La filosofia del diritto nel primo Novecento
Nella cultura italiana fra le due guerre, la filosofia del diritto acquista grande visibilità; la coltivano, occasionalmente, personaggi di primo piano come Santi Romano, Benedetto Croce, Giovanni Gentile. Eppure, anch’essa partecipa a quel generale declino che vedrà la cultura italiana – passata dall’area d’influenza francese a quella tedesca, e dal cosmopolitismo liberale all’autarchia fascista – scivolare lentamente ma inesorabilmente ai margini della cultura internazionale. In particolare, si ripetono nell’Italia del periodo tre vicende che la cultura tedesca aveva conosciuto cento anni prima: una nuova transizione dall’empirismo all’idealismo; un nuovo conflitto fra giuristi e filosofi per la formazione della classe dirigente; una nuova esaltazione nazionalistica, come magra consolazione per il ritardo politico, economico e sociale.
La transizione dall’empirismo all’idealismo, anzitutto; parlando della filosofia del diritto in senso ampio (l’insieme di tutte le discipline teorico-giuridiche), vedremo il neokantismo italiano spianare la strada al neoidealismo: come Immanuel Kant aveva fatto con Georg Wilhelm Friedrich Hegel un secolo prima. Il conflitto fra filosofi e giuristi, poi; parlando della teoria generale del diritto (l’analisi dei concetti giuridici fondamentali), vedremo crescere l’incomunicabilità fra giuristi e filosofi: come fra Karl von Savigny e Hegel cent’anni prima. L’esaltazione nazionalistica come consolazione del ritardo, infine; parlando della filosofia del diritto in senso stretto (l’applicazione al diritto di una filosofia generale), vedremo l’autarchia fascista contribuire all’isolamento della cultura italiana. In realtà, si sosterrà nella Conclusione, i maggiori prodotti della cultura e anche della filosofia del diritto italiana fra le due guerre risalgono ancora al liberalismo prefascista.
Per filosofia del diritto in senso ampio s’intenderà, qui come altrove (cfr. Barberis 2011), l’insieme delle materie teorico-giuridiche, distinte dalla dottrina giuridica che studia il diritto positivo: dunque, filosofia del diritto in senso stretto (applicazione al diritto di una filosofia generale), teoria generale del diritto (studio analitico dei concetti giuridici), sociologia del diritto (studio empirico dei fenomeni giuridici). L’espressione filosofia del diritto (in tedesco Rechtsphilosophie), apparsa fra Sette e Novecento in Germania, e affermatasi con i Grundlinien der Philosophie des Rechts (1820-1821) di Hegel, in Italia indica spesso, come nella Filosofia del diritto (1841-1843) di Antonio Rosmini (1797-1855), una continuazione della tradizione giusnaturalista: mentre in Germania aveva indicato, all’inizio, una rottura con questa tradizione, la considerazione del diritto naturale – non più come autentico diritto, bensì appunto – come filosofia del diritto positivo, l’unico degno del nome.
La filosofia del diritto italiana dell’Ottocento era stata poco più che una riflessione sul diritto, o piuttosto sull’intero mondo della pratica, formulata nei termini delle filosofie di volta in volta dominanti (spiritualismo, tomismo, positivismo, neokantismo, e simili): riflessione che, in quanto puramente filosofica, interessava ben poco i giuristi. La situazione non era granché cambiata nella breve stagione del positivismo filosofico: filosofia generale che pure aveva osteggiato la speculazione filosofica e favorito la scienza empirica, promuovendo scienza politica, economia, criminologia. Il positivismo filosofico, infatti, amava la scienza empirica, basata sull’osservazione e l’esperimento: non certo quella scienza del diritto (in tedesco Rechtswissenschaft) che voleva essere la dottrina giuridica. Di fatto, il positivismo fu filosofia abbastanza ingenua e provinciale da giustificare per mezzo secolo la reazione idealista (cfr. Bobbio 1990, pp. 9-23).
Vedremo nel paragrafo Teoria generale del diritto come i giuristi più riflessivi, ossia i cultori di diritto pubblico, si rivolgessero occasionalmente a una materia strettamente giuridica apparsa nel secolo precedente in opposizione alla filosofia del diritto: la teoria generale del diritto (Allgemeine Rechtslehre) dei giuristi tedeschi, per tanti versi analoga alla jurisprudence degli utilitaristi inglesi. I filosofi del diritto, invece, abbandonarono ben presto il positivismo filosofico per una filosofia allora percepita come un positivismo più sofisticato: il neokantismo. Al culto positivistico dei fatti, i neokantiani opposero il culto kantiano dei concetti; applicando l’idea kantiana che la conoscenza è vuota senza l’esperienza, ma cieca senza i concetti, insistettero che nessun fenomeno è di per sé giuridico se non pensato come tale in base al concetto di diritto: osservazione come tale ineccepibile, ma tale da aprire la strada, di fatto, alla reazione idealistica.
