La Corte costituzionale tra conflitti e diritti
La giurisprudenza costituzionale degli ultimi anni mostra un’evoluzione del ruolo della Corte, chiamata, con sempre maggiore frequenza, a risolvere controversie tra Stato e Regioni e conflitti politico-istituzionali. La giurisprudenza dell’anno 2013 conferma tale tendenza e mostra come, peraltro, persino dietro alcune questioni di legittimità costituzionale si celano dei conflitti di attribuzione tra poteri politici.
La Corte costituzionale tende ad essere, sempre più, arbitro dei conflitti e, sempre meno, Corte dei diritti, come emerge con chiarezza dalla più recente giurisprudenza.
Nei primi vent’anni di operatività, il giudice costituzionale, chiamato a «promuovere ed applicare la Costituzione»1, si è comportato da vero custode razionale delle esigenze del diritto, in perfetta assonanza con l’idea kelseniana di giustizia costituzionale. Era il tempo in cui la Corte rappresentava «l’isola della ragione nel caos delle opinioni»2, in cui provvedeva alla dichiarazione di illegittimità costituzionale delle norme “superate” e di stampo fascista, all’invalidazione delle norme che, punendo il solo adulterio della moglie, mortificavano il principio di eguaglianza3. Era il tempo della Corte dei diritti. Era il tempo in cui la Corte giudicava, per lo più, in sede di giudizi di legittimità costituzionale sollevati in via incidentale, per tutelare i diritti sanciti in Costituzione4. Scarsi i giudizi sollevati in via principale e del tutto residuale l’esercizio delle altre competenze5, tanto da spingere a ritenere che il disegno, di impronta “illuministica”, volto a rendere giustiziabili anche i conflitti tra i massimi poteri dello Stato, di solito risolti nella concreta dinamica dei rapporti politici, rappresentasse una vera e propria utopia6. In effetti, i primi conflitti «seri»7 tra poteri dello Stato, sui quali la Corte si è pronunciata nel merito, sono stati sollevati a metà degli anni ’70 e senza coinvolgere, peraltro, non più di un potere politico e quasi sempre un potere giurisdizionale.
Negli anni successivi, il giudice costituzionale, chiamato, sempre più spesso, a risolvere dubbi di legittimità costituzionale sollevati su leggi emanate dal Parlamento repubblicano, ha cominciato a confrontarsi più da vicino con l’organo politico che approvava la normativa vigente, ha iniziato a dover scegliere soluzioni con un forte impatto politico-sociale, giocando il ruolo di mediatore dei conflitti tra poteri8. Era il tempo in cui la Corte, per le prime volte, chiamata a ricercare quel delicato punto di equilibrio tra politica e diritto, veniva descritta come «l’isola dell’opinione più ragionevole»9. È allora che la Corte entrava in politica: «nella politica», incidendo le sue decisioni nella vita politico-istituzionale del paese, ma non come organo politico, poiché «il suo intervento non è mosso dal coinvolgimento in tali vicende e in tali tensioni come uno dei tanti soggetti, portatori di interessi di parte»10. La Corte infatti ha sempre operato in modo da «misurare la politica sul metro del diritto»11, individuando quel giusto punto di equilibrio tra i due momenti, tale da evitare «sia l’eccesso di una totale giurisdizionalizzazione della politica, sia, all’inverso, quello di una diretta politicizzazione della giurisdizione»12.
Ecco allora che alla fine degli anni ’80, il sistema di giustizia costituzionale raggiungeva un elevato livello di maturazione. Il giudice costituzionale ha cominciato a giocare un ruolo chiave nell’ordinamento, venendo interpellato su questioni allora scottanti, come il divorzio o l’aborto, in sede di giudizio sull’ammissibilità delle richieste referendarie, venendo coinvolto sempre più spesso nella risoluzione dei confitti di attribuzione tra poteri dello Stato, ormai non più gestibili in chiave politica, arricchendo il proprio armamentario decisionale al fine di instaurare un più proficuo e collaborativo dialogo con organi giudiziari e legislativi. Si pensi agli effetti prodotti nell’ordinamento dalle sentenze interpretative, di rigetto e accoglimento e dalle sentenze additive di principio, da un lato, e dalle sentenze “monito”, dall’altro.
