La conciliazione e l’arbitrato nella l. n. 183/2010
Le procedure di conciliazione ed arbitrato delle controversie di lavoro vengono esaminate alla luce delle novità introdotte dalla l. 4.11.2010, n. 183, con particolare riferimento alle problematiche in tema di validità delle conciliazioni, efficacia esecutiva ed impugnazione del lodo arbitrale.
L’art. 31 l. 4.11.2010, n. 183 porta un titolo – «Conciliazione e arbitrato » – che rispecchia fedelmente il suo contenuto. Esso, infatti, appronta un’ampia regolamentazione dei due istituti. Tale regolamentazione, oltre che ampia in ragione degli aspetti di cui tratta, è anche ad esteso ambito di applicazione. Preesistevano discipline diversificate a seconda che le controversie coinvolgessero datori di lavoro (e committenti) privati o pubblici. La l. n. 183/2010 procede all’abrogazione delle disposizioni legislative che dettavano una disciplina speciale per le controversie con le amministrazioni pubbliche, già contenute negli artt. 65 e 66 d.lgs. n. 165/2001, ed espressamente estende anche a tali controversie gli artt. 410, 411, 412, 412 ter, 412 quater c.p.c., come da essa stessa novellati1. La legge, dunque, compie un passo sulla strada del diritto comune del lavoro, peraltro veicolando alcuni contenuti in una direzione opposta a quella indotta dall’assoggettamento delle amministrazioni pubbliche alle norme delle leggi sui rapporti di lavoro «nell’impresa». La nuova disciplina della conciliazione, ormai comune sia alla controversie fra soggetti privati che fra lavoratori ed amministrazioni pubbliche, riprende e generalizza molti principi già presenti nei due articoli – 65 e 66 d.lgs. n. 165/2001 – abrogati. I predetti articoli del codice di procedura fanno riferimento alle controversie di cui all’art. 409 dello stesso codice e, in primo luogo, alle controversie relative a rapporti di lavoro subordinato. L’estensione alle controversie con pubbliche amministrazioni sarebbe in grado di coinvolgere anche le controversie riguardanti i rapporti di lavoro del «personale in regime di diritto pubblico», che pur sempre sono rapporti di lavoro subordinato. Sennonché, l’art. 31, co. 9, l. n. 183/2010 si pronuncia espressamente, estendendo le novellate disposizioni del codice di procedura solo alle controversie di cui all’art. 63, co. 1, d.lgs. n. 165/20012. Ciò comporta che le nuove disposizioni sulla conciliazione e l’arbitrato riguardano solo i rapporti di lavoro «contrattualizzati» e non quelle riguardanti il «personale in regime di diritto pubblico» e, quindi, solo quelle che, se sfociano a livello giudiziario, vedono in campo il giudice del lavoro e non quelle che, se danno luogo ad un processo, risultano affidate al giudice amministrativo.
I lunghi, se non lunghissimi, lavori parlamentari confermano che fra le finalità generali della l. n. 183/2010 sicuramente rientra la promozione di forme di gestione stragiudiziale delle controversie di lavoro. Di tale propensione si può discutere sotto il profilo dell’opportunità e sotto il profilo della congruità. Circa il primo profilo, non si esagera dicendo che l’opportunità è generalmente o, quanto meno, ampiamente condivisa, anche se più articolati risultano gli atteggiamenti verso l’arbitrato3. La deflazione del contenzioso giudiziario è il motivo fatto valere di solito. Non mancano, peraltro, motivi anche di carattere direttamente qualitativo. La sede conciliativa e/o arbitrale risulta particolarmente adatta per la trattazione di un ampia tipologia di controversie. Quanto alla congruità delle soluzioni concretamente adottate, più di una perplessità è suscitata dalla l. n. 183/2010. Alle intenzioni, in effetti, non sembrano corrispondere normative e incentivi in grado di assicurare una capacità delle procedure conciliative e arbitrali, come ora ridefinite, di attrarre maggiormente il contenzioso. A fronte di una conciliazione obbligatoria, ma non sentita, una conciliazione volontaria, se ben regolata ed adeguatamente incentivata, può attrarre comunque e divenire più facilmente sede di effettivo componimento del conflitto (e cessare di essere un adempimento – vissuto come un adempimento in sé non fruttuoso – che si compie solo per accedere al processo). Un’occhiata ai rinnovi contrattuali, stipulati dopo l’entrata in vigore della l. n. 183/2010, dà l’idea che non si sta manifestando un particolare impegno della contrattazione collettiva nel coprire gli spazi che la nuova legge ad essa riserva nel completamento della regolazione della conciliazione e dell’arbitrato, in particolare nell’impianto e nella regolazione delle «sedi» conciliative ed arbitrali di sua competenza. Questo non produce un blocco delle procedure conciliative ed arbitrali, anche perché alcune di esse sono in grado di operare e, di fatto, operano sulla base delle innovazioni direttamente apportate dalla legge (si pensi, ad esempio, alle procedure attivabili presso le commissioni di conciliazione presso gli uffici provinciali del lavoro). L’impressione di un seguito parziale dato alla l. n. 183/2010 comunque rimane.
Il soggetto tenuto presente dalla vecchia versione dell’art. 410 c.p.c., come da quella novellata, è «chi [in pratica, il lavoratore] intende proporre in giudizio una domanda relativa ai rapporti previsti dall’articolo 409», soggetto che nella precedente versione doveva promuovere un tentativo di conciliazione e che, nella versione ora vigente, «può promuovere» un tentativo del genere. Questa previsione, che scolpisce il passaggio dall’obbligatorietà alla volontarietà, si colloca all’interno (della disciplina) di una specifica procedura conciliativa. La volontarietà vale per tutte quelle previste dalla l. n. 183/2010? Nell’art. 412 quater, intitolato alle «Altre modalità di conciliazione e arbitrato», la volontarietà, pur non affermata così direttamente, comunque si scorge in vari passaggi. L’art. 412 ter, intitolato a «Altre modalità di conciliazione e arbitrato previste dalla contrattazione collettiva», lascia molto spazio ai contratti collettivi, rimettendo ad essi l’individuazione di «sedi» e «modalità» della procedura conciliativa. A fronte di questo rinvio, residua qualche dubbio sulla facoltà del contratto collettivo di imporre un preventivo tentativo di conciliazione, in particolare nelle controversie legate all’interpretazione/applicazione di clausole contrattuali. Tende a farlo escludere l’enfasi data, anche nei lavori parlamentari, al passaggio dall’obbligatorietà alla volontarietà come scelta di carattere generale, oltre che il rinvio solo alle «sedi» e alle «modalità» suscettibile di essere letto come non estensibile al principio della volontarietà/obbligatorietà. Le procedure di conciliazione possono essere esperite anche presso le «sedi di certificazione », come espressamente previsto dall’art. 31, co. 13, l. n. 183/2010. Questa disposizione ribadisce che presso le «sedi di certificazione» si esperisce il «tentativo di conciliazione di cui all’articolo 410 del codice di procedura civile». Ne deriva l’applicazione della volontarietà e delle altre regole dettate dall’art. 410, escluse ovviamente quelle non estensibili alle «sedi di certificazione» (si pensi alle disposizioni dell’art. 410 relative alla composizione della commissione di conciliazione presso la Direzione provinciale del lavoro). L’esercizio di attività conciliativa comporta, peraltro, l’esigenze di adattamento delle normative già riguardanti le « sedi di certificazione». Ad esempio, il d.m. 21.7.2004, relativo alla «Istituzione di commissioni