Il maggiore esponente della filosofia del diritto in senso ampio e insieme del neokantismo giuridico italiano fu Giorgio Del Vecchio (1878-1970). Questi liquidò il positivismo filosofico già in una serie di scritti del primo decennio del secolo, noti come la Trilogia: I presupposti filosofici della nozione di diritto (1905), Il concetto del diritto (1906), Il concetto della natura e il principio del diritto (1908). Come i neokantiani tedeschi del periodo, e diversamente dallo stesso Kant, anche Del Vecchio considerò il concetto di diritto come una categoria a priori, o trascendentale, della conoscenza giuridica; detto altrimenti, il materiale empirico – norme, sanzioni, istituzioni – non sarebbe giuridico di per sé, ma solo perché conosciuto in base al concetto di diritto: posizione più plausibile del realismo positivista riscoperto in quegli stessi anni da Axel Hägerström nella lontana Scandinavia, ma che avrebbe prodotto tre conseguenze.
La prima conseguenza fu il recupero del diritto naturale, dato per morto ai tempi del duplice predominio del positivismo filosofico e del positivismo giuridico; l’adozione della filosofia neokantiana permise allo stesso Del Vecchio di tornare ad ammettere la giuridicità del diritto naturale: la cui esistenza verrà da lui sempre ritenuta «puramente deontologica e normativa, cioè equivale[nte] a un dover essere e non ad un essere di fatto» (Presupposti, concetto e principio del diritto, 1959, p. 22). Già nel 1920, nella sua prolusione al corso di filosofia del diritto presso l’Università di Roma, egli aveva scatenato un pandemonio sostenendo un’interpretazione giusnaturalistica dell’art. 3 c. c. 1865: per il quale
qualora una controversia non si possa decidere con una precisa disposizione di legge, si avrà riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; ove il caso rimanga tuttavia dubbio, si deciderà secondo i principi generali del diritto.
L’espressione principi generali del diritto, per lui, rinviava al diritto naturale.
Nell’ambiente statalista e giuspositivista dello Stato fascista, inaugurato dalla marcia su Roma (1922), questa interpretazione suonerà eretica; per non lasciare adito a equivoci, peraltro, ancora i redattori del codice civile italiano del 1942 si sarebbero sentiti in dovere di sostituire a ‘principi generali del diritto’ la locuzione – molto più faticosa, e in cui si sente l’eco di Romano – ‘principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato’ (art. 12 disp. prel. c.c. 1942). Del Vecchio, sinché lo lasciarono insegnare all’università, continuò a ragionare in termini di diritto naturale; così nelle pagine della «Rivista internazionale di filosofia del diritto», da lui fondata nel 1921, e che sino alla trasformazione in organo della Fondazione Capograssi ha offerto una tribuna autorevole a filosofi del diritto italiani e stranieri; così in La giustizia (1922-1923), espressione importante del cattolicesimo liberale.
La seconda conseguenza della svolta neokantiana impressa da Del Vecchio alla filosofia del diritto italiana fu la rivendicazione del primato della filosofia del diritto, unica autorizzata a conoscere il quid ius, ossia il concetto di diritto, sulla dottrina giuridica: alla quale restava il compito di accertare il quid iuris, ossia di studiare i vari sistemi giuridici (italiano, tedesco, e simili). Questa distinzione di Kant e di Hegel era divenuta un luogo comune filosofico al quale gli stessi giuristi si erano piegati volentieri; in Del Vecchio sfocia in una tripartizione dei compiti della filosofia del diritto che ha avuto molto successo. La tripartizione, infatti, registrava l’evoluzione della materia in epoca positivista, cercava di comporre il conflitto divampato in Germania fra filosofi, teorici generali e sociologi, e reinterpretava la stessa espressione filosofia del diritto nei termini di quella che qui si è convenuto di chiamare filosofia del diritto in senso ampio.
Alla filosofia del diritto, in effetti, Del Vecchio conferisce tre compiti: uno logico, secondo lui tipico della teoria generale, che consisterebbe nell’elaborare il concetto e/o la definizione del diritto; un compito fenomenologico, svolto dalla sociologia del diritto, e consistente nello studiare il diritto come fenomeno empirico; infine, e soprattutto, un compito deontologico, da lui ritenuto tipico della filosofia del diritto in senso stretto, e consistente nel «ricercare e vagliare la giustizia, ossia il diritto quale dovrebbe essere» (Lezioni di filosofia del diritto, 1930, 1965, pp. 192-94). Nella filosofia del diritto in senso ampio di Del Vecchio, insomma, c’era spazio per tutti: per i teorici generali giuspositivisti, per i sociologi positivisti, e anche per i filosofi giusnaturalisti come lui. Per lo stesso Del Vecchio, invece, ci fu posto nell’università fascista solo sinché le leggi razziali (1938-39) lo esclusero dall’insegnamento per le sue origini ebraiche.
