Spazio, la conquista dello
SOMMARIO: 1. Introduzione. 2. I sistemi statunitensi di trasporto spaziale. 3. Lo Spacelab. 4. I sistemi europei di trasporto spaziale. 5. Le stazioni spaziali. 6. Le sonde spaziali. Il progetto Giotto. 7. Altre realizzazioni e progetti futuri. □ Bibliografia.
1. Introduzione
In campo spaziale le scelte politiche e tecnologiche successive al 1980 hanno costantemente privilegiato i programmi di utilità (aventi cioè fini di ricaduta industriale ed economica). Tali tendenze, già emerse alla fine del decennio scorso e messe in luce nell'articolo spazio (v. Santini, 1984), perseguono la ‛commercializzazione' delle attività spaziali, portando in primo piano la questione, precedentemente trascurata, del rapporto costi/ricavi. In particolare, per quel che riguarda i veicoli di lancio, gli Stati Uniti hanno quasi completamente abbandonato la progettazione e lo sviluppo dei grossi razzi vettori, troppo dispendiosi, per concentrarsi sul miglioramento dei veicoli ‛riusabili' e ‛recuperabili', a parte le realizzazioni militari, di cui ovviamente molti dettagli non sono noti.
2. I sistemi statunitensi di trasporto spaziali
Il sistema di trasporto spaziale è considerato il cardine fondamentale dei programmi spaziali statunitensi, almeno fino alla fine del XX secolo. Inizialmente il sistema era concepito essenzialmente in funzione dello Space Shuttle, già brevemente illustrato nell'articolo spazio (v. Santini, 1984), ma un gravissimo incidente, la cui dinamica sarà illustrata più dettagliatamente in seguito, avvenuto il 29 gennaio 1986, ha imposto una completa riconsiderazione di tutto il programma.
Nonostante questo stato di incertezza, e poiché in ogni caso il programma Shuttle avrà un seguito, è importante conoscere i principî che ne hanno ispirato la concezione.
Caratteristiche fondamentali dello Shuttle sono la ‛recuperabilità' e il ‛rientro pilotato'. Il veicolo recuperabile e riusabile nacque, almeno come idea, già dai primi tempi operativi dell'attività spaziale, come reazione al terribile dispendio della formula razzo vettore, che aveva condotto a costi operativi dell'ordine dei 1.000 $/kg in orbita bassa. La possibilità di utilizzare, se non tutto, almeno una parte notevole del veicolo di lancio sembrava destinata ad abbattere drasticamente i costi; così invece non è stato, un po' per le difficoltà di manutenzione e le esigenze di revisione da un volo all'altro (con sostituzione di parti avariate), un po' per la grande complessità del sistema, che implica la presenza dell'uomo a bordo. A questa complessità si fa risalire anche la grave vulnerabilità del sistema nei confronti di eventi casuali, come quello che ha provocato il disastro del gennaio 1986.
Per quel che riguarda il rientro esistono, in linea di principio, due possibilità: una è costituita dal ‛rientro balistico', che si ha quando un corpo ‛cade' nell'atmosfera sotto l'azione della gravità, senza alcun sistema di controllo, né portanza aerodinamica; fu questa la via scelta nelle prime capsule, di tipo Mercury (v. Santini, 1984). La seconda via, quella del rientro pilotato, si ha invece quando un operatore (un equipaggio o un sistema automatico) effettua le manovre necessarie agendo soprattutto su superfici di controllo aerodinamiche. L'aerodinamica a cui ci si riferisce è assai diversa da quella dei velivoli tradizionali, e questo sia per le velocità assai maggiori, sia per le condizioni fisiche del fluido in cui il volo ha luogo, caratterizzate da forte ionizzazione e rarefazione. Solo da poco la meccanica dei fluidi ha cominciato ad acquisire nozioni veramente consolidate in questo campo. Strettamente connessa con l'idea della recuperabilità è quella della ‛modularità', ossia della possibilità di sostituire - sulla stessa struttura di base - un elemento del sistema con un altro, per l'effettuazione di missioni diverse.
Rimandiamo all'articolo spazio per la descrizione generale della missione tipica dello Shuttle, limitandoci a ricordare che nelle 21 missioni precedenti il disastro il numero dei componenti l'equipaggio era salito da 2 a 7 (8 in alcuni dei voli più recenti) e il carico pagante era passato da 46.000 a 65.000 libbre (limite superiore previsto dal programma).
Il sistema principale di propulsione dello Shuttle è costituito da motori ad alto valore tecnologico, a idrogeno liquido e ossigeno liquido. Per intuire le grandi difficoltà che hanno accompagnato lo sviluppo dei motori, si pensi che la pressione in camera di combustione raggiunge le 200 atmosfere e che le pompe di alimentazione della miscela arrivano a 36.000 giri/minuto e sono state progettate per un funzionamento complessivo di 10 voli (≃ 5.000 secondi). Queste poche cifre già bastano a fornire un'idea delle tremende sollecitazioni meccaniche e termiche che accompagnano le fasi di lancio e che, se non giustificano, almeno spiegano le cause della défaillance dello Shuttle.