di certificazione presso le direzioni provinciali e presso le province, ai sensi del D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, art. 76, comma 1, lettera b», richiede senz’altro aggiornamenti alla luce della novità introdotte dalla l. n. 183/2010. Operando non all’interno degli articoli del codice di procedura civile, l’art. 31, co. 2, l. n. 183/2010 fa espressamente salvo un caso di obbligatorietà della conciliazione. Si tratta di quella che deve preventivamente esperire la parte di un contratto certificato e anche il terzo nella cui sfera giuridica ricadano gli effetti di un contratto certificato laddove l’una o l’altro – o ambedue – intendano proporre un’azione giudiziaria contro la certificazione (art. 80, co. 4, d.lgs. n. 276/2003). Salvezza dell’obbligatorietà che, direttamente, non appare tanto figlia di una residua, seppur parziale, affezione a tale principio, quanto espressione della volontà di tenere fermi e, anzi, accentuare meccanismi considerati utili ad indurre il ricorso alla certificazione. Il rinvio operato dall’art. 80, co. 4, è da intendere ora riferito all’art. 410 come novellato dall’art. 31, co. 1, e ciò, a mente dell’art. 31, co. 13, della stessa legge, consente di concludere che le commissioni di certificazione, quando operano come organi di conciliazione, applicano regole omogenee, individuate in quelle di cui all’art. 410. L’omogeneità delle regole da applicare si accompagna, peraltro, all’eterogeneità dell’innesco della procedura conciliativa. Le commissioni di certificazione, infatti, sono chiamate ad amministrare procedure volontarie relative a controversie che si collocano nella vasta area i cui confini esterni sono segnati dall’art. 409 c.p.c. e procedure obbligatorie in quanto riguardanti controversie in cui si contesta la certificazione, con un organismo che nella seconda (più ristretta) categoria di controversie assume la veste di conciliatore su di una questione a cui non è proprio estraneo. Il passaggio dall’obbligatorietà alla volontarietà spinge ad interrogarsi sulla sorte del «tentativo obbligatorio di conciliazione» previsto a suo tempo dall’art. 5 l. n. 108/1990. Si sa della tesi secondo cui già la generalizzazione dell’obbligatorietà operata dall’art. 36 l. n. 108/1990 avrebbe determinato il superamento della norma speciale introdotta in precedenza per le controversie riguardanti i licenziamenti nell’area della tutela obbligatoria quando, per tutte le altre controversie, ancora imperava la volontarietà4. Alla luce di tale tesi, la sopravvenuta volontarietà – altrettanto generale come l’introduzione, a suo tempo, della obbligatorietà – non dovrebbe incontrare ostacoli anche per quanto riguarda le predette controversie. Anche per esse dovrebbe valere la volontarietà del tentativo di conciliazione, da esercitare secondo le regole ora declinate dalla l. n. 183/20105.
Anche a seguito della l. n. 183/2010, la disciplina più dettagliata risulta essere quella dedicata alla procedura conciliativa che può svolgersi presso le commissioni istituite presso le Direzioni provinciali del lavoro. Tale disciplina risulta eterogenea quanto a provenienza delle varie disposizioni che la compongono. L’ individua z ione della Commissione territorialmente competente è ancora da effettuare a stregua dell’art. 413 c.p.c. La regola, secondo cui la richiesta della conciliazione è capace di interrompere la prescrizione e di sospendere il decorso della decadenza per la durata del periodo del tentativo di conciliazione e per i venti giorni successivi alla sua conclusione, risale anch’essa alla vecchia versione dell’art. 410. La produzione dell’effetto interruttivo/sospensivo è legata alla richiesta della conciliazione, consegnata o spedita alla Commissione e alla controparte. Nel caso della decadenza, si è ritenuto che, data la sua rilevanza oggettiva, potrebbe essere sufficiente la richiesta alla Commissione6. Si tratta di tesi ragionevole. Come ci accingiamo a vedere, il nuovo art. 410 sovraccarica di contenuti la richiesta di conciliazione. L’effetto interruttivo/sospensivo dovrebbe presupporre una richiesta conforme a quanto previsto da detto articolo. Non può escludersi, tuttavia, che una richiesta inviata alla controparte, pur non conforme al modello legislativo, possa ugualmente produrre l’effetto interruttivo della prescrizione in quanto rispondente ai canoni dell’atto interruttivo a stregua del diritto comune. La regola dell’interruzione/sospensione si incontra con norme – nuove – dedicate dall’art. 32 l. n. 183/2010, al licenziamento e ad altri istituti. Dopo la modifica dell’art. 6 l. n. 604/1966 (ad opera del predetto art. 32), il licenziamento deve essere impugnato entro sessanta giorni e l’impugnativa è inefficace se non seguita, entro il successivo termine di duecentosettanta giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale. A ciò l’art. 6 novellato aggiunge che, «qualora la conciliazione o l’arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l’accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo». Il rifiuto della conciliazione si perfeziona ove la parte sollecitata a partecipare alla procedura non depositi una memoria di difesa presso la commissione entro venti giorni dal ricevimento della richiesta (art. 410, co. 7). I sessanta giorni, entro cui conformemente al novellato art. 6, co. 2, l. n. 604/1966 deve essere depositato il ricorso al Giudice una volta rifiutata la conciliazione, incominciano a decorrere dall’esaurimento dei predetti venti giorni senza l’adesione alla richiesta di conciliazione. Può succedere, però, che la conciliazione venga accettata e, allora, non si dispone di una esplicita indicazione legislativa. La soluzione ricavabile dal testo legislativo è quella che applica il termine di sessanta giorni, entro il quale depositare il ricorso al giudice, sia nel caso del rifiuto della conciliazione che in quello di espletamento con esito negativo della procedura. Distinguendo fra situazioni in cui la conciliazione è richiesta e non accettata e quelle in cui è richiesta e accettata e, quindi, si svolge, ma si conclude con un verbale di mancato accordo (art. 411 c.p.c.), va osservato che gli ulteriori venti giorni di sospensione di «ogni termine di decadenza», previsti dall’art. 410, co. 2, riguardano solo la seconda tipologia di situazioni. L’art. 410, co. 2, è abbastanza chiaro nel suo riferirsi a situazioni in cui il tentativo di conciliazione è effettuato e non rifiutato in partenza. Nella complessiva disciplina discendente dagli artt. 31 e 32 l. n. 183/2010, rispettivamente fonti di innovazione dell’art. 410 e dell’art. 6 l. n. 604/1966, si nasconde una sorta di disincentivo della conciliazione? La si è intravista nel fatto che la richiesta della conciliazione fa perdere la fruibilità del termine di duecentosettanta giorni7. La discrezionalità lasciata alle parti può essere spesa anche per allungare i tempi. È accreditata, infatti, anche la possibilità di fruire in sequenza dei vari periodi, quando si ammette che, effettuata la richiesta del tentativo di conciliazione nel periodo dei duecentosettanta giorni, il deposito del ricorso al giudice possa essere effettuato entro l’ulteriore termine di sessanta giorni8 Possibilità, questa, presupposta, quando si è concluso che un lavoratore interessato a procedere con lentezza, che conseguentemente si attiva solo nei giorni finali dei vari periodi, può ritardare l’introduzione del giudizio fino ad una massimo di circa quattrocento giorni dal licenziamento9.
