La filosofia del diritto nel secondo Novecento
La fine della Seconda guerra mondiale e la caduta del fascismo segnano una cesura netta tra la prima e la seconda metà del Novecento, anche dal punto di vista culturale. L’idealismo, accusato, tra l’altro, di essere stato la filosofia del fascismo, divenne oggetto di critiche sempre più radicali. La reazione assunse forme diverse: l’idealismo stesso, come era avvenuto a quello hegeliano, si scisse in due indirizzi: il marxismo, che in Italia, peraltro, nel campo specifico della filosofia del diritto non diede frutti di rilievo, e lo spiritualismo.
A quest’ultimo è riconducibile il pensiero di Felice Battaglia (1902-1977): egli aderisce inizialmente alle posizioni speculative del neoidealismo, soprattutto nella forma dell’attualismo gentiliano, ma ben presto se ne distacca, sostenendo che solo la vita di relazione, sorretta dalle norme giuridiche, è storica e concreta. Ne segue che il diritto si pone come «momento originario dello spirito» e come tale irrisolvibile in ogni altra forma spirituale: esso conferisce alle articolazioni dello spirito la vera concretezza, implicando l’alterità, quale relazione con un altro come noi; la socialità, quale rapporto bilaterale irriducibile di soggetti; la persona, quale valore etico assoluto. La persona è per Battaglia, che fa proprio il pensiero di Antonio Rosmini con coloriture esistenzialiste, il centro metafisico e assoluto del diritto: è nel valore della persona, in quanto immagine divina, che il diritto si fonda e da esso trae a sua volta valore. La reale espressione del valore della persona è rappresentata dai diritti umani fondamentali: essi condensano il vero significato della persona e, poiché riguardano ogni essere umano, devono trovare riconoscimento e garanzia universale: di qui il processo di internazionalizzazione dei diritti umani, unico strumento, secondo Battaglia, per assicurare il rispetto della persona. Egli scrive:
I diritti dell’uomo divengono efficienti quando, a parte l’assetto legale interno, trovano una pacifica organizzazione internazionale a loro presidio. Non basta enunciarli e prevedere loro nel sistema del diritto interno, occorre che trovino organi e strumenti di tutela in una concordata costituzione di tutti gli Stati (Le carte dei diritti, 19462, pp. XXX-XXXI).
La svolta internazionalistica è dettata in Battaglia non solo da ragioni filosofiche, ma anche da ragioni di ordine storico, legate all’esperienza del fascismo e della catastrofe in cui l’Italia era piombata con la Seconda guerra mondiale, quelle stesse ragioni che portarono al fenomeno della rinascita del giusnaturalismo di matrice cattolica e non, rappresentato da autori quali Carlo Antoni (1896-1959), Eugenio Di Carlo (1882-1969), Francesco Olgiati (1886-1962) e, soprattutto, Giorgio Del Vecchio (1878-1970). Quest’ultimo, nella premessa alla nuova serie della «Rivista internazionale di filosofia del diritto», da lui fondata nel 1921, che nel 1947, dopo la parentesi della guerra, riprendeva la pubblicazione, invocava «il ritorno all’idea eterna del diritto naturale». Fin dagli anni Venti, peraltro, Del Vecchio nella prospettiva ideale di uno «Stato di giustizia» aveva individuato come ragione prima di esso la tutela dei diritti naturali dell’individuo (o meglio, della persona) e aveva respinto ogni teoria che ponga lo Stato al di sopra o al di fuori del limite giuridico costituito dalla sua intima ragione d’essere, l’attuazione della giustizia, in quanto solo da questa sua missione esso trae la propria autorità. Anzi, di uno Stato che agisce in contrasto con la giustizia Del Vecchio era giunto a parlare come di «Stato delinquente». La giustizia è da lui affermata perciò «valida ed efficace anche contro un sistema giuridico positivamente vigente», quando questo contrasti irreparabilmente con le esigenze elementari della giustizia che sono le ragioni della sua validità: è legittima allora «la rivendicazione del diritto naturale contro il positivo che lo rinneghi» (La giustizia, 19514, p. 168).