Per quel che riguarda il sistema di protezione termica, che ha costituito fin dai primi voli un grosso problema, in linea di principio si potrebbe pensare a due soluzioni: il sistema ad ‛ablazione' e quello a ‛pozzo di calore'. Nel primo la quantità di calore entrante nel corpo viene assorbita facendo effettuare un cambiamento di stato (generalmente sublimazione) al rivestimento protettivo, che è così ‛portato via' (questa la ragione del nome); nel secondo, invece, la quantità di calore entrante serve per innalzare la temperatura del rivestimento stesso, che deve essere quindi dotato di elevata capacità termica ed essere sufficientemente isolante, perché lo scopo finale da raggiungere è che si abbiano temperature di parete esterna (all'interfaccia rivestimento-cabina) non superiori a un limite prefissato, ritenuto sufficiente per assicurare condizioni termiche accettabili all'interno della cabina. Questo limite, per lo Shuttle, è stato fissato in 176 °C; il sistema scelto per l'Orbiter è quello a pozzo di calore, soprattutto in linea con il concetto di recuperabilità che, come abbiamo già visto, ha guidato il progetto; a questo proposito va notato che il sistema di protezione termica è stato studiato in modo da assicurarne l'efficienza per almeno 100 missioni. Poiché la quantità di calore entrante varia molto da un punto all'altro della superficie del velivolo, si sono resi necessari diversi sistemi di protezione. Nei punti in cui la temperatura di ristagno è inferiore ai 370 °C si erano largamente usate in passato le classiche ‛mattonelle' (tiles) di feltro speciale NOMEX, a superficie bianca (per ottimizzarne il comportamento termico in orbita); nel secondo esemplare, il Challenger, queste mattonelle sono state in gran parte sostituite da un rivestimento in composito (AFRSI = Advanced Flexible Reusable Surface Insulation) che, per le sue caratteristiche di flessibilità, di lavorabilità, di comportamento termico, ha gradualmente soppiantato le mattonelle. Nei punti più esposti al calore (parte anteriore della fusoliera, parte inferiore dell'ala, certe zone del timone), dove si hanno temperature estremamente elevate (fino a 1.260 °C), sono necessari materiali speciali, di cui si conoscono due versioni: una a bassa densità (4 kg/m2) e l'altra a elevata densità (10 kg/m2). Sono allo studio alcuni notevoli miglioramenti, con l'impiego di materiali ceramici ad alta resistenza, con buone caratteristiche di fratturabilità.
Tra i sistemi più interessanti dello Shuttle, per le sue possibili applicazioni future e per il suo significato pionieristico, va menzionato il ‛braccio artificiale'. Si tratta di un sistema completamente automatizzato, di fabbricazione canadese, che sporge dalla cabina durante le fasi di volo e che ha il compito di afferrare, maneggiare e rilasciare oggetti esterni, come i satelliti artificiali da inserire in orbita o da ritirare dall'orbita stessa. Le sue caratteristiche sono tali da renderlo capace di abbandonare nello spazio, o di catturare, un corpo di 65.000 libbre di peso (il massimo carico pagante previsto, come si è già detto), con una velocità di cattura massima di 0,1 piedi al secondo; la superficie di cattura è un rettangolo di 12 × 60 piedi quadrati di area. Il sistema è progettato per una vita utile di almeno 10 anni e per 100 missioni dell'Orbiter. I movimenti del braccio sono sostanzialmente gli stessi del braccio umano, con sei gradi di libertà: due angoli di rotazione per il punto d'attacco alla cabina (la torsione è esclusa), come per la spalla; un angolo di rotazione tra il primo e il secondo elemento del braccio, come per il gomito; tre rotazioni per il ‛polso'. Queste caratteristiche conferiscono al sistema una grande flessibilità d'impiego; naturalmente tutti i movimenti sono regolati dal calcolatore centrale del veicolo. Esiste anche la possibilità di un impiego manuale, cioè con regolazione da parte del personale di bordo, sempre però tramite sistemi asserviti; particolare cura va posta nel bloccaggio del sistema (che è fatto sui tre punti di snodo) nelle fasi di ascesa in orbita e di rientro.
Dal punto di vista tecnologico le maggiori difficoltà di realizzazione dipendono dalla necessità di conferire al congegno una precisione notevole e da quella di disporre di una forte coppia motrice per l'effettuazione dei movimenti del braccio; viceversa i motori di coppia installati a bordo, per evidenti ragioni di peso, di ingombro e di affidabilità, sono piuttosto piccoli. Il conflitto fra queste esigenze opposte è stato parzialmente risolto con l'impiego di alti rapporti di riduzione cinematici (dell'ordine di 1/1.000); è facile immaginare quali e quanti problemi tutto ciò abbia comportato per la realizzazione degli ingranaggi di trasniissione.
Abbiamo illustrato questo meccanismo, che può sembrare un dettaglio, perché rappresenta un settore di avanguardia che avrà certamente un grande sviluppo nei decenni futuri: la robotica spaziale. Questo nuovo settore della tecnologia si pone come obiettivo la completa automatizzazione delle manovre da effettuare nello spazio. Tipico esempio è la robotica delle fasi di docking e di rendez-vous ( v. Santini, 1984): per effettuare queste manovre il veicolo inseguitore è dotato, prima della partenza, di una serie di istruzioni memorizzate, che gli conferiscono una vera e propria ‛intelligenza artificiale'. Il veicolo allora ‛sa' che, quando si verificherà un certo evento (per esempio quando una stella si troverà in una certa posizione rispetto a un riferimento prefissato), dovrà iniziare le manovre di avvicinamento a un altro veicolo, che dovrà saper ‛riconoscere'. Una volta che si sia avvicinato abbastanza, i suoi sensori lo guideranno all'estrazione degli organi di afferraggio, alla loro introduzione negli organi dell'altro veicolo, all'aggancio definitivo. Rispetto alle comuni manovre programmate o programmabili, vi è la speciale caratteristica dell'‛interattività' delle manovre, che vengono effettuate sulla base delle informazioni esterne con possibilità di scelta, di confronto, di decisione.
Un altro esempio è quello che riguarda il rifornimento di propellente destinato ai motori di controllo di assetto e di posizione in orbita di un satellite; la limitatezza della quantità di propellente imbarcabile a bordo prima del lancio e il suo consumo per esigenze di manovra (qualche kg al mese per satelliti di dimensioni medie) penalizzano oggi fortemente la durata della vita operativa del veicolo. La messa in orbita di ‛pompe di idrazina', vere e proprie stazioni di servizio spaziali, semplifica grandemente il problema, se il satellite è opportunamente robotizzato, cioè se è in grado di ‛accorgersi' che l'idrazina sta per finire e di mettersi a cercare la pompa più vicina per fare il pieno.