La terza conseguenza della svolta neokantiana di Del Vecchio fu il passaggio dal neokantismo al neoidealismo: ossia da una filosofia che, sin dal suo ispiratore, aveva guardato con interesse alla scienza moderna, e che in Germania aveva alimentato una profonda riflessione metodologica sulle differenze fra scienze naturali e scienze sociali, a una filosofia intollerante verso le scienze e lo spirito critico. Saranno questi, come vedremo nel paragrafo La filosofia del diritto in senso stretto, i caratteri tanto del neoidealismo liberale di Croce quanto del neoidealismo autoritario di Gentile: filosofie che eserciteranno una sorta di diarchia sulla cultura filosofica, e anche filosofico-giuridica, fra le due guerre. Per neoidealisti come Gentile – anch’essi, come i positivisti, terribles simplificateurs – l’idea kantiana che la realtà non fosse conoscibile senza i concetti venne sostituita da un’altra idea, tipicamente hegeliana: la stessa realtà, sia naturale sia sociale, doveva considerarsi il prodotto del pensiero.
Se dalla filosofia del diritto si passa alla teoria generale del diritto, si percepisce subito l’estraneità fra le due discipline; i teorici del diritto si ritengono giuristi, anzi scienziati del diritto, e considerano estranea ai loro interessi qualsiasi considerazione filosofica, anche se formulata in termini di filosofia del diritto. Sin dal Medioevo, se non dal diritto romano, in effetti, la dottrina giuridica era sempre stata autonoma; dopo la codificazione ottocentesca, poi, che pure l’aveva privata del ruolo di fonte del diritto, la dottrina continentale aveva cercato nel modello tedesco della Rechtswissenschaft una nuova legittimazione scientifica. Il diritto era sì prodotto esclusivo dal legislatore; ma la conoscenza del diritto restava pur sempre monopolio della scienza giuridica: unica disciplina legittimata a ricostruire il diritto positivo, formulandone il sistema.
La dottrina giuridica italiana della seconda metà dell’Ottocento aveva calcato le orme della pandettistica tedesca anche nella rivendicazione della propria autonomia dalla politica, dalla filosofia e dalle scienze sociali (cfr. Ferrajoli 1999). Dalla dottrina privatistica, autentico mainstream della cultura giuridica, si era da tempo emancipata la dottrina penalistica; dopo le unificazioni tedesca e italiana venne sviluppandosi un’imponente dottrina pubblicistica: differenziandosi dalla pandettistica nell’oggetto – diritto pubblico e non più privato – mentre nel metodo i nuovi cultori 'scientifici' del diritto pubblico (soprattutto costituzionale e amministrativo, ma poi anche internazionale ed ecclesiastico) rivendicavano, contro l’eclettismo della giuspubblicistica ottocentesca, l’adozione del metodo sistematico dei privatisti, assunto a metodo giuridico per antonomasia.
La dottrina del caposcuola dei giuspubblicisti, Vittorio Emanuele Orlando (1860-1952), si svolse sul terreno del diritto costituzionale e amministrativo: ai quali dedicò manuali, come i Principi di diritto costituzionale (1889) e i Principi di diritto amministrativo (1890), sui quali si formò la nuova generazione di studiosi. Autorevole esponente dell’establishment liberale, senatore del Regno e presidente del Consiglio durante le trattative di Versailles (1919) e la conseguente 'vittoria mutilitata', Orlando si limitò a elaborare una dottrina generale del diritto pubblico, basata sulla personalità dello Stato e sul governo di gabinetto, soggetto a una duplice responsabilità politica, verso il re e verso le Camere. A formulare una teoria generale del diritto – tanto generale, anzi da sconcertare i giuristi italiani dell’epoca, e in qualche misura lo stesso Orlando – fu invece il suo principale allievo, Romano (1875-1947): il maggiore teorico generale italiano della prima metà del Novecento.
Siciliano come Orlando e come Gentile, autore di manuali e presidente, dal 1928 al 1944, del Consiglio di Stato, Romano incarna uno dei due atteggiamenti principali dei giuristi italiani nei confronti del fascismo. Accanto agli 'intruppati' – fiancheggiatori del regime, per opportunismo o per convinzione – vi furono, e furono la maggioranza, gli 'impassibili' (Grossi 2000, pp. 138-39): quanti, cioè, continuarono a fare i giuristi, trincerandosi dietro l’autonomia della dottrina e considerando il fascismo quasi con condiscendenza, ma cercando di preservare alcuni dei capisaldi della civiltà giuridica liberale (Le dottrine giuridiche di oggi, in partic. pp. 245-56). Rispetto ad altri, del resto, Romano aveva tematizzato sin dal 1909, in una prolusione tenuta a Pisa, la crisi dello Stato liberale: crisi prodotta da movimenti di massa, come partiti e sindacati, ai quali il liberalismo ottocentesco aveva negato riconoscimento giuridico (S. Romano, Lo Stato moderno e la sua crisi, 1909).