Fra le novità più rilevanti introdotte dalla nuova versione dell’art. 410, si segnala l’arricchimento dei contenuti della richiesta di conciliazione. Il precedente remoto è rappresentato dall’art. 414 c.p.c. L’istanza conciliativa, in effetti, viene concepita come una sorta di ricorso al giudice, tanto che la parte interessata alla conciliazione deve fin dall’inizio procedere anche alla «esposizione dei fatti e delle ragioni posti a fondamento della pretesa ». Non meno appesantita è la «memoria contenente le difese e le eccezioni in fatto e in diritto, nonché le eventuali domande in via riconvenzionale», che la parte interessa ad accettare il tentativo di conciliazione deve produrre (qui il modello avuto presente è la memoria di costituzione di cui all’art. 416 c.p.c.). Il verbale che registra il successo, anche parziale, del tentativo di conciliazione, sottoscritto dalle parti e dai componenti della commissione, è dichiarato esecutivo dal giudice su istanza della parte interessata. A fronte di una prassi frequentemente dipinta come caratterizzata da passività delle commissioni, la nuova normativa pretende molto da esse. «Se non si raggiunge l’accordo tra le parti, la commissione di conciliazione deve formulare una proposta per definizione bonaria della controversia». Alle commissioni, pertanto, è chiesto di entrare nel merito e di farsi un’idea e di esprimerla quando le parti non riescono a trovare un’intesa. La fase conciliativa, inoltre, è tutt’altro che separata dall’eventuale e successiva fase giudiziale. La proposta non accettata e le valutazioni delle parti sono riassunti nel verbale di mancata conciliazione e di tutte queste risultanze e, in particolare, della proposta «non accettata senza adeguata motivazione » il giudice, che deve trovare i verbali e le memorie concernenti il tentativo di conciliazione in allegato al ricorso ex art. 415 c.p.c., «tiene conto in sede di giudizio». La capacità attribuita alla fase giudiziale di riflettersi su quella giudiziale si incontra con una tendenza generale che già ha orientato la riforma del processo civile, inducendo ad attenuare il rapporto fra soccombenza e condanna alle spese. In base, all’art. 91, co. 1, c.p.c., come modificato dalla l. n. 69/2009, la parte vittoriosa può essere condannata alle spese maturate dopo l’eventuale proposta conciliativa se l’accoglimento della domanda non abbia portato a più di quanto previsto nella proposta. Il giudice del lavoro è indotto ad applicare un criterio del genere anche da quanto previsto dal nuovo art. 410. Le implicazioni di tutta questa regolamentazione – le parti possono ritenere di dover subito ricorrere a dei professionisti per stilare la richiesta di conciliazione e la memoria difensiva, come possono temere i rischi insiti nel dover subito mettere le carte in tavola e nell’esporsi ad una incontrollabile proposta di conciliazione in grado di condizionare anche la successiva fase giudiziale – fanno intravedere dei disincentivi, con le parti che tendono a chiedere la procedura conciliativa solo se hanno preventivamente trovato un’intesa fra di loro. Presentata più che nel passato come una sede in cui si costruisce il consenso fra le parti, la conciliazione potrebbe finire, di fatto, con l’operare come una procedura volta solo ad attribuire il crisma della inoppugnabilità ad accordi trovati in precedenza.
Come si è già accennato, la procedura conciliativa presso le commissioni non è l’unica trattata dalla l. n. 183/2010. La conciliazione trattata dai contratti collettivi, in sé importante e già considerata dalla vecchia legislazione, compare ora in tre passaggi delle disposizioni del codice di rito. Il primo, riconducibile al nuovo art. 412 ter c.p.c., chiarisce che la conciliazione in sede sindacale è quella regolata dai contratti collettivi sottoscritti da associazioni sindacali maggiormente rappresentative. Ove ricorra la presenza di una o più di tali organizzazioni, è il contratto collettivo di qualsiasi livello la fonte che può istituire e regolare la procedura conciliativa. Si è dibattuto in passato circa la sufficienza dell’assistenza sindacale a far considerare presente la conciliazione a cui la legge si riferisce per riconnettervi l’inoppugnabilità e la capacità di produrre un titolo esecutivo. Il nuovo art. 412 ter considera, come si è sottolineato, la conciliazione prevista dal contratto collettivo, della quale il contratto stabilisce «sedi» e «modalità». Ciò induce a ritenere che solo le conciliazioni in qualche modo regolate dal contratto collettivo e, di fatto, attuate secondo i dettami del contratto possano attingere gli effetti attribuiti dalla legge. La competenza riconosciuta al contratto collettivo, peraltro, è molto ampia. Lo si ricava non solo dall’art. 412 ter, che alla fonte contrattuale/collettiva rimette la definizione delle «sedi e delle modalità» della conciliazione, ma anche dall’art. 411, co. 3, che espressamente dichiara la estraneità del tentativo di conciliazione svolto in sede sindacale alle disposizioni dell’art. 410. In questo modo, è sancita l’immunità della conciliazione disciplinata dai contratti collettivi rispetto alla regolamentazione legislativa. «Il che – come è stato osservato – potrebbe rappresentare una posta a favore della conciliazione sindacale, la quale in linea di massima rimane più elastica e informale e meno vincolante in relazione alla successiva, ed eventuale, fase giudiziale»10. Come già la precedente versione, anche la nuova versione dell’art. 411 prefigura l’attribuzione di efficacia esecutiva al verbale di avvenuta conciliazione presso le sedi individuate dai contratti collettivi, a seguito delle verifiche formali che sfociano nel decreto del giudice. Presso le sedi di certificazione si svolge « il tentativo di conciliazione di cui all’art. 410 del codice di procedura civile». Ne deriva, come si è già sottolineato, l’applicazione delle regole dell’art. 410 compatibili con il fatto che la conciliazione si svolge presso la sede di certificazione e non presso la commissione di conciliazione. Presso le sede di certificazione si gestisce la procedura di cui all’art. 410 e questo legittima ad aggiungere che risultano applicabili anche le altre disposizioni che a tale procedura fanno riferimento. Anche la conclusione della procedura attivata presso la sede di certificazione, sia essa negativa o positiva, è, pertanto, soggetta alle regole dell’art. 411, anche per quanto riguarda l’acquisizione dell’efficacia esecutiva del verbale di avvenuta conciliazione. Della conciliazione tratta anche l’articolo 412 quater, non a caso intitolato «Altre modalità di conciliazione e arbitrato». In esso l’intreccio fra disciplina della conciliazione e disciplina dell’arbitrato risulta direttamente e fortemente strutturato, cosicché se ne rinvia la trattazione a dopo.
La l. n. 183/2010, modificando il codice di rito, colloca le procedure conciliative in articoli diversi da quelli che di tali procedure trattavano prima del suo intervento. Da qui la conseguente esigenza di modificare l’ultimo comma dell’art. 2113 c.c. Tale comma, in effetti, nella versione previgente sanciva l’esclusione delle conciliazioni effettuate «ai sensi degli articoli 185, 410 e 411 del codice di procedura civile» dall’invalidità sancita per le rinunce e le transazioni. Ora, la versione modificata dall’art. 31, co. 7, l. n. 183/2010, avendo presente le innovazioni intervenute, afferma la medesima salvaguardia per le conciliazioni effettuate «ai sensi degli articoli 185, 410, 411, 412 ter, 412 quater». Ai fini della fruizione di tale salvaguardia, non viene direttamente citata la disposizione – l’art. 31, co. 13 – che istituisce la generale competenza conciliativa delle sedi di certificazione. Nondimeno, presso tali sedi si esperisce «il tentativo di conciliazione di cui all’articolo 410» e ciò comporta che anche le conciliazioni che si perfezionano presso tali sedi risultano sottratte all’invalidità considerata dai primi commi dell’art. 2113 c.c.
