muoveva un epiciclo. Tuttavia l'epiciclo stesso era considerato inadeguato e precisamente, dal momento che esso era una sfera e inoltre aveva un suo proprio moto, doveva di conseguenza avere un proprio centro immobile, come la Terra teorica, che poteva anche essere, logicamente, un centro di pesantezza. Questo corpo epiciclico avrebbe a sua volta introdotto nel regno celeste un tipo di composizione, se non la pesantezza stessa, che non si poteva ammettere nel regno del più semplice e divino degli elementi, l'etere.
Gli astronomi andalusi dei secc. XII e XIII come Avempace, Ibn Ṭufayl, Averroè e al-Biṭrūǧī (Alpetragio) condannarono tutti, ciascuno a suo modo, l'astronomia tolemaica per avere incluso elementi non aristotelici come gli eccentrici e gli epicicli, e alcuni tentarono perfino di ricostruire una nuova astronomia che fosse priva di simili difetti. Al-Biṭrūǧī intraprese l'enorme progetto di scrivere un ampio testo dedicato a una tale ricostruzione.
La questione, tuttavia, non era così facilmente risolvibile. Da un lato, il requisito aristotelico di un Universo perfettamente concentrico, privo di eccentrici ed epicicli, si era dimostrato inattuabile perfino allo stesso Aristotele, come mostra l'uso dei metodi eudossiani che egli fece nella Metafisica per ottenere una simile configurazione. La costruzione di al-Biṭrūǧī, che sembrava ispirata ai primi tentativi di Aristotele, era carente anche da un punto di vista empirico; essa infatti non poteva essere tradotta in un modello matematico realistico atto a predire le effettive posizioni dei pianeti in un tempo dato o a spiegare le osservazioni accreditate. Per questo non era in alcun modo paragonabile all'efficacia e all'eleganza dei modelli tolemaici carenti sul piano filosofico. Il risultato fu che il suo rimase un tentativo isolato e non ebbe un'influenza significativa sugli astronomi successivi.
Dall'altro lato, lo stesso Universo aristotelico non era comunque tutto coerente. In primo luogo, corpi celesti, sfere, stelle e pianeti, erano pensati come composti dallo stesso semplice elemento aristotelico, vale a dire l'etere. Per di più, questo elemento era ritenuto divino e, quindi, il più semplice degli elementi, capace di un solo movimento, il moto circolare, che non ha principio né fine; pertanto esso non era partecipe di alcuna composizione o di alcuna generazione e corruzione, come era invece il caso degli elementi sublunari soggetti a moti lineari (acqua, aria, terra, fuoco). Se si doveva intendere letteralmente, e in tale maniera fu inteso, allora era necessario domandarsi come potesse una sfera che, poniamo, sorreggesse il Sole allo stesso modo di una gemma incastonata in un anello, emettere una luce tanto brillante quanto quella del Sole soltanto dalla parte in cui questo è situato, mentre il resto del suo corpo si comportava come una sostanza cristallina trasparente che non emetteva alcuna luce: tutto ciò mentre si ipotizzava che entrambi, il Sole e la sua sfera motrice, fossero formati dallo stesso elemento, l'etere.
Questo è il modo in cui il damasceno Ibn al-Šāṭir interpretò l'Universo aristotelico. In realtà, egli usò una variante di questa argomentazione, per dimostrare che Aristotele poteva non essere stato realmente onesto circa la semplicità delle sfere celesti. Le sue conclusioni possono essere riassunte nel modo seguente: se il Sole deve essere formato dallo stesso elemento della sfera che lo muove, allora è necessario che ci sia una qualche specie di composizione nelle sfere celesti, le quali non possono essere così semplici come Aristotele voleva che fossero. Se si deve ammettere una composizione nelle sfere celesti, l'obiezione iniziale all'esistenza degli epicicli sarebbe eliminata e, quindi, si può presumere che essi esistano in qualsiasi configurazione astronomica con totale libertà. La riforma dell'astronomia tolemaica operata da Ibn al-Šāṭir effettivamente evitò le sfere eccentriche, accettando così l'argomento contro la duplicazione dei centri di peso intorno ai quali si muovevano i corpi celesti, tuttavia ammetteva non soltanto gli epicicli, ma anche epicicli mossi da altri epicicli. Nella sua difesa, egli affermò esplicitamente che il maggiore dei suoi supposti epicicli non era grande neppure quanto alcune delle stelle fisse dell'ottava sfera. E se stelle così smisurate nella più semplice di tutte le sfere celesti non introducevano alcuna composizione nel mondo aristotelico, allora nemmeno i suoi ben più piccoli epicicli potevano introdurre alcun elemento di composizione. La credenza da lui professata, tuttavia, era contraria a quella di Aristotele, perché egli, a differenza del filosofo, aveva ammesso senza difficoltà che esisteva un qualche tipo di composizione nel regno celeste.
