La filosofia civile
Esistono le tradizioni filosofiche nazionali? E se esistono, qual è il tratto distintivo di quella italiana? È una domanda nella quale si intrecciano problemi di fondo: i caratteri di una nazione, la sua autocoscienza culturale e civile, la consapevole differenza da altre ‘tradizioni’ nazionali che in determinati momenti può essere rappresentata nei termini di un vero e proprio ‘primato’, come è accaduto anche in Italia, costruendo una lunga ‘tradizione’ che prende le mosse addirittura dai Pelasgi o da Pitagora.
Ma è un problema che assume forme specifiche quando si tratta, come nel caso dell’Italia, di una nazione che si è costituita relativamente tardi come Stato e che proprio nella sua identità linguistica, culturale, e anche filosofica, ha individuato l’elemento fondativo del suo carattere nazionale. Da questo punto di vista, l’Italia è differente dalla Francia, dall’Inghilterra o dalla Spagna, nelle quali il rapporto tra nazione e Stato si è formato in modo limpido e completo fin dai primi secoli della modernità, realizzando lo schema definito – e auspicato – nei suoi scritti da Niccolò Machiavelli proprio per l’Italia.
Nel caso dell’Italia bisogna perciò distinguere fra la storia che precede e quella che accompagna o segue la costituzione dello Stato nazionale; il che non toglie, ovviamente, che tra l’una e l’altra ci siano, come vedremo, significativi elementi di continuità, i quali pervengono, in modo preciso, proprio all’autoconsapevolezza che la nazione ha avuto di se stessa, che costituisce, a sua volta, una delle molle principali alla base del processo di unificazione nazionale.
Se questo è vero, si capisce che la riflessione sulla Nazionalità nella filosofia (come recita il titolo della famosa prolusione tenuta all’Università di Napoli da Bertrando Spaventa il 23 novembre del 1861) si sia sviluppata in stretto rapporto con il processo di costituzione statuale, e ne sia stata anzi uno dei momenti più significativi e originali. Senza coscienza – e in questo caso senza coscienza nazionale – non può esserci infatti alcuno Stato o, almeno, uno Stato posto su basi solide e durature.
Tutti temi che sono alla base della prolusione di Spaventa, che ha avuto – e perciò si cita – larga incidenza su tutti gli studiosi che, con maggiore consapevolezza e concreti contributi, si sono occupati di filosofia italiana – da Giovanni Gentile (che nel 1908 la ripubblicò, nel quadro di un organico rilancio di tutti i suoi testi principali) a Eugenio Garin.
Alla base di quella prolusione – e delle domande che essa poneva – c’era dunque il problema della costituzione – e dei caratteri – dello Stato nazionale; e in modo specifico, c’era la questione – decisiva a quel momento e per gli uomini di quella generazione – dell’identità etico-politica e dell’autonomia culturale del nuovo Stato nei confronti della Chiesa di Roma. La discussione sulla ‘nazionalità’ della filosofia nasce in questo contesto, e a questa luce va considerata: sono unum et idem.
È sintomatico, da questo punto di vista – ed è anzi una conferma precisa di quanto si sta dicendo – che la discussione e l’interesse intorno alla filosofia italiana siano declinati proprio quando lo Stato nazionale ha cominciato a entrare in crisi, cioè negli ultimi due decenni del secolo scorso, nel quadro di tumultuose trasformazioni sia dei singoli Stati che dell’Europa e dell’assetto complessivo del mondo (la cosiddetta globalizzazione).
Il che non significa – e su questo torneremo – che vengano meno il problema dell’identità nazionale e quello di una specifica tradizione filosofica italiana. Stato e nazione non sono realtà convertibili l’una nell’altra senza residui; né la crisi degli Stati nazionali coincide, di conseguenza, con la fine delle identità nazionali. Al contrario, la dimensione nazionale – proprio quando viene meno il modello statuale moderno – può continuare ad avere un rilievo perfino più significativo e profondo, quale luogo di conservazione, e di rilancio, di un’identità condivisa, di cui la cultura, e anche la filosofia, sono un momento costitutivo, una funzione essenziale.
Sono possibili, dopo il medio evo e ne’ tempi moderni, tante filosofie nazionali, quanti sono i popoli civili di Europa? O invece quelle che si dicono filosofie nazionali non sono altro che momenti particolari dello sviluppo comune della filosofia moderna nelle diverse nazioni? Si può dire, p.e., che ci sia una filosofia italiana essenzialmente diversa da una filosofia francese, inglese, tedesca, come si dice che ci è stata una filosofia greca essenzialmente diversa da una filosofia indiana? (B. Spaventa, Prefazione dell’autore, in Id., La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea, a cura di G. Gentile, 1908, p. 1). A giudizio di Spaventa, proprio su questo problema, che ritiene dirimente, esiste una differenza essenziale fra mondo antico e mondo moderno: «La filosofia indiana e la greca sono, più o meno, intimamente nazionali»; mentre «comune, invece, ed unico è il carattere, lo sviluppo e l’indirizzo generale della filosofia ne’ popoli moderni» (p. 2).
Quello che, infatti, interessa a Spaventa in questa prolusione è ricollocare il pensiero italiano nel grande alveo della filosofia moderna, rigettando, da un lato, le concezioni di carattere nazionalistico; dall’altro, il ‘provincialismo’ – a esse strettamente congiunto – delle posizioni che, insistendo su una specifica missione nazionale, non fanno altro che isolare l’Italia dalle correnti vive della filosofia moderna, chiudendola in un destino di arretratezza e decadenza. Come l’Italia, costituendosi in Stato, è rientrata nella grande famiglia dei popoli europei; così, sul piano filosofico, essa appartiene, in modo compiuto, al generale «indirizzo» moderno, ed è su questo tronco che deve innestare la propria autonomia e identità culturale ed etico-politica.
Ma anche Spaventa, che intende muoversi su una linea strettamente europea, si pone – e non può non porselo, specie a quella data – il problema di un «privilegio sopra gli altri popoli» dell’Italia; e lo individua nell’«aver precorso due volte i due principali periodi della filosofia moderna: cioè il cartesiano ne’ filosofi del Risorgimento e specialmente in Bruno e Campanella, e il kantiano in Vico»; «e – continua Spaventa – val quanto dire il nuovo naturalismo e il nuovo spiritualismo» (p. 2).
Questa è stata la specificità italiana, ed essa vale sia per il passato che per il futuro: «Se noi vogliamo ancora e possiamo avere un privilegio, questo è quello di precorrere ed effettuare un nuovo e più largo indirizzo, una nuova e più ampia soluzione del problema dello spirito» (p. 2) – come Spaventa si propone di fare in prima persona, con il suo lavoro, e anche con le lezioni sulla filosofia italiana, con le quali vuole contribuire a dare una base culturale al nuovo Stato, mettendolo in grado di fronteggiare, e superare, la presenza, e l’offensiva, della Chiesa romana. Né era il solo a porsi un compito di questo genere: basta pensare all’attività e al programma scientifico e culturale di uno dei massimi rappresentanti della destra storica, Quintino Sella.