All’evoluzione e allo sviluppo del sistema di giustizia costituzionale ha indubbiamente contribuito anche l’impatto dirompente delle fonti comunitarie prima e dell’Unione europea poi nell’ordinamento nazionale, di cui la Corte ne è un’indiscussa protagonista. Dalla sent. 8.6.1984, n. 170, con cui il giudice costituzionale ha riconosciuto il primato del diritto comunitario sul diritto nazionale, nelle sue differenti modalità, dalla disapplicazione alla dichiarazione di illegittimità, passando per l’interpretazione conforme, alla recente ord. 18.7.2013, n. 207, con cui la Corte, per la seconda volta, dopo l’ord. 15.4.2008, n. 103, ha sollevato questione pregiudiziale dinanzi alla Corte di giustizia, il cammino comunitario è stato lungo, tortuoso e non scevro di incoerenze. Tuttavia, nell’ormai inarrestabile processo di integrazione europea, proprio questa decisione, in cui la Corte, per la prima volta, ha ammesso di avere la natura di «giurisdizione nazionale», ai sensi dell’art. 267, co. 3, TFUE, è espressione di un sempre maggiore e proficuo dialogo con la Corte di giustizia.
L’esame della giurisprudenza costituzionale degli ultimi dieci anni e poco più mostra una significativa trasformazione del ruolo assunto dalla Corte, nell’esercizio delle funzioni ad essa spettanti.
A fronte della drastica riduzione dei giudizi in via incidentale, la cui percentuale è scesa dall’85 per cento a meno del 45 per cento, un dato non trascurabile è certamente il crescente numero dei ricorsi aventi ad oggetto il riparto delle competenze legislative tra Stato e Regioni. Basti pensare che mentre le ordinanze di rimessione si sono ridotte di circa il 75 per cento, passando dalle 1196 del 2003 alle 310 del 2012, i ricorsi statali e regionali sono più che raddoppiati, passando dai 98 del 2003 ai 197 del 201213. La crescita della conflittualità tra potere centrale e autonomie territoriali è dovuta, in larga misura, alle innegabili difficoltà interpretative del nuovo Titolo V, Parte II, della Costituzione che, sebbene entrato in vigore nel 2001, continua a suscitare numerose problematiche applicative. D’altra parte, la stessa delimitazione delle competenze, indicata nell’art. 117 Cost., rivelandosi, nel tempo, del tutto inadeguata alle esigenze statali e regionali, ha reso indispensabili incisivi interventi del giudice costituzionale volti a rimodellare il riparto delle potestà legislative e amministrative. In tal modo, ad esempio, la formulazione delle materie trasversali, o materie-non materie e il riconoscimento dell’attrazione in sussidiarietà hanno consentito alla Corte di superare ampiamente i rigorosi confini delle materie indicate in Costituzione14. Interessante, in tale contesto, la sent. 5.4.2013, n. 62, ove la Corte ha precisato che spetta, necessariamente, al legislatore statale «ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost. … assicurare le prestazioni imprescindibili per alleviare situazioni di estremo bisogno, in particolare, alimentare. La finalità di garantire il nucleo irriducibile di questi diritti fondamentali ‘legittima un intervento dello Stato che comprende anche la previsione della appropriata e pronta erogazione di una determinata provvidenza in favore dei singoli’ (sentenza n. 10 del 2010)»15.
L’incremento dei ricorsi promossi negli ultimi anni, in sede di legittimità costituzionale in via principale, e l’intervento “para-costituente” della Corte, necessitato dalle incertezze applicative della riforma del Titolo V, hanno inevitabilmente contribuito ad accrescere il ruolo arbitrale del giudice costituzionale, quale mediatore dei conflitti tra Stato e Regioni.
Ciò si aggiunge, peraltro, all’esponenziale aumento del numero dei conflitti di attribuzione sollevati tra i poteri dello Stato, a partire dalla seconda metà degli anni ’70, quando l’utopia di impronta illuministica che affidava al giudice costituzionale la risoluzione dei conflitti, fino ad allora risolti in chiave politica, cominciava a divenire realtà. Interessante, in tale contesto, la ricca e significativa giurisprudenza sui conflitti fra magistratura e Parlamento riguardo all’estensione della prerogativa dell’insindacabilità parlamentare di cui all’art. 68, co. 1, Cost. A fronte delle destabilizzanti tensioni tra politica e giurisdizione, la Corte si è «eretta a paladina»16 della corretta applicazione della prerogativa parlamentare, diventando arbitro di un conflitto che nel tempo si è rivelato molto intenso e delicato. L’operatività dell’insindacabilità è infatti subordinata alla valutazione circa la sussistenza del cd. nesso funzionale, inteso, in un primo momento, in una semplice relazione di presupposizione o di consequenzialità17 e successivamente in una vera e propria identità contenutistica18, tra le opinioni espresse in sede parlamentare e quelle manifestate in altre sedi. Lo sviluppo del sindacato costituzionale sulla prerogativa in esame dimostra l’incidenza sempre più significativa del ruolo di controllo e di mediazione assolto dalla Corte nei confronti di organi politici. Degno di nota, peraltro, in tal caso, il ruolo del giudice costituzionale, a fronte dell’inestricabile connessione tra tutela dei diritti e mediazione dei conflitti. Vero è che alla Corte è rimessa la soluzione di un conflitto, ma è altrettanto indubbio che dietro di esso si cela una questione sostanziale che attiene alla tutela dei diritti di terzi, oltraggiati dalle dichiarazioni rese dal parlamentare. Negli anni, si è sviluppato, con sempre maggiore chiarezza, il progressivo tasso di penetrazione del sindacato costituzionale sull’operato dei poteri dello Stato, volto a garantire l’equilibrio di quel delicato sistema di check and balacences, essenziale in ogni democrazia.