Il programma Shuttle era in pieno sviluppo quando, il 29 gennaio 1986, come già accennato, si verificò la tragedia che impresse un nuovo corso a tutta l'attività spaziale statunitense e, forse, a quella di molte altre nazioni occidentali: un Challenger (uno dei veicoli del programma) esplose pochi secondi dopo il lancio. Le cause dell'incidente, in cui perirono tutti e sette i membri dell'equipaggio, non sono state accertate con sicurezza assoluta, per quanto esistano elementi che permettono di ricostruirle abbastanza chiaramente. Si trattò, molto probabilmente, della fuoruscita di materiale incandescente da uno dei motori ausiliari, che provocò l'incendio e l'esplosione dei grossi serbatoi laterali. L'impatto sull'opinione pubblica fu enorme e ripropose in maniera drammatica il problema dell ‛affidabilità (reliability) dei sistemi aerospaziali e dei tragici effetti di un loro malfunzionamento. Purtroppo l'affidabilità non è un parametro che possa essere misurato a priori, ma va invece valutato proprio sulla base della ripetizione degli eventi, che possono anche avere come in questo caso - esito drammatico. Comunque la prima reazione del governo statunitense all'incidente fu la sospensione del programma: solo nel luglio 1986 è stato dato il via alla costruzione di una nuova unità Shuttle.
Ma come sarà il nuovo sistema di trasporto spaziale statunitense? Non c'è dubbio che sarà ancora lo Shuttle, migliorato e perfezionato, il cuore del programma. I piani a medio termine prevedono la possibilità di messa in orbita geostazionaria di carichi paganti di almeno 5.000 kg: questo obiettivo sarà realizzato con lo Shuttle con un nuovo stadio superiore e con un veicolo recuperabile del tipo Titan 3407/Centaur.
Appare comunque chiaro che gli Stati Uniti torneranno a una politica di ‛flotta mista', utilizzando lo Shuttle solo per le missioni in cui la sua capacità è necessaria o per quelle con equipaggio umano.
Nonostante le recenti disavventure, fervono le attività di progettazione, specie per quel che riguarda i veicoli di lancio della terza generazione, che dovrebbero servire per usi sia civili che militari. Essi saranno capaci di porre in orbita, con facilità e a basso costo unitario, elevati carichi paganti.
3. Lo Spacelab
Alcuni dei primi voli dello Shuttle sono stati destinati a esperienze compiute nel cosiddetto Spacelab: un laboratorio - che occupa il segmento dello Shuttle destinato a ospitare il carico utile - costituito da un vano pressurizzato in cui trovano posto gli sperimentatori insieme ai loro strumenti.
Lo Spacelab è stato progettato e sviluppato da dieci nazioni europee raggruppate nell'ESA (European Space Agency): si ricorda in particolare il grosso contributo italiano, con la realizzazione della struttura da parte dell'Aeritalia. Il programma prevede esperienze da condurre sia all'interno del modulo pressurizzato, sia nell'ambiente esterno; le esperienze sono generalmente effettuate da personale scientifico di bordo mentre per alcune missioni è previsto un sistema di controllo a distanza dalla cabina di pilotaggio o anche da Terra.
La prima missione Spacelab è iniziata il 28 novembre 1983. Essa aveva soprattutto lo scopo di verificare le prestazioni dello Spacelab stesso e la sua compatibilità colla struttura e coi sistemi dell'Orbiter. La scelta degli esperimenti fu fatta attraverso un'accurata selezione delle proposte inviate dai ricercatori di tutti i paesi europei associati nell'ESA. Gli esperimenti furono in totale più di 70 e diedero abbondante messe di risultati, che non sono stati ancora completamente analizzati. Ma forse il risultato più importante fu la consapevolezza che i dispositivi automatici (calcolatori e microprocessori) non sono ancora giunti a un grado di sofisticazione tale da soppiantare l'opera dell'uomo. Fondamentale si è rivelato, infatti, il ruolo degli scienziati nella sorveglianza e nella riparazione degli apparecchi scientifici di bordo e nel dirigere e modificare il corso delle esperienze.
La seconda missione Spacelab ha avuto luogo nel luglio 1985, con un equipaggio diverso da quello della prima. La scelta degli esperimenti fu fatta con lo stesso criterio selettivo adottato nella prima missione; si ebbero così 13 esperimenti, e per le necessità imposte da alcuni di essi (quelli destinati all'esame delle aurore boreali) si dovette spostare il piano orbitale dai 28,5° (corrispondenti alla latitudine di Cape Canaveral e quindi al minimo costo energetico) ai 75°. Inoltre la maggior parte degli esperimenti prevedeva misure di microgravità (v. Santini, 1984) e richiedeva quindi che le manovre di controllo d'assetto e orbitale avvenissero colla minima accelerazione possibile (nella microgravità si hanno accelerazioni dell'ordine di 10-4 ÷ 10-5 g; si comprende quindi bene come un qualunque segnale, se non compensato opportunamente, possa dare perturbazioni di parecchi ordini di grandezza superiori alla misura).
Tra gli esperimenti più importanti vi furono quelli relativi al comportamento fisiologico di esseri viventi (scimmie e topi), che erano liberi all'interno della cabina; i dati relativi alle reazioni fisiologiche degli animali erano raccolti da un calcolatore che li elaborava e li ritrasmetteva a Terra.
In altre esperienze i soggetti erano gli stessi astronauti: uno degli scopi di queste ricerche era lo studio dello space-sickness (mal di spazio) e delle reazioni controllate dall'individuo per opporsi ai disturbi.
È ovvio, comunque, che il calendario degli appuntamenti Spacelab nei prossimi anni dipenderà in modo essenziale dalle vicende del programma Shuttle e in misura particolare dalle sue migliorate caratteristiche di affidabilità.
