La Democrazia cristiana
La Democrazia cristiana ha occupato un ruolo centrale sia nella storia del cattolicesimo italiano – e, più in generale, dei cristiani d’Italia – sia nella storia del paese nel suo complesso. Non si è trattato, infatti, di un partito politico come tanti altri che, in numero assai cospicuo, sono emersi nel corso della storia unitaria. Per un cinquantennio, da una parte, la Dc è stato il partito che ha goduto del sostegno della gerarchia ecclesiastica e ha raccolto gran parte del voto cattolico: malgrado le profonde evoluzioni del rapporto tra mondo cattolico e partito democristiano, questo legame è sopravvissuto in parte fino alla fine. È sempre stata, dall’altra, il partito di maggioranza relativa, il perno di tutte le alleanze di governo e il cardine del sistema politico repubblicano: caso unico nella storia dei partiti italiani, infatti, in tutto il corso della sua esistenza non è mai stata partito di minoranza, di opposizione o politicamente marginale. Grazie a questa singolare fisionomia ha influenzato in modo rilevante l’intera società italiana nei suoi diversi aspetti. Appare giustificato in questo senso parlare di Italia democristiana, così come si è parlato di Italia liberale e di Italia fascista1.
Malgrado la sua rilevanza, anzi, in un certo senso, proprio per questo, la stagione democristiana ha costituito una vistosa eccezione nella storia unitaria. In nessun’altro periodo di tale storia i cattolici hanno avuto un ruolo così importante nella vita politica, hanno influenzato tanto le istituzioni, sono intervenuti in modo così sistematico su diversi aspetti della vita pubblica. Inoltre, intorno a questo partito – in un singolare intreccio, conflittuale ma anche complementare, con gli altri grandi partiti di massa – si è sviluppato un rapporto articolato e complesso tra istituzioni politiche e la variegata realtà della società italiana, che ha conferito una peculiare solidità alla cosiddetta Prima repubblica, sconosciuta a periodi precedenti e successivi della storia unitaria.
Forse proprio per questo, scrivere la storia di tale partito appare ancora difficile. Oggetto prima delle deformazioni di una storiografia di matrice comunista molto ideologica – una singolare ‘storia dei vinti’ sul piano politico, ma egemone su quello culturale, come sosteneva Pietro Scoppola – la Dc è successivamente diventata oggetto di una storiografia revisionistica altrettanto ideologica. Alla prima si deve un’interpretazione unilaterale quale partito della ‘borghesia’, degli ‘americani’, del ‘neocapitalismo’ o, addirittura, genericamente del ‘potere’; mentre alla seconda un appiattimento della fase degasperiana sulle posizioni liberali e una lettura delle fasi successive in chiave di subalternità alle sinistre e in particolare ai comunisti. Sono letture antagoniste che tuttavia, in modi diversi, trascurano entrambe la complessità storica del fenomeno democristiano, che non è stato solo politico ma anche sociale e culturale, con implicazioni rilevanti su quello religioso. Non a caso, tali interpretazioni non riescono ad affrontare la complessa questione del rapporto con la Chiesa cattolica, importante anche per ricostruire le relazioni di questo partito con le diverse componenti della società italiana, con i soggetti economici e con le altre forze politiche, con le istituzioni dello Stato e con l’amministrazione pubblica.
La Dc è stata variamente descritta come partito altamente confessionale o, al contrario, soprattutto dopo la sua scomparsa, caratterizzato da un certo grado di laicità. Nel 1974 Gianni Baget Bozzo ne ha proposto una originale interpretazione teologica, richiamandosi agli schemi di rapporto tra Chiesa e Stato da lui sintetizzati nei modelli eusebiano, gelasiano e agostiniano2. Più spesso, il dibattito ha affrontato il problema mettendo a confronto Partito popolare e Democrazia cristiana: del primo è stato sottolineato il carattere ‘aconfessionale’ e la forte caratterizzazione programmatica, della seconda una minore autonomia dalla Chiesa e una caratterizzazione maggiormente ideologica. È difficile, però, ignorare che il Ppi è stato fondato da un sacerdote e che Alcide De Gasperi ha difeso con fermezza il suo partito da ingerenze ecclesiastiche. In altre parole, il rapporto tra Chiesa e Dc e le differenze rispetto al Ppi non vanno definite in chiave teologica, ideologica o comunque teorica, ma ricostruite concretamente e in modo storico3. Infatti, anche a seguito della difficile esperienza popolare, il rapporto della Dc con l’istituzione ecclesiastica e con il mondo cattolico è stato più complesso e più articolato che nel caso del partito di Sturzo.
Indubbiamente il nuovo partito è nato sulla base di uno stretto rapporto con l’istituzione ecclesiastica, grazie a un’iniziativa sostenuta direttamente dalla Santa Sede – in particolare a opera del sostituto della Segreteria di Stato, monsignor Giovanni Battista Montini – e da parte dell’episcopato italiano4. Si deve proprio a monsignor Montini un forte impegno per far confluire nel secondo dopoguerra tutte le esperienze più significative del cattolicesimo italiano in questa formazione, contrastando la loro dispersione in altre proposte politiche, dai Cristiano-sociali ai Cattolici comunisti. È evidente quanto la Dc abbia ricavato da questo rapporto con la Chiesa, a cominciare da un largo consenso elettorale. Ma si tratta solo di un aspetto di un rapporto assai complesso, come ha evidenziato la lunga discussione storiografica sul collateralismo tra Chiesa e Dc: si deve considerare la prima collaterale alla seconda, è stata cioè l’azione della Chiesa a essere funzionale al partito dei cattolici, o viceversa? Com’è noto, entrambe le tesi hanno trovato convinti sostenitori. Ma appare più convincente la strada della ricostruzione di come si è concretamente sviluppato nel tempo, secondo le diverse circostanze, il complesso rapporto tra leadership ecclesiastica e classe dirigente cattolica.
Monsignor Montini, ad esempio, da una parte sostenne inizialmente la leadership di De Gasperi e degli ex popolari, estranei all’esperienza delle organizzazioni cattoliche tra le due guerre, favorendo così una certa autonomia di iniziativa politica da parte del nuovo partito; dall’altra, invece, operò per inserire anche chi veniva dall’esperienza delle organizzazioni cattoliche e, più in generale, per costruire una complessiva unità politica dei cattolici, influendo così in senso diverso. A sua volta, la leadership democristiana ha inizialmente accettato il ruolo di magistero e di guida svolto dall’istituzione ecclesiastica, comprese le molte ricadute politiche di tale ruolo. Il contesto del tempo, infatti, imponeva forti limiti all’azione dei laici all’interno della Chiesa: la Dc è nata a poco più di dieci anni di distanza dalla pubblicazione del Catechismo del cardinale Gasparri, che definiva i laici ‘sudditi’ della Chiesa. Ma proprio tale contesto evidenzia l’originalità che ha rivelato nel tempo un rapporto tra Democrazia cristiana e Chiesa cattolica, su cui hanno influito da una parte la ricca formazione religiosa e culturale mitteleuropea di De Gasperi – su cui la storiografia non ha ancora indagato esaurientemente – e, dall’altra, il legame sempre più stretto tra questo partito e lo Stato. Paradossalmente, si potrebbe parlare della Dc come di un partito meno aconfessionale ma anche più laico del Ppi: meno aconfessionale, perché non ha cercato di costruire la sua identità sulla base di uno specifico programma politico e ha raccolto il suo elettorato assumendo la tradizione cristiana, nella sua globalità, come orientamento di fondo; ma è stato anche più laico, perché, ha sviluppato la sua azione opponendo all’influenza dell’istituzione ecclesiastica i limiti che scaturiscono dalla specificità dello spazio politico-istituzionale in cui operano i partiti, dal rapporto con le altre forze sociali, culturali e politiche e dal concreto contesto storico della società italiana. In un certo senso, la Dc ha portato i problemi del rapporto tra Chiesa e Stato all’interno del contesto cattolico, trasformandoli da problemi di relazioni con un soggetto completamente ‘esterno’ in problemi anche ‘interni’ a questo mondo. Un esempio emblematico è costituito dall’operazione Sturzo, in occasione delle elezioni amministrative di Roma del 1952, quando emerse una forte divergenza tra De Gasperi e lo stesso Pio XII. Ciò ha favorito una rilevante evoluzione dell’atteggiamento cattolico verso lo Stato e ha, indirettamente, contribuito a una trasformazione del ruolo del laicato all’interno della Chiesa.
Si comprende così come sia stato possibile che lo stesso partito abbia operato, negli anni Cinquanta, per la costruzione di un ‘regime clericale’, secondo l’espressione di Jemolo, e, negli anni Settanta e Ottanta, alla complessiva affermazione del principio di laicità nella società italiana. La Dc, infatti, è stata al centro di un processo di traduzione dell’evoluzione della società civile in norme di legge, atti amministrativi, modalità della vita pubblica, dentro un quadro di valori e comportamenti che continuava a ispirarsi al cristianesimo. In questo senso, tale partito non ha solo svolto un’azione di mediazione o di compromesso tra valori cristiani e trasformazioni sociali, come viene spesso sostenuto in modo riduttivo. È vero piuttosto che, per sviluppare la sua azione, la classe dirigente democristiana si è interrogata sulle forme assunte dalla presenza cattolica in Italia nelle diverse fasi storiche del secondo dopoguerra e ha concretamente assunto, in molti casi, un ruolo-guida nell’orientamento di tale presenza. La classe dirigente democristiana, pur continuando sempre a rispettare il ruolo magisteriale della leadership ecclesiastica, ha guadagnato crescente autorevolezza, sviluppando un’originale interpretazione del ruolo della Chiesa in Italia e contribuendo a ridefinirlo: si tratta di un processo di denso spessore storico, che va al di là delle definizioni teologiche o ideologiche, delle misurazioni del tasso di laicità di questo partito o dell’incidenza concreta dei riferimenti alla sua ‘ispirazione cristiana’5.
Il vuoto che si creò con il crollo del regime fascista, l’indebolimento della monarchia e la crisi dello Stato fu riempito dalla Chiesa, la quale divenne riferimento sempre più importante non solo per i cattolici ma per tutta la popolazione italiana. Quando nacque la Repubblica sociale italiana, nel 1943, l’istituzione ecclesiastica assunse un atteggiamento distaccato, senza peraltro sostenere apertamente la Resistenza. Eppure, interpretando attese di pace sempre più diffuse, essa si pose in sintonia profonda con una società italiana che aspirava a liberarsi della violenza fascista e nazista. Clero, religiosi, associazioni cattoliche si misero al servizio di una popolazione sempre più stremata dalla guerra e oppressa dal nazifascismo, realizzando una vasta rete di protezione, in primo luogo per la popolazione civile, ma anche per ebrei e antifascisti (e, più tardi, per gli stessi fascisti). Il magistero ecclesiastico, a sua volta, saldò in modo sempre più esplicito la ricerca della pace con la scelta per la democrazia, come è emblematicamente indicato dal radiomessaggio natalizio di Pio XII nel 1944. La sintonia tra istituzione ecclesiastica e molti italiani, non solo cattolici, è stata forse l’elemento più importante della situazione post-bellica e il dato storico che ha maggiormente segnato le origini della Repubblica. Molti italiani, che avevano fornito un vasto consenso – seppure con diverse gradazioni – a Mussolini e al fascismo, si ritrovarono vicini a una Chiesa che non condivideva l’antifascismo politico e che respingeva epurazioni radicali, e condivisero una prospettiva di approdo moderato alla democrazia.
Tutto ciò ha condizionato il gruppo dirigente antifascista del partito che ha raccolto gran parte del consenso goduto dalla Chiesa alla fine della guerra. Ma è comunque rilevante che l’istituzione ecclesiastica abbia riconosciuto un ruolo di guida politica a De Gasperi e agli ex popolari. Era infatti divenuto ormai evidente l’errore storico compiuto, nel primo dopoguerra, abbandonando l’esperienza popolare e privilegiando il rapporto con il fascismo. Di tale errore non solo gli ex popolari non avevano alcuna responsabilità – avendo cercato di impedirlo fino in fondo – ma ne avevano anche pagato un prezzo molto alto a livello personale – l’esilio e la prigione, nel caso di Sturzo e di De Gasperi – senza protestare contro l’autorità ecclesiastica e senza accusare pubblicamente nessuno. Nel dopoguerra, tale errore non venne riconosciuto esplicitamente, ma il peso di quanto era accaduto fu decisivo nel favorire una funzione guida dell’ultimo segretario del Ppi De Gasperi nella promozione di una nuova iniziativa politica: egli rappresentava tutti coloro che avevano intuito, fin dall’inizio, la direzione che la Chiesa avrebbe dovuto assumere vent’anni prima.
Questa ‘riabilitazione’ non riguardò tutti: alcuni, come Sturzo, continuarono infatti a essere tenuti ai margini. Al fondatore del Partito popolare si continuò a rimproverare un’azione politica che aveva messo in difficoltà la Chiesa, come aveva scritto Montini nel 1923, mentre questa continuava a subire le conseguenze di un dissidio ancora aperto con lo Stato. A differenza di Sturzo e di altri leader popolari, giocò a vantaggio di De Gasperi l’essere rimasto in Italia, a stretto contatto con il mondo cattolico, soprattutto nel periodo in cui, dopo la prigionia, lavorò come impiegato della Biblioteca vaticana6. Da un lato, tale contatto gli permise di seguire da vicino gli sviluppi del pontificato di Pio XI come italiano tra le due guerre. Dall’altro, la permanenza in Italia gli rese possibile continuare il dialogo con gli altri cattolici, esercitando anche una qualche influenza su di loro. Del primo aspetto costituisce un esempio significativo il giudizio che egli dette del Concordato, critico ma più equilibrato di altri ex popolari: egli, non respinse tout court l’accordo per motivi etico-politici, ma ne intuì acutamente gli elementi di debolezza che avrebbero reso necessario, dopo la caduta del fascismo, un impegno diretto dei cattolici nella società di massa. Del secondo aspetto, si possono ricordare i rapporti con padre Gemelli, fondatore e rettore dell’Università Cattolica, che gli permisero di pubblicare – seppure sotto falso nome – alcuni testi sull’impegno sociale dei cattolici e, soprattutto, di stabilire alcune premesse della collaborazione con i cosiddetti ‘professorini’.