Emblematica, in tale contesto, la sent. 18.1.1996, n. 7 con cui la Corte ha risolto l’accesa e vivace polemica che coinvolgeva il ministro Mancuso da un lato e il Senato, il Capo dello Stato e il Governo dall’altro. La Corte, ammettendo la natura squisitamente politica della fiducia, ne ha escluso la sindacabilità nel merito, ma ne ha ritenuto legittima la forma individuale, vale a dire diretta al singolo ministro, qualora il suo operato «lo distingua e lo isoli dalla responsabilità correlata all’azione politica del Governo nella sua collegialità».
A fronte, poi, del delicato dibattito politico e giuridico, in merito alla “ripartizione” di competenze tra Presidente della Repubblica e Ministro della giustizia relativamente al potere di grazia, il giudice costituzionale ha giocato un ruolo chiave nella risoluzione del conflitto, ritenendo che la funzione della controfirma del decreto concessorio, da parte del Ministro della giustizia, sia soltanto quella «di attestare la completezza e la regolarità dell’istruttoria e del procedimento seguito»19.
Nell’anno in corso, non può trascurarsi il rilievo assunto dalla sent. n. 1, con cui la Corte ha risolto il conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato, sollevato dal Presidente della Repubblica nei confronti della Procura del Tribunale di Palermo, soffermandosi sulla funzione e sui poteri del Presidente della Repubblica. Posto che il «cuore» del ruolo presidenziale consiste in un’attività informale di stimolo, moderazione e persuasione, appaiono essenziali a tale ruolo «la discrezione e la riservatezza delle sue comunicazioni». Efficacia e praticabilità delle funzioni di raccordo e incitamento «sarebbero inevitabilmente compromesse dalla indiscriminata e casuale pubblicizzazione dei contenuti dei singoli atti comunicativi». Ciò ha indotto la Corte ad obbligare che le intercettazioni oggetto del conflitto dovessero essere distrutte, sotto il controllo del giudice, a «garanzia di legalità con riguardo anzitutto alla effettiva riferibilità delle conversazioni intercettate al Capo dello Stato».
Le molteplici problematiche della forma di governo e la necessità di ripristinare delicati equilibri politici hanno reso il giudice costituzionale un’ineguagliabile ed insostituibile punto di riferimento nella risoluzione dei conflitti politico-sociale.
In tale contesto, non può prescindersi dall’esame di alcune delle più recenti decisioni costituzionali che, sebbene rese in sede di giudizi di legittimità costituzionale, sembrano piuttosto risolvere conflitti di attribuzioni tra poteri dello Stato.