L’idea del diritto naturale, al quale il rinato giusnaturalismo anche italiano guarda, non è più quella sostenuta dal giusnaturalismo tradizionale, richiamantesi a un codice eterno e immutabile di norme perfette sottratte al costante mutamento della storia, è piuttosto una nozione di origine sociologica, un diritto naturale «a contenuto variabile», come è stato definito, che ha la sua fonte nella natura della società che è storia. Giusnaturalismo e storicismo vengono così a incontrarsi: il primo, rinunciando alla pretesa di formulare un sistema di norme superiore alla storia, il secondo, riconoscendo l’esigenza di non ridurre tutti i valori a ciò che si è storicamente realizzato. Ciò che del giusnaturalismo tradizionale il neogiusnaturalismo novecentesco ha conservato è, invece, la negazione della riduzione del diritto alle sole norme poste dalla volontà del legislatore, negazione che viene compiuta sia per la necessità di adattare il diritto alle sempre più rapide trasformazioni della società, cui la legislazione positiva non riesce ad adeguarsi, sia per l’esigenza politica di salvaguardare la libertà degli individui.
Ma vi fu un’altra forma di reazione all’idealismo assai più esplicita e polemica: quella del neoilluminismo, un orientamento di pensiero laico e razionalistico alternativo sia allo spiritualismo cattolico sia al marxismo.
Come ha osservato Norberto Bobbio, uno dei suoi protagonisti, il neoilluminismo è stato, più che una filosofia, un modo di pensare e di atteggiarsi di fronte ai problemi dell’uomo e della sua storia, condiviso da studiosi diversi per formazione (tra i promotori ci sono, infatti, figure come Nicola Abbagnano, che proveniva dall’ esistenzialismo, come Giulio Preti ed Enzo Paci, che provenivano dalla fenomenologia, o come Ludovico Geymonat, che proveniva dal neoempirismo), ma accomunati dall’insofferenza per ogni forma di vaniloquio filosofico e dall’intento di svolgere un lavoro culturale costruttivo, con il quale incidere su di una società, come quella italiana postbellica, bisognosa di profonde trasformazioni.
In gran parte a questi autori si deve l’apertura alle grandi correnti filosofiche e giuridiche internazionali e ciò ha avuto conseguenze rilevanti anche nella filosofia del diritto italiana, caratterizzata nella prima metà del Novecento da una certa estraneità rispetto alle culture straniere, fatta eccezione per quella tedesca.
Per quasi tutta la prima metà del Novecento, il punto di riferimento principale dei giuristi italiani era stato il positivismo giuridico formalistico tedesco.
Il fascismo usò il principio positivistico della supremazia della legge dello Stato come strumento per rafforzare il potere e per limitare le libertà individuali. Scriveva Alfredo Rocco, uno dei giuristi più influenti del periodo fascista, anche nella sua qualità di ministro della giustizia:
Per il fascismo il problema preminente è quello del diritto dello Stato e del dovere dell’individuo e delle classi. I diritti dell’individuo non sono che riflesso dei diritti dello Stato [....] come tutti i diritti individuali, anche la libertà è una concessione dello Stato (La dottrina del fascismo e il suo posto nella storia del pensiero politico, in Id., Scritti e discorsi politici, 3° vol., 1938, p. 1103).
Quindi, anche se sarebbe erroneo giungere alla conclusione che il positivismo giuridico sia stato la teoria giuridica del fascismo italiano, certo è che la riduzione giuspositivistica di tutto il diritto a legge dello Stato servì al fascismo per realizzare i suoi fini.