L’‘investitura’ ecclesiastica, seppure limitata e indiretta, degli ex popolari riguardava ovviamente il campo politico. Ma il fascismo e, più in generale, il totalitarismo sono stati tra i fenomeni più importanti del Novecento e hanno influenzato l’intera società, compresi mentalità, cultura, valori etici, orientamenti educativi, relazioni interpersonali, comportamenti sociali ecc. Anche la sfera religiosa non è rimasta immune e pure il cattolicesimo italiano ne è stato influenzato e la fuoriuscita dal fascismo ha riguardato tutti questi campi, con modalità e tempi diversi. Anche se la sua politica verso gli eredi del fascismo è stata quantomeno incerta negli anni della guerra fredda, si può dire che il riferimento all’antifascismo abbia rappresentato un elemento costitutivo della Dc, cardine della sua differenza nei confronti di un mondo cattolico che aveva simpatizzato per il regime e fondamento di una scelta per la democrazia non sempre scontata da parte dell’istituzione ecclesiastica. Tale riferimento ha assunto particolare importanza con l’avvento del centro-sinistra, ma il suo rilievo ha continuato a essere tangibile anche negli anni Settanta, durante la ‘strategia della tensione’, per poi declinare negli anni Ottanta. La ‘seconda generazione’, in particolare, ha sottolineato le radici cristiane dell’antifascismo, identificandolo con la spinta morale che riteneva necessario imprimere a una modernizzazione del paese non solamente tecnica o economica.
Premessa fondamentale dell’inserimento della Dc nella vita politica italiana è costituita dal legame con una Chiesa che godeva, oltre alla già ricordata fiducia della popolazione italiana maturata durante la guerra, del ruolo di interlocutore privilegiato degli Alleati e, in particolare, degli americani, del credito goduto quale garanzia contro il pericolo comunista, di una presenza capillare nella società italiana. Inizialmente la Santa Sede evitò di indicare De Gasperi come l’esponente su cui riponeva la propria fiducia: in questo senso, la Dc non nasce come ‘partito della Chiesa’. Ma presto, l’azione congiunta di Montini e De Gasperi fece della Dc il ‘partito dei cattolici’, tanto che in molti luoghi la nuova formazione venne costituta con l’appoggio decisivo dei vescovi e del clero.
L’insediamento della Dc quale partito-cardine del sistema politico – elemento chiave della sua ‘centralità’ – è avvenuto attraverso una serie passaggi, di cui De Gasperi è stato il principale regista7. Egli inserì anzitutto il suo partito come rappresentante dei cattolici nel Comitato di liberazione nazionale, entrò nei governi di coalizione varati dopo la svolta di Salerno, contrastò dal centro i tentativi di rifondazione dello Stato perseguiti dalle forze della Resistenza. Un passaggio ulteriore si realizzò con la crisi del governo Parri alla fine del 1945. È noto che da tale crisi uscì l’investitura di De Gasperi quale presidente del Consiglio, carica che ha conservato per otto anni, fino al 1953. La conclusione del governo Parri mise fine al tentativo di portare il ‘vento del Nord’ alla guida del governo, senza però che tale fallimento riportasse la monarchia al centro dell’equilibrio politico-istituzionale e senza il ritorno delle vecchie classi dirigenti liberali alla guida del paese. Infatti, fu soprattutto la Dc che finì per beneficiare dell’iniziativa della crisi subita dai liberali, mentre si affermava un nuovo equilibrio basato sui grandi partiti di massa. Non è casuale, in questo senso, che Nenni e Togliatti abbiano favorito l’avvento di De Gasperi, proprio in quanto leader di un grande partito come quelli di cui anch’essi erano alla guida. Perciò, malgrado la disponibilità di nuova documentazione, che indubbiamente illumina in modo più adeguato il ruolo svolto dai liberali, resta rilevante l’importanza politico-istituzionale di un passaggio che non era riuscito nel primo dopoguerra e che costituì, viceversa, nel secondo dopoguerra un decisivo elemento di discontinuità rispetto alla precedente storia unitaria.
Alcune tendenze storiografiche recenti hanno creduto di dover ridimensionare l’importanza dell’avvento di De Gasperi nel 1945, come lo definì Valiani, spostando al 18 aprile 1948 il vero momento fondativo della ‘Repubblica dei partiti’. In questa prospettiva, il periodo tra la fine del conflitto e l’inizio della Guerra fredda perde di rilievo e così pure la differenza tra la fase storica che si è conclusa nel 1945 e quella iniziata nel 1947. In realtà, nel 1945 l’Italia si stava ancora misurando con il problema della fuoriuscita dal fascismo e l’avvento di De Gasperi indicò chiaramente che, se da un lato la prospettiva di una discontinuità rivoluzionaria era ormai definitivamente superata, non si sarebbe tornati agli equilibri dell’Italia liberale. Come indica la convergenza di democristiani, comunisti e socialisti nell’affermazione dei partiti politici di massa quali protagonisti del sistema politico, sarebbe riduttivo affermare che l’anticomunismo abbia rappresentato fin dall’inizio l’elemento costitutivo del sistema politico repubblicano: questo elemento divenne in seguito determinante, ma aggiungendosi ad altri già emersi precedentemente e senza sostituirsi a essi. La ‘Repubblica dei partiti’, in altre parole, è nata prima della Guerra fredda ed è finita dopo la sua conclusione nel 1989: sono state le elezioni del 1994 a segnare definitivamente la scomparsa dei tre partiti di massa emersi quali principali protagonisti della scena politica italiana alla fine del 1945.
Nel contesto della convergenza ‘istituzionale’ fra i tre grandi partiti di massa emersa alla fine del 1945, si colloca anche il referendum che ha portato all’affermazione della Repubblica il 2 giugno 1946. La Dc, sostenendo il passaggio referendario, esprimendo come partito un orientamento per la Repubblica ma lasciando libertà di scelta ai propri elettori, fu in grado di raccogliere buona parte del consenso per la Monarchia ancora presente nel paese, così da assumere il ruolo di partito della stabilità e dell’ordine nella transizione evitando il ‘salto nel buio’. La Democrazia cristiana, cioè, assunse fin dall’inizio il ruolo di polo moderato all’interno però di un sistema incentrato sui grandi partiti di massa. Il significato istituzionale dell’‘avvento di De Gasperi’, inoltre, non fu cancellato dall’estromissione di comunisti e socialisti dall’area di governo nel maggio 1947, come ha invece sostenuto a lungo la storiografia comunista. Anche dopo tale data, infatti, la guida del governo, rimase nelle mani del principale partito di massa, conferma del ruolo decisivo assegnato a questi partiti nel nuovo sistema politico. Malgrado i segnali della ormai incipiente Guerra fredda, nel 1947 non fu la situazione internazionale a imporre l’uscita di comunisti e socialisti dal governo, come conferma la reazione complessivamente moderata degli esclusi. Questa crisi, come evidenziò lo stesso De Gasperi, fu piuttosto innestata dal ‘quarto partito’, così da lui definito in contrapposizione a democristiani, socialisti e comunisti allora al governo. Egli denunciò la spregiudicatezza di speculatori che stavano abilmente sfruttando la paura nel ceto medio («la folla sciocca dei tremolanti») e che, anche se avevano pochi voti, non era possibile ignorare. A tale sfida egli rispose aprendo a figure di grande prestigio tecnico e morale, come Luigi Einaudi, e adottando una linea di politica economica basata su stabilità monetaria, controllo del credito, lotta contro l’inflazione. A partire da questa svolta, si è poi sviluppata la ricostruzione economica e sono state messe le basi del ‘boom’ degli anni Sessanta. De Gasperi resistette allora alle spinte – opposte ma convergenti – per sostituirlo alla guida del governo con leaders della vecchia classe dirigente liberale, come Nitti e Orlando, e per collocare la Dc all’opposizione, come avrebbe voluto la sinistra democristiana guidata da Gronchi. Egli, infatti, non intendeva riconsegnare alle vecchie classi dirigenti liberali la guida del paese, ma avviare uno stretto rapporto tra borghesia per lo più laica e un grande partito popolare prevalentemente cattolico.
Questa alleanza non è stata di totale subordinazione del secondo alla prima o viceversa. In particolare, contrariamente a quanto affermato dalla storiografia comunista da Togliatti in avanti, nel 1947 non cominciò la ‘restaurazione capitalistica’: fin dal 1945 le forze politiche dominanti, compreso il Pci, avevano espresso una chiara scelta per il sistema capitalistico, poi ribadita in sede di Assemblea costituente. Al contrario, avviando un’alleanza, a trazione cattolica, tra ceti produttivi e strati popolari, la crisi del 1947 ha costituito la premessa per continuare a perseguire obiettivi di redistribuzione del reddito e di riforme sociali8. Senza l’‘avvento di De Gasperi’ nel 1945 e la crisi del maggio 1947, la Dc non avrebbe cercato di conciliare, dopo il 1948, la funzione di ‘diga anticomunista’ con esigenze di democrazia e speranze di giustizia sociale. È nato nel 1947, in particolare, quell’orientamento centrista che non ha rappresentato solo una formula politica di aggregazione verso il centro, ma anche una prospettiva di inclusione economico-sociale di strati e gruppi subalterni e marginali, evocata dalla nota definizione degasperiana della Dc quale partito di centro che guarda verso sinistra9. Si tratta della politica e della prospettiva che, passate attraverso le diverse fasi del centrismo, del centro-sinistra e della solidarietà nazionale, si sono sostanzialmente esaurite tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta.
Un ruolo importante fu svolto da questo partito nell’Assemblea costituente, eletta il 2 giugno 1946, che concluse i suoi lavori nel dicembre 194710. Sotto il profilo politico, i lavori della Costituente si potrebbero collocare tra l’avvento di De Gasperi nel 1945 e la svolta centrista del maggio 1947. Come è stato sottolineato, infatti, la Carta repubblicana è stata il frutto di un ‘compromesso’ – nel senso alto di ‘promettere insieme’ – tra i grandi partiti di massa. Tale immagine, tuttavia, non rende interamente conto della natura di questo testo, che si inserisce anzitutto nella tradizione delle costituzioni liberal-democratiche. Così, se da una parte essa esprime indubbiamente sensibilità per la giustizia sociale, intenti programmatici riformatori, aperture verso il ruolo dello Stato in economia che ricordano altre costituzioni novecentesche, come quella di Weimar, dall’altra la Costituzione repubblicana rielabora in modo nuovo i fondamentali diritti liberali e disegna un ordinamento dello Stato su base democratica. Fu proprio la Dc a porsi come elemento di raccordo fra aspetti e orientamenti della tradizione liberal-democratica e di quella socialista, seppure rielaborati in modo originale ed escludendo le suggestioni del comunismo sovietico. Nell’opera svolta dai costituenti democristiani emerge, infatti, una saldatura tra cattolicesimo liberale e cattolicesimo sociale, i due principali filoni del cattolicesimo italiano dei secoli XIX e XX, dei quali la Dc si proponeva di essere erede.
Sviluppi decisivi, nei rapporti tra la Dc e gli altri due partiti di massa italiani, emersero dopo il maggio 1947, con l’evoluzione della situazione internazionale – che si manifestò con la rottura determinata dal piano Marshall, la nascita del Cominform, la definitiva affermazione dei regimi comunisti in Europa orientale –, quando prese corpo uno ‘scontro di civiltà’ tra comunismo e anticomunismo destinato a durare a lungo. Le elezioni del 1948, infatti, si svolsero quando ormai la questione comunista era diventata decisiva in Italia come in altri paesi occidentali e assunsero il significato di una scelta del popolo italiano – indubbiamente condizionata da opposte influenze – per la collocazione occidentale del paese. In concreto, tale scelta si espresse nel larghissimo consenso elettorale di cui beneficiò la Dc raggiungendo quasi la metà dei voti. Ma neanche il 18 aprile 1948 ha annullato, per così dire, le svolte precedenti e la scelta per una democrazia dei partiti di massa e per un orientamento centrista proiettato verso l’inclusione di chi è ai margini.
La scelta occidentale dell’Italia fu confermata, nel 1949, dal suo inserimento tra i fondatori dell’Alleanza atlantica e il successivo ingresso di questa nella Nato, fermamente voluti da De Gasperi contro le resistenze non solo delle sinistre ma anche di una parte del mondo cattolico11. L’assunzione del ruolo di soggetto principale dello schieramento anticomunista si saldò così alla funzione, assegnatale nel sistema delle relazioni internazionali della Guerra fredda, di garante del ‘vincolo esterno’ che, dalla fine degli anni Quaranta, ha segnato la ‘difficile’ democrazia italiana, singolarmente priva della possibilità di un’alternativa di governo. La Dc, però, non accolse le pressioni che venivano dal mondo cattolico e dai settori più conservatori della società italiana che avrebbero voluto bandire il Pci dalla vita politica italiana. Si deve a De Gasperi la scelta di impedire che le conseguenze della scomunica, emanata nel 1949 dal Sant’Uffizio, si estendessero alla vita civile. La Dc scelse per una conventio ad excludendum, non istituzionale ma politica, che ha impedito al Pci di far parte dell’area di governo, senza però escluderlo dall’area della rappresentanza. Si radicano in questa scelta i motivi per cui, anche negli anni più duri della Guerra fredda, la Dc non ha dato vita a un ‘regime’ politico e, nelle fasi successive, ha sviluppato l’anticomunismo in chiave democratica.