La Corte, chiamata a pronunciarsi sulla conformità a Costituzione di atti con forza di legge, ha colto l’occasione per precisare che dietro l’emanazione di norme primarie si cela innanzitutto un rapporto tra organi costituzionali e che tale rapporto deve necessariamente svolgersi in conformità ai dettami costituzionali. Affermare, quindi, che «la legge di conversione sana in ogni caso i vizi del decreto significherebbe attribuire in concreto al legislatore ordinario il potere di alterare il riparto costituzionale delle competenze del Parlamento e del Governo quanto alla produzione delle fonti primarie»20. Per lo stesso motivo, è indubbio che «l’esclusione della possibilità di inserire nella legge di conversione di un decreto-legge emendamenti del tutto estranei all’oggetto e alle finalità del testo originario non risponda soltanto ad esigenze di buona tecnica normativa, ma sia imposta dallo stesso art. 77, secondo comma, Cost., che istituisce un nesso di interrelazione funzionale tra decreto-legge, formato dal Governo ed emanato dal Presidente della Repubblica, e legge di conversione, caratterizzata da un procedimento di approvazione peculiare rispetto a quello ordinario»21. Animata dalla medesima ratio è la sent. 19.7.2013, n. 220, ove si legge che «ben potrebbe essere adottata la decretazione di urgenza per incidere su singole funzioni degli enti locali, su singoli aspetti della legislazione elettorale o su specifici profili della struttura e composizione degli organi di governo, secondo valutazioni di opportunità politica del Governo sottoposte al vaglio successivo del Parlamento. Si ricava altresì, in senso contrario, che la trasformazione per decreto-legge dell’intera disciplina ordinamentale di un ente locale territoriale, previsto e garantito dalla Costituzione, è incompatibile, sul piano logico e giuridico, con il dettato costituzionale, trattandosi di una trasformazione radicale dell’intero sistema, su cui da tempo è aperto un ampio dibattito nelle sedi politiche e dottrinali, e che certo non nasce, nella sua interezza e complessità, da un ‘caso straordinario di necessità e d’urgenza’».
Appare chiaro, dunque, che dietro l’intenzione della Corte di salvaguardare la disciplina costituzionale sul corretto uso del decreto-legge, fonte del diritto ma anche strumento di governo, si celi l’insopprimibile esigenza di regolare il delicato rapporto tra Governo e Parlamento.
Si pensi, poi, al caso della mediazione civile obbligatoria prevista dal decreto legislativo 4.3.2010, n. 28. La Corte, con sent. 6.12.2012, n. 272, ha dichiarato l’illegittimità della norma censurata per eccesso di delega, ritenendo assorbito ogni altro profilo di legittimità. Prescindendo, dunque, dai molteplici dubbi di costituzionalità sollevati con riguardo alla presunta violazione del diritto di azione e di difesa, del principio di eguaglianza e della ragionevole durata del processo, la Corte ha affrontato «con priorità, per ragioni di ordine logico», le questioni di legittimità costituzionale sollevate, in riferimento agli articoli 76 e 77 Cost. Escluso che «la norma introdotta dal legislatore delegato potesse interpretarsi come un coerente sviluppo e completamento delle scelte espresse dal delegante», il giudice costituzionale ha risolto la questione di legittimità, ripristinando il corretto equilibrio tra Governo e Parlamento nell’adozione della delega legislativa. Vedremo, poi, se e nella misura in cui l’art. 84 del decreto-legge 21.6.2013, n. 69, reintroducendo l’esperimento del procedimento di mediazione, come condizione di procedibilità della domanda giudiziale, uscirà indenne da un eventuale vaglio di costituzionalità.
Altra interessante questione relativa formalmente ad un giudizio di legittimità costituzionale sollevato su un decreto-legge, ma sostanzialmente ad una controversia tra potere politico e potere giudiziario è affrontata dalla Corte nella sent. 9.5.2013, n. 85. Sullo sfondo, i noti problemi di inquinamento legati all’acciaieria di Taranto. A fronte del provvedimento giudiziario che vietava la prosecuzione dell’attività produttiva, il Governo, aggiornando l’autorizzazione integrata ambientale (AIA), consentiva, con il decreto-legge, oggetto della censura, di continuare la produzione, sebbene il sequestro. Ecco allora la necessità di comporre il conflitto, attraverso il necessario bilanciamento tra diritto alla salute e libertà di iniziativa economica da un lato, tra poteri del giudice e valutazioni dell’amministrazione dall’altro. A tal proposito, si legge che «il punto di equilibrio contenuto nell’AIA non è necessariamente il migliore in assoluto … ma deve presumersi ragionevole, avuto riguardo alle garanzie predisposte dall’ordinamento quanto all’intervento di organi tecnici e del personale competente …; non rientra nelle attribuzioni del giudice una sorta di ‘riesame del riesame’ circa il merito dell’AIA», dal momento che «le opinioni del giudice, anche se fondate su particolari interpretazioni dei dati tecnici a sua disposizione, non possono sostituirsi alle valutazioni dell’amministrazione sulla tutela dell’ambiente, rispetto alla futura attività di un’azienda, attribuendo in partenza una qualificazione negativa alle condizioni poste per l’esercizio dell’attività stessa, e neppure ancora verificate nella loro concreta efficacia». Pertanto, è escluso che «un giudice (ivi compresa [la] Corte) ritenga illegittima la nuova normativa in forza di una valutazione di merito di inadeguatezza della stessa, a prescindere dalla rilevata violazione di precisi parametri normativi, costituzionali o ordinari, sovrapponendo le proprie valutazioni discrezionali a quelle del legislatore e delle amministrazioni competenti».