Come farà Maurice Hauriou (1856-1929) o, prima ancora, Otto von Gierke (1841-1921), Romano cerca la soluzione del problema nel concetto di istituzione; il diritto, per lui, non si riduce a norme, come per i teorici generale precedenti, ma è istituzione o ordinamento giuridico: come la chiama in L’ordinamento giuridico (1918). Per ‘istituzione’ o ‘ordinamento giuridico’, in effetti, Romano intende qualsiasi organizzazione sociale capace di darsi norme e di farle rispettare; sono istituzione, in questo senso, lo Stato o un sindacato, il Comune o un partito politico, e persino la coda dinanzi a uno sportello o un’associazione illegale come la mafia. Per inciso, tesi come queste, che lasciarono perplessi anche i giuristi, non devono far pensare a condiscendenze del siciliano Romano verso la mafia: benché occorra ricordare che la percezione sia del fascismo sia della mafia sia cambiata solo in seguito, dopo l’alleanza con il nazismo e le stragi mafiose.
Nella prima parte di L’ordinamento giuridico, Romano critica la definizione del diritto come norma dei teorici generali precedenti: definizione che rifletterebbe le origini privatistiche dei concetti teorico-generali, costruiti dai civilisti in vista dell’applicazione di norme da parte del giudice. Il punto di vista normativistico, peraltro, sarebbe inadeguato al diritto pubblico in genere, e agli ordinamenti giuridici internazionale, costituzionale ed ecclesiastico in specie: nei quali il ruolo del giudice, allora, era minore o proprio inesistente. Per Romano, che ribalta qui un luogo comune allora criticato anche da altri teorici generali di formazione pubblicistica, come Hans Kelsen (1881-1973), il diritto privato è «sospeso al diritto pubblico, che ne costituisce la radice e il tronco»: «gli elementi del concetto del diritto, in genere, debbono desumersi più dal diritto pubblico che dal diritto privato» (L'ordinamento giuridico, 1918, 1977, p. 9).
Si dovrebbe allora cercare una definizione del diritto diversa da quella normativista: definizione formulata in termini, non più di norma ma di istituzione o di ordinamento giuridico. Per Romano l’ordinamento si oppone al sistema giuridico: il primo è istituzione (norme più sanzioni più procedure più poteri), il secondo mero insieme di norme. ‘Diritto’ per lui, può designare o «un ordinamento nella sua completezza ed unità, cioè un’istituzione», oppure «un precetto o un complesso di precetti (siano norme o disposizioni particolari) variamente raggruppati e sistemati». Nel secondo caso, siamo di fronte al sistema giuridico, concepito come la «somma aritmetica» di «un insieme o complesso di norme»; nel primo caso, l’ordinamento, si avrebbe invece non
una somma di varie parti […] ma un’unità a sé – e un’unità, si noti bene, non artificiale o ottenuta con un procedimento di astrazione, ma concreta ed effettiva (pp. 27 e 11-12).
Romano formula il proprio istituzionalismo nei termini organicisti comuni a tutta la cultura fra Otto e Novecento; ‘ordinamento giuridico’ indicherebbe
la complessa e varia organizzazione dello Stato […], i numerosi meccanismi o ingranaggi, i collegamenti di autorità e di forza, che producono, modificano, applicano, garantiscono le norme giuridiche, ma non si identificano con esse [...] un’entità che si muove in parte secondo le norme, ma soprattutto muove, quasi come pedine in uno scacchiere, le norme medesime, che così rappresentano piuttosto l’oggetto e anche il mezzo della sua attività, che non un elemento della sua struttura (pp. 15-16).
Per norma, peraltro, Romano intende le sole regole di condotta, che impongono obblighi, non anche le norme di competenza, che conferiscono poteri (cfr. § 3.5.2); saranno solo i teorici generali successivi a notare che poteri, sanzioni e procedure sono anch’essi fenomeni normativi.
Nella seconda parte dell’Ordinamento giuridico, Romano afferma che il concetto di diritto precede quello di Stato, e che lo Stato stesso «non è altro che una specie del genere 'diritto'»: rompendo con lo statalismo di Orlando. L’ordinamento giuridico statale, cioè viene considerato uno fra i tanti: è questa la famosa teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici, sufficiente a incrinare il dogma giuspubblicistico dell’unità del diritto statale, e destinato a essere accolto, piuttosto che dai giuristi, da un sostenitore del corporativismo fascista come Sergio Panunzio (1886-1944). Gli esempi di ordinamenti giuridici extrastatali sono gli stessi annunciati nella prima parte del libro, ossia comunità internazionale, Chiesa, e tutti i gruppi sociali dotati di una qualche organizzazione interna; lo stesso Stato viene concepito come «istituzione di istituzioni», per il fatto di ricomprendere enti territoriali come comuni e province (pp. 112, 122 e segg. e 38).