Un altro aspetto ‘creativo’ dell’anticomunismo degasperiano è rappresentato da un impegno sempre più convinto per l’unificazione europea. Già pochi mesi dopo il 18 aprile 1948, il 20 novembre successivo, De Gasperi legò esplicitamente l’esigenza di riscoprire le «basi morali della democrazia» alle «energie ricostruttive ed unitarie di tutta Europa» e alla prospettiva dell’«Europa unita». Negli anni successivi il suo impegno è cresciuto ulteriormente e la Dc italiana, come le altre democrazie cristiane europee, ha fatto dell’impegno europeista uno dei suoi tratti caratterizzanti. Benché tale impegno si sia concretizzato soprattutto sul terreno economico e attraverso modalità meno impegnative del federalismo, i democristiani italiani hanno sempre mantenuto il collegamento con una più ampia prospettiva di unificazione politica e hanno sempre collocato l’Italia fra i più convinti sostenitori dell’europeismo.
Come si è già ricordato, la leadership del partito è stata inizialmente affidata agli ex popolari, ma con un significativo innesto, favorito dall’istituzione ecclesiastica, di intellettuali cattolici che si erano formati tra le due guerre. Tra questi, il gruppo più significativo era costituito dai ‘professorini’, gran parte dei quali legati all’Università Cattolica, come Amintore Fanfani, Giuseppe Dossetti, Giuseppe Lazzati, o a loro vicini, come Giorgio La Pira, che animarono l’impegno cattolico in sede di Assemblea costituente – attraverso la cosiddetta ‘Comunità del porcellino’ – e che formarono poi una delle prime correnti della Dc assumendo il nome di dossettiani. I contrasti che li opposero a De Gasperi sono stati molto enfatizzati ma, nonostante scontri anche duri, essi non arrivarono mai allo scontro radicale nei passaggi cruciali della stagione degasperiana, come la fine della collaborazione con comunisti e socialisti nel maggio 1947, le elezioni politiche del 1948, l’adesione all’Alleanza atlantica. Ci furono, piuttosto, differenze profonde di cultura e di sensibilità, di obiettivi e di prospettive, oltre a incompatibilità personali, che portarono al ritiro di Dossetti dalla Dc e dalla vita politica, dopo una fase di intenso coinvolgimento come vicesegretario del partito, tra il 1950 e il 1951.
Il suo ritiro maturò all’interno della fase politica iniziata il 18 aprile 1948. Il trionfo elettorale della Dc, su cui confluirono anche molti voti conservatori e consensi laici in funzione anticomunista, suscitò dubbi e interrogativi all’interno della Dc, sul contrasto tra l’identità del partito e la funzione di diga anticomunista, come in occasione della discussione tra ‘azione cattolica’ e ‘azione politica’ promossa da Lazzati nel 1948, o nel corso del dibattito che accompagnò costantemente le iniziative dei Comitati civici di Luigi Gedda. Dopo il 1948, i dossettiani si impegnarono intensamente soprattutto per cambiare la linea politica del governo e correggere la linea di stabilità monetaria con iniziative contro la povertà e la disoccupazione. Ma dopo che De Gasperi ebbe rimproverato loro, nel Congresso del 1949, un atteggiamento critico cui non corrispondeva un’adeguata assunzione di responsabilità, nel 1950 essi entrarono nella Direzione e Dossetti assunse la vicesegreteria. A partire dall’anno successivo, però, cominciò ad apparire sempre più chiaramente che l’eccezionale successo elettorale del 1948 non si sarebbe più ripetuto, rendendo obbligata e non più opzionale l’alleanza con i partiti laici minori e cioè liberali, repubblicani, socialdemocratici. Se ne discusse al Consiglio nazionale di Grottaferrata del giugno 1951, al quale Dossetti arrivò dimissionario dalla carica di vice-segretario e su posizioni di duro contrasto con gli ex popolari. Fanfani svolse un’opera di mediazione, facilitando il rientro di Dossetti, nell’ottica di una collaborazione con De Gasperi, all’interno di un governo che comprendeva anche le forze laiche. In tale contesto, maturò la frattura interna alla corrente dossettiana che lacerò la ‘seconda generazione’ democristiana e avviò il definitivo distacco di Dossetti dalla politica.
Questi raccolse nell’estate del 1951 i suoi amici a Rossena, sostenendo che non c’erano più le condizioni per continuare l’esperimento di una ‘guida cattolica del paese’ perché la Guerra fredda, da una parte, e l’atteggiamento della Chiesa, dall’altra, non permettevano ai cattolici una posizione diversa dall’appiattimento sulla difesa della civiltà occidentale, in compagnia di alleati ingombranti e lontani dai loro valori. Insieme a Lazzati e ad altri, egli lasciò la Dc e il suo ritiro, con motivazioni che mettevano in discussione la stessa possibilità di perseguire un disegno politico di alta ispirazione ideale, pose alla ‘seconda generazione’ il problema di ridefinire le proprie scelte di fondo. I dossettiani che lasciarono la politica giudicarono l’attivismo di Fanfani – il quale, poco dopo, assunse la leadership di quanti tra di loro continuarono a fare politica e che nel 1954, al Congresso di Napoli, avrebbe preso in mano la guida del partito – una risposta inadeguata alle grandi sfide del momento: quell’attivismo, troppo pragmatico, esprimeva una volontà di conservare e gestire il potere carente di respiro ideale. Altri, invece, da sponde opposte ritennero che la politica di Fanfani alla guida della Dc fosse troppo ‘integralista’ e cioè troppo legata alle ragioni dei cattolici, a fronte di una scarsa attenzione al dialogo con i laici.
Gli ex dossettiani che rimasero in politica raccolsero la sfida lanciata da Dossetti, cercando di trasformare una posizione di debolezza in un elemento di forza. Secondo l’ex vicesegretario, come si è detto, il ruolo di baluardo contro il comunismo e l’‘obbligo’ di sostenere il governo in modo permanente imponeva alla Dc un ruolo subalterno alle forze conservatrici e un abbandono della sua specifica identità cristiana. Fanfani, La Pira e gli altri ex dossettiani erano invece convinti che solo la ‘specificità cristiana’ era in grado di contenere e sconfiggere veramente il comunismo, motivando così la collocazione della Dc alla guida della lotta anticomunista e quella delle altre forze che condividevano tale battaglia in una posizione subordinata. Un ruolo importante ha avuto, in questo senso, Giorgio La Pira, apparentemente ai margini del partito ma in realtà molto influente, grazie anche al rapporto privilegiato con Fanfani. Proprio La Pira, infatti, con il suo impegno a favore della Pignone, i convegni per il dialogo delle civiltà e delle religioni nel Mediterraneo, le sue iniziative nei confronti del mondo comunista internazionale, l’attenzione verso il Terzo Mondo, mostrò in modo creativo come la ‘civiltà cristiana’ potesse costituire una risorsa in più e un’arma decisiva per sconfiggere il grande nemico della Chiesa e dell’Occidente. Nel suo complesso, la seconda generazione impresse una forma nuova al partito, cercando di unire ispirazione cristiana e lotta contro il comunismo, attribuendo alla Dc maggiore autonomia e robusta struttura organizzativa, sviluppando il dibattito politico interno, di cui furono espressione le diverse correnti, per compensare con esso i limiti e i pericoli di una democrazia difficile o bloccata per assenza di alternative di governo. Erede di condizioni e prospettive in gran parte già definite negli anni precedenti, soprattutto a opera di De Gasperi, la seconda generazione ha elaborato in modo originale soprattutto l’ultimo elemento che, in ordine di tempo, ha contribuito a definire la centralità democristiana, il rapporto con il comunismo, concepito in chiave non solo di contrapposizione ma anche di ‘concorrenzialità’, soprattutto sul piano sociale e internazionale.
A indicare il percorso da compiere contribuirono, paradossalmente, proprio le difficoltà suscitate dalle elezioni politiche del 7 giugno 1953, quando il partito arretrò sensibilmente, scendendo di quasi dieci punti percentuali rispetto a cinque anni prima, e il premio di maggioranza – introdotto da una riforma elettorale che le opposizioni definirono ‘legge truffa’ – non scattò per l’opposizione decisiva di una parte dell’elettorato laico che pure sosteneva l’alleanza centrista. A distanza di tempo, si potrebbe considerare quel risultato come effetto soprattutto di un assestamento quasi fisiologico, dopo la mobilitazione straordinaria del 1948: il 40% dei voti corrispondeva al consenso reale di cui effettivamente godeva allora la Dc e che questa avrebbe mantenuto, più o meno, per trent’anni, fino alle elezioni del 1983. La sua consistenza elettorale, in ogni caso, restava notevole anche dopo quelle elezioni e, in altre circostanze, una forza politica che raccoglie quasi il 40% dei voti avrebbe potuto far pesare la sua forza senza particolari difficoltà. Ma un consenso per la Dc pari ‘solo’ al 40% apparve allora un grave problema, in un contesto segnato in modo prioritario dalla conventio ad excludendum nei confronti dei comunisti. All’interno di una logica tutta politica di contenimento del comunismo – in assenza, cioè, di correttivi istituzionali o elettorali, che la seconda generazione ha sostanzialmente sempre rifiutato – tale conventio presupponeva infatti una maggioranza parlamentare che potesse fare a meno dei comunisti e dei loro alleati senza ricorrere all’appoggio delle forze di estrema destra: presupponeva, in altre parole, una maggioranza superiore al 50% che, dopo il 1953, la Dc non è più stata in grado di raggiungere da sola.
I problemi di identità e di prospettive posti dal ‘trionfo’ elettorale del 1948 si riproposero quindi nuovamente, ma in modo diverso. Quelle consultazioni mostrarono che non poteva più venire solo dal mondo cattolico il sostegno necessario per assicurare alla Dc la forza necessaria a sviluppare la sua impegnativa funzione politica. Il risultato elettorale del 1953 ebbe, inoltre, un forte impatto, anche simbolico, perché, seppure un po’ impropriamente, venne interpretato come segnale di un lento processo se non di scristianizzazione quantomeno di allontanamento della società italiana dalla tradizione cattolica, di cui negli stessi anni si avvertivano anche altri sintomi. Dopo le elezioni del 7 giugno apparve perciò sempre più impraticabile il progetto, largamente diffuso nel mondo cattolico post-bellico, di una salda leadership cattolica pur dentro una società pluralista e democratica. Alla fine della guerra si era pensato che, seppure in presenza di tanti orientamenti diversi, al magistero della Chiesa fosse comunque riconosciuto dalla grande maggioranza degli italiani un ruolo super partes e una sorta di influenza erga omnes. A partire dal 1953, invece, il riconoscimento di questo ruolo non era più scontato ed è stato questo il punto di partenza da cui si è sviluppato il progetto della seconda generazione che ha assunto la guida del partito negli anni successivi.
Al nuovo gruppo dirigente democristiano apparve chiaro che l’azione dei cattolici doveva ormai tener conto di un contesto profondamente segnato dal pluralismo delle tendenze culturali e degli orientamenti ideologici. Ma restava anche in primo piano una sfida che continuava a unificare interessi ed esigenze diverse: quella del comunismo. In tale situazione, pur senza rappresentare la maggioranza assoluta e pur costituendo solo una ‘parte’ tra altre ‘parti’, secondo questo gruppo dirigente la Dc poteva e doveva assumere una responsabilità complessiva nei confronti dell’intera società italiana: viene da qui la spinta a trasformare il più possibile la Dc nel ‘partito italiano’ in cui tutti potessero riconoscersi. Il progetto degli esponenti della ‘seconda generazione’ non coincideva con quello che i politologi definiscono il progetto del ‘partito pigliatutto’, anche se molte conseguenze della loro azione sono andate in questa direzione. Piuttosto, fedeltà a una missione ricevuta e condizione minoritaria li spinsero a ripensare la Dc come a una sorta di minoranza chiamata a comportarsi come una maggioranza, traendo da una legittimazione ideale e da un impegno ‘volontaristico’ ciò che mancava a livello di consenso politico. Ne conseguì un cambiamento anche nei rapporti tra istituzione ecclesiastica e ‘partito cattolico’. La situazione, infatti, spingeva la Democrazia cristiana sia nella direzione di una maggiore autonomia dall’istituzione ecclesiastica e all’apertura verso tendenze ideologico-culturali diverse, sia verso una valorizzazione della propria ispirazione cristiana e una proiezione delle risorse del mondo cattolico in tutte le direzioni. In questo modo, la Dc della seconda generazione si pose l’ambizioso obiettivo di colmare, con un’azione sempre più intensa presso i diversi settori della società italiana, il deficit di autorevolezza che la Chiesa cominciava a sperimentare. Per il nuovo gruppo dirigente, insomma, spettava alla Dc compensare i limiti dell’istituzione ecclesiastica.
Dopo la morte di De Gasperi, nell’agosto 1954, la corrente Iniziativa democratica consolidò progressivamente la propria leadership, pur dovendosi misurare con ex popolari che si collocavano sia a destra sia a sinistra nel partito, da Scelba a Gronchi, da Piccioni a Segni. Nello stesso periodo, emersero inoltre altre personalità politiche, ancora giovani ma già rilevanti, come Giulio Andreotti, e nuove correnti, come Forze sociali (che avrebbe poi assunto i nomi Rinnovamento democratico e Forze nuove) fondata da Giulio Pastore e, soprattutto, la Base – di Giovanni Marcora, Camillo Ripamonti, Giovanni Galloni, Luigi Granelli, Ciriaco ed Enrico De Mita, più tardi sostenuta anche da Enrico Mattei – che cercò di indicare una soluzione diversa da quella di Iniziativa alle questioni poste dalle elezioni del 1953. A metà strada tra seconda e terza generazione, infatti, la Base si caratterizzò fin dall’inizio per un’impostazione più laica, più antifascista e più modernizzante, prospettando molto presto la via dell’apertura a sinistra. Iniziativa democratica subì una grave sconfitta nel 1955, in occasione dell’elezione di Giovanni Gronchi alla Presidenza della Repubblica, sostenuta sia dalla destra sia dalla sinistra del partito contro la volontà della segreteria, che aveva candidato Cesare Merzagora. Fu la prima volta che Gronchi assunse la funzione di antagonista del nuovo gruppo dirigente del partito, esprimendo un progetto politico alternativo a quello della ‘seconda generazione’. Nonostante questi limiti, il nuovo corso fanfaniano innestò una profonda riorganizzazione del partito, ispirata in parte al modello comunista, perseguendo sia un vasto radicamento sul territorio, sia una forte direzione centralizzata. Durante la segreteria Fanfani, il numero degli iscritti, che fino al 1952 era stato inferiore al milione, nel 1959 superò quota 1.600.000. L’opera svolta per trasformare la Dc in un ‘partito pesante’ ne accrebbe sensibilmente l’autonomia rispetto a molteplici condizionamenti e fu particolarmente importante in Italia meridionale, dove svincolò il partito dal controllo di notabili che avevano garantito la continuità tra prefascismo e fascismo e quella tra fascismo e post-fascismo.