Poche le voci dissonanti: tra queste, quella di Santi Romano, di Tullio Ascarelli e di Max Ascoli (1898-1978). Romano sviluppa una teoria antiformalistica e antinormativistica incentrata sul concetto di istituzione, concetto che, nonostante alcuni limiti, servì a mettere in discussione il dogma della statualità del diritto e nell’affermare il principio della pluralità degli ordinamenti giuridici che, come dice lo stesso Romano, è indice della crisi dello stato moderno, che implica per l’appunto la tendenza dei gruppi sociali a costituirsi ciascuno una cerchia giuridica indipendente. Ascarelli fu tra i primi a prendere posizione contro il concettualismo, affermando l’esigenza di studiare la realtà giuridica effettiva, mettendo in rilievo il valore strumentale del diritto rispetto ai fini economici della società e riconoscendo la funzione creativa dell’interpretazione. Tema quest’ultimo approfondito sulla stessa linea da Ascoli che, richiamando l’importanza delle correnti dell’antiformalismo europeo, sostiene che l’interpretazione «è creazione in ogni cosa» e che «la norma emanata sotto veste di interpretazione è la sola che abbia una qualche concretezza e che, tra quanti hanno funzione nel mondo del diritto, solo l’interprete può dirsi legislatore» (M. Ascoli, La interpretazione delle leggi. Saggio di filosofia del diritto, 1928, p. 52).
Nonostante le critiche dei giusnaturalisti e degli antiformalisti, il positivismo giuridico – differentemente dall’idealismo – sopravvisse al fascismo, spogliandosi però dello statalismo di fonte tedesca e aprendosi alla raffinata revisione di Hans Kelsen.
Anche se il pensiero di Kelsen divenne influente nel dibattito filosofico-giuridico italiano solo negli anni Cinquanta, quando Bobbio ne divenne interprete e divulgatore, nei decenni precedenti alcuni suoi scritti avevano già cominciato a circolare grazie soprattutto a Renato Treves.
Renato Treves (1907-1992), allievo a Torino di Gioele Solari, si interessò nei suoi primi studi del neokantismo della scuola di Marburgo che, come noto, influenzò profondamente Kelsen. Treves incontrò Kelsen in Germania nel 1932, durante un «memorabile» viaggio di studi, voluto dal suo maestro, e allacciò con lui un rapporto che doveva condurlo a essere nel 1934 il traduttore italiano della sua Dottrina pura.
Dal puro formalismo kelseniano Treves fu sempre distante, avendo fatto propria una concezione del diritto come complesso fenomeno socioculturale. Egli ritiene che il diritto sia irriducibile sia al mondo dei fenomeni naturali sia a quello dei puri valori ideali e che appartenga alla sfera della cultura, ossia alla sfera della vita e delle attività umane, nella quale i valori divengono operanti e i fenomeni naturali assumono significato. Queste premesse lo portarono a fondare in Italia la sociologia del diritto, concepita come filosofia sociale, in contrapposizione alla concezione del positivismo filosofico che la riduceva a scienza naturalistica e risolveva in essa la filosofia del diritto. La sociologia del diritto per Treves non può limitarsi a descrivere l’esistente, deve anche formulare proposte per migliorare la società, proposte orientate verso valori quali quelli della libertà e del socialismo, intesi come valori culturali.
A partire dagli anni Cinquanta in Italia, come si è accennato, il nome di Kelsen, in stretto connubio con la filosofia analitica, è strettamente legato a quello di Bobbio, dall’insegnamento del quale è nata la scuola analitica nord-occidentale di filosofia e teoria generale del diritto: ne hanno fatto parte allievi diretti di Bobbio – come Uberto Scarpelli, Giacomo Gavazzi, Amedeo Giovanni Conte, Giorgio Lazzaro, Mario Losano – o allievi degli allievi – come Mario Jori e Letizia Gianformaggio –, che hanno condiviso con il maestro, per usare le parole di Scarpelli, pazienza per un lavoro condotto punto per punto e passo per passo, amore per la chiarezza e per il rigore, cura della forma linguistica, gusto per un’esposizione semplice e possibilmente vivace (Filosofia e diritto, in La cultura filosofica italiana dal 1945 al 1980, 1982, p. 188).