Per usare un’espressione più recente, si tratta di una sorta di manifesto del pluralismo giuridico: teoria del diritto destinata a diventare dominante fra i giuristi solo alla fine del Novecento, a seguito dello sviluppo del diritto internazionale e dell’Unione europea. Allora, la teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici poteva scandalizzare, imparzialmente, i superstiti nostalgici dello Stato liberale e gli assertori dell’autoritarismo fascista; in realtà, essa avviava a soluzione quel problema del riconoscimento dei gruppi intermedi che Romano si era posto sin dalla prolusione pisana: lo stesso problema che lo Stato fascista credette di risolvere con l’identificazione di Stato e partito, e con un ordinamento corporativo che associava datori di lavoro e lavoratori ma permetteva di stipulare contratti collettivi. Teoria davvero generale, peraltro, proprio perché passibile di usi diversi e anche opposti: l’uso fascista come l’uso pluralista di oggi.
I rapporti con il fascismo divennero un problema, per Romano, solo dopo la Liberazione che gli comportò revoca delle cariche e noie giudiziarie concluse solo dalla morte. A questi problemi Romano reagì alla sua maniera: che era poi la maniera dei giuristi impassibili, forti dell’autonomia e dell’apoliticità della dottrina. Per prima cosa, pubblicò dei Principi di diritto costituzionale generale (1945): come se il diritto costituzionale italiano non avesse dovuto essere rifatto ex novo, di lì a poco, in base alla costituzione repubblicana. Poi, ripubblicò immutato L’ordinamento giuridico (1946): limitandosi ad aggiornare la bibliografia. Infine, scrisse un nuovo libro teorico-generale, i Frammenti di un dizionario giuridico (1947): quasi a riaffermare il carattere né politico né filosofico né sociologico né, meno che mai, morale, della propria teoria del diritto.
L’opera teorica di Romano, in effetti, difficilmente può essere sopravvalutata; mentre su anti-normativismo, anti-individualismo e anti-liberalismo esprimeva luoghi comuni dell’epoca, poi superati, per altri aspetti – teoria del sistema, pluralismo giuridico, una forma di evoluzionismo implicita nel suo anti-volontarismo – essa può considerarsi più attuale oggi di quando fu elaborata. Eppure, a parte Carl Schmitt, che riverniciò d’istituzionalismo la sua fugace conversione al nazismo, e nonostante qualche traduzione, sono pochissimi i teorici generali europei, per non parlare degli angloamericani, che conoscono l’opera di Romano. Non la citano mai neppure i teorici neoistituzionalisti: che hanno corretto l’originario anti-normativismo introducendo al posto di poteri, sanzioni e procedure le norme che conferiscono poteri teorizzate da Herbert Hart.
Resta da considerare la filosofia del diritto in senso stretto: ossia l’applicazione al diritto di una qualche filosofia generale. Si è già accennato come – in ritardo rispetto al resto del pensiero continentale, ma in anticipo sul fascismo – la filosofia del diritto italiana avesse abbandonato il positivismo filosofico per il neokantismo: filosofia che se ne distingueva per la maggiore attenzione ai concetti, ossia, potrebbe dirsi oggi, per l’aspetto anche analitico, e non solo empirico delle sue teorie. Come pure si è accennato, peraltro, già nel primo decennio del secolo il neokantismo era stato 'superato' – come avrebbe potuto dire l’inventore stesso della filosofia del diritto in senso stretto, Hegel – dall’idealismo neohegeliano: sempre in termini odierni, un’accentuazione unilaterale ed esclusiva dell’elemento analitico delle teorie, per cui queste, a rigore, producono la realtà di cui parlano.
Qui di seguito, d’altra parte, ci si guarderà dal ripetere le solite deplorazioni (cfr. Ferrajoli 1999; Barberis 2011) sulla reazione neoidealista: che tale può considerarsi, nondimeno, se si confronta il neoidealismo italiano non solo con l’empirismo angloamericano, ma anche con la varietà dei temi della contemporanea filosofia tedesca. Ci si guarderà dal farlo per due ragioni. Intanto, in omaggio al principio di carità interpretativa: che impone di riconsiderare il neoidealismo italiano nei suoi propri termini, ma anche come soluzione di problemi con cui tornerà a confrontarsi, anche dopo, la migliore filosofia del Novecento. Poi, e soprattutto, perché se alimentò il provincialismo italiano e contribuì all’autarchia fascista, con risultati drammaticamente inferiori alle sue ambizioni, il neoidealismo italiano non fu affatto una riflessione provinciale: come potrebbe dirsi, invece, per molta filosofia italiana successiva e anche odierna (cfr. Conclusione).