Il carattere specifico della filosofia italiana non consiste però – e questo è un altro aspetto rilevante del discorso di Spaventa – solo nell’aver precorso gli sviluppi della filosofia europea; risiede anche nel fatto che essa si è svolta anzitutto «ne’ libri delle vittime», non in quelli «de’ persecutori» (p. 2) – vale a dire nelle opere di Giordano Bruno o di Tommaso Campanella, perseguitati l’uno e l’altro dalla Chiesa romana e dall’Inquisizione, da cui uno è stato condannato a morte, l’altro a trent’anni di carcere.
In altre parole – ed è questo che Spaventa vuole sottolineare – il pensiero italiano si distingue dunque da altre tradizioni nazionali – tutte appartenenti al comune «indirizzo» europeo –, oltre che per la capacità di precorrere i tempi, per il contributo decisivo che a esso hanno dato eretici, riformatori, ribelli, contrapponendosi frontalmente sia alle autorità politiche che a quelle religiose. Il pensiero italiano si è svolto – questa è la sua caratteristica più importante – nel segno della libertà: libertas philosophandi, anzitutto; libertà nei confronti della ‘tradizione’, di qualunque genere essa fosse; libertà nel guardare con occhi nuovi sia il mondo della storia che quello della natura. Si distingue, cioè, per un forte, originario, connotato etico, civile.
Dopo averla negata, Spaventa individua dunque tratti specifici della ‘nazionalità’ italiana in filosofia; ma lo fa guardando sempre al quadro europeo, all’«indirizzo generale della filosofia ne’ popoli moderni». Su questo, che per lui è capitale, non transige: «Campanella e Bruno sono i precursori di Cartesio e Spinoza (e in parte di Locke e Leibniz). […] Vico, esigendo una nuova metafisica e fondando la filosofia della storia, anticipa il nuovo antropologismo» (p. 3).
Il nesso tra filosofia italiana e filosofia europea resta perciò decisivo e indissolubile: anzi, solo mettendosi dal punto di vista europeo si può comprendere effettivamente cosa abbiano rappresentato i filosofi italiani nell’ambito del pensiero moderno, quale sia stato il loro vero, fecondo contributo. E in questo quadro si può comprendere in cosa consista il «privilegio» italiano sia sul piano storico-filosofico che su quello etico-civile e politico (due punti che sono, in effetti, strettamente intrecciati nel discorso di Spaventa). Un «privilegio» nel quale risiede la ‘grandezza’ dell’Italia – perché una sua grandezza è esistita – sia per il passato che per l’avvenire.
Si è insistito sulla prolusione di Spaventa perché, come si è già accennato, essa genera una vera e propria ‘tradizione’, nella quale si riconoscono – pur rielaborandola – sia autori di prima grandezza come Gentile, che si collega al suo insegnamento anche dal punto di vista specificamente teorico; sia storici della filosofia italiana che sul piano teorico sono stati lontani o lontanissimi da lui, e che pure restano legati a punti importanti della ‘tradizione’ che Spaventa costituisce con quella prolusione. Basta pensare al nesso tra Bruno e Baruch Spinoza, sul quale Spaventa insiste, come si è visto, in modo esplicito e che, sulla sua scia, è stato un caposaldo degli studi bruniani per un lunghissimo tratto di tempo, fino al punto da essere accolto, e fatto proprio, anche da studiosi che hanno contemporaneamente proposto un’immagine di Bruno e, in genere, della filosofia italiana assai diversa da quella spaventiana.
Ma proprio il nesso or ora evocato consente di mettere a fuoco quello che è il fondamento teorico della ricostruzione storiografica proposta sia nella prolusione che nelle lezioni che la seguono sul Carattere e lo sviluppo della filosofia italiana dal secolo XVI sino al nostro tempo. Spaventa – e questo è l’elemento di fondo – ha una concezione ‘monistica’ (si potrebbe dire) della modernità e, in questo quadro, della filosofia moderna. Dalla quale scaturisce una genealogia precisa, imperniata sul principio del ‘precursorismo’: da Bruno si arriva a Spinoza, da Campanella a René Descartes, da Giambattista Vico al nuovo antropologismo. Sono tutti affluenti di uno stesso fiume, nel quale i filosofi italiani confluiscono e dal quale essi sono condotti, lungo i secoli, ai loro più fecondi e importanti svolgimenti. Per Spaventa – che ha, ovviamente, presente Georg Wilhelm Friedrich Hegel – nel mondo moderno «il carattere, lo sviluppo e l’indirizzo generale della filosofia» è «comune», «unico». Si svolge, cioè, nel segno di una fondamentale unità, che va rivendicata, in modo programmatico, contro ogni «boria» nazionale, dando all’Italia ciò che le appartiene ed è suo, ma in un contesto generale: quello del pensiero europeo nella sua complessità. Ciò che non rientra in questo quadro non ha valore, sia in rapporto a singoli autori, sia in relazione ad aspetti dei filosofi presi in considerazione che risultino estranei al progresso ‘moderno’, e che perciò vengono espunti dal quadro che Spaventa presenta ai suoi ascoltatori.
Sull’importanza della prolusione, a quella data, non ci sono dubbi: essa consentiva all’Italia di uscire dai confini delle piccole storie e di rientrare, finalmente, anche sul piano filosofico nella grande storia europea, valorizzando, al tempo stesso, elementi propri di specificità e di originalità, che rappresentavano il contributo da essa dato alla civiltà moderna, alla costruzione dell’Europa, di cui l’Italia, con i suoi eretici, ribelli, riformatori, era stata parte integrante. Del carattere profondamente innovativo – e nettamente polemico – della sua impostazione Spaventa era pienamente consapevole, come appare in modo chiaro dalle sue stesse parole:
Questo lavoro non avrà buona accoglienza da due specie di lettori; da coloro che hanno per un errore dello spirito umano o almeno per una cosa che non interessa noi altri italiani, tutto il movimento filosofico da Cartesio sino ad Hegel, e da coloro che credono che da due secoli e mezzo non si sia più pensato in Italia (Prefazione dell’autore, cit., p. 3).
Era, certo, un’impostazione innovativa, della quale da tempo, però – va precisato anche questo – sono stati individuati i limiti: in effetti, essa generava nessi, rapporti, genealogie che l’indagine storica ha mostrato poco consistenti e per molti aspetti infecondi. A differenza di quello che pensava Spaventa nel 1861, il pensiero moderno non è «comune» e «unico». E questo riguarda sia i singoli autori che i movimenti di carattere generale, i quali, sulle tracce del modello spaventiano variamente modificato, sono stati fatti, in genere, confluire nell’«indirizzo» filosofico moderno – spesso alla luce del paradigma del ‘precursorismo’ –, con una semplificazione, e talvolta una deformazione, dei loro caratteri effettivi, originali.
Di Spaventa sono stati discussi, però, proprio il criterio del ‘precursorismo’ e molti giudizi specifici; mentre non è stato sottoposto a una discussione adeguata e rigorosa l’impianto filosofico generale. E questo perché molti dei suoi critici, al di là delle valutazioni particolari, hanno convenuto nell’individuare nel pensiero moderno un «indirizzo» filosofico generale comune e condiviso. Sia pure in forme originali e rinnovate, si sono, cioè, anch’essi sentiti eredi, e parte, di quel mondo, del quale hanno continuato a scrivere la storia, pur se sulla base di problemi diversi.