Nella seconda metà degli anni Cinquanta, si chiarirono gradualmente i diversi elementi della situazione politica scaturita dalle elezioni del 1953. Nell’immediato, la Dc subì in modo più intenso il condizionamento degli alleati laici – liberali, repubblicani e socialdemocratici – ma pure questi nel 1953 avevano subito una sconfitta e perciò si innestò anche una spinta a considerare, almeno in prospettiva, la possibilità di includere altri nella maggioranza di governo: subito dopo quelle elezioni, lo stesso De Gasperi cominciò a prospettare l’ipotesi di un coinvolgimento dei socialisti, che tuttavia si sarebbe potuto realizzare solo dopo un netto cambiamento di rotta di questi ultimi ancora strettamente legati ai comunisti. Nel partito si aprì intanto un dibattito tra primato del programma e priorità delle alleanze, che ha poi segnato tutta la dialettica interna alla Dc fino agli anni Ottanta. Per circa un trentennio è spettato soprattutto a Fanfani sostenere il primato del programma e a Moro insistere soprattutto sulla priorità delle alleanze, ma in realtà la Dc non ha mai avuto la possibilità di scegliere nettamente tra queste due alternative ed è sempre andata alla ricerca di un compromesso. Dietro tale dilemma, infatti, si nascondeva il problema di una scelta impossibile tra primato dell’identità cattolica e sviluppo pluralista della società italiana. Non a caso Moro e Fanfani, che il linguaggio giornalistico definì i due ‘cavalli di razza’ della Dc, agirono spesso in modo contrastante ma non senza una certa complementarietà, uniti da alcune convinzioni di fondo, in particolare per quanto riguarda il riferimento all’ispirazione cristiana della Dc. Paradossalmente, infatti, proprio la pretesa di svolgere una funzione egemonica o, almeno, di orientamento complessivo, motivata con il richiamo a tale ispirazione, costituì un forte incentivo al rapporto più ampio possibile con tutti i diversi settori della società italiana e alle diverse esigenze da questi espresse. In concreto, nel trentennio della cosiddetta egemonia democristiana la Dc finì per svolgere un ruolo di mediazione tra l’aspirazione cattolica a orientare l’intera società italiana e la crescita di un pluralismo sempre più accentuato all’interno di questa.
Al Consiglio nazionale di Vallombrosa, nel luglio 1957, il segretario nazionale della Dc, Amintore Fanfani, prospettò per la prima volta la possibilità di un’apertura ai socialisti, che ormai da alcuni anni avevano cominciato, sia pure molto lentamente, a staccarsi dai comunisti – nel 1956 il rapporto segreto di Chrüščev al XX Congresso del Pcus e l’invasione dell’Ungheria diedero un forte impulso in questo senso – e ad avvicinarsi ai socialdemocratici, tanto che si cominciò a discutere di unificazione socialista, anche sotto l’influenza di vari partiti socialisti europei12. Ma fino al 1957, all’interno della Dc solo la sinistra si era mostrata esplicitamente favorevole a questa prospettiva. La cauta apertura del segretario del partito suscitò, perciò, molte reazioni critiche e pose le premesse di una divisione all’interno di Iniziativa democratica, che sarebbe giunta a maturazione due anni dopo con la nascita della corrente dorotea.
Fanfani puntò sul recupero elettorale della Dc e le elezioni del 1958 premiarono il suo sforzo, portando il partito a circa il 42% dei voti. Egli tentò allora la strada del cosiddetto ‘centro-sinistra pulito’, con un governo formato da democristiani e socialdemocratici, da lui presieduto e in cui ricopriva anche la carica di ministro degli Esteri, mentre conservava quella di segretario del partito. La concentrazione di cariche e soprattutto le forti resistenze alla prospettiva del centro-sinistra provocarono una rapida interruzione di questa esperienza governativa, cui seguirono anche le dimissioni di Fanfani da segretario della Dc. Mentre Segni avviava una nuova esperienza di governo, il partito affrontò i suoi problemi interni, attraverso la nascita dei dorotei e il passaggio della segreteria nelle mani di Moro. La nuova corrente, di cui facevano parte Segni, Mariano Rumor, Flaminio Piccoli, Emilio Colombo, Paolo Emilio Taviani e Francesco Cossiga, si coagulò intorno all’opposizione a Fanfani e alla via da lui intrapresa per giungere al centro-sinistra. Indubbiamente caratterizzata da una scelta politica moderata, la corrente dorotea non si mostrò totalmente contraria a una collaborazione con i socialisti, ma riteneva preliminare mantenere stretti collegamenti con il mondo cattolico, ribadire una politica di fermezza atlantica, esprimere attenzione verso il mondo imprenditoriale. Pur coinvolto nella nascita del gruppo doroteo, Moro manifestò fin dall’inizio la volontà di perseguire un progetto politico più ampio.
Nell’autunno 1959, al Congresso di Firenze gli oppositori di Fanfani riuscirono a metterlo in minoranza, sia pure di poco. Ma nel 1960, dopo le dimissioni di Segni, si aprì una crisi di governo lunga, complicata, ma anche decisiva per gli sviluppi successivi della politica italiana. Durante tale crisi, sia Segni sia Fanfani provarono a formare nuovi esecutivi, coinvolgendo i socialisti, senza riuscirci, anche a causa di una rilevante opposizione della Conferenza episcopale italiana e in particolare del cardinale Siri. Il fallimento di quei tentativi, però, fu molto importante perché contribuì a innestare un decisivo chiarimento all’interno della Dc. Dopo i fallimenti di Segni e Fanfani, infatti, il Presidente della Repubblica impose un monocolore guidato da Tambroni, che ottenne la fiducia grazie ad alcuni voti missini: per la prima volta, un governo repubblicano accettò l’appoggio determinante degli eredi del fascismo (nel 1957 il governo Zoli aveva respinto il loro apporto). L’esecutivo Tambroni, nato come governo d’affari, assunse i tratti di un governo del Presidente, a causa del ruolo decisivo svolto da Gronchi, che sperava in una successiva oscillazione pendolare verso i socialisti. Ancora una volta in contrasto con il gruppo dirigente del suo partito e forse influenzato dall’esperienza gaullista in Francia, egli prefigurò implicitamente una modificazione politico-istituzionale che ridimensionasse il ruolo dei partiti. Ma il tentativo Tambroni suscitò una forte reazione antifascista, culminata in numerose manifestazioni di piazza duramente represse dalle forze dell’ordine. Dopo la morte di diversi dimostranti, a Genova, Reggio Emilia, Palermo e altrove, Tambroni fu costretto alle dimissioni da una Dc che ritrovò l’unità del suo gruppo dirigente soprattutto grazie alla paziente opera di Moro. Fanfani venne incaricato di formare un nuovo governo che preparò la strada al centro-sinistra, poi ufficialmente deciso dal Congresso democristiano del febbraio 1962, cui seguì un altro governo, sempre guidato da Fanfani, con l’astensione socialista.
Il 1960 ha cambiato la politica italiana: il governo Tambroni, anche se durato pochi mesi, ha segnato un definitivo spartiacque tra la stagione del centrismo e quella del centro-sinistra. Si è spesso sostenuto che Tambroni sia caduto per le pressioni della piazza, organizzate soprattutto dai comunisti, e che sia stato quello l’inizio di un progressivo scivolamento a sinistra della politica italiana, fino ai governi di solidarietà nazionale degli anni Settanta. Ma quegli incidenti non sarebbero stati sufficienti a far cadere Tambroni se il gruppo dirigente democristiano non avesse colto l’occasione per realizzare un obiettivo già deciso precedentemente: mettere fine a quel ‘governo del Presidente’ e riprendere in mano la guida della vicenda politica. Il riferimento all’antifascismo, in questo senso, non fu agitato soltanto da comunisti e socialisti ma apparve come un riferimento comune e imprescindibile della Repubblica dei partiti. Emerse allora anche una convinta adesione cattolica ai valori dell’antifascismo, assunti in chiave morale prima ancora che politica e invocati a fondamento di una lotta contro il comunismo condotta con metodi democratici.
Il ritorno del governo nelle mani di Fanfani segnò una vittoria della Democrazia cristiana e coincise con un più forte senso di sé e delle proprie ragioni storiche nel gruppo dirigente del partito. Le incertezze emerse dopo la sconfitta del 1953 sembravano ormai superate, come pure il dilemma tra primato del programma e priorità delle alleanze: la scelta programmatica implicita nella chiusura ai liberali e l’apertura alla collaborazione con i socialisti furono, infatti, concepite come due aspetti di un’unica scelta strategica. Tale alleanza di governo – l’ultima coalizione politica in senso pieno nella storia della Prima Repubblica, fino alla conclusione di questa nel 1994, diversa dalle varie maggioranze parlamentari che si sono formate in Italia dopo il 1975 – nacque con l’ambizioso proposito di portare a soluzione i grandi problemi del paese, rimasti aperti dal Risorgimento in poi, in primo luogo la questione meridionale. Questa classe dirigente coltivò l’aspirazione a completare la costruzione dello Stato, di cui nel 1961 si celebrò il centenario della fondazione: era una prospettiva che rileggeva l’intera storia unitaria non più dal punto di vista dei padri fondatori, ma nell’ottica del compimento della loro opera da parte di forze democratiche che ne avevano ripreso e sviluppato il progetto, abbandonato e tradito dal fascismo. I risultati del centro-sinistra si sono poi rivelati inferiori alle attese e già tra il 1964 e il 1965 si cominciò a parlare, all’interno della Dc, di fallimento di quel progetto politico, di delusioni per la fragilità dell’interlocutore socialista e di preoccupazione per le critiche che venivano da destra. Ma i primi anni Sessanta furono indubbiamente segnati da un ruolo più dinamico della dirigenza democristiana, che tentò di spingere i cattolici italiani a dissociarsi da posizioni conservatrici, in campo culturale, sociale ed economico, e da un clima nuovo di fiducia e di speranza nella società civile. Ne costituisce un esempio tra gli altri l’attenzione di giornali, letteratura e cinema verso il problema della mafia, cui corrispose in quegli anni la creazione della Commissione nazionale antimafia.
Nel corso di queste vicende, cambiò anche nuovamente il rapporto tra Chiesa e Dc. Nell’immediato i veti ecclesiastici – provenienti dalla Conferenza episcopale italiana e dalla Segreteria di Stato – ebbero successo, ma poco tempo dopo, grazie alla benevola neutralità di Giovanni XXIII, la situazione si ribaltò: quei veti, si rivelarono un boomerang e gli stessi vescovi che si erano opposti al centro-sinistra si trovarono a sostenere l’unità di un partito impegnato nella collaborazione con i socialisti. Emerse così un’inedita autonomia della Dc, insostituibile per un cattolicesimo che sentiva come prioritaria la lotta contro il comunismo. In questa situazione il partito, sotto la direzione di Moro e di Fanfani, riuscì a esercitare un ruolo trainante nei confronti di un mondo cattolico preoccupato per le novità che si profilavano nella società italiana e convinto che l’alleanza con i socialisti avrebbe rappresentato una rischiosa avventura sul piano politico. Emblematici di questa stagione sono stati i convegni ideologici di San Pellegrino, voluti da Moro, per sviluppare un clima di maggiore collaborazione fra politica e cultura e un rapporto più stretto tra scelte politiche ed economiche.
Le vicende della Democrazia cristiana in quegli anni riflettono l’influenza del pontificato giovanneo e del Vaticano II. Nel tempo l’impatto di questo concilio sulla situazione italiana ha rivelato anche altri effetti. Negli anni immediatamente successivi una parte delle aree più conservatrici della società italiana si sono distaccate dal mondo cattolico, mentre una parte di questo mondo si proiettava verso sinistra. Entrambe queste spinte hanno penalizzato elettoralmente la Dc e hanno influito sui suoi orientamenti: per contrastare tali tendenze, ad esempio, i dorotei presero apertamente le distanze da encicliche come la Populoroum progressio, mentre l’intransigente difesa della scelta atlantica da parte di Andreotti mostrava distanza dalle iniziative montiniane riguardo alla guerra in Vietnam. Fanfani e Moro, invece, cercarono una maggiore sintonia con gli orientamenti del pontificato di Paolo VI, favorevoli all’attuazione del Vaticano II soprattutto sul piano internazionale. Intorno a questa sintonia la Dc riuscì a mantenere l’unità politica dei cattolici, malgrado le spinte verso la rottura di tale unità, come mostrò il convegno di Lucca nel 1967 su «La Dc e i tempi nuovi della cristianità». In una prospettiva più ampia e profonda, tuttavia, il contributo maggiore del concilio alla vita politica italiana può essere colto, come in molti altri paesi, attraverso gli effetti indiretti della diffusione di sentimenti di tolleranza nei confronti di posizioni diverse dalle proprie, della crescita di disponibilità e apertura verso la differenza religiosa e altri tipi di differenza, della promozione dell’impegno alla solidarietà verso i poveri ecc. Il Vaticano II ha contribuito in questo modo a un definitivo radicamento della democrazia non solo come regime politico ma anche a livello di sensibilità e di cultura, di valori e di comportamenti.