Non fu certo provinciale la filosofia di Croce (1866-1952): elaborata già prima della Grande guerra, e poi destinata a divenire dominante in quella parte della cultura italiana sotto il fascismo che andò staccandosi da Gentile. La filosofia dello spirito crociana è irriducibile all’idealismo hegeliano e alle sue riformulazioni gentiliane per l’esercizio dell’arte liberale della separazione; benché formuli un pensiero di tipo dialettico – le cui distinzioni, cioè, non sono assolute ma relative – Croce tenne sempre ferma una distinzione fra quattro grandi sfere della cultura che recepiva idee della tradizione kantiana precedente, della contemporanea filosofia dei valori, e anche del pluralismo dei valori successivo (cfr. Matteucci 1978, p. 76). È questa la tanto discussa filosofia dei quattro 'distinti': quattro 'momenti' irriducibili della vita dello Spirito.
C’è, anzitutto, un momento teorico-universale, il cui valore tipico è la Verità: momento che Croce chiama logica, benché non abbia nulla da spartire con la logica formale, ma solo con la logica dialettica hegeliana, valida per pensiero e realtà insieme. C’è, poi, un momento teorico-individuale, il cui valore tipico è la Bellezza: momento che Croce chiama estetica, e che anche nei suoi lavori di critica letteraria rifiuterà coerentemente di ridurre ad altro. C’è, ancora, il momento pratico-universale, il cui valore è il Bene: momento che Croce chiama etica, ma al quale, come vediamo subito, egli ritiene estranei sia il diritto sia la politica. C’è, infine, il momento pratico-individuale, il cui valore è l’Utilità: momento che Croce chiama economia, che riguarda il soddisfacimento dei bisogni, e al quale sarebbero invece riducibili sia la politica sia il diritto.
La politica, per Croce, è distinta dalla morale: tesi nella quale il realismo politico di Niccolò Machiavelli si combina con il rifiuto dello Stato etico hegeliano e gentiliano. Ma – quel che più conta qui – per Croce è irriducibile all’etica anche il diritto: termine che egli, a differenza di Hegel, non usa per tutta la sfera della pratica, ma proprio per il diritto dei giuristi, al quale si era avvicinato quasi esclusivamente nei giovanili studi di giurisprudenza. Per lui, il diritto persegue non il Bene, come l’etica, ma l’Utilità, come l’economia; coerentemente, Croce 'riduce' il concetto del diritto al concetto dell’economia, e la filosofia del diritto alla filosofia dell’economia (Riduzione della filosofia del diritto alla filosofia dell'economia, 1907, 1926, pp. 35 e 41): ciò che produsse, in particolare da parte dei docenti universitari di filosofia del diritto, proteste che oggi potrebbero anche apparire altrettante tempeste in un bicchier d’acqua (De Gennaro 1974).
La verità è che per Croce, filosofo estraneo all’accademia, la filosofia del diritto è sempre rimasta un «filosofico ircocervo»: un ibrido di filosofia e diritto di cui l’università potrebbe tranquillamente fare a meno (B. Croce, Filosofia della pratica. Economica ed etica, 1909, 1915, p. 286). Anche i concetti giuridici, del resto, sono sempre rimasti, per lui, pseudo-concetti, e la dottrina una pseudo-scienza: e sia pure nella buona compagnia di tutte le scienze naturali, verso le quali ha sempre manifestato una granitica incomprensione. Il disprezzo neoidealistico per i concetti e la scienza giuridica – che nei gentiliani si combinerà con il disprezzo per la legalità – produsse peraltro un’influente teoria dell’interpretazione. Dal Settecento era dominante, fra i giuristi liberali, la teoria del sillogismo giudiziale: il giudice non farebbe che dedurre dalla legge (premessa maggiore) e dalla ricostruzione del fatto (premessa minore) il dispositivo della sentenza (conclusione).
Questa teoria, criticata da tutti i movimenti antiformalisti del Novecento, viene attaccata anche da Croce: per il quale la dialettica, se non opera fra logica, estetica, etica ed economia, può però ben farlo all’interno di ognuno dei quattro 'distinti'. All’interno del momento economico, così, legge e sentenza entrerebbero in rapporto dialettico; la legge, «atto volitivo che ha per contenuto una serie o classe di azioni» (Filosofia della pratica. Economica ed etica, 1909, 1915, p. 323), ridotta a illusoria volontà in astratto lascia il posto alla volontà in concreto del giudice: sarebbe quest’ultimo a volere in concreto la condanna dell’omicida, non certo il legislatore che ha vietato l’omicidio. Questa rivalutazione della discrezionalità del giudice, anch’essa ripresa dai gentiliani, potrebbe anch’essa apparire cervellotica: se non fosse il modo neoidealista di formulare il grande problema giuridico novecentesco, l’interpretazione.