Non è un fatto di poco conto. Né è difficile comprendere i motivi filosofici, ma anche etico-politici e civili su cui si fonda quel consenso, diventato con il tempo un vero e proprio senso comune; un presupposto da non porre, come tale, in discussione. In effetti, la prolusione di Spaventa implicava, al fondo, una vera e propria filosofia della storia, nella quale si rispecchiava, sul piano filosofico, una ‘autobiografia dei moderni’ di matrice hegeliana, ripensata alla luce della storia italiana e dei problemi etico-politici e culturali posti dalla costituzione, dopo secoli di decadenza e di subordinazione all’autorità ecclesiastica, del nuovo Stato nazionale.
Questa era l’effettiva pietra di giudizio e di paragone degli autori e dei movimenti culturali sia nel caso di Spaventa che della ‘tradizione’ storiografica che da lui prende inizio e, oltrepassando l’Ottocento, arriva fino al Novecento, quando entra in crisi definitiva con l’avvio della crisi – e va sottolineato – dello Stato nazionale italiano.
È tipico – e perciò si ricorda – il caso del suo giudizio sul lullismo di Bruno: da un lato Spaventa congiunge, giustamente, opere lulliane e opere mnemotecniche, valorizzando il ruolo della memoria; dall’altro, pur riconoscendo la centralità del lullismo nell’opera bruniana, ne segnala anche i limiti, perché «la scienza non può ridursi ad essere una scienza di segni» (cfr. a tale proposito S. Bassi, E. Scapparone, Bruno e i «munera Lulliani ingenii ». Appunti per una rilettura, «Rinascimento», 2010, 50, pp. 78-79). In sintesi, Spaventa – come del resto aveva fatto almeno in parte anche Hegel – utilizza il lullismo per immettere Bruno nell’«indirizzo generale della filosofia ne’ popoli moderni», ma lo circoscrive e lo delimita con nettezza, perché esso non rientra in modo compiuto nel processo filosofico che si compie con Immanuel Kant e con Hegel, che per Spaventa è il culmine del pensiero moderno.
Da Spaventa nasce – si è già detto – una ‘tradizione’: Felice Tocco – suo allievo, e fra i massimi studiosi della «nolana filosofia» – si concentra a sua volta sul lullismo di Bruno, ma – sviluppando una prospettiva filosoficamente assai meno ricca e complessa di quella del maestro – separa mnemotecnica e lullismo, e riduce in modo netto il valore teorico di quest’ultimo, perché non lo considera all’altezza della vera speculazione filosofica. «Il Bruno – scrive – si illude nel tenere l’artifizio lulliano per uno strumento acconcio alla scoperta della verità, come nel dare al Lullo il vanto di maestro onnisciente e pressoché divino» (Le opere latine di Giordano Bruno esposte e confrontate con le italiane, 1889, p. 19). Non comprendendo la profondità speculativa del giudizio di Spaventa, Tocco non intende il nucleo teorico del lullismo bruniano, alla luce, evidentemente, di un giudizio meno elaborato e consapevole sul piano filosofico e, in ogni caso, in un quadro interpretativo distante ormai dalle matrici hegeliane alle quali il suo maestro si era tenuto fedele.
Ma proprio per questo colpisce un punto, e conferma quello che or ora si è detto: pur distanti, Spaventa, Tocco e, per fare un altro grande nome, Francesco Fiorentino concordano su una questione specifica assai qualificante: ‘martire del libero pensiero’, Bruno ha dato un contributo essenziale alla formazione e allo sviluppo dell’«indirizzo» filosofico moderno. Su questo piano, il modello spaventiano resta vivo e vegeto, e persisterà per una lunga epoca degli studi sul Rinascimento.
Si è citato a lungo Spaventa sia perché si è interessato in modo specifico di filosofia italiana, sia per il valore esemplare della sua posizione. Ma Spaventa non è stato il solo a costituire un modello filosofico-storico imperniato sull’«indirizzo» moderno come pietra di paragone del pensiero europeo, a cominciare dalla civiltà del Rinascimento. In Francia, la storiografia della Restaurazione, sia pure in forme diverse, si era mossa in un orizzonte critico che aveva congiunto il problema del Rinascimento con quello delle origini del ‘mondo moderno’; e, del resto, lo stesso Jacob Burckhardt aveva proceduto in una direzione affine, individuando in figure come Federico II ed Ezzelino da Romano le radici della nuova concezione dell’uomo, della vita e della natura che si impone con la civiltà del Rinascimento.
Non è casuale la convergenza di questi studiosi, che pur muovono da posizioni in parte o assai diverse: la discussione – plurisecolare – sulla genesi del ‘mondo moderno’, sui suoi caratteri costitutivi e, poi, sul suo declino e la sua crisi, è, dall’inizio alla fine, parte integrante del processo storico di costituzione dell’idea di ‘modernità’ in quanto tale. In questo quadro storia e storiografia procedono di pari passo, sia pure percorrendo sentieri differenti; anzi, a essere precisi, la dimensione storiografica – declinata in chiave ‘autobiografica’ – è parte intrinseca di questo lungo processo; ne è una struttura organica fondamentale. Questo vale per Spaventa come per Louis Blanc, Jules Michelet e anche per Burckhardt, il quale si interroga su cosa abbia comportato – dal punto di vista della vita spirituale dell’uomo, compresa la religione – la costituzione dello Stato moderno. Nel lavoro di questi autori, oltre alle motivazioni storiografiche, confluiscono motivi etico-politici, civili e anche religiosi che concernono origini, caratteri e destino del ‘mondo moderno’, e il significato che esso ha avuto nella storia universale dell’uomo. È questo il ‘problema’ che essi pongono quando, in guise diverse, costruiscono il concetto di ‘mondo moderno’. Naturalmente porre ‘problemi’ è normale quando si tratta di grande storiografia; pensare, poi, senza categorie – e problemi – è impossibile. Ma quello che distingue queste posizioni, pur differenti tra di loro, è precisamente la categoria – cioè il punto di vista – che le accomuna, e che questi autori contribuiscono a elaborare: in negativo o in positivo, esse si rispecchiano, fino a incarnarlo, nel concetto di ‘mondo moderno’, alla luce di una filosofia della storia già abbozzata dagli illuministi; e a questa luce costruiscono immagini dei singoli autori; formano tradizioni critiche; danno vita a genealogie che hanno attraversato il loro tempo e in molti casi – in forme anche sotterranee, e perciò più difficili da discutere – sono arrivate fino a noi. Nel 1950 – per limitarsi a un esempio, ma significativo – Garin, uno studioso che ha innovato in profondità il campo degli studi rinascimentali, continuava a interrogarsi sulle linee orientatrici del ‘mondo moderno’.