4. I sistemi europei di trasporto spaziale
Sono continuati, negli ultimi tre anni, lo sviluppo, il miglioramento e il potenziamento del razzo europeo Ariane. La politica dell'ESA è stata infatti guidata dall'esigenza di dotare le nazioni in essa associate di mezzi di lancio indipendenti, senza i quali una politica spaziale di ampio respiro non sembra possibile, come ha dimostrato in passato l'episodio del satellite franco-tedesco Symphonie. Si è passati così attraverso varie versioni e anche attraverso alcuni lanci non coronati da successo (tre - l'ultimo dell'agosto 1985 - su un totale di dodici): attualmente (luglio 1986) sono state completate le prove sull'Ariane 4, di cui sono previste sei possibili configurazioni che, fra l'altro, consentono di scegliere tra l'impiego di propellente liquido e l'impiego di propellente solido. Ma è già in fase di progettazione l'Ariane 5 (alla cui realizzazione contribuirà in misura notevole anche l'Italia), derivante dalle versioni precedenti attraverso uno studio comparativo delle varie possibili soluzioni (a propellente criogenico, a liquido, a solido). Gli studi di fattibilità hanno guidato la scelta verso il razzo a solido: esso avrà un primo stadio costituito da due propulsori esterni, ciascuno capace di sviluppare fino a 630 t di spinta (ma con valore medio di 450 t), con cui si dovrebbero poter mettere in orbita i seguenti carichi.
1. Carichi per missioni commerciali: a) orbite geosincrone (telecomunicazioni, meteorologia); b) orbite eliosincrone (missioni di osservazione terrestre); c) orbite a bassa quota (navigazione, osservazione terrestre, raccolta di dati).
2. Carichi per missioni di tipo Shuttle e di intervento nelle stazioni orbitali, di cui parleremo in seguito.
Va notato che, a differenza di quanto avviene nello Shuttle, i due boosters esterni non sono recuperabili; infatti, a detta dei progettisti, gli studi di fattibilità avrebbero mostrato la non economicità del recupero per questo tipo di razzo.
Comunque il razzo è progettato per portare 15 t su un'orbita di 400 km e fino a 8 t (con motore speciale per il terzo stadio) in orbita geostazionaria.
Ma i progetti europei sono anche più ambiziosi: essi prevedono lo sviluppo dello spazioplano Hermes, che sarà l'equivalente europeo dello Shuttle e potrebbe rendere l'Europa indipendente anche sul piano dei sistemi di trasporto, in vista della costruzione delle future stazioni spaziali. L'Hermes è un veleggiatore ipersonico capace di portare fino a sei membri di equipaggio in orbita bassa e tornare a Terra su una pista di rullaggio di tipo convenzionale. La sua caratteristica più interessante è la versatilità di impiego, che lo rende capace di effettuare tre diversi tipi di volo con equipaggio: voli ‛autonomi' per l'esecuzione di esperimenti scientifici; voli per il montaggio e la manutenzione delle piattaforme automatiche; voli per il trasporto di personale e di rifornimenti per le stazioni spaziali. La sua flessibilità consente di considerare anche la possibilità di impiegarlo con carico pagante completamente automatico, cioè senza equipaggio.
La durata prevista della missione è di un mese nel caso di voli indipendenti e fino a tre nel caso di missioni in collegamento con le stazioni spaziali. L'Hermes è anche dotato di un sistema di propulsione proprio, che gli consentirà di modificare sensibilmente la sua orbita e di scegliere opportunamente il punto di atterraggio.
Particolarmente studiate sono le caratteristiche aerodinamiche dell'Hermes, sempre in vista delle delicatissime fasi di rientro: si tratta, come è facile immaginare, di soluzioni aerodinamiche di grande avanguardia, realizzate tramite superfici di controllo, chiamate ‛elevoni' (che combinano l'azione degli alettoni con quella del timone di profondità), e alette di estremità, minuscole superfici situate ai vertici delle due semiali, di importanza fondamentale per assicurare la stabilità trasversale del veicolo.
Un altro importante progetto concepito in Europa è lo HOTOL (Horizontal Take 0ff and Landing), ideato dalla British Aerospace; si tratta di un sistema a due modi di propulsione, formula certamente rivoluzionaria, ma ancora da verificare sul piano della convenienza e della sicurezza. È previsto un peso di 200 tonnellate al decollo, che avverrà su una pista normale; durante la prima fase il sistema di propulsione è costituito da idrogeno liquido (trasportato nella fusoliera), che brucia con l'ossigeno atmosferico. Raggiunto il numero di Mach 5, alla quota di 30 km, la parte aerodinamica del volo termina e inizia quella propulsa a razzo, con ossigeno liquido come carburante. Con questo sistema si dovrebbero mettere carichi da sette tonnellate in orbite fino a 185 km.
La manovra di rientro si inizia con una deorbitazione fino a un perigeo di 45 miglia, seguita da un volo senza motore, come un aliante, a velocità ipersoniche e a valori di picco delle forze aerodinamiche, portanza e resistenza. Si comprende bene, quindi, anche in questo caso, la grande importanza dell'aerodinamica dello spazio e dei relativi sistemi di protezione termica.
La formula dello HOTOL è certamente assai attraente, per la sua completa recuperabilità e riusabilità, che si estende alla struttura e al sistema propulsivo, e anche per la possibilità di usare ossigeno atmosferico in alcune fasi del volo, riducendo il carico da portare a bordo, a tutto vantaggio del carico pagante. Inoltre, il basso rapporto peso/area frontale riduce le temperature al rientro e rende più agevole il sistema di protezione termica. Si hanno di contro le maggiori complicazioni costruttive e i problemi legati all'affidabilità.
5. Le stazioni spaziali
Il più importante sviluppo delle attività spaziali sarà probabilmente la costruzione di stazioni destinate a ospitare in permanenza (o comunque per periodi non inferiori a qualche mese o a qualche anno) personale, specializzato e non, in condizioni pressoché normali.