Il positivismo giuridico, sviluppatosi in Italia in modo sostanzialmente unitario tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento attraverso il fecondo incontro tra la filosofia analitica e la teoria pura di Kelsen, entra in crisi sul finire degli anni Sessanta. Data simbolica di inizio di tale crisi il 1966, anno della tavola rotonda di Pavia, organizzata da Bruno Leoni per discutere due testi pubblicati l’anno precedente: uno di Bobbio, Giusnaturalismo e positivismo giuridico, e uno di Scarpelli, Cos’è il positivismo giuridico, opere considerate la sintesi di quindici anni di alleanza tra kelsenismo e filosofia analitica, ma che già rivelavano i primi segni della crisi.
Nella prima Bobbio, dopo aver distinto tre aspetti del positivismo giuridico, come ideologia, come teoria del diritto e come modo di accostarsi allo studio del diritto, dichiarava la sua adesione al giuspositivismo solo in quanto modo avalutativo e scientifico di accostarsi allo studio del diritto, ma nel suo intervento alla tavola rotonda di Pavia denuncia la crisi del positivismo giuridico anche sotto questo profilo e giunge a capovolgere le tesi da lui stesso sostenute negli anni Cinquanta, quando riteneva che la metagiurisprudenza kelseniana fosse descrittiva, sostenendo che il modello kelseniano in realtà propone anch’esso una giurisprudenza prescrittiva, in quanto detta i comportamenti da tenere e, in quanto prescrive, non è affatto scienza.
Scarpelli, invece, sposta il modello giuspositivistico dall’universo della scienza all’universo delle attività politiche: egli infatti sostiene che il giuspositivismo si risolve nell’accettazione da parte del giurista del diritto positivo, inteso come sistema di norme valide – norme di comportamento e norme di struttura –, poste dalla volontà di esseri umani, costituito anche se non esclusivamente di norme generali e astratte, coerente o riconducibile a coerenza, completo perchè esclusivo, coercitivo. In altre parole, il positivismo giuridico comporta, secondo Scarpelli, una presa di posizione a favore di una particolare tecnica di formazione di espressione della volontà politica, propria di uno stato moderno, che vuole realizzare il controllo sociale mediante una produzione regolata di norme generali ed astratte: ciò comporta la determinazione di un criterio di validità per il diritto, perchè a tale determinazione si accompagna una legittimazione del diritto positivo.
L’innesto della filosofia analitica sul tronco del positivismo giuridico kelseniano, che in un primo momento in Italia aveva dato nuova forza alla teoria di Kelsen, nel tempo, per dirla con l’efficace immagine di Enrico Pattaro, si rivelò una sorta di cavallo di Troia nella cittadella kelseniana, mettendo in luce che nel positivismo è insita una scelta di valore. Ma, una volta appurato che la teoria del diritto positivista comporta una scelta ideologica, ne consegue l’incompatibilità con un approccio avalutativo quale quello della filosofia analitica.
Questa presa di coscienza spinse i teorici del diritto italiani ad allontanarsi progressivamente dall’originario positivismo giuridico e ad intraprendere una di queste due strade: o, accettando le premesse epistemologiche della filosofia analitica, accedere ad una teoria del diritto come fatto o, continuando a professare il positivismo giuridico, riconoscere che esso non è conoscenza oggettiva del diritto, cioè scienza, ma politica.
La prima strada è quella imboccata da Bobbio, che alla fine degli anni Sessanta si avvicina a una teoria del diritto di tipo funzionale, una teoria in senso lato sociologica, conciliabile col modello neoempirista delle scienze descrittive ed esplicative. Come egli stesso dichiara nell’introduzione a una raccolta di saggi significativamente intitolata Dalla struttura alla funzione (1977), la teoria formale del diritto, tutta orientata all’analisi della struttura degli ordinamenti giuridici ha trascurato lo studio della loro funzione. Ma il diritto non è un sistema chiuso e indipendente: esso è, rispetto al sistema sociale considerato nel suo complesso, un sottosistema che sta accanto, e in parte si sovrappone, e in parte si contrappone, ad altri sottosistemi (economico, culturale, politico) e ciò che lo distingue dagli altri è appunto la funzione. Di qui la necessità di una «teoria funzionalistica del diritto» che si ponga non in contrapposizione, ma in aggiunta alla teoria strutturale.