Ma questo tipo di approccio non riguarda solo gli studiosi che imperniano il concetto di ‘mondo moderno’ in quello di Rinascimento; a testimonianza della forza di questo modello, anche quegli studiosi che, in tempi più recenti, hanno sostituito, come momento genetico del ‘mondo moderno’, al Rinascimento la ‘rivoluzione scientifica’, si sono mossi, essenzialmente, in una simile prospettiva. Sono mutati gli autori di riferimento (Nicola Copernico, Isaac Newton); è cambiata la periodizzazione (il punto di partenza è il 1543, anno di pubblicazione del copernicano De revolutionibus orbium coelestium), ma sono rimasti fermi sia il concetto di ‘mondo moderno’ come pietra di paragone e di giudizio di autori, correnti, movimenti; sia, in sostanza, una concezione ‘monistica’ del processo storico, da cui sono stati espulsi quei pensatori che non corrispondono al paradigma della ‘rivoluzione scientifica’ moderna – a cominciare da Bruno che, con un radicale rovesciamento della prospettiva di Spaventa, viene ora catalogato come mago, e precipitato, di conseguenza, nella premodernità.
A differenza di quella spaventiana, questa è però un’impostazione che cancella in linea di fatto e di principio il problema di una specificità nazionale italiana, quando non lo risolva in termini di provincialismo o di pura arretratezza (mentre in alcuni casi mantiene il criterio – del tutto infecondo – del ‘precursorismo’), con poche eccezioni geniali, come quella rappresentata da Galileo Galilei e, per alcuni aspetti, dalla scienza del secondo Ottocento. Né questo può stupire: se la ‘rivoluzione scientifica’ moderna è la pietra di paragone e il punto di riferimento, l’Italia, secondo questo modello, avrebbe poco da offrire, e andrebbe perciò riconsegnata a quel destino di provincialismo dal quale Spaventa aveva cercato di sottrarla, agganciandola agli aspetti più vivi dell’«indirizzo» filosofico moderno e riconoscendole il «privilegio» che sopra si è detto.
Ma Spaventa, come si è visto, sostenendo queste tesi aveva in mente il problema della vita etica e spirituale del nuovo Stato nazionale e si batteva, nel suo specifico campo, per la costruzione di un nuovo ethos filosofico e civile – operazione, a suo giudizio, fondamentale nel Paese in cui aveva sede il capo della Chiesa romana. Gli interpreti del ‘mondo moderno’ in chiave di ‘rivoluzione scientifica’ si muovono in una prospettiva che prescinde da questi problemi anche per l’oggetto specifico della loro ricerca.
Ma c’è un altro motivo che spiega le loro scelte e, in generale, la loro impostazione, e che ci riporta al punto da cui ha preso le mosse questa riflessione: essi si muovono in un orizzonte che non ha lo Stato nazionale come essenziale riferimento; anzi si collocano – sospinti anche dal carattere specifico della loro ricerca – in una prospettiva che si potrebbe dire sia transnazionale che trans-statale.
È sintomatico che il ‘mito’ del provincialismo della filosofia italiana e, in generale, della cultura italiana (che, in coincidenza con la crisi dello Stato nazionale, ha avuto negli ultimi decenni molta fortuna) sia fermentato proprio presso storici della filosofia attratti in via preliminare dai rapporti tra filosofia e scienza o, direttamente, dalla storia della scienza, individuata come campo privilegiato di lavoro rispetto a una filosofia concepita ormai come sapere residuale, senza più significato.
Se è vero quanto si è cercato di dire, va sottolineata in via pregiudiziale una questione generale: dissolvere questi modelli di filosofia della storia (di varia origine, come si è già accennato) è fondamentale per ripensare in termini nuovi le singole tradizioni filosofiche nazionali – compresa quella italiana –, cogliendole nella loro autonomia e originalità, al di fuori di schemi e modelli precostituiti. Per farlo, occorre distanziarsi dal paradigma ‘moderno’; congedare in via definitiva il ‘monismo’ che lo caratterizza (e qui si utilizza il termine come formula riassuntiva di tutto un atteggiamento, di un tipo di approccio assai diffuso); bisogna mettersi in un’altra prospettiva, capace di afferrare i singoli autori e movimenti nella loro individualità.
Il pensiero moderno consiste in un insieme di linee e di tendenze ramificate e differenziate; non è affatto «unico» o «comune»; esso appare piuttosto come un fiume nel quale confluiscono affluenti assai diversi, talvolta irriducibili gli uni agli altri, e da cogliere, di conseguenza, nella loro specificità ed autonomia. Non esiste un solo concetto di ‘moderno’, né esiste un unico ‘mondo moderno’; così come non esiste un’unica via di accesso a quella che si definisce ‘modernità’. Per riprendere gli esempi di Spaventa: Bruno non è stato il ‘precursore’ di Spinoza, così come Campanella non ha precorso Descartes, e Vico non è stato anticipatore dell’antropologismo.
E questo vale anche per il Rinascimento in generale: discorrendo di Spaventa, si è visto quanto peso esso abbia avuto nella sua ricostruzione, e poi in tutta la ‘tradizione’ italiana, fino a noi. Né è difficile comprenderne i motivi: si tratta di un archetipo costitutivo della coscienza nazionale, nel bene e nel male (evidenziato, a suo tempo, in tinte fosche dalla storiografia neoguelfa, in modo particolare da Cesare Balbo, riuscendo a influenzare perfino Francesco De Sanctis). Ma anche l’epoca umanistica e rinascimentale oggi va studiata nella sua autonomia e individualità, senza più considerarla come momento genetico del pensiero, e del mondo, dei moderni, secondo una prospettiva che già – abbozzata nei secoli precedenti – è stata sistemata in modo rigoroso per la prima volta da Jean-Baptiste d’Alembert nel Discours préliminaire all’Encyclopédie. Consentendo o dissentendo, è da qui che hanno poi preso le mosse tutti coloro che in Italia si sono interessati di quel periodo centrale della storia europea – dallo stesso Spaventa ad Antonio Labriola, a Gentile, compresi gli studi sulla filosofia (e sulla cultura) del Rinascimento pubblicati nel Novecento.
Se si vuole rovesciare il punto di vista dei ‘moderni’ è, in via preliminare, necessario distinguere tra dimensione storica e dimensione storiografica, due piani che non possono essere confusi, e che vanno anch’essi riscattati nella reciproca autonomia e individualità. Nel caso del Rinascimento – al quale, sulla scia di Spaventa, si è fatto or ora riferimento –, occorre considerarlo per ciò che è stato sul piano storico, distinguendolo da quello che è diventato sul terreno storiografico, trasformandosi progressivamente da ‘mito’ a ‘concetto’, e configurandosi, su questo terreno, come punto archimedeo della generale ‘autocoscienza’ elaborata dai moderni (della quale le lezioni tenute da Spaventa fra il 1861 e il 1862 sono un esempio di prima grandezza per consapevolezza, forza espositiva, capacità di costruire ‘miti’ storiografici di straordinaria efficacia).