Infine, vi era anche la questione teoretica del rapporto della scienza astronomica con le altre scienze. Nei paragrafi precedenti si è esposto un caso in cui il fondamento filosofico dell'astronomia non era sempre seguito e, quando esso era trascurato, si sollevavano obiezioni. Tra tutti i vari tipi di critica che sono stati esaminati finora, nessuno riguardava la validità della scienza più chiaramente dimostrativa, vale a dire la matematica, e il suo uso sovrano nell'astronomia. Successive generazioni di astronomi riconobbero quel ruolo e non sollevarono obiezioni in proposito, dal momento che la matematica era sempre stata ritenuta la disciplina che poteva fare dell'astronomia una scienza dimostrativa di per sé stessa. In effetti, era questa la ragione principale per includere l'astronomia nel novero delle scienze matematiche. Si è già dimostrato come al-῾Urḍī ammettesse la superiorità di Tolomeo a questo riguardo.
Appare lecito chiedersi quale fosse la reale funzione della matematica nell'astro-nomia. Abbiamo notato precedentemente che Tolomeo, quando volle affrontare la questione delle sfere eccentriche non aristoteliche, fece ricorso a un teorema matematico sviluppato da Apollonio, che gli consentiva di sostituire gli eccentrici con un modello costituito da un deferente e un epiciclo. Da questo punto di vista, si poteva dimostrare con rigore matematico come un Universo cosmologico, quello in cui erano ammessi gli eccentrici, fosse teoricamente equivalente a un altro mondo in cui questi non esistono, e tuttavia tutte le osservazioni empiriche potevano ancora essere tenute in conto.
Tolomeo fece uso di questa conoscenza dei modelli matematici soltanto nel caso del Sole. Dopo di allora, nel caso di tutti gli altri pianeti per i quali egli escogitò configurazioni piuttosto complicate furono applicati sia gli eccentrici sia gli epicicli. Per concedergli il beneficio del dubbio, si può supporre che egli intendesse che lo stesso argomento da lui utilizzato nel caso del Sole poteva essere implicitamente applicato a tutti gli altri pianeti, al fine di sostituire i loro eccentrici con concentrici ed epicicli. Tolomeo, tuttavia, non lo ha mai affermato esplicitamente in alcuna delle sue opere.
Nella tradizione astronomica araba la comprensione del ruolo svolto dalla matematica nell'astronomia conobbe ulteriori sviluppi. Ciò avvenne perché con la lunga tradizione di ricerca di alternative ai modelli tolemaici apparve sempre più evidente che essi erano semplicemente soluzioni alternative dello stesso problema. Queste infatti non potevano consentire l'applicazione di una diversa dottrina cosmologica, come la sostituzione degli eccentrici e simili, ma rendevano possibile all'interno della medesima dottrina cosmologica l'applicazione allo stesso problema di diverse soluzioni. I problemi dell'astronomia tolemaica non avevano dunque un'unica soluzione matematica bensì ne ammettevano molte.