Il risultato elettorale del 1963 penalizzò fortemente il centro-sinistra. La Dc scese nuovamente al 38% dei voti, mentre il Partito liberale crebbe fino a raggiungere il 7%. Il partito di Moro e Fanfani pagò scelte come la nazionalizzazione dell’energia elettrica e l’ipotesi di attuare il decentramento regionale. La segreteria passò a Rumor e Moro fu chiamato, alla fine di quell’anno, alla guida del primo governo di centro-sinistra organico – e cioè con ministri socialisti e con l’inserimento del Psi nella maggioranza – che si trovò subito in difficoltà: i problemi dei mesi successivi e la crisi del luglio 1964 si radicano nella sconfitta elettorale dell’anno precedente. Di questa crisi, più che del tentato golpe De Lorenzo di cui si è parlato molto negli anni successivi, una conseguenza importante fu costituita dal tentativo di Segni di imporre un governo del presidente per interrompere l’alleanza del centro-sinistra. A differenza del 1960, tuttavia, questa volta la Chiesa non appoggiò i tentativi di imporre un diverso orientamento politico e l’esito della vicenda costituì un successo di Moro, che la gestì con grande abilità, malgrado potesse contare solo sull’appoggio di Nenni e avesse contro non solo importanti forze esterne ma anche gran parte di Dc e Psi. Nonostante il successo politico – il centro-sinistra non è più stato messo in discussione sino alla metà degli anni Settanta – quella crisi accentuò i vincoli imposti all’azione del governo di Moro, che non possono essere attribuiti a una presunta volontà di immobilismo politico che ha fatto una parte della storiografia. Tra l’altro, in campo internazionale i governi Moro mantennero un forte dinamismo, grazie anche all’azione del ministro degli Esteri Fanfani, che divenne presidente dell’Assemblea dell’Onu nel 196513.
Nelle successive elezioni del 1968, la Dc confermò i consensi di cinque anni prima, mentre fu pesante la sconfitta dei due partiti socialisti che si erano fusi in un’unica formazione. Ne scaturì un periodo politicamente difficile, in cui però fu paradossalmente possibile ai dorotei, passati alla guida del governo, realizzare riforme che essi stessi avevano ostacolato precedentemente. Oltre a Fanfani, anche Moro fu spinto ai margini del partito e colse questa occasione per avviare una intensa riflessione sui tempi nuovi annunciati dalla contestazione studentesca e da altri movimenti sociali. Lo spostamento di una parte della società italiana verso sinistra spaventò molte forze ed è in tale contesto che si colloca l’inizio della strategia della tensione. Nei primi anni Settanta, la Dc cercò di sintonizzarsi con queste preoccupazioni e, dopo che Arnaldo Forlani ebbe assunto la guida del partito, Andreotti formò un governo di centro-destra, di cui tornò a far parte, dopo molti anni, anche Giovanni Malagodi. Nel 1973, però, dopo il patto di Palazzo Giustiniani tra Moro e Fanfani, quest’ultimo tornò alla segreteria del partito, mentre si formava nuovamente un governo di centro-sinistra guidato da Rumor.
La storia della Democrazia cristiana nei primi anni Settanta è stata profondante segnata dalla vicenda del divorzio. La legge sul divorzio, introdotta nel 1970, suscitò le reazioni della Santa Sede – si parlò di vulnus al Concordato – e del mondo cattolico, che misero in difficoltà la Dc nei rapporti con i partiti laici. Un gruppo di intellettuali cattolici presentò la richiesta di un referendum abrogativo di questa legge, anche in polemica con l’azione svolta in sede parlamentare dalla Dc. Molti esponenti del gruppo dirigente del partito cercarono in vari di modi di evitare una spaccatura dell’elettorato italiano su un tema non strettamente politico e che riguardava piuttosto la sfera dei valori morali e dei comportamenti individuali. Ma l’istituzione ecclesiastica non permise alla Dc di evitare questa consultazione, che il suo gruppo dirigente fu obbligato ad accettare malgrado forti perplessità. L’impetuosa gestione fanfaniana della campagna referendaria fu allora molto criticata e contribuì ad allontanare dalla Dc parte del mondo cattolico contrario a quella mobilitazione: si tratta dei cosiddetti cattolici del No, che hanno dato successivamente vita alla tendenza ‘cattolico-democratica’.
Sia i cattolici del Sì sia quelli del No ritirarono allora alla Dc la delega a rappresentarli politicamente: prima i promotori del referendum e poi i loro antagonisti, in entrambi i casi elettori democristiani, rivendicarono il diritto a esprimere in modo diretto le proprie posizioni, rifiutando la mediazione del partito. Per la prima volta dopo un trentennio, con il referendum del 1974 i cattolici hanno così messo apertamente in discussione la loro unità politica. L’importanza non solo politico-culturale ma anche istituzionale e ‘sistemica’ di questo passaggio fu colta dai radicali che, non a caso, hanno successivamente adottato il referendum come strumento privilegiato contro la ‘partitocrazia’: l’unità politica dei cattolici ha costituito infatti la base della ‘centralità’ democristiana, perno dell’intero sistema politico e il referendum sul divorzio ha mostrato che, insistendo su issues specifici, era possibile dividere l’elettorato democristiano (e quello di altri partiti).
Il 12 maggio 1974, i No superarono il 59%: questo risultato netto smentì tutte le previsioni e sembrò mostrare un paese inaspettatamente lontano dai valori della sua tradizione cattolica. Negli stessi anni continuò la crescita del Pci, che con il ‘terremoto’ elettorale del 1975 conquistò la maggioranza relativa in molte città e regioni importanti. Lo spostamento verso questo partito di imprenditori, ceto medio, giovani, mondo cattolico indebolì notevolmente la Dc. Tra il 1974 e il 1976 si parlò insistentemente di ‘questione cattolica’ o ‘questione democristiana’: anche se la Dc, malgrado il calo evidente, continuava a raccogliere molti voti, la guida cattolica della società non aveva più ragion d’essere. Per molti la modernizzazione del paese sempre più evidente rendeva culturalmente e moralmente illegittima l’‘egemonia’ cattolica, contrastante con una chiara indicazione della volontà popolare in altro senso. In una prospettiva diversa, tale illegittimità venne sostenuta anche da Pier Paolo Pasolini, che non esaltò però la modernizzazione consumista sempre più diffusa, ma denunciò al contrario l’inadeguatezza della Dc di fronte al ‘cambiamento antropologico’: in un paese in cui erano scomparse le lucciole, Pasolini auspicò che la Chiesa di Paolo VI si mettesse alla testa di una crociata anti-consumista.
Seppure da versanti opposti, dunque, il ruolo della Dc venne messo intensamente in discussione e il partito sperimentò un crescente isolamento politico-culturale. Tra il 1974 e il 1975 nel gruppo dirigente democristiano si aprì un intenso dibattito sul futuro del partito. Ci fu chi sostenne l’esigenza di adottare un’impostazione più laica, abbandonando la tradizionale ‘centralità’ e assumendo il ruolo di polo moderato del sistema politico, accettando anche – se necessario – di passare all’opposizione. Ci fu, inoltre, chi prospettò un rapporto più stretto con il mondo cattolico, che avrebbe però portato la Dc ad assumere una fisionomia chiaramente minoritaria in un paese sempre più secolarizzato. Moro fu tra quelli che maggiormente insistettero sull’ispirazione cristiana del partito, da un lato per difendere l’operato di Fanfani e, dall’altro, per respingere la riduzione della Dc a polo moderato del sistema. Egli ammise che l’«avvenire non è più interamente nelle nostre mani», ma non riconobbe il definitivo tramonto della centralità democristiana. In ogni caso era necessario continuare a mantenere l’unità della Dc. Era un orientamento in linea con il disegno di fondo della seconda generazione e che trovò ancora una volta un decisivo appoggio da parte di Montini. Paolo VI, infatti, si impegnò a fondo, con la collaborazione del segretario della Cei, monsignor Enrico Bartoletti, per ricucire la lacerazione del referendum e rivitalizzare una cristianità italiana che dava segni di stanchezza: il segno più evidente di tale sforzo fu il primo convegno della Chiesa italiana, che si tenne a Roma nel 1976, su «Evangelizzazione e promozione umana». I cattolici furono nuovamente orientati verso l’unità sul piano politico e la questione ‘democristiana’ svuotata della sua forza dirompente: la fine della Dc sarebbe venuta solo venti anni dopo.
Il sostegno della Chiesa, infatti, fu decisivo per una Dc impegnata dal 1975 nel tentativo di un profondo rinnovamento interno sotto la guida di Benigno Zaccagnini. Anche se tale rinnovamento fu in realtà piuttosto limitato, l’onestà personale del nuovo segretario e la forza della sua visione ideale attirarono nuovamente verso la Dc rispetto e consensi, anche da parte del mondo giovanile. Questo nuovo corso si saldò all’evoluzione della situazione politica; dopo l’ennesimo appello socialista al superamento del centro-sinistra, Moro fece precipitare la situazione provocando nuove elezioni anticipate, le più ‘bipartitiche’ della storia italiana: nel 1976 tre elettori su quattro votarono per la Dc o per il Pci. Come sottolineò lo stesso Moro ne uscirono ‘due vincitori’, mentre per il Psi, fortemente penalizzato, si apriva con Bettino Craxi un nuovo corso. Da quelle elezioni, inoltre, scaturì la politica di ‘solidarietà nazionale’, basata non su una coalizione politica e su un programma di governo, ma sull’astensione, in Parlamento, di tutti i partiti dell’arco costituzionale, comunisti compresi, a sostegno di un monocolore democristiano guidato da Andreotti e motivato dall’‘emergenza’ (in particolare, dalla crisi economica e dal terrorismo).
La solidarietà nazionale avvicinò democristiani e comunisti, per la prima volta dopo quasi trent’anni. A sinistra fu evocata la fine della ‘parentesi’ iniziata nel 1947 con l’estromissione di socialisti e comunisti dal governo. Enrico Berlinguer insistette più volte in questo senso, prima lanciando il compromesso storico e poi durante i governi di solidarietà nazionale. La crisi del gennaio 1978 fu aperta dai comunisti con la speranza di un loro inserimento nel governo, ma anche in questo caso le attese vennero deluse e solo il rapimento di Moro convinse Berlinguer ad accettare ancora una volta una soluzione che li escludeva dall’esecutivo. Proprio Moro fu tra i più convinti sostenitori di tale esclusione, benché fosse persuaso della necessità di collaborare con i comunisti a causa dell’‘emergenza’. Non si potevano, infatti, ignorare i persistenti legami del Pci con Mosca, malgrado gli importanti pronunciamenti dei comunisti italiani a favore della Nato e della Comunità europea. Condizioni diverse sarebbero potute maturare solo in seguito a ulteriori sviluppi, sostenne Moro, il quale però non abbandonò mai del tutto anche la possibilità di tornare ad una collaborazione di governo con i socialisti e all’alleanza di centro-sinistra. Il recupero della Dc nel 1976, infatti, era stato in gran parte dovuto alla paura suscitata dall’avanzata comunista negli anni precedenti e i dirigenti di questo partito, compreso Moro, si mossero complessivamente sulla stessa linea del loro elettorato, malgrado la consapevolezza che le difficoltà della situazione imponevano un qualche rapporto di collaborazione con il Pci. Tra il 1976 e il 1978, insomma, non maturò un avvicinamento definitivo o, almeno, profondo, tra cattolici e comunisti: è stato, perciò, eccessivamente enfatizzato il fenomeno del cosiddetto catto-comunismo, sempre rimasto piuttosto minoritario su entrambe le sponde. Va anche rivista la sensazione, allora molto diffusa, che tra rinnovamento democristiano e collaborazione con il Pci ci fosse un rapporto diretto, quasi si trattasse di due facce della stessa medaglia, così come va ricordata la non totale coincidenza di vedute e di sensibilità tra Zaccagnini e Moro.
Il 16 marzo 1978 quest’ultimo fu rapito e la sua scorta trucidata. Dopo cinquantaquattro giorni l’allora presidente della Dc fu assassinato. Ci sono pochi dubbi sulle responsabilità delle Brigate rosse in questo atto terroristico, anche se permangono incertezze sui partecipanti all’agguato di via Fani. Si continua, invece, a discutere su ignoti mandanti e complicità occulte, a livello nazionale o internazionale, anche se dopo molti anni non sono emersi elementi concreti per identificare gli uni o le altre. La tragedia mostrò l’evidente debolezza della Dc – e delle istituzioni con cui essa ormai sembrava identificarsi –, aggravata dalle polemiche sulla fermezza riguardo a possibili trattative per la liberazione dell’ostaggio. Il momento più difficile per la classe dirigente democristiana fu costituito dalla messa funebre – per volontà della famiglia il funerale di Moro si svolse altrove – celebrata da Paolo VI in S. Giovanni in Laterano. Ancora una volta, l’anziano papa garantì per la Dc, per così dire, davanti alla società italiana. Ma, per altro verso, il rapimento e la morte di Moro attirarono verso il partito una solidarietà che esso non conosceva da tempo: i suoi militanti sperimentarono nuovi motivi di orgoglio e l’elettorato tornò a votarlo con rinnovata convinzione già nelle elezioni del maggio 1978.
Obiettivo dei rapitori e assassini di Moro, si è spesso sostenuto, era interrompere la solidarietà nazionale e la collaborazione tra Dc e Pci. Tale interpretazione ha stimolato molte ipotesi, ma la documentazione disponibile impone di considerarla con cautela: questa vicenda non ha avuto, per i suoi diversi protagonisti, il significato politico che le si è spesso attribuito. In ogni caso, non v’è certezza che la morte di Moro abbia interrotto il percorso verso la democrazia compiuta e il superamento dell’anomalia italiana, con il pieno inserimento del Pci nell’area di governo e il passaggio al bipolarismo. Lo stesso pensiero di Moro, a questo proposito, era più complesso di come spesso è stato ricostruito. Va invece indubbiamente rilevato che la sua morte – cui seguì pochi mesi dopo quella di Paolo VI – ha privato la politica italiana di un importante protagonista e favorito, pochi anni dopo, il tramonto del disegno perseguito dalla seconda generazione democristiana, di cui egli fu uno degli esponenti più significativi.