La l. n. 183/2010 si occupa ampiamente dell’arbitrato, in particolare di quello (definito) irrituale. Gli aspetti su cui introduce innovazioni sono tanti. Le sedi arbitrali, rese numerose nell’assunto che tante diverse sedi aiutino a moltiplicare gli arbitrati, è uno dei punti trattato in maniera innovativa. In particolare, sono quattro le tipologie di sedi presso cui vengono considerate esperibili procedure arbitrali:
a) commissioni di conciliazione istituite presso le Direzioni provinciali del lavoro (art. 412 c.p.c.);
b) collegio di conciliazione e arbitrato previsto e regolato dall’art. 412 quater;
c) sedi previste dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative (art. 412 ter);
d) camere arbitrali costituite da singoli organi di certificazione o camere arbitrali unitarie costituite, a seguito di convenzioni, da più organi di certificazione (art. 31, co. 12, l. n. 183/2010). L’arbitrato presso le commissioni di conciliazione. L’art. 412, che nella versione novellata dall’art. 31, co. 5, l. n. 183/2010 risulta genericamente intitolato a «Risoluzione arbitrale della controversia», fa riferimento alla «commissione di conciliazione». A stregua dell’art. 412, co. 1, le parti, che in prima battuta hanno condiviso l’attivazione di una di dette procedure conciliative, possono concordare l’attivazione di una procedura arbitrale, dando specifico mandato alla commissione già operante come organo conciliativo. Tale facoltà può essere attivata «in qualunque fase del tentativo di conciliazione» e questo induce a ritenere che le parti non possano rivolgersi alla commissione chiedendo solamente l’arbitrato. L’arbitrato, peraltro, può essere concordemente chiesto al termine della conciliazione «in caso di mancata riuscita». Il passaggio dalla mancata conciliazione all’arbitrato è di per sé molto problematico. Una volta che la commissione di conciliazione ha detto la sua, non è proprio pensabile che la parte a cui la proposta non va bene accetti di affidare alla stessa commissione il responso in veste di arbitro. I contenuti della richiesta e dell’accettazione della conciliazione non esauriscono quanto necessario per innescare l’arbitrato. Presupponendo la diversità dei due istituti, l’art. 412 esige che fra le parti intervenga uno specifico accordo. Le parti «possono accordarsi per la risoluzione della lite, affidando alla commissione di conciliazione il mandato a risolvere in via arbitrale la controversia». Nel conferire il mandato per la risoluzione arbitrale della controversia, le parti devono indicare le norme invocate a sostegno della loro pretesa e l’eventuale richiesta che la commissione decida «secondo equità». Da subito, si può riflettere sulle implicazioni del vincolo imposto alle parti che, nel dare mandato alla commissione, devono, fra l’altro, indicare il «termine per l’emanazione del lodo, che non può comunque superare i sessanta giorni dal conferimento del mandato». In particolare, ci si può interrogare su come detto termine si combina con l’art. 6 l. n. 604/1966 nella versione modificata dalla l. n. 183/2010. L’arbitrato che subentra nella procedura conciliativa trova già sospeso il decorso della decadenza e, laddove la richiesta di arbitrato non venga accolta, può trovare applicazione la previsione del citato art. 6, che per l’arbitrato pone una preclusione simile a quella fissata per la conciliazione: si decade dalla facoltà di ricorrere al giudice qualora il ricorso non sia depositato in tribunale entro sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo sull’espletamento dell’arbitrato. Può succedere che l’arbitrato sia concordato al termine della procedura conciliativa e questo, per effetto della somma dei termini delle due procedure, ripropone l’alternativa circa la possibilità di superare i duecentosettanta giorni (dall’impugnazione del licenziamento) senza incappare nella perdita della facoltà di ricorrere al giudice. Alternativa che, nel caso dell’arbitrato, è da valutare sulla base, da una parte, della mancanza di una previsione generale sull’efficacia sospensiva simile a quella dettata dall’art. 410, co. 2, per la conciliazione e, dall’altra, del favor che la l. n. 183/2010 indubbiamente mostra verso l’istituto arbitrale. L’arbitrato presso gli organi di certificazione. Alle commissioni di conciliazione si riconosce senz’altro la capacità di svolgere, direttamente e nella medesima composizione, sia le funzioni tipiche, ossia le funzioni conciliative, che quelle arbitrali. Non sembra che altrettanto possa dirsi per gli organismi di certificazione. Questi non appaiono chiamati ad operare (anche) come organismi arbitrali, ma piuttosto risultano abilitati a dar vita a camere arbitrali e, peraltro, sulla base di criteri per niente definiti a livello legislativo. Ove si acceda alla tesi che le commissioni arbitrali vengono abilitate ad esercitare direttamente le funzioni arbitrali e, peraltro, nella loro normale composizione – tesi non corroborata dalla formulazione legislativa – comunque bisogna concedere che la «costituzione di camere unitarie» da parte delle commissioni di certificazione, prefigurata dall’art. 31, co. 12, l. n. 183/2010, porta alla formazione di una camera non coincidente con un singolo organo di certificazione11. Come si introduce l’arbitrato presso le «camere» istituite dagli organi di certificazione, le procedure che devono seguire, i termini che devono rispettare sono tutti aspetti su cui la l. n. 183/2010 non fornisce indicazioni. L’ipotesi prospettabile è che le commissioni possano procedere direttamente a completare la regolamentazione legislativa, troppo scarna per essere sufficiente. L’arbitrato previsto dalla contrattazione collettiva (art. 421 ter). «Sedi» e «modalità» dell’arbitrato (e non solo della conciliazione) possono essere determinate dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni maggiormente rappresentative. La legge, oltre al rinvio alle fonti contrattuali, non contiene molto di più. L’astensione è, in termini generali, apprezzabile, data la natura e la competenza dei soggetti a cui si fa rinvio. Ad essi, sembra rimessa anche la possibilità di istituire, secondo il modello già sperimentato nei vecchi accordi interconfederali sui licenziamenti, collegi di conciliazione e arbitrato, a cui il soggetto interessato si rivolge avanzando la richiesta di tentare la conciliazione e di passare all’arbitrato ove l’accordo conciliativo non sia trovato.
Avendo fin qui analizzato separatamente conciliazione e arbitrato, non è stato possibile analizzare il nuovo art. 412 quater, il quale non consente una trattazione separata dei due istituti. Detto articolo, infatti, prevede la costituzione di collegi di conciliazione e arbitrato e soggetti interessati a comporre le controversie puntando da subito e in maniera indissolubile sulla conciliazione e sull’arbitrato. La conferma di ciò si riviene nelle previsioni secondo cui l’atto di ricorso al collegio – oltre a specificare l’oggetto della domanda, le ragioni di fatto e di diritto, i mezzi di prova, il valore della controversia e, ancora, il riferimento alle norme invocate a sostegno della pretesa e l’eventuale richiesta di decidere secondo equità – da subito deve riportare anche la nomina dell’arbitro di parte. L’altra parte, a sua volta, manifesta la disponibilità ad accettare la procedura tramite la nomina del proprio arbitro di parte, il quale concorda con l’altro arbitro la nomina del presidente da scegliere tra professori universitari e avvocati ammessi al patrocinio davanti alla Corte di cassazione. L’enfasi, dunque, è fin dall’inizio sull’arbitrato. La conciliazione si tenta e, laddove riesca, chiude la controversia. Tuttavia, ove non riesca, è già assunto l’obbligo di rimettersi all’arbitrato. L’art. 412 quater, forse perché il ricorso all’arbitrato è condiviso fin dall’inizio, dà un’esasperata formalizzazione agli adempimenti e alla procedura conciliativo/arbitrale. Già si è detto della complessità del ricorso che deve presentare la parte che assume l’iniziativa. La parte convenuta è tenuta a depositare una memoria di costituzione, contenente le difese e le eccezioni in fatto e in diritto, le eventuali domande riconvenzionali e i mezzi di prova. Nei tempi scanditi dall’art. 412 quater, il ricorrente può produrre una memoria di replica e il convenuto una «controreplica», deve tenersi l’udienza in cui, se la conciliazione non riesce, si procede all’interrogatorio delle parti, si assumono le prove ammesse, si procede alla discussione orale.
Possono ora passarsi in rassegna le problematiche più importanti che pone la nuova normativa fin qui segnalata.