Croce non partecipò, peraltro, alla riflessione giuridica innescata, sotto il fascismo, da queste tesi, su cui torneremo fra un attimo; pur non rinnegando mai la filosofia dei distinti, preferì dedicarsi a opere storiche. Verso il fascismo aveva nutrito le stesse illusioni di buona parte dell’establishment liberale d’anteguerra; erano stati in particolare grandi intellettuali meridionali come Orlando, e Romano, e Gentile – i quali si dicevano liberali soprattutto in omaggio alle radici europee, risorgimentali e laiche della cultura postunitaria, ma che restarono sempre borbonicamente statalisti – a sdoganare il fascismo come possibile antidoto alla minaccia socialista, destinato a rientrare nell’alveo dello Stato nazionale: con il tipico 'realismo' di chi crede di servirsi della barbarie, e finisce per servirla.
Il delitto Matteotti (1924) accelerò il distacco di Croce dal regime, con cui continuò invece a collaborare il suo allievo Gentile (1875-1944): l’intestatario della grande riforma della scuola (1923) preparata dallo stesso Croce. Gentile elaborò un’interpretazione differente, filologicamente più corretta ma profondamente illiberale, della dialettica hegeliana. Se può considerarsi liberale la filosofia crociana dei 'distinti' – in quanto rifiuta la dialettica, per es., di politica ed etica, o di diritto e morale – può infatti considerarsi illiberale l’attualismo gentiliano: filosofia generale che riduceva lo Spirito a Spirito in atto e che, attribuendo allo Stato un carattere etico, ne faceva una sorta di totalità religiosa. Nel sistema di Gentile non mancava un sottosistema etico o pratico, oggetto della sua Filosofia del diritto (1916): con il solito equivoco nell’uso di ‘diritto’, che poteva indicare il diritto dei giuristi, come in Croce, oppure l’intera sfera della pratica come in Hegel e nello stesso Gentile.
Croce si era limitato a considerare irreale la volontà del legislatore, rivolta a una classe di azioni, e reale la volontà del giudice, relativa a un’azione concreta. Gentile va più in là; per lui è irreale tutto ciò che non sia Spirito in atto, compreso il mondo esterno; la legge diviene «volere [già] voluto», consumatosi nell’atto stesso di volere, ancora più irreale e più incapace di vincolare il giudice: vanamente chiamato ad applicare la legge, e dunque a volere di nuovo (I fondamenti della filosofia del diritto, 1916, 1937, pp. 89 e segg.). Né il liberale Croce né il fascista Gentile, ovviamente, si sognavano di aderire alle tesi più o meno eversive dei contemporanei movimenti antiformalisti, che facevano del giudice il vero creatore di tutto il diritto; ma c’era davvero in entrambi, e più esplicitamente nei loro allievi, una problematizzazione dell’interpretazione: il grande tema dell’ermeneutica italo-tedesca contemporanea, e dell’odierna teoria dell’interpretazione.
Lo stesso atteggiamento di filosofica superiorità che aveva portato Gentile a ignorare le illegalità del regime porterà i suoi allievi a esaltare la funzione interpretativa del giudice: il giudice fascista, anzitutto, chiamato ad applicare i codici degli anni Trenta. Eppure, questo antiformalismo di Stato non può considerarsi una bizzarria speculativa, per due ragioni. Intanto, indirizzi del tutto simili andava prendendo la riflessione filosofico-giuridica tedesca sotto il nazismo: con il neohegelismo schierato a supporto del regime, ma anche con la giurisprudenza degli interessi che invitava il giudice nazista a interpretare come avrebbe fatto il legislatore nazista se avesse considerato la questione. Poi, e soprattutto, l’antiformalismo interpretativo, trionfava negli stessi anni pure nell’Occidente liberale: in Italia e Germania, evidentemente, si esprimeva nell’unico linguaggio filosofico a disposizione.
Negli anni Trenta, in effetti, filosofi del diritto crociani e gentiliani, ma anche giuristi positivi, cominciarono a discutere di concetti giuridici, di logica del giurista e anche di scienza giuridica: discussioni metodologiche che in Germania si erano fatte cinquant’anni prima, ma che preludono alla crisi del neoidealismo, e a quel ritorno alla teoria generale che si avrà dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Così il giurista Tullio Ascarelli e il filosofo Guido Calogero (1904-1986) ricavano entrambi da premesse neoidealiste tesi antiformaliste sull’interpretazione; lo stesso Calogero e il giurista Francesco Carnelutti (1879-1965) assimilano il metodo della dottrina, rispettivamente, ai metodi delle scienze storiche e delle scienze naturali: guardandosi bene, entrambi, dal rimettere in discussione – come andava facendo il contemporaneo giusrealismo statunitense – il modo tradizionale di ragionare dei giuristi.