Come la centralità della Dc è stata il risultato di una serie di elementi, che si sono combinati tra loro in modo articolato e complesso, così la fine di tale centralità e, successivamente, quella dello stesso partito sono risultate dalla progressiva scomposizione di tali elementi, a seguito di una serie di eventi diversi e di un processo che si è sviluppato nel tempo. Il declino di alcuni elementi della centralità democristiana era già emerso prima negli anni Sessanta, con i cambiamenti del mondo cattolico e i loro riflessi sui comportamenti politici, e poi negli anni Settanta, quando – a seguito del referendum sul divorzio e delle sconfitte elettorali – la Dc scontò un rapporto sempre più problematico con i suoi tradizionali interlocutori politici, in particolare i socialisti, e fu costretta a un rapporto obbligato con i comunisti in nome dell’‘emergenza’. Si può parlare, in questo senso, di crisi della centralità democristiana già negli anni Settanta, ma durante questo decennio tale crisi non acquisì ancora caratteri definitivi e irreversibili. Elementi più determinanti si configurarono, invece, nel passaggio tra i due decenni.
Man mano che ci si allontana nel tempo, emerge sempre più nitidamente la discontinuità che separa gli anni Ottanta dagli anni Settanta del Novecento e non solo in Italia. Meno chiara, invece, appare l’esatta natura di tale discontinuità. Diversamente da quanto si è spesso sostenuto, ad esempio, è difficile collocarla in modo puntuale o legarla a un evento specifico, come il 1978, a causa della morte di Moro, il 1979, per la fine della solidarietà nazionale, o il 1980, quando al Congresso della Dc prevalse la linea del ‘Preambolo’ e il Pci varò la ‘Seconda svolta di Salerno’ dopo il terremoto in Irpinia. Per quanto importanti, infatti, questi eventi riguardano soprattutto la vita politica e sono tutti interni all’orizzonte italiano. A cavallo dei due decenni, invece, novità importanti vennero dall’economia, dalla società, dalla cultura e furono in gran parte legati a cambiamenti più ampi, che oltrepassavano i confini nazionali.
Era l’avvio di quella globalizzazione che ha portato prima al collasso del comunismo europeo e, successivamente, a un complessivo declino dell’Europa e, all’interno di questa, degli Stati nazionali e delle formazioni politiche tradizionali. Il decennio si aprì in Italia con la ‘marcia dei quarantamila’ alla Fiat, da cui emerse una nuova cultura del lavoro che spiazzò sindacati e partiti. Più del radicale cambiamento introdotto in Gran Bretagna dalla politica economica di Margaret Thatcher, influì inoltre l’impatto del reaganismo sull’economia italiana, mentre cresceva la tensione tra Occidente e Unione Sovietica, con riflessi negativi sulla politica interna. Si produssero una riduzione dei margini di iniziativa e del ruolo politico della Dc e uno smarrimento strategico da cui questo partito non si è più ripreso interamente. I cambiamenti dei primi anni Ottanta, infatti, prospettarono un orientamento neoliberista difficilmente componibile con la convergenza tra borghesia produttiva e ceti popolari sancita dalla crisi del maggio 1947 e con la successiva politica di aggregazione al centro delle forze politiche e di progressiva inclusione dei gruppi sociali marginali perseguito per un trentennio. Le spinte all’abbandono di quella ormai antica convergenza si espressero in un’enfasi sulla questione morale in chiave antidemocristiana, nelle proposte di un governo di ‘tecnici’ indipendenti dai partiti, nelle spinte perché il Pci si collocasse decisamente sul versante dell’‘alternativa’. La ‘questione democristiana’, che negli anni Settanta non aveva trovato uno sbocco immediato, assunse negli anni Ottanta una più concreta valenza politica. Si colloca in questi anni il complessivo esaurimento del disegno perseguito dalla ‘seconda generazione’ di Moro e Fanfani, anche se molti suoi esponenti continuarono attivamente a fare politica.
Nel 1981 un passaggio particolarmente difficile, per la Dc, fu costituito dal referendum sull’aborto, assai diverso da quello sul divorzio, perché riguardante, come si sarebbe detto in seguito, ‘principi non negoziabili’. Si trattava, cioè, di una tematica che introduceva contrasti non componibili fra credenti e non credenti, indebolendo il comune riferimento al principio di laicità e incrinando la ‘pace religiosa’. Seguì lo scandalo della loggia massonica segreta P2 di Licio Gelli, interpretato come espressione di una ‘questione morale’ che metteva profondamente in discussione la pretesa democristiana di guidare in permanenza il governo del paese in nome della propria ‘ispirazione cristiana’. Per la prima volta dal 1945 la guida dell’esecutivo passò in mani ‘laiche’, con la nomina di Giovanni Spadolini a presidente del Consiglio. Pressati dalle istanze di rinnovamento, gli organi dirigenti della Dc riconobbero la necessità di avviare un dialogo con il retroterra culturale e sociale del partito, in primo luogo con il mondo cattolico, e realizzarono nel novembre 1981 la cosiddetta ‘Assemblea degli esterni’, in cui si discusse il ruolo della Dc nel paese, la sua identità, la sua organizzazione, il suo rapporto con l’associazionismo cattolico ecc. Ma, nel complesso, il partito non riuscì a rivitalizzare il rapporto con il proprio retroterra e, più in generale, con la società civile.
Nei primi anni Ottanta, cominciarono ad avvertirsi in Italia anche gli effetti del nuovo pontificato. L’elezione di Karol Wojtyla è stata collocata nel contesto del cosiddetto «ritorno del sacro», secondo il parere di Kepel, e cioè di un nuovo sviluppo dei fenomeni religiosi, anzitutto al di fuori dei paesi dell’ Europa occidentale. Fin dai primi momenti, egli fu colpito dal senso di crisi che attraversava il cattolicesimo occidentale e cominciò ad interessarsi da vicino della Chiesa in Italia, compiendo scelte inattese, come la nomina di Carlo Maria Martini alla guida della diocesi di Milano. Il nuovo papa polacco era estraneo alle specificità della politica italiana e in particolare a ciò che la Democrazia cristiana aveva rappresentato e continuava ancora a rappresentare. Dopo la vigile attenzione manifestata da Paolo VI per tutti gli aspetti della realtà italiana, compresi quelli politici, iniziò a emergere una crescente distanza tra le due Rome: il Tevere divenne più largo, per usare un’espressione cara a Giovanni Spadolini. Contemporaneamente, però, si posero le basi per un nuovo corso del cattolicesimo italiano, meno caratterizzato dal legame con la politica e proiettato invece su una presenza più attiva nella società.
La Dc reagì a questi cambiamenti con il passaggio, nel 1982, della segreteria nelle mani di Ciriaco De Mita, esponente della ‘terza generazione’ democristiana, meno sensibile delle precedenti al tema dell’ispirazione cristiana e alla responsabilità di ‘parte’ che si fa carico del ‘tutto’. Il nuovo corso demitiano fu imperniato sul superamento della frammentazione correntizia e sul dialogo con i ceti urbani protagonisti della modernizzazione14. La Dc abbandonò in parte la sua fisionomia di ‘partito italiano’ nel tentativo di recuperare un nuovo rapporto con la società civile. De Mita si adoperò anche per sbloccare la democrazia italiana: egli si propose di superare la conventio ad excludendum nei confronti dei comunisti e di procedere verso un modello bipolare che permettesse non la semplice alternanza alla guida dell’esecutivo ma una vera e propria alternativa di forze politiche diverse al governo del paese.
Non tutta la Democrazia cristiana condivise il tentativo demitiano di fare del Pci una possibile alternativa di governo, mentre il Psi di Craxi ostacolò apertamente questo disegno che lo avrebbe spinto verso un ruolo subalterno. A giustificare la speranza di un pieno ‘recupero’ del Pci, condivisa da vari settori della società italiana, contribuirono soprattutto le prese di posizione dei comunisti italiani verso il modello sovietico che aveva esaurito la ‘spinta propulsiva della Rivoluzione di Ottobre’, come disse Enrico Berlinguer nel 1981 dopo l’invasione sovietica dell’Afghanistan e il colpo di Stato in Polonia. Ma, da un lato, la prospettiva di un pieno inserimento del Pci nel gioco democratico fu concepita ancora nella logica della distensione tipica del decennio precedente, proprio mentre il clima internazionale appariva sempre più segnato dalla contrapposizione tra i due blocchi; e, dall’altro, malgrado l’asprezza di molti scontri, i dirigenti del Pci non portarono mai fino in fondo la rottura con i sovietici, convinti che l’obiettivo di fondo restasse quello di ‘superare il capitalismo’. La tesi della ‘diversità’ dei comunisti italiani rispetto a quelli sovietici incontrò, perciò, scarso credito a livello internazionale: anche Giovanni Paolo II non la riteneva fondata. Sono resistenze che vennero sottovalutate dai gruppi dirigenti della Dc e del Pci, nella convinzione che il laboratorio italiano fosse in grado di produrre valide novità anche in contrasto con tendenze internazionalmente prevalenti.
Le elezioni politiche del 1983 avrebbero dovuto costituire un test importante per il nuovo corso demitiano. La Dc presentò anche, come indipendenti, figure di prestigio come Pietro Scoppola, Roberto Ruffilli, Guido Carli, Augusto Del Noce, protagonisti del dibattito degli anni precedenti per il rinnovamento del partito. Ma quelle elezioni furono caratterizzate soprattutto da una pesante sconfitta della Dc: il partito scese dal 38% al 33% dei voti, il livello più basso della sua storia fino a quel momento, segnando la fine della pretesa democristiana di svolgere un ruolo preminente nella politica italiana. Tale pretesa sarebbe apparsa ancor più improponibile dopo il ‘sorpasso’ comunista sulla Dc nelle elezioni europee del 1984, interpretato da molti come segno ulteriore dell’emancipazione della società italiana dalla tutela cattolica. Le elezioni politiche del 1983 e gli sviluppi che ne seguirono evidenziarono la fine «di una lunga fase della nostra storia politica e democratica, caratterizzata da una aggregazione verso il centro delle forze politiche», come ebbe a dire Scoppola. Quelle elezioni, insomma, archiviarono definitivamente la Dc della seconda generazione. Ma, sebbene ‘venisse da lontano’, come fu notato, quel risultato elettorale punì anche chi era alla guida del partito in quel momento, e cioè la segreteria De Mita. Inoltre, l’ulteriore calo del Pci e il buon risultato dei partiti laici, in particolare del Psi, contrastarono le prospettive bipolari. Insomma, quell’esito elettorale se, da un lato, rendeva sempre più anacronistica la pretesa della Dc di governare in nome di ‘tutti’ mentre stava diventando una ‘parte’ sempre più ridotta, dall’altro, bloccava pesantemente anche il progetto di una Dc più ‘moderna’, non più cardine del sistema politico, ma in competizione con un’alternativa di governo imperniata sul Pci.
Dopo quelle elezioni, non a caso, la strada verso un diverso assetto di tale sistema divenne ancora più impervia. Sono indicative in questo senso le vicende della Commissione bicamerale per la riforma istituzionale, guidata dal liberale Aldo Bozzi. In tale Commissione, infatti, ci fu chi si impegnò a fondo per un rafforzamento del sistema istituzionale e una limitazione del ruolo dei partiti, attraverso cambiamenti del sistema elettorale in grado di attenuare il proporzionalismo. Ma si era entrati ormai in un circolo vizioso. Da una parte, la caduta dell’illusione che una ridefinizione dei rapporti di forza sul piano elettorale potesse aprire la strada all’alternativa di governo rendeva acuta e indilazionabile l’esigenza di un intervento sul piano istituzionale e sui meccanismi elettorali per limitare il potere dei partiti. Dall’altra, ciò che avrebbe dovuto rappresentare l’esito della riforma costituiva in realtà una premessa necessaria per attuarla. Per introdurre un cambiamento politico-istituzionale si richiedeva, cioè, al ‘nuovo principe’, il partito politico, una rinuncia spontanea a una parte dei propri poteri, come aveva fatto Carlo Alberto nel 1848. Questi, infatti, concesse una costituzione che introduceva il sistema parlamentare limitando i poteri del re, ma garantì in questo modo lunga vita all’istituzione monarchica che egli rappresentava. Negli anni Ottanta del Novecento, invece, i partiti politici non seppero attuare quelle rinunce che forse ne avrebbero garantito la sopravvivenza.
Fino al 1989, il ‘fattore K’ non è mai stato definitivamente superato e la situazione politica italiana, invece di sbloccarsi, si è complicata sempre di più. L’anticomunismo, infatti, pur continuando a restare un elemento chiave del sistema politico italiano, perse la spinta creativa che aveva avuto in precedenza – con l’anticomunismo ‘concorrenziale’, non in senso politico ma sociale, della seconda generazione democristiana – e la democrazia italiana, definita molte volte ‘difficile’, ‘anomala’ o ‘bloccata’, divenne progressivamente sempre più immobile. I partiti finirono per assumere come alibi la specificità comunista – intesa quasi più in senso antropologico-morale che propriamente politico –, la quale garantiva alla Dc una rendita di posizione, era funzionale alle ambizioni dei socialisti e serviva allo stesso Pci per conservare la propria coesione interna e la propria capacità attrattiva esterna senza misurarsi con le proprie contraddizioni. Il blocco del sistema politico ha favorito una corruzione sempre più diffusa, che è poi emersa all’inizio degli anni Novanta con lo scandalo di Tangentopoli. Più che da improbabili radici nell’esperienza ciellenistica, nei governi tripartiti del 1946-1947 o della collaborazione in Assemblea costituente, come si è sostenuto, il cosiddetto consociativismo è scaturito soprattutto dalla situazione negli anni Ottanta.