La questione centrale, in generale e nella specifica disciplina dettata dalla l. n. 183/2010, rimane quella del rapporto della decisione arbitrale con le norme inderogabili. Concentrando l’attenzione sui due arbitrati regolati più direttamente e in termini sostanzialmente coincidenti dalla l. n. 183/2010, ossia quelli di cui all’art. 412 e all’art. 412 quater, sono da affrontare alcuni problemi preliminari. Essi sono arbitrati ex lege, a cui le parti accedono senza la preventiva autorizzazione di un contratto collettivo. La nuova legge configura il rapporto fra le parti e gli arbitri come un mandato, configurazione particolarmente pregnante soprattutto nell’art. 412 quater. Sempre per previsione della legge, il lodo ha, tra le parti, l’efficacia propria dei contratti, come ribadito con l’espressa citazione dell’art. 1372 c.c. Al lodo, inoltre, è dichiarato applicabile l’art. 2113, co. 4, il che può essere visto come un modo per confermare l’efficacia contrattuale del lodo anche quando potrebbe venir meno a causa di un conflitto con disposizioni altrimenti prevalenti. La nuova legge, inoltre, si mette in comunicazione diretta con l’art. 808 ter c.p.c., dove campeggia il lodo come «determinazione contrattuale». In conclusione, ce n’è abbastanza per prendere atto della configurazione data all’arbitrato in chiave negoziale e, in particolare, come atto dispositivo. La proceduralizzazione – sia chiaro – è innegabile e anche eccessiva. Domanda, ragioni di fatto e di diritto, mezzi di prova, difese ed eccezioni di fatto e di diritto, (eventuale) domanda riconvenzionale sono tutti elementi che fanno pensare al processo e non ad altro. Nondimeno, prevale l’essenza negoziale (non decisionale), in uno schema in cui l’attenzione per i predetti elementi sembra suggerita (solo) dalla preoccupazione di dare credibilità a determinazioni arbitrali che si fanno virare verso la stabilità. Natura negoziale e stabilità del lodo, peraltro, non si sposano naturalmente quando sono tante le norme inderogabili che hanno a che fare con il merito delle controversie. E proprio questo è il punto su cui si registra la novità maggiore. Fino a prima della nuova legge, al massimo si riusciva a mettere il lodo al riparo dell’impugnazione per violazione di disposizioni dei contratti collettivi. Dopo la legge, grazie all’affermazione che il lodo «produce tra le parti gli effetti di cui agli articoli 1372 e 2113, quarto comma», si è indotti a pensare che la non impugnabilità copra tutta l’area delle norme inderogabili, anche quelle di carattere legislativo. Accettando l’impostazione che distingue fra fase genetica e fase di disposizione del diritto entrato nel patrimonio, con la l. n. 183/2010 non si ha una deroga all’art. 1418, co. 1, c.c. La recente legge non è «la legge che disponga diversamente», inverando la figura di provvedimento legislativo considerata dalla predetta disposizione. Il lodo arbitrale, come atto dispositivo, non modifica le «norme imperative». La loro normale operatività, come di quelle originate dai contratti collettivi, non è incisa e, anzi, è presupposta dalla collocazione dell’arbitrato nella diversa fase della disposizione dei diritti12. Gli «effetti» del lodo arbitrale negli anzidetti termini vengono affermati dalla nuova legge senza distinguere fra l’arbitrato e l’arbitrato « secondo equità». La circostanza è stata subito rilevata e segnalata come una parificazione in grado di minare la razionalità della legge che, dopo aver distinto due forme di giudizio arbitrale, poi le assoggetterebbe ad un identico e non facilmente spiegabile regime di (non) impugnabilità13. Questo è un rilievo senz’altro utile. Le cause di impugnazione dell’arbitrato si celano nei contenuti del mandato che le parti, se vogliono l’arbitrato, danno agli arbitri, nonché nel rinvio che viene fatto all’art. 808 ter c.p.c. Nel mandato agli arbitri, le parti indicano «le norme invocate … a sostegno delle loro pretese ». Le «norme invocate dalle parti» rappresentano, dunque, il punto di riferimento da assumere nell’arbitrato che, proprio per tale ancoraggio, è da distinguere dall’arbitrato di equità. La nuova legge, inoltre, richiama l’art. 808 ter ai fini dell’impugnazione del lodo, peraltro riqualificando le cause di annullabilità considerate da tale articolo come cause di impugnazione del lodo14. Nell’arbitrato irrituale di diritto comune, le parti, a stregua dell’art. 808 ter, n. 4, sono legittimate a porre, oltre che regole sul procedimento, anche «regole attinenti a criteri di valutazione da utilizzare nella pronuncia del lodo»15. La l. n. 183/2010 va in questa direzione, fornendo nel complesso indicazioni che spingono a confermare quanto ulteriormente si ricava dall’808 ter, n. 4. Il mancato rispetto delle regole indicate dalle parti non rileva quale error in iudicando. Giustifica, piuttosto, l’impugnazione per eccesso di potere degli arbitri16, non equivalente all’impugnazione per violazione o falsa applicazione delle norme di diritto (legislativo e di contrattazione collettiva)17. È verosimile, inoltre, che trovi spazio l’interpretazione secondo cui il «rispetto dei principi generali dell’ordinamento e dei principi regolatori della materia, anche derivanti da obblighi comunitari», richiesto dai nuovi artt. 412, co. 2, e 412 quater, co. 3, all’atto di specificare il contenuto del mandato che le parti danno agli arbitri, valga in ogni caso e a prescindere da quanto indicato dalle parti18. Può, quindi, formularsi la considerazione generale secondo cui gli arbitri sono tenuti ad attenersi alle norme invocate dalle parti e comunque ai predetti principi19. Alle ipotesi di impugnazione così evidenziabili si aggiungono le altre previste dall’art. 808 ter e, dunque, la proclamazione degli effetti di cui agli artt. 1372 e 2113, co. 4, c.c. – effettuata dai citati art. 412 e art. 412 quater – non deve trarre in inganno. Il grado di stabilità del lodo scaturente dall’arbitrato, che certamente cresce, non equivale, in particolare, alla stabilità delle conciliazioni che fruiscono pienamente degli effetti di cui all’art. 2113, co. 420. Un discorso a parte merita l’arbitrato di equità. La nuova legge abilita espressamente le parti del rapporto di lavoro a chiedere agli arbitri di comporre la lite «secondo equità». Quanto ciò comporti non è affatto scontato. Lo conferma anche l’esperienza dell’arbitrato rituale, dove si sono confrontate diverse concezioni dell’equità proprio riguardo al rapporto con le regole di diritto21. Nel passaggio da un mandato che fa riferimento alle «norme invocate» dalle parti ad un mandato che fa riferimento alla «equità», è insito un notevole cambiamento. Chiedendo agli arbitri di procedere «secondo equità», le parti avanzano una richiesta che indubbiamente ne amplia gli spazi decisionali. In base alla nuova legge, l’arbitrato «secondo equità» è quello in cui non ci sono «norme invocate» dalle parti. In virtù della capacità del lodo di produrre gli «effetti di cui all’art. 2113, co. 4, c.c.», non ci sono in ballo nemmeno le norme inderogabili che, altrimenti, farebbero sentire il loro peso sul lodo anche senza l’invocazione delle parti. Davvero, dunque, l’equità di cui alla nuova legge accresce la discrezionalità. Valutazione, questa, ridimensionabile, ma non annullabile del tutto, in virtù della circostanza che (anche) all’arbitrato «secondo equità» viene richiesto il «rispetto dei principi generali dell’ordinamento e dei principi regolatori della materia, anche derivanti da obblighi comunitari »22. Si è prospettato, infatti, che l’inosservanza dei suddetti principi legittimi l’impugnazione del lodo solo nei limitati casi in cui raggiunga gli estremi della violazione del mandato «e così nei soli casi in cui l’inosservanza sia talmente grave da far apparire la decisione degli arbitri frutto (non di equità bensì sostanzialmente) di mero arbitrio»23. I principi non coincidono con le singole norme inderogabili e l’incapacità della violazione di norme inderogabili di invalidare il lodo è sancita in maniera indiretta ma chiara. Senza addentrarsi sul rapporto fra norma inderogabile e indisponibilità del diritto, che pure fa ampiamente parte della tradizione delle riflessioni sull’arbitrato, è interessante considerare le piste interpretative che, a partire dall’inderogabilità, hanno prefigurato un’incisività decisamente ridotta dei lodi arbitrali, anche di quelli emanati «secondo equità». Lo schema adottato a tale scopo sposta l’arbitrato nella fase di formazione (sia pure successiva) del regolamento contrattuale del rapporto di lavoro, schema proposto in generale per l’arbitrato e comunque considerato particolarmente appropriato per l’arbitrato (e, quindi, il lodo) scaturente da una clausola compromissoria introdotta nel contratto