Operazione tutt’altro che semplice o scontata. Essa implica una vera e propria ‘rivoluzione copernicana’ che riguarda, in effetti, il concetto di filosofia e di storia della filosofia, e, sul piano teorico, anche il significato e il valore dell’individuo e dell’individualità,
con una conseguente riconsiderazione della dimensione di carattere biografico, alla quale va ridato il peso che merita, proprio dal punto di vista filosofico (per questo – sia detto tra parentesi – in questo volume si è scelto, come genere, quello del ‘ritratto’). Il punto da cui partire può essere questo: ogni età elabora una propria idea della filosofia. È una posizione intorno alla quale si è molto discusso, facendo anche obiezioni assai penetranti. Né c’è dubbio che in essa sia presente una tendenza a risolvere la filosofia in cultura e la storia della filosofia in storia della cultura. Ma ha due meriti: da un lato, prende le distanze da un concetto scolastico e accademico di filosofia; dall’altro, contribuisce a cogliere – e valorizzare – la pluralità di forme e di esperienze in cui si è incarnata la riflessione filosofica dell’uomo, oltre i confini tradizionali.
Come si può vedere dall’Indice, è questa posizione che si è tenuta presente nella costruzione del volume: accanto a pensatori normalmente consegnati al canone della filosofia, qui sono presenti autori che possono apparire extravaganti o forzatamente presenti (da Francesco Petrarca a De Sanctis, da Gaetano Filangieri a Cesare Beccaria, da Alessandro Manzoni a Giacomo Leopardi: tutti autori generalmente catalogati, e rubricati, sotto altre ‘voci’, secondo altri ‘generi’). Si tratta – conviene ribadirlo – di una scelta consapevole, programmatica, corrispondente a un disegno preciso.
Tale scelta deriva da una duplice considerazione: la prima di ordine teorico, appena accennata; la seconda dalla persuasione – che è a fondamento di questo lavoro – secondo cui è la dimensione ‘civile’ – nell’accezione ampia del termine – a rappresentare il carattere costitutivo della filosofia italiana.
Sottolineare questo punto non vuol dire che in Italia manchino pensatori, anche di prima grandezza, che si siano confrontati con problemi di tipo ‘metafisico’ (un solo nome, tra i tanti: Marsilio Ficino). Si intende rilevare che, a differenza di altre tradizioni, è la vocazione ‘civile’ il tratto specifico dell’Italia, sul piano filosofico. A sua volta, ciò non significa che i filosofi italiani si siano occupati solamente di questioni ‘civili’, attinenti al ‘comune vivere’ dell’uomo: affermazione, questa, che non avrebbe fondamento. Quello ‘civile’ è stato, però, il filo principale della ‘tradizione’ italiana, e questa corda, almeno in certi momenti, ha vibrato anche nei filosofi più distanti da una dimensione ‘civile’ in senso proprio – perfino in Ficino, or ora evocato.
È da qui che discendono due caratteristiche precipue della ‘tradizione’ italiana: una serie di relazioni della filosofia con altri aspetti dell’esperienza umana – con la politica, ad esempio, ma anche, e soprattutto, con la storiografia; una concezione del ruolo e della funzione del filosofo che riguarda la maggior parte delle personalità più eminenti della filosofia italiana (nell’accezione vasta che si è detta).
Alcuni dei principali pensatori italiani – da Niccolò Machiavelli a Francesco Guicciardini, a Pietro Giannone – sono stati, al tempo stesso, grandi storici, per un’opzione di carattere civile, politico. Il nesso tra filosofia, storiografia e politica è un tratto strutturale della ‘tradizione’ italiana – da Machiavelli, or ora citato, a Paolo Sarpi, fino a Benedetto Croce, che di questa ‘tradizione’ è stato certamente uno dei punti più alti, con piena consapevolezza. Lavorare nelle accademie, e dedicarsi alla storia – spiega Croce nelle pagine finali della Storia del Regno di Napoli (1925) – era stato, per lui, il modo con cui aveva fatto politica, prendendo posizione di fronte ai problemi della ‘città’. Responsabilità alla quale un filosofo, un intellettuale non può venir meno, distinguendo naturalmente con precisione i caratteri, e le forme, del suo agire (secondo il modello ampiamente trattato nelle Pagine sulla guerra). A differenza dei «savi» che, a Napoli, non avevano saputo resistere ai tumulti, e che perciò si erano meritati il rimprovero, e il disprezzo, di Carlo d’Angiò. «“E che cosa facevano i savi?”, interrogò quel severo sovrano» ricorda Croce in una pagina in cui non è difficile individuare l’eco di una sua domanda, altrettanto severa, sul silenzio dei «savi» suoi contemporanei (Storia del Regno di Napoli, 19656, p. 290).
Questa vocazione ‘civile’ si ritrova, in generale, nel modo in cui sono concepiti il ruolo e la funzione del sapere, della filosofia. E qui si può stabilire una differenza con altre tradizioni europee, ad esempio con quella libertina: nella cultura italiana, il libertinismo ha avuto un peso e un seguito. Basta pensare a un autore come Giulio Cesare Vanini, che di questa cultura è un rappresentante tipico sia per il modo in cui concepisce la religione, sia per la maniera con cui costruisce i testi, riprendendo in molti casi opere di Pietro Pomponazzi e del Rinascimento ‘radicale’ italiano. Ma anche, per certi aspetti, a un pensatore eccezionale come Sarpi – un «Montaigne col cappuccio» come disse don Giuseppe De Luca –, del quale, in tempi recenti, sono state opportunamente messe in evidenza le venature ‘scettiche’ e anche libertine, alla luce di quel vero e proprio ‘giornale di bordo’ che sono i Pensieri medico-morali (con la straordinaria riflessione sulla religione che li distingue, su cui si tornerà più avanti). Ma fra Paolo fu uno dei principali protagonisti della ‘guerra’ della Repubblica veneziana contro la Chiesa di Roma, fino a essere oggetto di un attentato di cui è rimasta traccia in un’ampia serie di ritratti diffusi in Europa, anche in Inghilterra, dove la sua opera ebbe una notevolissima diffusione. A conferma – ma su questo punto, che è decisivo, torneremo in seguito – del successo europeo del pensiero italiano – da Machiavelli a Guicciardini, da Bruno a Giannone, allo stesso Beccaria.
Come confermano questi nomi, la linea di fondo della ‘tradizione’ italiana è stata un’altra. E dicendo questo, non si vuole alludere solamente all’‘Umanesimo civile’ – un capitolo centrale della storiografia novecentesca sull’Umanesimo, in Germania e in Italia (del quale oggi, peraltro, appaiono evidenti alcune forzature sul piano storico). Citando anzitutto i nomi cari a Spaventa, è sufficiente pensare a Bruno e a Campanella, nel quale, a giudizio di Gentile, si sarebbero saldati in modo pieno e compiuto filosofia e politica, nuova visione del mondo e impulsi riformatori.
A differenza, però, di quanto pensava Gentile, che lo consegnava alla categoria dei ‘contemplativi’, anche in Bruno è centrale il rapporto con la politica, con la praxis. Anzi, proprio quest’ultima – la praxis nelle sue varie guise – è il centro motore di tutta la sua esperienza filosofica. È precisamente qui che si situa la sua distanza dai libertini: mentre questi ultimi teorizzavano la doppia morale di tipo senechiano, o il ‘viaggio’ nella propria stanza, Bruno, girando per l’Europa, ambisce a farsi «capitano di popoli», e ad aprire un nuovo ciclo nella storia della civiltà, dopo quello ebraico-cristiano, teorizzando, specie nell’ultimo periodo, la praxis magica (risiede precisamente in questo intreccio tra politica e magia la sua profonda differenza da Machiavelli, con cui condivide però il giudizio sulla funzione civile, politica della religione).