Dopo le elezioni del 1983, il primo Presidente della Repubblica socialista, Sandro Pertini, affidò per la prima volta a un socialista, Craxi, la formazione del nuovo governo, che sarebbe stato uno dei più lunghi della Prima Repubblica. Il significato di questo passaggio politico fu indubbiamente più forte di quello che nel 1981 aveva segnato l’ingresso di Spadolini a Palazzo Chigi: questa volta, infatti, era stato chiamato a dirigere l’esecutivo il leader di un partito che si proponeva esplicitamente di sostituire la Dc al ‘centro’ dello schieramento politico. Craxi perseguì una strategia ‘movimentista’ e ‘decisionista’ per compensare le rigidità del sistema politico e la distanza dei partiti dalla società civile. Più capace della Dc nell’intercettare gli orientamenti dell’opinione pubblica – ad esempio sulla questione del nucleare –, si mostrò anche più moderno del Pci nell’interpretare i cambiamenti in corso a livello internazionale: tra gli atti più incisivi del suo governo ci fu l’appoggio al referendum per l’abolizione della scala mobile, una delle eredità più importanti degli anni Settanta. Egli cominciò così ad apparire più convincente del partito cattolico nella funzione di guida dello schieramento anticomunista, sostituendolo nel ruolo di forza contemporaneamente antagonista e concorrenziale rispetto ai comunisti. La novità rappresentata da Craxi fu notata anche dagli osservatori internazionali e in particolare dai diplomatici americani che proprio tra il 1984 e il 1985 cominciarono a ritenerlo un alleato più efficace e più affidabile della Dc per tenere i comunisti fuori dal governo in Italia, malgrado l’incidente di Sigonella.
In questo clima emerse anche una crescente disaffezione cattolica verso la Dc, già innestata sulla ‘debolezza’ democristiana nella questione del divorzio negli anni Settanta e resa più acuta dal problema dell’aborto all’inizio degli anni Ottanta. Queste tendenze erano state frenate prima dalla strategia montiniana, che continuava a puntare sull’unità politica dei cattolici, e poi dal comune sentire di gran parte dell’episcopato italiano, molto legato a Paolo VI. Ma, a metà degli anni Ottanta, il pontificato di Giovanni Paolo II aveva già inserito elementi di novità, spingendo verso un nuovo posizionamento dei cattolici nella società italiana di cui la Dc non costituiva più il cardine. La ricerca di nuova presenza cattolica più diretta ed esplicita non fu più controbilanciata da un senso diffuso della ‘necessità’ di sostenere la Dc. Intanto, con la scelta craxiana di portare a compimento, subito dopo le elezioni del 1983, la revisione del Concordato con la Santa Sede, che i democristiani non erano riusciti a realizzare malgrado diciassette anni di trattative, i socialisti evidenziarono che la Dc non costituiva più, per la Chiesa, l’unico interlocutore possibile.
La nuova linea della Chiesa italiana emerse nel 1985, al Convegno di Loreto. Fu allora molto enfatizzato lo scontro tra la ‘linea della presenza’ e ‘la linea della mediazione’, riferite rispettivamente a Comunione e liberazione e all’Azione cattolica. Ma più importante del conflitto tra queste due linee fu la prospettiva tracciata da Giovanni Paolo II per la Chiesa italiana quale ‘forza sociale’ cui spettava mantenere un ruolo trainante nei confronti dell’intera società italiana, spostando però l’impegno prioritario dei cattolici dal terreno civile e politico a quello dell’evangelizzazione, intesa in modo ampio. Si trattava di una prospettiva che penalizzava, implicitamente, la Democrazia cristiana. A Loreto, un ruolo di rilievo fu svolto da monsignor Camillo Ruini, il quale, divenuto più tardi presidente della Conferenza episcopale, ha scritto che con quell’evento si aprì «una fase nuova, più propositiva e in un certo senso più ‘ambiziosa’ della Chiesa italiana, pur mantenendosi ben dentro il solco del primato della evangelizzazione tracciato dalla Cei già col piano pastorale degli anni Settanta e con il convegno Evangelizzazione e Promozione umana del 1976, sulla scorta della Evangelii nuntiandi di Paolo VI». Egli ha spiegato tale apertura in questi termini:
«A Loreto veniva messo in evidenza il rapporto con la società e con la cultura, caratteristico della proposta della ‘nuova evangelizzazione’ di Giovanni Paolo II: il suo invito ad operare ‘anche e particolarmente in una società pluralistica e parzialmente scristianizzata […] affinché la fede cristiana abbia o recuperi un ruolo guida e un’efficacia trainante, nel cammino verso il futuro’».
Com’è noto, il cardinale Ruini ha sostenuto e difeso l’unità politica dei cattolici fino alla dissoluzione della Dc nel 1994, ma, come ha ricordato egli stesso, nell’ultima fase di questa la Cei «ha insistito con forza sull’unità politica dei cattolici, motivandola […] più che con la necessità di difendere il sistema democratico, con il dovere di salvaguardare e promuovere alcuni fondamentali contenuti etici ed antropologici». Sono parole che segnalano una discontinuità. Nel secondo dopoguerra, appoggiando la Dc, la Chiesa si era fatta carico, seppure indirettamente, delle sorti dello Stato italiano, a differenza del primo dopoguerra, quando il disinteresse dell’istituzione ecclesiastica per la fragile democrazia post-bellica aveva favorito l’avvento del fascismo. Il coinvolgimento della Santa Sede e della Chiesa italiana nel sistema politico-istituzionale, se da un lato è stato all’origine di interferenze clericali nella vita pubblica, dall’altro ha – paradossalmente – costituito anche un freno a tali interferenze e, comunque, ha contribuito alla stabilità complessiva del sistema. Si tratta di un elemento tra i più rilevanti della Repubblica dei partiti, il cui rapporto con la Chiesa cattolica è stato diverso da tutte le altre fasi della storia dell’Italia unita. Intorno alla metà degli anni Ottanta, cominciò invece a emergere una diminuzione dell’interesse ecclesiastico per le sorti dello Stato italiano, sullo sfondo di cambiamenti in corso a livello internazionale, tra cui gli effetti sempre più evidenti della globalizzazione e i mutamenti della leadership sovietica che segnalavano una crisi di quel sistema. Anche per quanto riguarda l’Italia si profilava un declino della questione comunista, mentre sempre più rilevanti sarebbero diventate le nuove questioni religiose, etiche e antropologiche suscitate da una rivoluzione consumista planetaria. Mentre il Tevere diventava ‘più largo’ e perdevano importanza molti vecchi contenziosi istituzionali, giuridici o politici – simbolicamente richiamati dalla riforma del Concordato, approvata senza difficoltà nel 1984 – cominciavano a emergere nuovi problemi legati a una secolarizzazione piuttosto pratica che teorica, non tanto filosofico-teologica quanto etico-antropologica. Si collocano qui alcune premesse di quel minor ‘tasso di laicità’ o di ‘pace religiosa’ che ha poi caratterizzato la Seconda Repubblica rispetto alla Prima, che pure è stata segnata dall’ininterrotta presenza al governo della Dc.
Dal Convegno di Loreto non scaturì un distacco radicale e immediato dei cattolici italiani da questo partito, ma piuttosto il tentativo di ‘cattolicizzarlo’ a opera di alcuni. Si configurò, in particolare, con la vicinanza di gruppi come il Movimento popolare, legato a Comunione e liberazione, un nuovo tipo di collateralismo, diverso da quello degli anni Cinquanta, quando le organizzazioni cattoliche si mobilitarono compattamente a sostegno del progetto democristiano senza contropartite immediate. Negli anni Ottanta, infatti, il Movimento popolare si inserì all’interno del partito, seguendo un proprio specifico progetto e senza fondersi in un soggetto più ampio. Tali rapporti ebbero un effetto positivo sul piano elettorale, contribuendo a un risultato delle consultazioni amministrative del 1985 migliore di quello raggiunto nel 1983. Ma non frenarono il progressivo smarrimento, da parte della Dc, di una prospettiva politica nazionale, senza peraltro che il tentativo di ‘cattolicizzare’ il partito ottenesse risultati significativi. Si intensificò piuttosto un processo di progressiva meridionalizzazione sia dell’elettorato sia della classe dirigente, sempre meno legata agli impegni verso la Chiesa e verso lo Stato connessi alla sua precedente centralità e sempre più esposta a logiche clientelari e a dinamiche corruttive.
Malgrado questi problemi la Dc è rimasta fino alla fine della sua storia il più grande partito italiano. Dopo il sorpasso comunista nelle elezioni europee del 1984, legato all’onda emotiva per l’improvvisa scomparsa di Berlinguer, è tornata ad affermarsi come partito di maggioranza relativa nelle politiche del 1987, raccogliendo alla Camera il 34% dei consensi, mentre il Pci crollava a meno del 27% e il Psi superava il 15%, il miglior risultato di questo partito dal 1958. L’opera di erosione dei consensi stava dunque riuscendo a Craxi soprattutto nei confronti dei comunisti, mentre la Dc continuava a godere di un ampio insediamento elettorale, cui però non corrispondeva più una efficace capacità di proposta politica. Mentre l’esito della competizione che si era aperta a sinistra tra comunisti e socialisti appariva ancora incerto, nel 1988 De Mita divenne presidente del Consiglio, ma questa esperienza finì poco dopo quando il partito passò nelle mani di Forlani, sulla base di una prevalenza all’interno della Dc della componente moderata che si esprimeva nella cosiddetta Corrente del Golfo: l’accordo tra Craxi, Andreotti e Forlani, il cosiddetto CAF, aprì infatti la strada a un nuovo governo di quest’ultimo.
Il numero degli scritti al partito, che aveva toccato la punta più bassa nel 1977 per ricominciare a salire nell’anno della morte di Moro, è cresciuto nel corso degli anni Ottanta da circa 1.400.000 a 1.862.000 del 1989. L’anno successivo, tale numero salì ulteriormente, fino a più di 2.100.000 per crollare nel 1991 a 1.390.000 e risalire di nuovo a 1.800.000 nel 1992. Dietro questa oscillazione di cifre si nasconde una profonda trasformazione dei partiti italiani, con una crisi sempre più acuta del luogo fondamentale di socializzazione politica: la sezione territoriale. Questi dati vanno incrociati con la crescita dell’offerta elettorale televisiva e cioè con il tempo dedicato dalla televisione al confronto politico in occasione di consultazioni elettorali. L’offerta elettorale della Rai, che in occasione delle elezioni del 1979 fu di 1.572 minuti, nelle politiche del 1983 rimase più o meno stabile (1.580 minuti). Ma in questa occasione si aggiunse la novità dei ben 3.020 minuti di Fininvest, più 100 di altri, che portarono il totale a 4.700 minuti complessivi. In occasione delle elezioni del 1987, l’offerta televisiva complessiva rimase stabile (4.900 minuti), ma nel 1992 salì a 7.100 minuti, di cui 1.540 Rai, 4.860 Fininvest e 800 altri. Sono dati che lasciano intravedere la profonda trasformazione dei luoghi del dibattito politico che da fisici sono diventati sempre più virtuali: mentre le iscrizioni ai partiti perdevano il valore di indicatori reali di partecipazione politica, per trasformarsi – soprattutto nel caso della Dc – in numeri di ‘tessere’ espressivi dei rapporti di forza interni, la politica è entrata sempre di più nelle case degli italiani attraverso il mezzo televisivo, cambiando radicalmente il rapporto tra elettori ed eletti, cittadini ed istituzioni.
Con la caduta del muro di Berlino nel 1989 e, due anni dopo, con il collasso definitivo del blocco sovietico è venuto meno un sistema di relazioni internazionali, imperniato sul bipolarismo Est-Ovest, con importanti riflessi nella vita politica interna degli Stati dell’Europa occidentale intorno all’asse comunismo-anticomunismo. Nell’immediato, questi eventi sono stati interpretati come un cambiamento epocale che sanciva una vittoria – politica, economica, culturale – del mondo occidentale. È stato, però, successivamente osservato che la Guerra fredda, iniziata in Europa, è finita sulle sponde del Pacifico; iniziata con forti connotazioni politico-ideologiche è finita anche per effetto di grandi trasformazioni economiche. E benché non si possa dire che lo scontro bipolare sia terminato direttamente a causa delle spinte venute da paesi fuori o ai margini dello scontro Est-Ovest, indubbiamente hanno influito molte novità importanti emerse all’interno dell’ex Terzo Mondo, in particolare dal Medio Oriente e dall’Asia. È il caso, ad esempio, dello shock petrolifero innestato dai paesi produttori arabi negli anni Settanta, che ha obbligato le economie occidentali a una profonda ristrutturazione delle proprie economie. Tale ristrutturazione, infatti, è stata una delle cause principali del collasso del sistema sovietico, sebbene abbiano influito anche altri fattori, come mostra il caso della Polonia, alle cui vicende negli anni Ottanta non sono stati estranei la Chiesa cattolica e, in particolare, Giovanni Paolo II.
La caduta del muro di Berlino ha avuto contraccolpi immediati sul sistema politico italiano. Nell’autunno 1989, il Pci ha avviato un percorso che ha portato, due anni dopo, alla nascita di due nuovi partiti, il Partito democratico della sinistra e Rifondazione comunista, mentre tramontava l’anticomunismo quale elemento fondamentale della politica italiana (molti elementi della cultura politica anticomunista, invece, sono sopravvissuti a lungo). Il 1989 segnò, cioè, la definitiva archiviazione del conflitto sistemico tra comunismo e anticomunismo innestato dallo scontro del 18 aprile 1948. Nell’immediato, la caduta del muro di Berlino rilanciò la prospettiva del bipolarismo immaginato negli anni Ottanta sulla base di un’alternativa tra Dc e Pci, ma allora impedito dalla persistenza del ‘fattore K’. Ripresero, perciò, con maggior vigore i tentativi di introdurre un cambiamento politico-istituzionale e anche una parte significativa del mondo cattolico si impegnò nell’iniziativa dei referendum elettorali. Ma l’immobilismo degli anni Ottanta aveva profondamente logorato il sistema dei partiti e la fine del blocco sovietico finì per penalizzare più gli anticomunisti che i comunisti.