individuale prima dell’insorgere dalle controversia. In questo caso, infatti, viene considerato assolutamente evidente l’intervento nel momento genetico della disciplina contrattuale del rapporto24. Concepito il lodo arbitrale quale atto che concorre alla formazione della disciplina contrattuale, si arriva de plano alla nullità proclamata dall’art.1418, co. 1, e alla invalidità di cui all’art. 2113, co. 4. Al di là della distinzione diritto/equità, la funzione dispositiva è, da una parte, da confermare e, dall’altra, da intendere bene, in sé e nelle sue implicazioni. Dire che l’arbitrato conduce alla definizione di un particolare assetto di interessi per i profili controversi non legittima affatto a concludere che, per questo, diviene applicabile il trattamento giuridico riservato agli atti negoziali in conflitto con norme imperative nella produzione di particolari effetti giuridici. L’arbitrato produce composizioni di liti relative a diritti già sorti e ciò è più che sufficiente per collocarlo nella fase della disposizione dei diritti e non della produzione di regole valutabili in termini di conformità/difformità rispetto a norme imperative e prevalenti25. Tutto questo trova conferma anche nel fatto che il lodo da arbitrato irrituale, a cui non è applicabile l’equiparazione quoad effectum alla sentenza del giudice che il codice di rito dispone solo per l’arbitrato rituale, non ha l’attitudine a dar luogo ad una «cosa giudicata», non contiene accertamenti volti a fare stato fra le parti nelle successive vicende del rapporto fra di loro intercorrente: il lodo da arbitrato irrituale chiude la lite e in alcun modo pregiudica il futuro26. La disciplina dettata dalla l. n. 183/2010 opera anch’essa sotto l‘anzidetta condizione. Anche gli arbitrati da essa disciplinati sarebbero soggetti alla (azione di) nullità ex art. 1418 o all’annullabilità ex art. 2113 ove, incidendo sul momento genetico del diritto e disponendo per il futuro, finissero per definire una disciplina del rapporto diversa da quella prevista dalla normativa inderogabile27. Queste conclusioni non sono contraddette nemmeno dalla derivazione dell’arbitrato da una clausola compromissoria immessa ex ante nel contratto individuale di lavoro nei termini previsti dalla nuova legge. Anche in questo caso l’arbitrato può riguardare solo diritti già sorti28. Del nuovo assetto legislativo si può anche essere scontenti29 e, del resto, non è da ora che ci si è chiesti se, e fino a che punto, sia accettabile una netta separazione tra il momento dell’acquisizione formale del diritto e quello, logicamente distinto ma non per questo inerente ad un diverso rapporto giuridico, dell’adempimento dell’obbligato e, quindi, della soddisfazione dell’interesse tutelato30. Nemmeno un’interpretazione costituzionalmente orientata, tuttavia, mette l’interprete in condizione di superare quanto la nuova legge chiaramente prevede, avendo dalla sua un assetto generale dell’ordinamento che non stabilisce affatto la realizzazione necessaria di quanto leggi e contratti collettivi prevedono in astratto e il lavoratore considera sussistente in concreto, in conformità a quanto ritiene di individuare a livello normativo31. Dall’assimilazione del lodo arbitrale alla conciliazione si trae l’argomento che risulta equilibrato far valere per il lodo quanto è stabilito per la conciliazione32. L’argomento ha un suo rilievo, ma non è in grado di chiudere la questione. La qualificazione (anche) del lodo arbitrale in chiave dispositiva, infatti, non fa venir meno la differenza fra il disporre direttamente e il disporre tramite soggetti terzi. Le preoccupazioni a senso unico non appaiono, tuttavia, giustificate. Conciliatori che possono informalmente indurre ad accordi transattivi, magari rovinosi, senza assumerne diretta responsabilità sono da temere molto di più di arbitri che, in maniera trasparente, si fanno carico della diretta responsabilità del componimento della controversia. L’arbitrato, d’altro canto, può divenire un fenomeno di massa solamente se in grado di produrre soluzioni ragionevoli, oltre che tempestive. In mancanza di questa condizione, è impensabile che esso, stante la volontarietà, possa diffondersi. Per questo, la sua astratta pericolosità per i diritti, se anche di essa si fosse convinti, non è da considerare senz’altro equivalente alla sua (possibile) effettiva capacità di incidere. Questo è un punto centrale ed è a proposito di esso che si tocca un grave limite della l. n. 183/2010 la quale, focalizzata sul regime dell’impugnazione, non dà alcun contributo affinché l’esperienza arbitrale possa conquistare credibilità sul campo. L’arbitrato richiede investimenti, anche organizzativi e di formazione degli arbitri33, profili di cui la legge si disinteressa completamente.
Facendo ancora riferimento agli artt. 412 e 412 quater, c’è da prendere atto della possibilità di munire di efficacia esecutiva i lodi derivanti dalle procedure arbitrali da essi regolate. Possibilità che, come già nella vecchia normativa, richiede la definitività del lodo conseguente all’accettazione del lodo da ambedue le parti ovvero all’esaurimento del termine di trenta giorni per l‘impugnazione del lodo o, ancora, al rigetto dell’impugnazione da parte del giudice – il tribunale – competente a decidere in unico grado (cfr. art. 412, co. 2, e 412 quater, co. 9). Con scarne, ed analoghe, disposizioni, l’art. 412, ultimo comma, e l’art. 412 quater, co. 11, rimettono al Tribunale la competenza a decidere, in unico grado, l’impugnazione del lodo scaturito dalle procedure dagli stessi articoli disciplinate. L’impugnazione considerata è quella «ai sensi dell’art. 808 ter». Tuttavia, per quello che si è sopra osservato, i motivi di doglianza, che possono farsi valere con l’impugnazione, non sono solo quelli elencati dall’art. 808 ter34.
A seguito della l. n. 183/2010, sono venuti meno i condizionamenti che la vecchia versione dell’art. 412 ter faceva gravare sui contratti collettivi. Alla loro maggiore libertà, si accompagna una indeterminatezza circa il regime giuridico dei lodi destinatati a formarsi presso le «sedi» e secondo le «modalità» definite dai contratti stessi nell’esercizio della competenza riconosciuta dalla nuova versione dell’art. 412 ter. Quanto previsto espressamente al riguardo dalla l. n. 183/2010 concerne gli altri arbitrati, quelli di cui agli artt. 412 e 412 quater. Il lodo da arbitrati previsti da contratti collettivi risulta esposto alla disciplina generale dell’art. 5, co. 1, l. n. 533/1973 e dell’art. 808 ter, con conseguente impugnabilità del lodo con la normale azione di cognizione, articolata nei tre gradi di giudizio. L’acquisizione dell’esecutorietà, prevista solo per gli altri arbitrati, risulta preclusa ai lodi raggiunti nelle sedi arbitrali istituite dai contratti. Prima ancora, l’impegno profuso dagli artt. 412 e 414 quater per favorire la stabilità del lodo arbitrale non è direttamente in grado di abbracciare il lodo raggiunto in sede sindacale. L’ipotesi, secondo cui la menzione dell’art. 412 ter nella nuova versione dell’ultimo comma dell’art. 2113 c.c. abbraccerebbe anche l’arbitrato effettuato presso le «sedi» individuate dai contratti collettivi, urta troppo con la formulazione di tale comma, che solo la conciliazione menziona35. Essa, inoltre, prefigura una soluzione non armonica rispetto a quanto gli artt. 412 e 412 quater nel complesso stabiliscono, non facendo coincidere il grado di stabilità del lodo con la stabilità della conciliazione. Se interessati, i contratti collettivi potranno tentare di risalire la china? Lo si è prefigurato pensando a nuovi contratti collettivi che si preoccupino di richiamare, almeno in parte, i vigenti artt. 412 e 412 quater36. In una posizione intermedia fra gli arbitrati più regolati dalla legge (artt. 410 e 412 quater) e quelli meno regolati dalla legge (art. 412 ter), si colloca l’arbitrato presso gli organi di certificazione. Per questo, tramite il rinvio all’art. 412, co. 3 e 4, almeno si afferma che l’impugnabilità del lodo è regolata dall’art. 808 ter e che è possibile far dichiarare il lodo esecutivo dal giudice. Dal medesimo rinvio, inoltre, deriva che anche l’impugnazione del lodo emanato all’esito di procedure attivate presso gli organi di certificazione è affidata al tribunale che decide in unico grado, secondo il rito del lavoro. Il che, da una parte, fa ancor di più risaltare l’assenza di una disciplina legislativa sui medesimi temi per l’arbitrato previsto dai contratti collettivi e, dall’altra, fa sorgere interrogativi sulla ragione dello spezzettamento di una disciplina sull’impugnabilità del lodo che, nell’art. 412 e anche nell’art. 412 quater, ingloba il riferimento agli artt. 1372 e 2113 c.c. e non solo all’art. 808 ter.