Né si tratta solo di Bruno o di Campanella: la funzione assegnata alla dimensione civile, e pratica, è uno dei tratti di fondo dei principali pensatori del Rinascimento, intrecciandosi a progetti di utopia sociale, di riforma religiosa, di mutamento politico e suscitando interesse, consenso, o anche rifiuto, sia in Italia che a livello europeo. Ma il discorso può essere esteso e approfondito ulteriormente, alla luce dell’intera ‘tradizione’ italiana. E qui i nomi che balzano in mente sono quelli di Dante Alighieri, naturalmente; di Marsilio da Padova, che concepisce in termini moderni il concetto di legge; di Lorenzo Valla, che con il suo testo sul libero arbitrio inciderà anche nella discussione fra Erasmo da Rotterdam e Martino Lutero; di Leon Battista Alberti, al quale si devono le pagine straordinarie del Momus (o Del principe, come viene specificato fin dal titolo); di Galilei, che in nome della libertà della ricerca scientifica scrive a Cristina di Lorena segnalando la differenza tra «libro di Dio» e «libro della natura», riprendendo temi svolti da Bruno nel quarto dialogo della Cena de le Ceneri. E poi, dopo l’epoca rinascimentale, di Giannone, di Antonio Genovesi, di Filangieri, di Beccaria, il quale, con la pubblicazione del Dei delitti e delle pene, uscito nel 1764 a Livorno, divenne un protagonista – per quanto recalcitrante – del dibattito filosofico e politico europeo. Né questa lunga onda si ferma al Settecento; basta pensare allo stesso Spaventa, a Pasquale Villari, a Labriola; e poi, nel Novecento, a Croce e a Gentile, erede consapevole di questa tradizione, che egli studia sulle orme di Spaventa, cercando di individuarne i punti di forza e di debolezza, e aprendo una linea di ricerca che spingerà una nuova generazione di studiosi – anche sulle tracce dei ‘problemi’ posti da De Sanctis – a occuparsi degli «eretici italiani del Cinquecento» e delle battaglie da loro condotte per l’affermazione del principio della libertà di coscienza e della tolleranza religiosa.
E questo consente di fare un’altra osservazione, rilevando un ulteriore tratto specifico di questa tradizione: in Italia la dimensione civile, politica, specie in momenti di crisi, si è intrecciata con problemi, e prospettive, di tipo religioso, di carattere profetico e anche apocalittico – centrali e decisivi, ad esempio, nell’esperienza di Gioacchino da Fiore (con cui, per una scelta consapevole, questo volume inizia); ma altrettanto fecondi e significativi in quella di Girolamo Savonarola, il quale, nella sua iniziativa, salda riforma religiosa e riforma politica, innovando in profondità lo stesso concetto di profezia, rivolta non più al futuro, come nella tradizione, ma all’immediato presente, preannunziando l’opera da compiere qui e subito. Discorrendo di Savonarola, a volte è stato detto che con la sua posizione egli corrompeva sia la politica che la religione; ma è un giudizio ingiusto, senza fondamento. Come capisce invece bene Antonio Gramsci nei Quaderni del carcere, Savonarola, intrecciando religione e politica, riesce ad aprire una strada verso l’avvenire, secondo un modello destinato a vari e differenti sviluppi – da Campanella ai riformatori settecenteschi fino, in forme proprie, allo stesso Giuseppe Mazzini.
In sintesi, dal Medioevo al Rinascimento, all’Illuminismo, e oltre, l’Italia – proprio per questa sua vocazione ‘civile’ – è stata una delle sorgenti principali delle ‘libertà dei moderni’ – a cominciare dalla libertas philosophandi –, anche se oggi questo contributo – decisivo da ogni punto di vista – non viene considerato con la giusta attenzione.
Certo, potrebbe colpire che una nazione diventata così tardi Stato nazionale abbia avuto una ricchezza di contributi ‘civili’, politici (nel senso più ampio della parola) così vasta e importante. Ma porre il problema in questo modo è sbagliato. Anzitutto, come si è già accennato, Stato e nazione non sono termini convertibili l’uno nell’altro. Il concetto di nazione è assai più complesso e largo di quello di Stato. Anzi, il modello statuale moderno, come è nato, così può morire, e già oggi sta declinando; a differenza della nazione, che in Italia ha preceduto lo Stato, e che potrebbe continuare a vivere anche quando lo Stato nazionale fosse, eventualmente, scomparso. È perciò sbagliato ritenere che sia lo Stato in quanto Stato il luogo principale, se non l’unico, nel quale, e grazie al quale, si sviluppa la vocazione politica, civile di un popolo, di una comunità. È proprio la storia nazionale italiana a dimostrare l’insufficienza di questo modello di matrice, essenzialmente, ottocentesca: del resto, come aveva già capito Machiavelli, l’Italia non riuscì a diventare Stato moderno, come Francia o Inghilterra, non per la sua «miseria», ma, al contrario, per una ricchezza di centri e di forze che finirono con l’immobilizzarla (ma anche, secondo Machiavelli, per decisive responsabilità della Chiesa di Roma), condannandola a una lunga crisi, alla decadenza.
Ma c’è un altro tratto da rilevare nei pensatori italiani più significativi, e che contribuisce a precisare il discorso appena fatto: essi sono in stretto contatto con l’Europa; spesso non per propria scelta, ma per sfuggire alle persecuzioni sia politiche che religiose. E dicendo questo non si vuole, ovviamente, alludere ai clerici medievali (Tommaso d’Aquino insegnò lungamente a Parigi); ma a figure come Bruno, il quale negli anni Ottanta del Cinquecento diventa in senso pieno un professore tedesco; o come Francesco Pucci o, in generale, come gli eretici e riformati italiani che girano in tutta Europa – dall’Inghilterra (a Londra c’è una loro Chiesa) alla Francia, alla Polonia, alla Transilvania. È la grande questione della ‘emigrazione’ degli intellettuali italiani nelle loro varie sfere (perfino quella musicale), specialmente nel Cinquecento e nel Seicento: un fenomeno sul quale sono stati espressi giudizi generalmente negativi, criticando un cosmopolitismo risoltosi in un processo di denazionalizzazione, a opera anzitutto della Chiesa di Roma, destinato a pesare in modo profondo sulla storia italiana, ritardando la costituzione dello Stato nazionale. Ma anche in questo caso è il paradigma dello Stato moderno che limita il giudizio, indebolendolo. Occorre, come sempre, guardare alla sostanza della cosa, nella pluralità dei suoi aspetti; né c’è dubbio, da questo punto di vista, che questo cosmopolitismo abbia avuto almeno due effetti: da un lato, ha, certo, distanziato questi pensatori dalla realtà nazionale; dall’altro, ha fatto sì che essi si muovessero in un orizzonte europeo come protagonisti e fossero perciò in grado di maturare, nelle varie situazioni e nelle diverse discipline, un punto di vista assai vasto, tenendo il passo della cultura europea più avanzata, e condizionandola in modi profondi.