Questo esito paradossale si spiega con l’emergere, dopo il tramonto del ‘vincolo esterno’, di dinamiche interne già in atto da tempo ma frenate dalla permanenza del ‘fattore K’. Non a caso, l’abolizione delle preferenze multiple, a seguito del referendum del 1991, suonò come una vittoria della società civile contro il ‘sistema dei partiti’. Si trattò, in particolare, di una sconfitta politica di Craxi che aveva invitato gli elettori a disertare le urne. La crescente insofferenza verso i partiti politici mutò così, in modo inatteso, i termini della lunga contesa per l’egemonia a sinistra. Gli ex comunisti, infatti, riuscirono a far leva sulla ‘diversità morale’ del Pci per intercettare la protesta anti-sistema che veniva dalla società civile. Anche la Dc cominciò a essere colpita dall’iniziativa degli ex comunisti. La sua lunghissima permanenza al governo fu sottoposta dagli eredi del Pci a un ‘processo’ che denunciava il carattere scarsamente nazionale e democratico di una politica eccessivamente subalterna agli Stati Uniti e alla Nato, come emerse nella discussione su Gladio. Dopo aver sorprendentemente contenuto i contraccolpi devastanti del crollo sovietico, gli eredi di Togliatti e Berlinguer cercarono di rileggere a loro vantaggio la storia della Guerra fredda. Su questa strada, però, essi finirono per oltrepassare la critica della diga anticomunista e della conventio ad exludendum dopo il 1948, mettendo indirettamente in discussione anche il ‘patto’ del 1945 tra i grandi partiti di massa e la collaborazione, reciprocamente legittimante, dell’Assemblea costituente. La prospettiva di un bipolarismo basato sull’alternativa tra Dc e Pci o sui loro eredi si dissolse così rapidamente, subito dopo essere entrata nell’orizzonte delle cose possibili.
La fine della rendita anticomunista fece emergere la disaffezione soprattutto dell’elettorato settentrionale della Dc, che si rivolse in modo significativo al movimento politico fondato da Umberto Bossi, premiato da un sorprendente successo nelle elezioni politiche del 1992. Ma in quelle elezioni, questo partito fu ancora in grado di sfiorare il 30% dei consensi: malgrado la fine della tradizionale funzione di ‘diga anticomunista’, gli elettori continuavano a guardare con fiducia alla Dc, ancora impegnata in molteplici funzioni di governo, sia a livello nazionale che locale. La situazione precipitò dopo le elezioni politiche del 1992, non a causa del responso popolare ma soprattutto per l’iniziativa di soggetti diversi che svilupparono un’azione non preliminarmente coordinata ma convergente. Lo sviluppo dell’inchiesta ‘Mani pulite’ della magistratura, in relazione a Tangentopoli, pur colpendo inizialmente soprattutto il Partito socialista, cominciò presto a raggiungere un numero crescente di esponenti della Dc (mentre il Pci ne fu toccato solo limitatamente). Intanto, accuse di collusione con la mafia vennero rivolte a una figura simbolica dell’intera parabola democristiana, Giulio Andreotti – successivamente assolto da tali accuse, salvo che per vicende cadute in prescrizione – dopo che furono assassinate personalità di primo piano della lotta contro la mafia, come i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Processi per corruzione e processi per mafia si saldarono a una sorta di processo politico al cinquantennio democristiano nel suo insieme. Giunse così al suo culmine un movimento iniziato, a livello di opinione pubblica e di società civile, negli anni Settanta, con la cosiddetta ‘questione democristiana’ e, proseguito, negli anni Ottanta, intorno a una ‘questione morale’ che colpì politicamente la Dc.
Anche a causa delle sue divisioni interne, il partito nel 1992 subì un grave smacco, non riuscendo a proporre un candidato vincente alla Presidenza della Repubblica, cui fu poi eletta – per iniziativa dei radicali, fin dagli anni Settanta principali avversari della ‘partitocrazia’ di cui la Dc era considerata il cardine – una figura istituzionale, il presidente della Camera Oscar Luigi Scalfaro: seppure anch’egli democristiano, non fu eletto quale espressione della Repubblica dei partiti e ha poi svolto un ruolo cruciale nella transizione verso un diverso sistema politico-istituzionale. Ancora una volta, dopo le elezioni del 1992, la Dc venne chiamata a sostenere il nuovo esecutivo, guidato – in alternativa a Craxi, già colpito dallo scandalo di Tangentopoli – dal socialista Giuliano Amato. Tuttavia, pur costituendo anche in questo caso il principale partito di governo, la Dc iniziò a sperimentare un isolamento politico-culturale sempre più acuto. Per permettere un rinnovamento del partito, nel settembre 1992, Forlani si dimise dalla segreteria del partito e – ‘per disperazione’, secondo le parole del nuovo segretario – gli subentrò Mino Martinazzoli. Esponente tra i più noti e stimati della sinistra democristiana, subito dopo la caduta del muro di Berlino egli aveva rilanciato la prospettiva di un rapido passaggio a un sistema bipolare, all’interno del quale la Dc non fosse più ‘obbligata a governare’. Ma quel bipolarismo, come si è detto, era già tramontato e il tentativo di Martinazzoli fu segnato fin dall’inizio da un’incertezza di prospettive politiche.
Il rilancio del partito tentato dall’ultimo segretario della Dc si imperniò soprattutto su un profondo rinnovamento morale: a differenza di quanto aveva fatto Moro nel 1977, egli non difese gli inquisiti e non si oppose all’opera della magistratura. Ma questo atteggiamento non apparve sufficiente e Martinazzoli fu travolto dalle pressioni per un radicale azzeramento della classe dirigente del partito, non trascurabile elemento di continuità della storia democristiana e della stessa identità del partito. Malgrado i tentativi del segretario, la Dc continuò a perdere consensi nel mondo cattolico mentre diventava sempre più acuta la contestazione dell’unità politica dei cattolici, secondo molti funzionale alla difesa del ‘vecchio’ contro un ‘nuovo’ peraltro non ben definito. La Dc, dopo aver già perduto pezzi importanti della sua centralità – come quelli introdotti dalle svolte del 1945, del 1947 e del 1948 – finì per tornare a misurarsi con il suo elemento originario: il rapporto con la Chiesa e con il mondo cattolico. Martinazzoli cercò, infatti, di intercettare le aspettative di questo mondo, molte espressioni del quale si riconoscevano nell’insofferenza della società civile per il sistema dei partiti. Dopo l’esito del referendum elettorale dell’aprile 1993, favorevole al sistema uninominale e maggioritario, nell’assemblea programmatica costituente del partito, nel luglio 1993, Martinazzoli prospettò una profonda discontinuità rispetto al cinquantennio precedente e una radicale trasformazione della formazione politica, evidenziata dal cambiamento anche del nome. Lanciò, infatti, l’idea di un ritorno alle radici ideali e storiche del Partito popolare e la trasformazione da ‘partito delle tessere’ a ‘partito di programma’, fondato sul valore cristiano della solidarietà: si doveva inaugurare, egli disse, una ‘terza fase storica della tradizione cattolico-democratica’.
Ma, dal Ppi alla Dc, il cattolicesimo democratico si era sempre sviluppato in collegamento con un’opzione antifascista. Invece proprio nel corso del 1993 venne meno un ulteriore elemento del sistema politico, particolarmente rilevante per il ‘partito dei cattolici’: dalla fine dell’esclusione a sinistra nei confronti dei comunisti si aggiunse anche la fine dell’esclusione a destra delle forze che si richiamavano all’esperienza fascista. Nelle elezioni amministrative di Roma, la partita per il sindaco si giocò tra Francesco Rutelli e Gianfranco Fini, segretario del Movimento sociale, ‘sdoganato’ in quell’occasione da Silvio Berlusconi, prossimo al suo ingresso nell’arena politica. Nel nuovo sistema bipolare che si stava delineando, a fronteggiarsi emergevano, a destra e a sinistra, due schieramenti principali, convergenti verso il centro ma senza esclusioni delle estreme. Nelle elezioni amministrative del 1993, la Dc si ritrovò in una posizione marginale e subalterna, raccogliendo solo l’11% dei voti, circa un terzo di quelli raccolti nelle politiche dell’anno precedente. Nel corso dell’anno, il partito perse 600.000 iscritti soprattutto in Italia settentrionale, abbandonando la struttura di partito tradizionale e assumendo alcuni aspetti di un movimento di opinione.
Il rinnovamento avviato da Martinazzoli giunse a termine con la fondazione, il 19 gennaio 1994, del Partito popolare, ma buona parte del gruppo dirigente democristiana non confluì nel nuovo partito. Tuttavia l’epilogo definitivo della parabola democristiana è venuto con le elezioni politiche del 1994, quando il Partito popolare raccolse nuovamente solo l’11% dei consensi (insieme ad altre forze, nel Patto per l’Italia, raggiunse invece il 16%), mentre un nuovo partito, Forza Italia, fondato da Silvio Berlusconi, riceveva il 21% dei voti15. Il successo di Forza Italia evidenziò il distacco dei moderati, che votavano tradizionalmente democristiano, dagli eredi della Dc e la nascita, per la prima volta nella storia repubblicana, di una formazione di centro-destra non più a guida cattolica, in grado di conquistare la maggioranza relativa dei consensi. Malgrado il voto di numerosi elettori ex democristiani e la confluenza nel nuovo partito di molti politici provenienti dalla Dc, Forza Italia ebbe fin dall’inizio caratteristiche molto diverse. La fine del ‘partito cattolico’ fu recepita anche dalla Chiesa. Sebbene la Conferenza episcopale avesse continuato a sostenere l’unità dei cattolici, non si trovò impreparata davanti alla sua fine: già nel settembre 1994 il card. Ruini lanciò il Progetto culturale orientato in senso cristiano e nel 1995, al Convegno della Chiesa italiana che si tenne a Palermo, Giovanni Paolo II indicò ai cattolici la linea del distacco e dell’equidistanza dalle forze politiche.
La Dc non è finita subito dopo la fine del comunismo in Europa e non è finita solo a causa di questo. Il partito di De Gasperi è stato fondato prima dell’inizio della guerra fredda e con uno scopo più ampio di quello di fermare il comunismo: è nato, infatti, ereditando problemi nodali della storia unitaria, come l’antica estraneità dei cattolici alla vita dello Stato, la crisi delle istituzioni liberali, l’inquinamento totalitario del fascismo. La Dc si è proposta di superare gli storici steccati tra guelfi e ghibellini, di portare i cattolici dal fascismo alla democrazia, di costruire un nuovo sistema politico basato sui partiti di massa, di realizzare un’alleanza tra ceti produttivi e strati popolari. A tali obiettivi si è poi aggiunta la funzione di diga anticomunista. Nel corso di un cinquantennio, la Dc ha raggiunto gran parte di ciò che si proponeva ma, anche a motivo della sua azione, il paese è intanto profondamente cambiato. Sono sorti nuovi problemi e nuove sfide che il partito non è stato in grado di affrontare e risolvere. In particolare globalizzazione e consumismo hanno incrinato il rapporto tra ceti produttivi e masse popolari mediato dai cattolici e suscitato questioni etico religiose in precedenza sconosciute. La Dc non è riuscita a sintonizzarsi con l’evoluzione del mondo cattolico e della società civile suscitata dalle trasformazioni in corso. Il crollo del blocco comunista non è stata la causa della sua fine ma ha fatto venir meno una sorta di ‘copertura’ che ha permesso a lungo di evitare problemi sempre più decisivi. Terminata la funzione di ‘diga anticomunista’, spinte e movimenti in atto dagli anni Settanta e dagli anni Ottanta hanno travolto la Prima repubblica. Ma intanto la situazione era ulteriormente cambiata: proprio perché le cause della fine della Prima repubblica vengono da lontano, sulla nascita della Seconda hanno pesato più i problemi del passato che le prospettive per il futuro.
1 Fondamentale l’opera Storia della Democrazia cristiana, 7 voll., a cura di F. Malgeri, Roma 1987-2000.
2 Cfr. G. Baget Bozzo, Il partito cristiano al potere: la DC di De Gasperi e di Dossetti 1945-1954, Firenze 1974.
3 Sulle radici cfr. P. Scoppola, Dal neoguelfismo alla Democrazia cristiana, Roma 1957.
4 Sulle resistenze da ‘destra’ del mondo ecclesiastico nei confronti del sostegno alla Dc si veda A. Riccardi, Il “partito romano”, Brescia 1984.
5 Su questo aspetto si veda A. Giovagnoli, La cultura democristiana. Tra Chiesa cattolica e identità italiana, Roma-Bari 1991.
6 Sulla figura di De Gasperi cfr. P. Craveri, De Gasperi, Bologna 2006; Alcide De Gasperi, 3 voll., a cura di A. Canavero, P. Ballini, F. Malgeri, Soveria Mannelli 2009.
7 Cfr. P. Scoppola, La proposta politica di De Gasperi, Bologna 1977.
8 Cfr. A. Giovagnoli, Le premesse della ricostruzione. Tradizione e modernità della classe dirigente cattolica, Milano 1982.
9 Su questo cfr. De Gasperi e l’età del centrismo, 1947-1953, a cura di G. Rossini, Roma 1984.
10 Cfr. Democrazia cristiana e Costituente, 3 voll., a cura di G. Rossini, Roma 1980.
11 Su questo si veda G. Formigoni, La Democrazia Cristiana e l’alleanza occidentale (1943-1953), Bologna 1996.
12 Sugli anni della gestazione e della nascita del centro-sinistra si veda G. Baget Bozzo, Il partito cristiano e l’apertura a sinistra: la DC di Fanfani e di Moro 1954-1962, Firenze 1977.
13 Su questi aspetti cfr. Amintore Fanfani e la politica estera italiana, a cura di A. Giovagnoli, L. Tosi, Venezia 2010.
14 Cfr. V. Capperucci, Il partito dei cattolici. Dall’Italia degasperiana alle correnti democristiane, Soveria Mannelli 2010.
15 La parabola del partito fino alla sua dissoluzione in A. Giovagnoli, Il partito italiano. La democrazia cristiana dal 1942 al 1994, Roma-Bari 1997.