1 Cfr. art. 31, co. 9, l. n. 183/2010.
2 Delle controversie relative al «personale in regime di diritto pubblico» tratta il comma 4 e non il comma 1 dell’art. 63.
3 Cfr., da ultimo, Del Punta, Opinioni sul «collegato lavoro», in Dir. lav. rel. ind., 2011, 136, con riferimento agli organismi arbitrali abilitati a maneggiare l’equità.
4 Cfr. Cass., 19.6.2006, n. 14087, in Riv. it. dir. lav., 2007, II, 188 ss.
5 Cfr., in tal senso, Mutarelli, Ipotesi residue di conciliazione obbligatoria, in Cinelli-Ferraro (a cura di), Il contenzioso del lavoro, Torino, 2011, 88 ss.
6 Per essa si veda Ferraro, La conciliazione, in Cinelli-Ferraro (a cura di), Il contenzioso, cit., 62.
7 Cfr. Massi, Collegato lavoro: conciliazione e arbitrato nel nuovo processo del lavoro, Milano, 2011, 25.
8 Cfr. Amoroso, Il nuovo regime delle impugnazioni e delle decadenze, in questo volume 3.1.1.
9 Gambacciani, L’onere di impugnazione (anche giudiziale) del licenziamento, in Proia-Tiraboschi (a cura di), La riforma dei rapporti e delle controversie di lavoro, Milano, 2011, 179.
10 Ferraro, La concilizione, 72.
11 La tesi della coincidenza della commissione di certificazione con il collegio arbitrale compare in Menegatti, I nuovi arbitrati irrituali in materia di lavoro, in Il collegato lavoro 2010, Milano, 2011, 293.
12 Non a caso, giocando sulla distinzione fra produzione di diritti da parte di norme inderogabili e disposizione di diritti già entrati nel patrimonio in virtù di tali norme, si è ritenuto di ribadire che «l’arbitrato non ha nulla a che vedere con l’ipotesi di derogabilità assistita secondo meccanismi di certificazione e/o validazione della volontà individuale avanzata da tempo in dottrina», Corvino-Tiraboschi, La risoluzione arbitrale delle controversie, in La riforma dei rapporti e delle controversie di lavoro a cura di Proia- Tiraboschi, Milano, 2010, 122.
13 Cfr. Nicolini, Altre modalità di conciliazione ed arbitrato (art. 412 quater c.p.c.), in Il contenzioso del lavoro a cura di Cinelli-Ferraro, Torino, 2011, 195.
14 I nuovi artt. 412, co. 4, e 412 ter, co. 10, affermano la competenza in unico grado del Tribunale sulle controversie derivanti dall’impugnazione del lodo facendo ad esse riferimento come «controversie sulla validità del lodo arbitrale irrituale». Da ciò, per come è congegnata la normativa nel suo complesso e anche per il fatto che il riferimento alla (prospettata) invalidità del lodo si combina perfettamente con la formulazione dell’art. 808 ter c.p.c., che a sua volta parla di «lodo contrattuale annullabile», non si ricava la possibilità di ampliare l’impugnabilità oltre le cause espressamente previste.
15 Così Bove, Commento all’art. 808 ter, in La nuova disciplina dell’arbitrato a cura di Menchini, Padova 2010, 95.
16 Coerentemente all’idea dell’arbitrato irrituale quale strumento di disposizione negoziale del diritto controverso, si è ritenuto che il n. 4 dell’art. 808 ter legittimi l’impugnazione per violazione delle regole procedurali e per errata individuazione del criterio di giudizio: cfr. ibidem.
17 Ibidem, secondo cui «i criteri imposti dalle parti rappresentano una sorta di recinto, che l’arbitro non può oltrepassare, ma nel cui ambito sono concepibili più scelte giuridicamente legittime».
18 Cfr. Tosi, L’arbitrato nel «Collegato lavoro» alla legge finanziaria 2010, in Lav. giur., 2010, 1172. In precedenza, pur prospettando soluzioni volte a dare maggiore stabilità al lodo arbitrale, si è comunque sottolineata l’esigenza di «fare salva la intangibilità delle norme e dei fondamenti del sistema quali il principio di non discriminazione, i diritti e le liberà fondamentali delle persone»: così Treu, La riforma della giustizia del lavoro: conciliazione e arbitrato, in Dir. rel. ind., 2003, 40. Sennonché, il modo in cui la nuova legge ha fatto fronte a tale esigenza non appare essere quello più adatto a dare certezza circa i confini della impugnabilità/inoppugnabilità.
19 Gli arbitri emanano il lodo avendo presenti le norme invocate dalle parti e, per questo, non trova applicazione il principio jura novit curia. Secondo Donzelli, La risoluzione arbitrale delle controversie di lavoro, in Il contenzioso del lavoro a cura di Cinelli-Ferraro, Torino 2001, 132, i principi generali e quelli regolatori della materia, invece, devono essere tenuti presenti anche se non invocati, pena l’impugnabilità del lodo per il mancato rispetto degli stessi.
20 Diversa è la valutazione di Boccagna, L’arbitrato di equità, in Cinelli-Ferraro (a cura di), Il contenzioso del lavoro, cit., 145: «La vera novità della l. n.183/2010 è … rappresentata (non dalla previsione del giudizio secondo equità, bensì) dalla equiparazione (disposta dai novellati artt. 412 e 412 quater c.p.c.) dell’arbitrato irrituale (non soltanto, si badi, di quello secondo equità) alle conciliazioni ‘assistite’ di cui all’art. 2113, co. 4, c.c., equiparazione che comporta la non impugnabilità del lodo (tanto di quello reso secondo equità quanto di quello reso in base alle regole di diritto) per violazione di norme inderogabili di legge o di contratto collettivo ». La non impugnabilità del lodo per violazione di norme inderogabili di legge e contratto collettivo non esclude, tuttavia, l’impugnabilità per le ragioni indicate nel testo. Per questo, l’equiparazione non è piena. In tal senso, anche Borghesi, Gli arbitrati in materia di lavoro, in Il diritto processuale del lavoro, Vallebona (a cura di), in Trattato di diritto del lavoro, diretto da Persiani-Carinci, IX, Padova, 2011, 670.