L'idea delle stazioni spaziali si trova già adombrata nei primi lavori dei pionieri scientifici dell'astronautica; esse furono previste e studiate teoricamente da Oberth e Ciolkovskij. Le prime realizzazioni furono le navicelle Soyuz e Saljut e lo stesso Spacelab, ma ben altro sembra essere lo sforzo che le potenze spaziali intendono compiere per arrivare all'effettiva realizzazione di grosse unità orbitanti.
Nel febbraio 1985 il presidente degli Stati Uniti, Ronald Reagan, riaffermò solennemente davanti al Congresso l'impegno a promuovere lo sviluppo di una stazione abitata. La risposta legislativa è stata positiva e di pieno appoggio all'iniziativa presidenziale. Quasi contemporaneo fu l'invito da parte degli Stati Uniti alle altre nazioni, in particolare a quelle europee, a partecipare al programma.
La prima realizzazione - o, per meglio dire, la base iniziale per successive realizzazioni di più ampio respiro - dovrebbe essere completata entro un decennio. Questa fase, denominata IOC (Initial operational Capacity), richiederà un investimento di 8 miliardi di dollari 1984, cifra certamente considerevole, ma non proibitiva, se si pensa che il progetto Apollo (v. Santini, 1984) ebbe lo stesso costo, ma fu realizzato venti anni fa.
Va però considerato che la cifra di cui sopra non comprende i costi operativi (cioè necessari al funzionamento delle stazioni) nè quelli relativi allo sviluppo dei carichi utili scientifici e commerciali.
I problemi della stazione spaziale - a parte quelli tecnologici, di cui poi parleremo - sono evidenti. Il suo programma è del tutto diverso da quelli fin qui svolti, in quanto si tratta di una installazione permanente, a vita praticamente indefinita; ma ciò che la caratterizza è soprattutto la sua natura ‛evolutiva', consistente in aggiunte successive, modifiche, ampliamenti, magari anche demolizioni, come avviene per ogni opera ‛permanente' costruita dall'uomo sulla Terra. La presenza contemporanea in essa di parti abitate e di altre soggette al controllo umano implica l'uso estensivo di metodi di robotica spaziale e di dispositivi automatici; anzi, il programma promuoverà certamente, come già previsto, un notevole progresso in questi settori, anche per scopi non spaziali.
Parte fondamentale del programma di costruzione delle stazioni è l'uso del sistema di trasporti spaziali, per la sua capacità di effettuare operazioni ripetitive e di routine che dovranno essere eseguite migliaia di volte, quali il trasporto dei materiali all'altezza orbitale prescelta, il montaggio delle strutture in orbita, il ricambio del personale.
Una stazione spaziale dovrà principalmente fungere da: a) laboratorio spaziale, destinato alla conduzione di esperienze scientifiche e alla realizzazione di prodotti commerciali derivanti dallo sviluppo delle nuove tecnologie; b) osservatorio permanente puntato verso la Terra sottostante e verso lo spazio esterno; c) stazione di servizio per la riparazione, il rifornimento, la manutenzione di carichi orbitanti esterni; d) officina di montaggio per grandi sistemi spaziali; e) nodo del sistema spaziale di trasporto con funzioni anche di smistamento; f) deposito di parti di ricambio e di propellenti, come già indicato in precedenza a proposito della robotica spaziale.
Tutte le operazioni descritte dovranno essere svolte in maniera semiautonoma rispetto alle installazioni terrestri. Per una stazione destinata a rimanere permanentemente in orbita, il controllo da Terra sarebbe infatti economicamente pesante e tecnicamente poco affidabile. Tutto ciò dà comunque un'idea della grande complessità dei problemi.
Può sembrare forse azzardato cercare di prevedere fin d'ora quelle che saranno le effettive caratteristiche delle stazioni spaziali, poiché modifiche e cancellazioni costituiscono la regola e non l'eccezione. I progetti attualmente allo studio negli Stati Uniti prevedono una forma a doppio corpo (pianta pressoché rettangolare di 95 × 46 m2). Grande attenzione va posta nel realizzare configurazioni in cui la parte abitata (o comunque i laboratori in cui si svolgono esperienze scientifiche o lavorazioni tecnologiche) sia soggetta a gravità apparenti sufficientemente piccole. Va rilevato infatti (v. Santini, 1984) che la gravità apparente varia notevolmente con la distanza in ‛verticale' dal centro di massa della stazione orbitante, per cui, per esempio, a una distanza di 50 metri si ha una gravità apparente di circa 20 milionesimi dell'accelerazione di gravità al livello della superficie terrestre: questo valore, per quanto assai piccolo, può risultare intollerabile per i fini sopra accennati. Nei laboratori la pressione atmosferica e la concentrazione di ossigeno saranno le stesse che sulla superficie terrestre, il che facilita il confronto dei risultati con quelli ottenibili sulla Terra. È previsto un sistema di riciclaggio dell'ossigeno e dell'acqua; in tal modo sussistono necessità di rifornimento periodico solo per l'azoto e per gli alimenti, e sono molto ridotti i voli necessari dello Shuttle: ancora una volta, probabilmente, queste decisioni sono originate dal disastro del gennaio 1986.
Per la generazione di energia si pensa a un sistema misto, con un apparato fotovoltaico, nella prima fase del volo, e un successivo sistema di specchi parabolici, che trasmettono l'energia raccolta dal Sole a un sistema turbina-alternatore.