Mentre la scena pubblica era ormai occupata da filosofi gentiliani come Ugo Spirito (1896-1979) e Giuseppe Maggiore (1882-1954), che cercavano di radicalizzare ulteriormente in senso fascista l’attualismo del maestro, alle più appartate discussioni metodologiche cominciavano a partecipare Giuseppe Capograssi e Norberto Bobbio: i due futuri capiscuola dell’area rispettivamente giusnaturalista e giuspositivista della filosofia del diritto italiana. Strano giusnaturalismo, peraltro, quello di Capograssi; come per Giambattista Vico e per lo stesso Hegel, infatti, neppure per lui esiste un diritto naturale esterno al diritto positivo, ma solo una sorta di morale interna a quest’ultimo. Anche la sua idea di un diritto naturale vigente, che nel dopoguerra ispirerà il neogiusnaturalismo cattolico, non ha nulla a che fare con il giusrazionalismo sei-settecentesco, di matrice protestante o laica: piuttosto, è ricavata dalla concreta esperienza giuridica – questa la formula magica del filosofo – piuttosto che dalle astrazioni dei filosofi.
Nel corso degli anni Trenta, Capograssi è soprattutto l’autore di Il problema della scienza giuridica (1937): forse il suo libro più sistematico, manifestazione di un autentico interesse per il diritto e il ragionamento dei giuristi, interesse che passerà poi alla scuola napoletano-padovana da lui fondata nel dopoguerra. Con atto di consapevole rottura nei confronti dello statuto disciplinare della filosofia del diritto – fondato sin da Kant e da Hegel sulla distinzione fra quid ius, o definizione del diritto, e quid iuris, studio del diritto positivo, riservati rispettivamente ai filosofi e ai giuristi – Capograssi recupera l’idea di Vico secondo cui si conosce solo ciò che si è fatto, e si chiede se non sia proprio ai giuristi, i quali fanno l’esperienza giuridica, che debba rivolgersi la vecchia e disperante interrogazione circa la definizione del diritto (Il problema della scienza giuridica, 1937, 1962, pp. 14-15).
Neppure nel Bobbio fra le due guerre – ancora attratto dall’ultimo grido filosofico di allora, la fenomenologia, e distante dall’opzione analitica che caratterizzerà la sua produzione postbellica – è facile vedere il teorico generale che capitanerà il giuspositivismo italiano. Certo, egli coltiva già la filosofia del diritto dei giuristi della sua scuola nord-occidentale postbellica in L’analogia nella logica del diritto (1938): testo rappresentativo, pur nella sua limpidezza, di genericità e confusioni tipiche della discussione fra le due guerre. Per ‘logica’, infatti, Bobbio non intende ancora la logica formale, ma la venerabile 'logica giuridica', il modo di ragionare dei giuristi; l’analogia stessa viene considerata né ragionamento puramente logico né atto creativo, bensì interpretazione: nel senso generico di ‘interpretazione’, allora prevalente, che confonde l’attribuzione di significato a testi con l’argomentazione o giustificazione di questa.
Se si cerca di riannodare i fili dipanati nelle tre sezioni centrali di questo lavoro, si deve concludere come segue. L’eclettica filosofia del diritto in senso ampio di Del Vecchio lascia la porta aperta a tutti i possibili sviluppi futuri; la teoria generale di Romano forgia con la teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici uno strumento indispensabile allo studio delle trasformazioni del diritto del Novecento; la filosofia del diritto in senso stretto di Croce e Gentile, invece, reindirizza la riflessione sul diritto fra le due guerre sulla vecchia strada delle interrogazioni ottocentesche sui concetti e sulla scienza giuridica: strada dalla quale la filosofia del diritto postbellica uscirà in modi diversi – il giusnaturalismo cattolico con il tormentoso dibattito sulla crisi del diritto, il giuspositivismo laico coltivando una teoria generale kelseniana e analitica – ma in entrambi i casi rompendo con il neoidealismo.
Sacrosanta l’osservazione di metodo che la cultura dell’Italia fascista dev’essere guardata senza i paraocchi del giudizio morale e politico sul fascismo (Grossi 2000, p. 184): ma, anche fatta la tara dell’antifascismo, la migliore filosofia del diritto fra le due guerre è la prosecuzione di una riflessione iniziata in epoca liberale (Bobbio 1990, p. 166). Né può portare a rivalutarla l’attitudine consolatoria di certi recuperi recenti della tradizione filosofica italiana (cfr. Esposito 2010), recuperi che vedono la sua originalità proprio nella marginalità rispetto alle grandi correnti del pensiero mondiale moderno. C’è però almeno un elemento distintivo della filosofia del diritto italiana, eredità del neoidealismo fra le due guerre, che resta davvero essenziale per intendere la complessità del mondo globalizzato: lo storicismo, la consapevolezza delle determinazioni storiche e culturali del pensiero.
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