Specie in quei due secoli, ci fu un’intensa circolazione fra pensatori italiani e cultura europea, testimoniata dalla pluralità di traduzioni di testi italiani nelle principali lingue europee, sulla quale – sia pure brevemente – vale la pena di richiamare l’attenzione per comprendere quali siano stati, a quella data, il ruolo dell’Italia e della lingua italiana, e l’ampiezza della sua diffusione.
Qualche esempio relativo solamente agli autori che si sono richiamati: Savonarola è tradotto in inglese nel 1534, nel 1578 e nel 1635; Machiavelli è pubblicato a Londra in italiano negli anni Ottanta del Cinquecento; l’edizione dei Ricordi di Guicciardini, curata da Jacopo Corbinelli, è pubblicata per la prima volta in Francia nel 1576, e immediatamente tradotta in francese; i dialoghi italiani di Bruno vengono stampati in Inghilterra fra il 1584 e il 1585. È un elenco che si potrebbe agevolmente estendere; così come sarebbe facile verificare la presenza del pensiero italiano – per limitarsi all’Inghilterra – nell’opera di autori di prima grandezza come Christopher Marlowe e William Shakespeare. Il primo, nel prologo dell’Ebreo di Malta dà direttamente la parola a Machiavelli, oltre a riprendere, e divulgare (come risulta da una denuncia contemporanea), temi della polemica anticristiana svolta da Bruno nello Spaccio de la bestia trionfante; il secondo riprende motivi centrali del Rinascimento ‘radicale’ italiano – dal grande tema della doppiezza e della dissimulazione («I am not what I am», «Io non son quel che sono», recita Iago fin dalla prima scena di Otello) al motivo, di matrice platonica, dell’uomo come ‘gioco degli dei’, al centro di opere capitali come Antonio e Cleopatra o Re Lear. Né si tratta di un rapporto lineare, sviluppato solo nel senso di un riconoscimento, e di una ripresa, di temi ‘italiani’ da parte, ad esempio, di Shakespeare: basta prendere il Cimbelino per constatare che la situazione è assai più complessa e intricata, e come su punti capitali cultura inglese e cultura italiana vengano contrapposte frontalmente, favorendo la prima contro la seconda (e rovesciando, su questo, il giudizio che Bruno aveva espresso nella Cena de le Ceneri esaltando, contro la rozzezza dei dotti inglesi, la civiltà del «napoletano nato […] sotto più benigno cielo»). Ma la presenza dei filosofi italiani – specie di quelli di orientamento ‘radicale’ – è estesissima in questo periodo in terra inglese e suscita dure reazioni (che si rispecchiano perfino nel detto «Inglese italianato, diavolo incarnato »), come si può vedere agevolmente da un tipo di testi singolare, ma in questo caso assai utile: cioè dai sermoni di esponenti puritani di primo piano che attaccano a fondo il pensiero italiano – da Girolamo Cardano a Machiavelli, allo stesso Bruno.
Naturalmente, in seguito la situazione muta, e anche pensatori come Vico guarderanno la realtà da un «angoletto» del grande mondo; ma in quei secoli cruciali la circolazione della filosofia italiana è veramente notevole in tutta Europa, ed è affidata in primo luogo ai suoi capolavori di ordine civile.
Ma per mettere a fuoco sia questi testi, sia le ragioni della loro diffusione in Italia, e anche fuori, conviene concentrare l’attenzione su un motivo che distingue molti di essi: la lotta di carattere religioso, con la punta rivolta in primo luogo contro la Chiesa romana. Né è difficile comprenderne i motivi: la sede del papa era Roma. Ma sarebbe sbagliato ridurre queste posizioni in termini di pura polemica o di sterile controversistica anticlericale. Il pensiero italiano è connotato da una riflessione assai profonda, e di ordine sistematico, sulla religione in quanto tale, come fenomeno da indagare, in modo scientifico, come risulta in primo luogo dai testi di Pomponazzi, il quale offre una spiegazione in chiave astrologica della nascita, dello sviluppo e della fine delle religioni – momenti tutti certificati dalla presenza, dalla diminuzione oppure dalla fine dei miracoli.
Dalle pagine del De incantationibus del Peretto a quelle di Bruno nel Sigillus sigillorum, a tante opere di Vanini – destinate a essere riprese nel libro anonimo Theophrastus redivivus –, l’Italia consegna all’Europa riflessioni di eccezionale forza filosofica e critica che svelano, dall’interno, la fenomenologia della religione (come fa ad esempio Pomponazzi discutendo del miracolo di san Celestino a L’Aquila).
Ma, secondo la linea propria della tradizione italiana, a questa analisi di carattere scientifico si accompagna un’indagine tesa, da un lato, a smascherare le pretese, le menzogne e anche la corruzione della Chiesa romana e del papa, secondo una linea che va dal testo di Valla sulla falsa donazione di Costantino al Triregno di Giannone, a pagine dello stesso abate Genovesi; dall’altro, a sottolineare il valore della religione in generale quale ‘vincolo’ civile per la costituzione di un popolo e per l’affermazione della sua «potenza». Senza religio non c’è Stato, scrive Machiavelli indicando l’esempio dei Romani e avviando una riflessione che, secolarizzandosi, risolverà il concetto di religione in quello di ideologia, sostenendone, con pari energia (come avviene ad esempio in Gramsci), funzione e valore decisivo per la nascita e lo sviluppo di un partito politico – il «moderno principe » – che voglia aspirare a diventare Stato non solo con il «dominio», ma attraverso la «direzione», cioè l’egemonia.
Nei Discorsi – specie nelle pagine dedicate alla religione dei Romani – Machiavelli introduce dunque, e sviluppa, un’interpretazione politica della religione che toglie ogni valore all’interiorità come tale valorizzando, per contrasto, la dimensione esteriore – cioè gli effetti ‘civili’ che una religione è in grado di produrre, e in base ai quali deve essere valutata. È la stessa posizione sviluppata da Bruno nello Spaccio de la bestia trionfante, sostenendo – in netta polemica con Lutero – che il minimo peccato è quello «interno», mentre il massimo peccato è quello che concerne la città, il comune vivere dell’uomo. Al paradiso dei santi cristiani Machiavelli e Bruno sostituiscono, sul modello dell’antica Roma, quello degli «eroi» civili, che sanno ingrandire e proteggere la loro città, debellando i superbi e risparmiando coloro che si arrendono.
È un’etica civile di tipo laico che nasce, e s’afferma, in posizioni come queste. Ma a conferma, anche in questo caso, del carattere proprio della tradizione italiana, né Machiavelli né Bruno, discorrendo della religione, si muovono in una prospettiva di tipo ‘libertino’. Se la religione cristiana è da respingere perché dannosa al vivere civile, o perché parte integrante di un ciclo di tenebre e di decadenza, la religione come istituto civile è fondamentale: per Bruno come per Machiavelli, il problema non è quello di cancellare la religione, ma di costituirne un’altra di tipo nuovo che sia in grado di generare nuovi costumi, nuove leggi, nuove scienze: e a questo proposito, per Bruno – a differenza di Machiavelli, come si è già accennato – è fondamentale l’azione della magia, la praxis magica. Del resto, su questo punto Machiavelli è netto, proprio nei Discorsi: a Firenze tutto il popolo fiorentino, certo non «rozzo» né «ignorante» – dunque anche i colti, i dotti – credeva che Savonarola parlasse con Dio, come i Romani credevano che Numa parlasse con la ninfa Egeria.