Naturalmente chi dice grandi stazioni (o, più generalmente, grandi sistemi) spaziali dice anche, inevitabilmente, grandi strutture. Anche se sembra accantonato il progetto Glaser-NASA di superfici di enormi dimensioni, di cui si è parlato nell'articolo spazio, strutture dell'ordine delle centinaia di metri sono di impiego attuale e sempre più lo saranno in futuro. Si tratta di sistemi costituiti da elementi costruttivi formati generalmente da aste e aventi quindi essenzialmente forma di tralicci: loro caratteristiche fondamentali sono quindi la modularità e la ripetitività, che le rendono di impiego particolarmente flessibile. Dal punto di vista realizzativo, la maggiore difficoltà consiste nel loro ‛montaggio' in orbita; a questo proposito esistono varie tecniche: la prima è quella, già illustrata nell'articolo spazio, del beam builder; la seconda è quella del montaggio diretto da parte di operai specializzati, con grande dispendio di EVA (Extra Vehicular Activity), ma mancano ancora informazioni sicure sulle possibilità umane di effettuare un lavoro continuo nell'ambiente spaziale. Stanno invece sempre più affermandosi le strutture del tipo foldable (‛ripieghevole'), dette anche, al negativo, deployable (‛spiegabili').
Mediante uno studio accurato dei cinematismi e un sofisticato sistema di controllo è possibile racchiudere in uno spazio estremamente ristretto (quale può essere il vano di carico dello Shuttle, o di altri veicoli in fase di studio, come l'Hermes) superfici strutturali di grandi dimensioni e di forme svariate.
I problemi principali delle grandi strutture spaziali sono relativi alla loro dinamica strutturale, al loro controllo e alla distribuzione di temperatura al loro interno. Per quanto riguarda la dinamica strutturale, il grande numero di elementi presenti causa un sovraddensamento dei modi di vibrazione (high modal density), per cui la struttura può avere, per esempio, 10 frequenze proprie nell'arco di 1 Hz. Questo dà luogo a una forte deformabilità dinamica con propagazione di onde elastiche assai simili a quelle che si propagano in un mezzo continuo.
Per questo è necessario, oltre al classico controllo d'assetto (che regola i modi rigidi della struttura), anche il controllo di forma, che può essere di tipo locale o modale. Nel primo sistema si controllano gli spostamenti di un certo numero di modi opportunamente scelti. Nella tecnica modale si attua sostanzialmente una filosofia analoga, solo che quello che si controlla è l'ampiezza dei modi, risultante dalla combinazione degli spostamenti locali: i dati rilevati dai sensori vanno quindi opportunamente elaborati prima della loro introduzione nel sistema di controllo. Il problema principale è costituito dal grande numero di sensori che sarebbero necessari e che invece, per motivi di semplicità, è indispensabile limitare: si pone così un problema di ottimizzazione a numero ridotto di sensori, che è ancora ben lungi dall'essere risolto.
I problemi termici nascono dalle condizioni di riscaldamento solare e dalla necessità di smaltire il calore, di cui si è già detto; il surriscaldamento, infatti, provoca l'insorgere di sforzi, di deformazioni e di onde termiche entro la struttura.
A questo punto viene naturale chiedersi quali vantaggi ci si possa aspettare da un'impresa o, meglio, da una serie di imprese che appaiono assai difficili e costose: ben al di là degli 8 miliardi di dollari previsti per la IOC dei primi dieci anni. I motivi sono quelli già elencati in precedenza; c'è da aggiungere qualche dettaglio relativo alla ‛industrializzazione' (oltre che alla ‛commercializzazione') dello spazio, che avverrà attraverso la produzione di leghe speciali, di cristalli di estrema purezza, di monocristalli, di prodotti farmaceutici speciali, ecc.: le tecniche produttive relative, grandemente favorite dalla microgravità, si stanno già sperimentando nello Spacelab. Dal punto di vista della ricerca scientifica, non v'è dubbio che sono immense le possibilità offerte da una stazione orbitante per le osservazioni astronomiche (non soggette alle attenuazioni e alle distorsioni provocate dall'atmosfera terrestre). Ma una delle aree più promettenti è quella della ricerca medica e biologica, diretta, da una parte, ad accertare le condizioni di sopravvivenza a bordo della stazione, dall'altra, a fornire risposta a quesiti di base: molti di questi problemi sono stati già affrontati in passato nelle varie imprese spaziali, ma solo la lunga durata della permanenza nello spazio e delle possibili osservazioni possono consentire uno studio intensivo ed esauriente dei problemi. Si sa, per esempio, che la ‛risposta' dell'organismo umano alla microgravità prolungata è di tipo ‛adattativo', almeno per quanto riguarda alcuni apparati (cardiovascolare e vestibolare); ma quello che più preoccupa è il riadattamento alle condizioni di gravità normale. Fenomeni patologici come la perdita di minerali dalle ossa (associata a bilancio negativo di calcio) e la diminuzione di massa e di tono muscolare fanno talvolta pensare alla creazione di una ‛gravità artificiale' (per esempio mediante forza centrifuga) a bordo della stazione.
Dal punto di vista degli studi di base di biologia, l'ambiente a quasi zero-g può fornire preziose informazioni sui fenomeni di crescita delle piante e sul loro ciclo vitale. Ma si spera anche di raccogliere dati utili alle ricerche sull'origine e sull'evoluzione della vita sulla Terra attraverso la raccolta e lo studio della polvere cosmica.
Come abbiamo detto, non solo gli Stati Uniti, ma tutte le maggiori potenze (o agenzie) spaziali stanno pensando alla realizzazione di una stazione. L'Europa, che negli anni 1962-1973 aveva decisamente respinto ogni idea di volo umano nello spazio, ha progressivamente modificato i suoi punti di vista, anche sulla base del grande numero di astronauti (circa 200) inviati nello spazio da Stati Uniti e Unione Sovietica. L'Italia e la Germania hanno dato l'avvio a questa trasformazione colla proposta, accolta dall'ESA, del progetto Columbus, che costituirà il contributo europeo al programma di collaborazione internazionale proposto da Reagan. Il Columbus è stato così denominato perché il suo lancio è previsto per il 1992, quinto centenario della scoperta dell'America; esso è composto delle solite parti (modulo pressurizzato, derivato dall'analoga struttura dello Spacelab). Nella prima parte della sua missione (di durata ancora non definita) il Columbus sarà agganciato alla stazione spaziale americana e il modulo in pressione sarà usato come posto di lavoro per il personale della stazione. In un secondo tempo lo stesso modulo sarà attaccato al proprio modulo di servizio e orbiterà liberamente (senza cioè aggancio alla stazione); esso sarà abitato per brevi periodi da equipaggi che effettueranno osservazioni scientifiche o esperienze tecnologiche.