21 Suoi tratti caratterizzanti sono stati individuati nello svincolo dall’osservanza delle norme di diritto e nel ricorso a principi e criteri di prudenza e opportunità in funzione di conclusioni più adatte e più eque, secondo la coscienza degli arbitri stessi, per la soluzione del caso concreto. Più restrittiva è la concezione dell’equità, che la inquadra come criterio di giudizio generale e astratto e, di riflesso, la considera legittimata a derogare alle regole di diritto solo se, in base ad un prudente e motivato apprezzamento degli arbitri, sia preferibile ai fini dell’applicazione di principi come la buona fede e la ragionevolezza. Cfr. le massime dei lodi riportate sub art. 822 c.p.c. nel Commentario al codice di procedura civile, diretto da Consolo, III, Milano, 2010, 1950 ss.
22 Art. 412, co. 2 e art. 412 quarter, co. 3, c.p.c.
23 Boccagna, L’impugnazione del lodo, in Cinelli- Ferraro (a cura di), Il contenzioso del lavoro, cit., 159. Sottolineano che la violazione dei principi in questione legittima l’impugnazione del lodo ex art. 808 ter, n. 4, c.p.c., senza ricondurre all’impugnabilità per violazione delle norme inderogabili, Corvino- Tiraboschi, La risoluzione arbitrale, cit. 126.
24 In questa prospettiva svolge un ampio ragionamento Zoppoli, cit., 422 ss. Cfr. anche Speziale, La riforma della certificazione e dell’arbitrato, cit., 155 ss.
25 Sul fatto che il lodo, sia di diritto che di equità, fruisce del regime inoppugnabilità ex art. 2113 c.c. solo ove riguardi diritti già sorti, cfr., dopo la l. n. 183/2010, Borghesi, Gli arbitrati in materia di lavoro, cit., 670 ss. In passato, si è ipotizzato che il lodo arbitrale presentasse «funzionalmente un carattere di decisione sulla situazione controversa che potrebbe incidere, per il futuro, sulla regolamentazione del rapporto»: così Magnani, Conciliazione e arbitrato in Italia alla luce dei recenti interventi legislativi, in Loy (a cura di), La nuova disciplina della conciliazione e dell’arbitrato, Padova, 2000, 30. Sennonché, l’arbitrato nasce, in genere, da una pretesa che fa riferimento a diritti che si ritengono già maturati e, per questo, pretesi. Esso, quindi, è naturalmente proteso verso fasi pregresse e non future del rapporto di lavoro.
26 In ciò si rinviene anche un’importante ragione per tener ferma, nonostante la proceduralizzazione finanche eccessiva, la qualificazione che la l. n. 183/2010 fornisce degli arbitrati di cui tratta. Confermare l’appartenenza alla specie irrituale significa, infatti, mantenere i predetti arbitrati lontani dalle disposizioni del codice di rito che al lodo derivante dall’arbitrato rituale riconoscono gli effetti della sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria (artt. 819 ter e 824 bis c.p.c.). Solamente tale lodo, infatti, può acquisire il valore di «cosa giudicata» fra le parti e, secondo alcune tesi, produrre effetti riflessi anche nei confronti di soggetti estranei al processo arbitrale. È da tempo, del resto, che si è sottolineato: «l’arbitrato irrituale … non servirebbe a ridisciplinare anche per il futuro la medesima situazione, restando le parti libere di far valere quegli stessi diritti oggetto di arbitrato irrituale, in relazione a periodi successivi allo svolgimento di quest’ultimo, sulla base di norme di legge o di contratto collettivo che solo il legislatore e l’autonomia collettiva (e non l’arbitrato irrituale) possono modificare con proiezione «regolamentare futura»: così De Luca Tamajo, L’arbitrato nelle controversie di lavoro: tendenze e resistenze, in Quad. dir. lav. rel. ind., 1994, 13, 18 ss. Ancor di più quanto si è pensato ad un regime del lodo arbitrale simile a quello della conciliazione ex art. 2113, co. 4, c.c., si è osservato che «l’estensione si può sostenere solo per l’arbitrato che risolva, per il passato, una controversia»: così Treu, La riforma della giustizia del lavoro, cit., 36.
27 Borghesi, Gli arbitrati in materia di lavoro, cit.. 670. In tal senso, anche Del Punta, Opinioni, cit., 144.
28 Di diverso avviso è Boccagna, L’impugnazione del lodo, cit., 156 ss., secondo cui è da escludere che gli arbitri ridefiniscano la disciplina sostanziale del rapporto quando l’arbitrato derivi da compromesso e, invece, «nell’arbitrato da clausola compromissoria, la dismissione (beninteso meramente eventuale) dei diritti dei lavoratori, pur realizzandosi solo in seguito alla pronuncia del lodo, si ricollega ad una volontà dispositiva già manifestata dalle parti all’atto della stipulazione della clausola compromissoria. Sicché …. l’applicazione dell’inoppugnabilità di cui all’art. 2113, co. 4, avrebbe l’effetto di consentire un’inammissibile rinuncia preventiva del lavoratore a tutti i propri diritti». Per quanto osservato nel testo, questa è una distinzione non accettabile: l’arbitrato, indipendentemente dalla sua provenienza (compromesso o clausola compromissoria), può stare o non stare nei limiti che gli evitano il diretto impatto – per lo stesso esiziale – con le disposizioni inderogabili. Se sta nei limiti, fruisce dell’applicazione dell’art. 2113, co. 4.
29 Fino al punto da prospettare dubbi di legittimità costituzionale. Cfr. Alleva-Naccari, «Legge Sacconi»: un fascio di incostituzionalità, in il Manifesto, 25.3.2010.
30 In tal senso, fra gli altri, già Giugni, I limiti legali dell’arbitrato nella controversie di lavoro, in Riv. dir. lav., 1958, I, 77. Approcci del genere non hanno impedito, tuttavia, di coltivare, come nel caso del predetto autore, prospettive favorevoli allo sviluppo dell’arbitrato.
31 Per una posizione particolarmente netta nell’affermare che «l’espressa previsione della validità di transazioni del lavoratore, assistite o non impugnate nel termine, su vantati diritti derivanti da norme inderogabili riafferma … la tecnica civilistica del diritto soggettivo come facultas agendi, con sicura esclusione di qualsiasi lettura «pubblicistica» dell’inderogabilità quale sistema oggettivo di tutele ad inveramento necessario», v. Vallebona, Introduzione a Il diritto processuale del lavoro, Trattato di diritto del lavoro, diretto da Persiani-Carinci, IX, Padova, 2011, XXVIII.
32 Così Corvino-Tiraboschi, La risoluzione arbitrale, cit., 117 ss. Per la sottolineatura che il lodo da arbitrato irrituale «è, o dovrebbe essere … una determinazione contrattuale che gli arbitri assumono in luogo delle parti, cioè una determinazione di contenuto squisitamente ‘transattivo’», cfr. Tosi, L’arbitrato, cit., 1172.
33 L’esigenza di considerare la questione dell’impugnabilità, ma non di limitarsi ad essa al fine di favorire effettivamente lo sviluppo dell’esperienza arbitrale, è stata da tempo sottolineata. Cfr. quanto ampiamente illustrato e proposto da Treu, La riforma della giustizia del lavoro, cit., 33 ss., circa l’insieme di misure da adottare allo scopo.
34 Per le ulteriori problematiche connesse all’impugnazione del lodo, cfr. Borghesi, Gli arbitrati in materia di lavoro, cit., 676 ss.
35 Cfr. Borghesi, Gli arbitrati in materia di lavoro, cit., 685.
36 Cfr. Borghesi, Gli arbitrati in materia di lavoro, cit., 670. La possibilità che i contratti collettivi possano andare oltre, fino ad escludere per l’eventuale lodo equitativo l’impugnabilità postulata dagli artt. 412 e 412 quater, è giustamente esclusa da Tosi, L’arbitrato, cit., 1172. Anche l’efficacia esecutiva non risulta acquisibile dal lodo scaturente da una sede individuata e regolata dal contratto collettivo, al di là di qualsiasi indicazione al riguardo da parte del medesimo contratto..