Nel XVI sec., l'astronomo Šams al-Dīn al-Ḫafrī (m. 1525 ca.) impiegò ampiamente proprio questa nuova comprensione della matematica quando, nella sua descrizione dei moderni modelli che egli stesso e altri avevano sviluppato, ne forniva diversi per gli stessi moti planetari. Vale a dire, egli forniva numerose alternative matematiche per interpretare le stesse osservazioni ugualmente bene. Nel caso dei moti del pianeta Mercurio, per esempio, in una delle sue opere egli introdusse quattro diversi modelli matematici che portavano tutti perfettamente agli stessi risultati matematici. Šams al-Dīn al-Ḫafrī presentava questi modelli uno dopo l'altro, semplicemente come modi diversi (che chiamava wuǧūh) di guardare alla stessa realtà fisica. Questo nuovo concetto secondo il quale la matematica rappresentava soltanto un linguaggio finalizzato a descrivere la stessa realtà fisica in modi diversi, è mostrata in modo esemplare nelle opere di al-Ḫafrī (Saliba 1997).
Questa breve rassegna dovrebbe avere ben chiarito che la tradizione astronomica greca, in particolare quella rappresentata dai più importanti testi tolemaici, non fu semplicemente conservata nella cultura islamica, come viene spesso affermato, bensì fu sottoposta a una valutazione molto critica fin dall'inizio. Numerosi aspetti della tradizione astronomica greca furono oggetto di una grande disputa: (a) la correzione degli errori trovati nei testi greci da parte degli stessi traduttori; (b) la rivalutazione critica dei risultati delle osservazioni che portavano a cambiare i parametri fondamentali di quella tradizione; (c) il sollevare obiezioni contro la tradizione per la scoperta della noncuranza delle proprie premesse basate sulla filosofia naturale, saldamente ancorate alla tradizione aristotelica; (d) le obiezioni teoretiche contro quella tradizione per la sua mancanza di coerenza sistematica; (e) le obiezioni che furono sollevate riguardo ai fondamenti reali dell'astronomia: come la stessa scienza era strutturata, quali suoi componenti erano subordinati ad altri e quale delle altre scienze si era dispiegata in essa con determinate funzioni. In particolare, la matematica sembra aver ricevuto una notevolissima spinta intorno al XVI sec., quando la sua relazione con l'astronomia fu compresa correttamente.
L'unica critica che non è stata presentata in dettaglio in questa rassegna è quella implicita nei numerosi tentativi delle generazioni di astronomi i quali cercarono di riformare l'astronomia tolemaica, costruendo nuovi modelli matematici tali da poter rendere la realtà delle osservazioni e i fondamenti teorici di filosofia naturale in modo molto più coerente e compatto. Questi saranno esaminati nel capitolo dedicato ai modelli non tolemaici, come si è già ripetuto più volte. L'unico aspetto che resta da notare semplicemente a questo punto è che la civiltà islamica non sembra aver prodotto un tipo di critica che ha messo in discussione proprio i fondamenti filosofici dell'astronomia greca. Vale a dire, nessuno sembra aver mai dubitato della cosmologia aristotelica in quanto tale. Ciò doveva avvenire più tardi nella storia dell'astronomia, soltanto dopo una lunga e strenua lotta iniziata dalla scienza moderna in condizioni completamente diverse da quelle prevalenti nella civiltà islamica.
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‒ 1993: Saliba, George, Al-Qushjī's reform of the ptolemaic model for Mercury, "Arabic sciences and philosophy", 3, 1993, pp. 161-203.
‒ 1994a: Saliba, George, A history of Arabic astronomy. Planetary theories during the golden age of Islam, New York, New York University Press, 1994.
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‒ 1997: Saliba, George, A redeployment of mathematics in a sixteenth-century Arabic critique of Ptolemaic astronomy, in: Perspectives arabes et médiévales sur la tradition scientifique e philosophique grecque. Actes du colloque de la SIHSPAI, Paris 1993, édités par Ahmad Hasnawi, Abdelali Elamrani-Jamal et Maroun Aouad, Leuven, Peeters; Paris, Institut du Monde Arabe, 1997, pp. 105-122.
Swerdlow 1987: Swerdlow, Noel M., Jābir ibn Aflaḥ's interesting method for finding the eccentricities and direction of the apsidal line of a superior planet, in: From deferent to equant. A volume of studies in the history of science in the ancient and medieval Near East in honor of E.S. Kennedy, edited by David A. King and George Saliba, New York, New York Academy of Sciences, 1987, pp. 501-512.