6. Le sonde spaziali. Il progetto Giotto
Nel 1986 ha avuto luogo uno dei ritorni periodici (con periodo di 76 anni) della cometa di Halley in prossimità del Sole. Si è trattato di un evento eccezionale, anche e soprattutto perché è stata la prima visita della cometa da quando esiste un'efficiente tecnica spaziale, capace di inviare sonde ai confini del sistema solare e oltre.
Le comete sono costituite da una piccola massa di materia solida (ghiaccio e altri liquidi o gas solidificati), mescolata a particelle di polvere. All'avvicinarsi al Sole, le parti esterne del nucleo, a causa del forte riscaldamento, cominciano a volatilizzarsi formando un'aureola gassosa, che viene chiamata ‛chioma'. Avvicinandosi ancora di più al Sole, il gas neutro della chioma si ionizza e, investito dal vento solare, forma una lunga coda ionizzata costantemente allineata con la direzione Sole-cometa, mentre le particelle di polvere - assai più grosse e pesanti - formano un'altra coda che è spesso curva. Così, ad ogni passaggio, le comete perdono un po' di materia e qualcuna di esse finisce per non riapparire più.
Nelle osservazioni da Terra non si riesce a vedere direttamente il nucleo di una cometa e non si possono quindi raccogliere informazioni sui suoi costituenti effettivi, mentre è di estremo interesse conoscere l'esatta composizione del nucleo, in quanto, secondo molti astronomi, esso dovrebbe essere formato da materiale in eccedenza appartenente alla massa che dette origine al sistema solare ed è quindi suscettibile di fornire informazioni di inestimabile valore sulla nascita e sull'evoluzione del sistema solare, della nostra Galassia e, perché no?, dello stesso Universo.
Tornando alla cometa di Halley, quello del 1986 costituiva uno dei passaggi meno favorevoli per l'osservazione diretta da Terra: infatti, al momento del passaggio della cometa al suo perielio, la Terra si trovava dalla parte opposta rispetto al Sole; inoltre la vicinanza al Sole tendeva a offuscare la brillanza della cometa, ostacolandone ulteriormente l'osservazione.
Queste ragioni avevano da tempo convinto gli astronomi ad affidare alla tecnologia spaziale il compito di provvedere a un sistema di osservazione più sicuro e affidabile, basato sull'osservazione diretta e ravvicinata del nucleo.
Nel 1981, a questo scopo, l'Agenzia Spaziale Europea indisse un meeting tra Enti Spaziali, a Padova, per studiare il problema. Padova, come è noto, è la città in cui Giotto dipinse, nella Cappella degli Scrovegni, il ritorno della cometa nel 1302: da questa circostanza ha avuto origine il nome dato al progetto principale. In realtà i programmi avviati dai partecipanti al meeting furono quattro, anche se non coordinati, in quanto ogni Ente sviluppò il proprio programma in modo indipendente; fu peraltro stilato un accordo di massima, che prevedeva la trasmissione dei risultati all'ESA da parte delle altre tre agenzie, per il loro trattamento finale.
Il progetto più ambizioso fu quello dell'ESA, che si propose addirittura di inviare una sonda nella chioma della cometa per fotografarne il nucleo da vicino; l'impresa è da ritenere tecnologicamente eccezionale, anche a causa del tempo assai ristretto disponibile per la sua preparazione.
Il progetto fondamentale del sistema si ispirava alle sonde Geos per ricerche sulla magnetosfera, lanciate alla fine degli anni settanta. La sonda era stabilizzata a spin (v. Santini, 1984) e pesava circa 1 tonnellata al lancio; per rendere l'energia di lancio quanto più bassa possibile, la sonda stessa doveva entrare nella chioma non al perielio, ma in uno dei punti in cui l'orbita della cometa interseca il piano della eclittica. Uno dei principali sensori del Giotto era una telecamera a colori per le fotografie del nucleo.
Le principali innovazioni tecnologiche riguardavano le antenne ad alto guadagno per la trasmissione dei dati, che dovevano puntare costantemente verso località di ricezione in Australia, e il sistema di protezione dagli urti delle particelle di polvere del nucleo. Va infatti ricordato che il movimento della cometa avviene in direzione opposta a quella dei pianeti e che d'altronde era impensabile il lancio in direzione del moto della cometa, a causa della enorme quantità di energia di lancio che sarebbe stata necessaria (a parte la indisponibilità di vettori appropriati). La missione fu definita ‛suicida' perché prevedeva la distruzione della sonda che non aveva quindi sensori memorizzanti, ma affidava la trasmissione dei dati a sofisticati procedimenti telematici.
Contemporaneamente si sviluppava il programma sovietico Vega, condotto dalla Agenzia Spaziale Intercosmos, responsabile dei progetti di collaborazione tra Unione Sovietica e altri paesi: normalmente quelli del blocco comunista, nel caso attuale la Francia. La missione fu compiuta da due veicoli identici, Vega 1 e Vega 2. Le sonde, lanciate il 15 e il 21 dicembre 1984 dal poligono Balkansur, erano formate di due parti ciascuna: una destinata all'esplorazione di Venere, l'altra a quella della cometa di Halley. Gli arrivi su Venere avvennero il 9 e il 13 giugno 1985; dopo la separazione del modulo Venere le due sonde furono riorientate in direzione di Halley, che sorvolarono il 6 e il 9 marzo 1986, alla velocità di 78 km/s.