Questa concezione della religione come struttura profonda del vivere civile dell’uomo, non risolvibile in termini puramente strumentali, è una delle conquiste più alte del pensiero italiano in tutta la sua storia. Ma pur destinata a creare nella ‘tradizione’ italiana un vero e proprio paradigma, non è stata accolta da tutti. Ad esempio, non venne accettata da Sarpi, che combatté in maniera strenua contro ogni possibile intreccio di religione e politica, considerandolo nefasto sia per l’una che per l’altra. A differenza, però, di Bruno e di Machiavelli, fra Paolo aveva il problema dell’‘interiorità’, non quello dell’‘esteriorità’, quando si trattava di religione. E in questo senso egli è stato e resta una figura essenziale, ma minoritaria, nella nostra storia. L’Italia non è la Francia; da noi non sono infatti esistiti quelli che si sprofondano «au fond du coeur», come fanno i grandi moralisti francesi. I Ricordi – un testo che anche Gramsci ammirava, e che anzi prendeva a modello per una delle rubriche dei Quaderni – sono un’altra cosa. In Italia – è stato osservato una volta, e c’è del vero in questa affermazione – non esiste l’‘anima’.
La tradizione italiana è varia e diversificata; ma c’è un tratto che accomuna molti dei suoi principali protagonisti. In essa è risuonato assai più frequentemente di quanto si possa pensare un timbro tragico, specie quando si è misurata – come è spesso accaduto – con momenti e situazioni di crisi. Tragico è il timbro di molte Intercenali di Alberti, del De fato di Pomponazzi, ma tragica è la concezione dell’uomo e della vita che hanno Machiavelli e, soprattutto, Guicciardini, secondo una linea che arriva fino a Leopardi, del quale potrebbero sorprendere le sintonie con testi di Alberti se non si conoscesse il carattere intimamente tragico di quella che è, in genere, apparsa l’epoca aurea, e più felice, della nostra storia.
Come si è visto, nel Rinascimento – ma ancora nell’epoca che va dal Rinascimento all’Illuminismo – l’Italia ha svolto un ruolo di primo piano nella storia europea, alla quale ha consegnato mirabili ‘scoperte’ filosofiche e scientifiche, sulle quali si è insistito in modo prioritario in queste pagine. Nei secoli seguenti, la storia, nel nostro Paese, è proceduta con un ritmo diverso, ma questo non vuol dire che essa sia precipitata in un’opaca decadenza, senza punti luminosi. Basta scorrere l’Indice di questo volume per constatare che le cose non stanno così.
In questa storia plurisecolare si staglia – e si impone – un punto decisivo di svolta, rappresentato dalla costituzione, nel 1861, dello Stato nazionale italiano, per la quale si erano battute le forze migliori del Paese. Essa incise, naturalmente, su tutti i piani della vita nazionale, compresa la ‘costituzione interiore’ della cultura italiana, e anche del sapere filosofico e storico-filosofico. La prolusione di Spaventa, con cui si è iniziata questa Introduzione, rivela con chiarezza tale novità, mostrando come a quella data il problema centrale per le classi dirigenti nazionali più accorte e lungimiranti fosse diventato quello di un sapere nazionale – e specificamente filosofico – capace di interpretare e potenziare il nuovo ethos statale, in polemica, e anche in aspro contrasto, con la Chiesa romana.
È una lunga storia, nella quale la filosofia ha continuato a svolgere un ruolo centrale, né del resto poteva essere diversamente: proprio per la vocazione civile che l’ha costantemente caratterizzata, essa è stata, in Italia, uno dei luoghi principali in cui la comunità nazionale – nei suoi punti più alti – ha continuato a riconoscersi, congiungendola, come nei momenti migliori, con la politica e con la storiografia. Basta pensare ad autori di primissimo piano come Labriola, Croce, Gentile, Gramsci per avere una conferma puntuale di quanto si sta dicendo.
Né affermando questo si vogliono celare i limiti della tradizione filosofica italiana per la carenza, o la debolezza, dei suoi rapporti con le scienze (nell’accezione più vasta del termine). Questo è stato, peraltro, l’argomento principale di tutti coloro che hanno insistito, nell’ultimo mezzo secolo, sul provincialismo della filosofia italiana, sulla sua congenita arretratezza, fino al punto da congedare, insieme a quella italiana, tutta la filosofia.
In questi termini è, però, un argomento debole, perché nella tradizione italiana – almeno nei suoi momenti più significativi – dimensione civile e interesse scientifico non si sono contrapposti o divisi, ma hanno proceduto di pari passo – come appare nell’opera di Alberti e di Leonardo da Vinci, di Bruno e di Campanella, di Galilei e di Sarpi. Quando si sono separati, ciò è accaduto perché erano entrate in crisi sia la filosofia che la scienza. Detto questo – e postolo in termini equilibrati –, quel problema, certo, esiste; ed è anzi all’ordine del giorno.
Oggi però c’è una questione più decisiva con cui occorre confrontarsi e che consente di guardare anche a queste discussioni da una diversa distanza: lo Stato nazionale, costituitosi da un secolo e mezzo, è in una fase di profonde trasformazioni, nel quadro di nuovi contesti sia europei che mondiali. E questo, ovviamente, non può non riguardare anche la filosofia e il suo destino, compresi i suoi rapporti con le scienze, specialmente per il ruolo centrale che essa ha avuto dopo la costituzione dello Stato nazionale.
Ma, come si è avuto modo di osservare, e di ripetere, Stato e nazione non sono realtà risolvibili senza residui l’una nell’altra. La questione di una tradizione filosofica nazionale – e, certo, anche di una sua profonda riforma – non si esaurisce in Italia con la crisi dello Stato nazionale. Anzi, oggi è più viva che mai, ed è resa perfino più urgente dalle trasformazioni che sono avvenute al livello dello Stato – a cominciare dagli anni Settanta del secolo scorso, ben rispecchiate, del resto, proprio dalle vicende della filosofia italiana e, in modo speciale, dalla crisi dell’ultima filosofia ‘statale’ che ci sia stata in Italia, cioè il marxismo. È allora che inizia una svolta con cui occorre fare i conti su tutti i piani: anche su quello della filosofia e di ciò che essa ha rappresentato lungo molti secoli nella nostra autocoscienza nazionale, in forme, modi e tempi diversi. Oggi si tratta di capire, e di verificare, se essa ha ancora qualcosa da dire, proiettandosi anche oltre i confini dello Stato nazionale. Riconsiderare i momenti salienti di questa ‘tradizione’ – in una prospettiva aperta, non scolastica – è l’unico modo per cercare di dare una risposta.