La seconda strada, invece, è quella intrapresa da Scarpelli, che, negli scritti degli anni Ottanta, in particolare Il positivismo giuridico rivisitato (1989), si dichiara un credente nella legge e difensore del positivismo alquanto pentito: egli sostiene la necessità di individuare principi capaci di guidare la legislazione e auspica la creazione di un apparato giudiziario in grado di assicurare sulla base di tali principi, che si identificano con i principi costituzionali, un’attività di interpretazione del diritto che svolga una funzione unificante simile a quella svolta in passato dai codici e dalla legge, che non sembra più offrire quelle garanzie di razionalità e di tutela dei diritti fondamentali che ne avevano fatto lo strumento principale del moderno Stato di diritto.
Negli stessi anni Scarpelli indirizzò i suoi studi soprattutto a problemi di etica e metaetica giuridica (l’opera più rappresentativa di questa fase è L’etica senza verità, 1982). Si tratta di un titolo emblematico che riassume tutto il senso della filosofia dell’autore, «il tema portante, il filo conduttore, la spina e la premessa» di tutte le sue ricerche sull’etica, come rileva l’autore stesso nella prefazione, ricerche sempre ispirate al principio della grande divisione tra descrittivo e prescrittivo e alla legge di David Hume, in forza della quale, come è noto, non si possono trarre precetti da asserzioni e viceversa. Di qui l’etica senza verità, nel senso che le proposizioni prescrittive, a differenza di quelle assertive, non sono né vere né false; non possono, quindi, essere sottoposte al giudizio di verità e di falsità, ma solo a criteri di giustificazione.
Un posto considerevole in questo ambito occupano gli studi di bioetica: Scarpelli delineò e difese una concezione di essa come indagine razionale e libera, tesa a tutelare e garantire le libertà individuali e contribuì da una prospettiva laica ad aprire il dibattito italiano a temi fino a quel momento monopolio della cultura cattolica.
Negli ultimi trenta-quaranta anni il dibattito filosofico-giuridico italiano si è sempre più internazionalizzato e aperto a una crescente influenza della cultura anglo-americana. Esso è caratterizzato da un progressivo dissolvimento delle scuole e degli indirizzi consolidati (già dal dopoguerra, peraltro, «l’unica scuola nel significato forte della parola», secondo la definizione di Scarpelli, era stata la scuola analitica nord-occidentale) e da un notevole ampliamento degli ambiti tematici. Accanto alle problematiche tradizionali anche in Italia il filosofo del diritto è sempre più impegnato nella trattazione di questioni specialistiche che lo vedono a fianco del filosofo morale, del filosofo politico, dell’informatico, del sociologo, del bioeticista ad affrontare le nuove sfide poste dalla rivoluzione informatica (ricordo, in particolare, Vittorio Frosini, Losano e Giovanni Sartor), dalla bioetica (ricordo in particolare il già citato Scarpelli e Francesco D’Agostino) e dall’avvento della società multiculturale.
Poco è rimasto dei due orientamenti in cui si era diviso il tardo idealismo: marxismo e spiritualismo.
Dal marxismo, che, peraltro, come si è detto, anche nel dopoguerra non aveva dato frutti di rilievo nella filosofia del diritto italiana, hanno preso le mosse Domenico Corradini (n. 1942), Eugenio Ripepe (n. 1943), Danilo Zolo (n. 1936), Pietro Barcellona (n. 1936), che se ne sono poi distaccati per esprimere posizioni originali.
Lo spiritualismo cattolico ha, invece, ispirato la riflessione di Domenico Coccopalmerio (n. 1940) e Francesco Mercadante (n. 1926).