Tornando alla sonda Giotto, essa fu lanciata da un Ariane 4 nel luglio 1985 e sorvolò la cometa nella notte dal 13 al 14 marzo 1986 a 600 km dal nucleo. Si trattò di un evento eccezionale anche sul piano politico, in quanto Giotto utilizzò i dati registrati dalle sonde Vega, comunicati all'ESA e da questa ritrasmessi al Giotto. L'avvicinamento alla Halley avvenne in condizioni ideali; tutte le esperienze previste furono compiute con successo e fornirono una lunga serie di dati. Contrariamente alle previsioni più pessimistiche, la sonda non subì danni gravi alle sue strutture da parte dei granelli di polvere tanto temuti, ma solo una perturbazione notevole della sua traiettoria, che la portò fuori posizione e fece perdere alcuni dati di telemisura. L'esame dei risultati è tuttora in corso. Le telecamere hanno trasmesso le immagini dalla cometa che sembra di dimensioni 15 km x 8 km: apparentemente non è di forma sferica e mostra chiaramente i due getti in direzione opposta al Sole.
Al programma Giotto hanno collaborato anche l'Agenzia Spaziale giapponese e la NASA: sono questi gli altri due partners dell'accordo di cui si è già parlato.
In particolare la stessa NASA sta sviluppando attivamente una serie di attività collaterali ai progetti già esistenti, di cui è qui impossibile fornire un quadro esatto. La sonda Isee 3, lanciata nel 1978 per ricerche sullo spazio compreso tra la Terra e il Sole, è stata utilizzata per lo studio della cometa Giacobini-Zinner. Nel dicembre 1983 la sonda ha iniziato il suo viaggio verso il Sole utilizzando il ‛calcio' planetario lunare ed è giunta nelle vicinanze della cometa nel settembre 1985 alla distanza di almeno 3.000 km. I risultati sono allo studio.
7.Altre realizzazioni e progetti futuri
Abbiamo illustrato in dettaglio alcune delle realizzazioni più significative, che danno anche un'idea delle linee di sviluppo future, ma le cose dette non rappresentano, quantitativamente, che una piccola parte di quello che si è fatto e si sta facendo.
Nel campo dei satelliti per telecomunicazioni si stanno sviluppando i satelliti regionali: un esempio tipico è il sistema Arabsat, che impiega due satelliti geosincroni a 19 e 26 gradi di longitudine est, che forniscono vari servizi di telecomunicazioni (telefonia, trasmissione dati, telex, distribuzione radiotelevisiva). Il primo e il secondo satellite Arabsat sono stati lanciati, rispettivamente, nel febbraio e nel giugno 1985. La Repubblica Federale Tedesca installerà nel 1987-1988 il suo sistema DFS-Kopernikus, costituito da tre satelliti, due in orbita (23,50 E o 25,50 E) e uno di riserva a Terra. Anche il Canada, che è stato il primo paese a disporre di un satellite regionale fin dal 1973, sta sviluppando una nuova generazione di satelliti per il suo sistema Telesat. Continua, ovviamente, l'attività del sistema Intelsat (v. Santini, 1984).
Le previsioni a lungo termine circa la richiesta commerciale di satelliti per telecomunicazioni sono complicate dalla circostanza che nessuno può oggi dire quale sarà l'impatto delle reti a cavi di fibre ottiche sul servizio punto-punto fisso; vi saranno comunque aree di traffico, come i servizi di trasmissione tra veicoli, con grandi prospettive per la navigazione aerea e marittima; anche i trasporti terrestri avranno sempre bisogno di un segmento spaziale. La previsione del fatturato complessivo per la fine del secolo è di 15 miliardi di dollari annui, circa dieci volte la cifra attuale. Questa cifra potrà essere superata, anche considerevolmente, dall'introduzione su larga scala della TV diretta via satellite, la cui realizzazione va accompagnata da ingenti investimenti per il segmento terrestre. In questo campo, comunque, è all'avanguardia l'Unione Sovietica, con i sistemi Orbita, Ekran e Moskva, che vengono anche usati per la trasmissione di giornali. Anche il Canada e gli Stati Uniti hanno sviluppato molto questo sistema.
Non si hanno novità di grande rilievo nel settore dei satelliti per il rilevamento di risorse terrestri (remote sensing) e di quelli per osservazioni meteorologiche, se non il costante perfezionamento della strumentazione di bordo e il miglioramento della rete terrestre. Sembra invece, almeno per il momento, accantonato il progetto di costruire nello spazio grosse superfici per la produzione di energia, troppo costoso e impegnativo.
Nel campo delle esplorazioni spaziali, ormai quasi definitivamente tramontati i progetti di colonizzazione umana del sistema solare, vi è un certo sviluppo dell'esplorazione planetaria tramite sonde: il progetto più significativo è probabilmente il Vega franco-sovietico, di cui si è già parlato, per l'esplorazione dell'atmosfera di Venere.
Grande sviluppo ha avuto e sta avendo l'astronomia basata sui satelliti scientifici, le cui osservazioni sono esenti dalle attenuazioni e dalle distorsioni provocate dall'atmosfera terrestre. Tra i progetti più significativi ricordiamo l'Hipparchos, dell'ESA, destinato a ricerche di ‛astrometria', con il compito di stabilire un catalogo di parametri di moto di circa 100.000 stelle con una precisione di 2 millesimi di secondo.
In tutto questo panorama non va dimenticato il contributo dato dalle scienze di base (astrodinamica, strutture e materiali, fluidodinamica delle atmosfere, propagazione delle onde nello spazio, nuovi sistemi di propulsione), che sono poi quelle che consentono gli effettivi progressi che abbiamo ricordato.
Abbiamo lasciato fuori, perchè non pertinenti al tema, le applicazioni militari.
Possiamo concludere con la certezza che lo spazio diventerà sempre più la sede di attività importanti per il progresso e il miglioramento delle condizioni di vita dell'uomo: ma nessuno oggi può dire quanto queste attività influiranno sulla società e fino a che punto la trasformeranno in una società diversa da quella odierna.
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