di Franco Bruni
L’economia italiana, come molte altre, è entrata nel 2014 con ottimismo circa il riavvio della crescita. Nel suo outlook di aprile, l’Imf prevedeva un aumento del pil reale dello 0,6%. Tuttavia, nel corso di pochi mesi le previsioni internazionali peggioravano. Per l’Italia la revisione era grave: un intero punto percentuale in meno, fino a prefigurare la crescita negativa del –0,2% che, ad anno concluso, si conferma come preconsuntivo. Varie le ragioni del peggioramento, compreso il troppo ottimismo iniziale. Le tensioni geopolitiche, accentuate in Medio Oriente e nel costoso confronto con la Russia in Ucraina, hanno inciso sull’economia europea. La buona crescita degli Stati Uniti lascia spazio a dubbi di fragilità. Nei grandi motori globali dei paesi emergenti, fra i quali la Cina, sono più evidenti gli ostacoli strutturali alla crescita, che solo anni di difficili riforme potranno rimuovere. La cooperazione internazionale per gestire la globalizzazione non riesce a superare gli impulsi nazionalistici suscitati dalla crisi: uno dei molti sintomi è il preoccupante disordine del mercato e dei prezzi dell’energia. Le politiche monetarie sono ingolfate dall’enorme liquidità che hanno creato senza riuscire a rianimare la spesa; è in corso una sorta di ‘guerra delle monete’ per rincorrere gli effimeri benefici di una rincorsa a svalutarsi. I bilanci pubblici sono carichi di debiti e hanno difficoltà a sposare l’austerità necessaria per fermarne l’accumulo con l’impellente bisogno di sostenere la crescita economica. I sistemi bancari non si sono ben ripuliti dalla crisi del 2007-08, la circolazione del credito è ancora inadeguata a nutrire la ripresa, alcune posizioni speculative minacciano nuova instabilità finanziaria.
Più che di una correzione congiunturale si tratta dunque di una riemersione di problemi strutturali. Per l’Italia, come per quasi tutti, occorrono profonde riforme, che aumentino l’efficienza del sistema e gli investimenti, aiutando a spostare le risorse verso impieghi più produttivi. Il segreto di una crescita sostenibile è la qualità dell’allocazione delle risorse. Nel nostro paese, il bisogno di riforme è particolarmente acuto. D’altra parte, anche nel 2014, come nei due anni precedenti, l’Italia ha assistito a un cambio di governo, con il conseguente rinnovo dei programmi economici: la ‘fatica’ politica del paese è fra le cause della sua debolezza economica. Alcune riforme sono però state impostate, come quelle della pubblica amministrazione, della giustizia, della scuola e del mercato del lavoro. A quest’ultimo occorre conferire più mobilità per riorganizzare l’economia privata e pubblica e favorire ricollocazioni efficienti dei disoccupati. Il problema è disincagliare le idee di riforma dalle loro fasi iniziali e aumentarne la credibilità in modo da anticiparne alcuni benefici col miglioramento delle aspettative degli investitori sul funzionamento del sistema nel futuro.
Per aumentare la produzione e l’occupazione non basta però una capacità produttiva più efficiente, una migliore offerta: serve anche una sufficiente domanda di beni e servizi. Con la politica monetaria che ha già azzerato il costo della liquidità e l’alto debito pubblico che invita all’austerità fiscale, è difficile trovare la quadratura del cerchio per stimolare la domanda. Occorre comunque una forte collaborazione inter-europea, dove molti paesi, in vario grado, hanno lo stesso problema. Il governo italiano ha ‘trattato’ con la Commissione una legge di bilancio che tenta di aiutare la domanda pur mantenendo la disciplina del disavanzo e sullo sfondo dei progetti di riforma strutturale cui la cooperazione europea è sempre più attenta. La risposta della Commissione è stata in parte deludente: ci ha costretto a stringere ulteriormente il disavanzo, rinunciando a un fondo di riserva che era previsto per dare più flessibilità alla politica economica di un 2015 pieno di incertezze. Qualche speranza ha però suscitato, verso la fine di novembre, un piano di investimenti europeo che la Commissione ha presentato. Ancora meglio se i paesi che hanno lo spazio per farlo nel bilancio, come la Germania, accelerassero gli investimenti pubblici dei quali hanno bisogno e i cui effetti si avvertirebbero anche sul tono d’insieme della domanda aggregata europea.
Nel 2014 è stato di gran rilievo l’avvio della vigilanza unica sulle banche dell’eurozona, affidata alla sua banca centrale. La cosiddetta ‘unione bancaria europea’ dovrebbe facilitare la circolazione del credito e rendere le banche più stabili, competitive, capaci di sostenere l’economia reale. L’accentramento della vigilanza è stato preceduto da un esame generale delle condizioni di rischio e capitalizzazione delle banche europee, condotto dalla Banca centrale europea, i cui risultati sono stati largamente diffusi. Nonostante alcune carenze già conosciute e in via di rimedio, la situazione complessiva del sistema bancario italiano è risultata adeguata. La speranza è che le condizioni generali dell’economia permettano di migliorare il merito di credito delle imprese che dalle banche debbono ricevere i prestiti per investire e produrre di più. Perché rimanga sano il sistema bancario la sua clientela deve irrobustirsi, anche affrontando con coraggio quelle ristrutturazioni che la competizione internazionale richiede e che le potenzialità dell’imprenditorialità italiana sono in grado di assicurare.