L’alta conflittualità politica degli ultimi anni ha contribuito dunque ad una nuova evoluzione del ruolo della Corte. Anche nella sua funzione di controllo sulla validità delle leggi, essa indossa, con sempre maggiore frequenza, la veste di arbitro dei conflitti, realizzando quel giusto e delicato equilibrio tra politica e diritto che solo «un’istanza neutrale»22, dotata di forza politica, «giudice e legislatore al tempo stesso»23, ma «collocata per composizione e compiti al di fuori e ‘lontano’ sia dal potere giudiziario, sia dai poteri ‘politici’»24, può raggiungere.
1 Così, Celotto, A., La Corte costituzionale, Bologna, 2004, 119.
2 Così, Modugno, F., L’invalidità della legge, I, Milano, 1970, XI.
3 C. cost., sentt. 19.12.1968, n. 126 e 3.12.1969, n. 147.
4 In tal senso, cfr. Celotto, A., La Corte costituzionale, cit., 119.
5 Più dell’80 per cento delle decisioni della Corte venivano pronunciate nei giudizi di legittimità costituzionale e di questi soltanto una scarsa percentuale era rappresentato da giudizi sollevati in via principale. Pochissime le decisioni emesse in sede di conflitti tra enti, del tutto assenti, almeno all’inizio, le decisioni in sede di conflitti tra poteri, sull’ammissibilità dei quesiti referendari e sui giudizi penali.
6 Così, parafrasando, Crisafulli, V., Lezioni di diritto costituzionale, II, 2, Padova, 1984, 411.
7 Cfr. Crisafulli, V., Lezioni di diritto costituzionale, cit., 412, ove si legge che prima di allora i conflitti tra poteri sollevati dinanzi alla Corte erano stati poco più di una ventina e molti di essi erano stati dichiarati inammissibili.
8 Così, Celotto, A., La Corte costituzionale, cit., 120.
9 Così, Elia, L., Relazione di sintesi, in Occhiocupo, N., a cura di, La Corte costituzionale tra norma giuridica e realtà sociale, Bologna, 1978, 168.
10 In tal senso, cfr. Zagrebelsky, G.-Marcenò, V., Giustizia costituzionale, Bologna, 2012, 161.
11 Così, Cheli, E., Il giudice delle leggi, Bologna, 1996, 13.
12 Così, Malfatti, E.-Panizza, S.-Romboli, R., Giustizia costituzionale, Torino, 298 s.
13 Si veda la Relazione del Presidente Franco Gallo, presentata il 12.4.2013, presso il Palazzo della Consulta, pubblicata sul sito www.cortecostituzionale.it, 2.
14 C. cost., sent. 26.6.2002, n. 282. Poi, cfr., ex plurimis, decc. 12.4.2005, n. 145; 8.5.2007, n. 162; 2.7.2009, n. 200; 27.7.2011, n. 248; 8.3.2013, n. 36.
15 C. cost., sent. 1.10.2003, n. 303. Poi, cfr., ex plurimis, sentt. 19.7.2005, n. 285; 14.11.2007, n. 380; 22.7.2010, n. 278; 4.6.2012, n. 139.
16 Così Carnevale, P., in AA.VV., Diritto pubblico, a cura di F. Modugno, 2012, 306.
17 C. cost., sent. 5.12.1997, n. 375.
18 C. cost., sentt. 17.1.2000, nn. 10 e 11 e 16.4.2004, n. 120. Più di recente, cfr., ex plurimis, sentt. 28.5.2010, n. 188 e 22.10.2010, n. 301; 11.10.2012, n. 229.
19 C. cost., sent. 18.5.2006, n. 200.
20 C. cost., sent. 23.5.2007, n. 171 (corsivo aggiunto) e, analogamente, sent. 30.4.2008, n. 128.
21 C. cost., sent. 16.2.2012, n. 22 (corsivo aggiunto).
22 Così, Onida, V., Un conflitto tra poteri sotto la veste di questione di costituzionalità: amministrazione e giurisdizione per la tutela dell’ambiente. Nota a Corte costituzionale, sentenza n. 85 del 2013, in www.associazionedeicostituzionalisti.it, 4.
23 Così, Malfatti, E.-Panizza, S.-Romboli, R., Giustizia costituzionale, cit., 299.
24 Cfr. Onida, V., op. ult. cit., 4.