Più duratura l’influenza della dottrina dell’esperienza giuridica di Giuseppe Capograssi in particolare nell’ambiente padovano dove, alla scuola di Enrico Opocher, si sono formati Francesco Cavalla (n. 1939), Francesco Gentile (1936-2009), Franco Todescan (n. 1946), Giuseppe Zaccaria (n. 1947), che hanno approfondito la prospettiva processuale del diritto del maestro, ognuno secondo proprie linee di ricerca.
A Capograssi, di cui fu allievo a Napoli, è riconducibile anche il pensiero di Pietro Piovani (1922-1980), che sviluppa una concezione del diritto come attività, concezione che parte dal riconoscimento dell’individuo non come entità chiusa ed egoista, ma come soggetto responsabile della propria azione.
Anche il giusnaturalismo che, come si è detto, nel dopoguerra aveva trovato un rinnovato consenso ha continuato a essere nel dibattito degli ultimi decenni del secolo scorso il punto di riferimento di vari autori.
In particolare, Sergio Cotta (1920-2007) ha elaborato, come lui stesso l’ha definita con echi heideggeriani e husserliani, una ontofenomenologia del diritto, che fa perno sul riconoscimento della connessione intrinseca ed ineliminabile tra il vivere esistenziale, che costituisce la struttura ontologica dell’essere umano, e la coesistenzialità, quale esigenza strutturale della stessa coscienza personale. Su questa concezione antropologica poggia l’idea di un diritto naturale inteso come insieme di principi la cui inosservanza renderebbe impossibile le relazioni coesistenziali.
La prospettiva esistenzialista del pensiero di Cotta è stata ripresa in diverse direzioni dai suoi allievi Bruno Romano (n. 1942), Bruno Montanari (n. 1947) e D’Agostino (n. 1946), che ha rivolto gran parte dei suoi studi alla bioetica in una prospettiva personalistico-ontologica.
Dalla fenomenologia di Edmund Husserl ha preso le mosse il pensiero di Gaetano Carcaterra (n. 1933) che, in polemica con le concezioni imperativistiche e prescrittivistiche, ravvisa nella «costitutività» la caratteristica primaria di tutte le norme, concetto che egli mutua dalla filosofia del linguaggio di John Searle. Il sistema giuridico è, infatti, un prodotto culturale e, come tale, è il risultato dell’attività umana: ogni atto normativo produce un effetto sul sistema giuridico, «costituendone», ossia modificandone, il contenuto.
Hanno continuato ad alimentare il dibattito contemporaneo i contributi degli allievi di Bobbio e di Scarpelli variamente orientati alla teoria giuspositivistica e al metodo analitico. Gavazzi (1932-2006) ha dedicato i suoi studi ad approfondimenti del pensiero kelseniano e delle metodologie analitiche con particolare riferimento a temi quali l’interpretazione, la coerenza dell’ordinamento e le antinomie; Conte (n. 1934) dopo i primi studi su temi di teoria generale relativi all’ordinamento giuridico quali la validità, la completezza e la coerenza, ha dimostrato un particolare interesse per gli aspetti di logica deontica, che sono poi divenuti prevalenti nella sua produzione più recente; Losano (n.1939), studioso del pensiero giuridico soprattutto tedesco – importanti i suoi contributi su Kelsen, Rudolf von Jhering, Karl Friedrich Wilhelm Gerber – nonché di argomenti comparatistici, è stato tra i fondatori dell’informatica giuridica in Italia; Jori (n. 1945), muovendo da Herbert Hart, fonda una originale proposta metodologica, il cosiddetto normativismo aperto, considerato come la terza via tra normativismo stretto e realismo; Gianformaggio (1944-2004) con metodo analitico ha indagato i principi giuridici fondamentali, con particolare interesse per quello di uguaglianza, anche di genere, introducendo nel dibattito i temi delle teorie femministe, che hanno trovato scarso radicamento nella filosofia del diritto del nostro Paese.
Pur non appartenendo direttamente né alla scuola di Bobbio né a quella di Scarpelli, sono riconducibili al filone di studi sopra delineato Alfonso Catania (1945-2011) e Luigi Ferrajoli (n. 1940). Il primo, avendo presente il pensiero di Hart, la cui influenza in Italia è stata determinante nello spostare il giuspositivismo kelseniano verso la realtà sociale, cerca di rendere più «realista» la dimensione «pura» dell’ordinamento kelseniano attraverso l’approfondimento del tema della effettività; il secondo, insieme agli studi volti a costruire una teoria assiomatizzata del diritto, ha affrontato temi quali i diritti fondamentali, i principi di diritto che lo hanno avvicinato al neocostituzionalismo. Ferrajoli sostiene che l’avvento dello stato costituzionale costringe a rivedere le tesi di Kelsen soprattutto in tema di validità delle norme e di avalutatività della scienza giuridica. Con l’avvento della Costituzione muta radicalmente l’intero paradigma del diritto, cosa di cui, a parere di Ferrajoli, la cultura giuridica ha a lungo stentato a prendere atto: la Costituzione, infatti, equivale a un diritto sul diritto, che altera la struttura formale dell’ordinamento, codificando i principi assiologici cui la stessa legislazione è obbligata a uniformarsi.
In altre parole, nel processo di costituzionalizzazione del diritto i valori, prima esterni al diritto positivo, sono divenuti interni a esso, trasformandosi in principi costituzionali. Quindi una norma è valida non solo se è prodotta dall’organo competente a produrla, ma anche se è conforme ai principi presenti nella Costituzione. Conseguentemente, la scienza giuridica non può limitarsi a conoscere le norme vigenti, deve anche stabilirne la validità sulla base della loro conformità ai principi costituzionali e, quindi, non è più avalutativa, ma valutativa, emettendo giudizi di validità che sono in realtà giudizi di valore costituzionale.
La crisi del positivismo giuridico, di cui si è detto nel precedente paragrafo, ha favorito in Italia l’apertura alle teoria antiformalistiche e il radicarsi del realismo.
«Realismo o giusnaturalismo sociologico» definisce in una lettera a Bobbio la sua concezione Guido Fassò (1915-1974). Egli dedicò i suoi primi studi, alla fine degli anni Quaranta, a Giambattista Vico, autore dal quale derivò quella sensibilità verso la storia che caratterizza tutta la sua opera, che è stata definita come un dittico che, da un lato, afferma la sopragiuridicità dell’etica, intesa come esperienza religiosa, e, dall’altro, riconosce la funzione essenziale della ragione giuridica nel mondo. Fondamentale per comprendere la sua posizione giusfilosofica è La legge della ragione (1964), opera in cui Fassò mostra che dai sofisti ai giorni nostri il diritto ha avuto la funzione di educare gli uomini ad organizzare razionalmente la loro convivenza e ribadisce la validità di un diritto, che non esita a chiamare naturale, il quale, sorgendo dalla concretezza storica della società interpretata dalla ragione, si ponga come limite alla potenza dello Stato e come garanzia di difesa della libertà umana. Tale convinzione lo portò a rivalutare la prospettiva del giusnaturalismo, un giusnaturalismo però che, ben lungi dal riferirsi al diritto naturale immutabile ed eterno della tradizione, guarda a quelle concezioni di matrice antiformalistica come il diritto libero e esprime l’esigenza di avere costantemente presenti al di là della norma formalmente valida quelle norme valide sostanzialmente che la ragione coglie nell'osservazione della realtà sociale.
Questa prospettiva lo indusse, per un verso, a prendere posizioni polemiche nei riguardi del positivismo giuridico, ma, per l’altro, a riconoscere il valore della legalità positiva in quanto espressione di razionalità, come testimonia l’ultimo suo libro Società, legge e ragione (1974), pubblicato pochi mesi prima della morte, che rappresenta una sorta di testamento spirituale.
All’antiformalismo è ispirata anche la prima produzione di Luigi Lombardi Vallauri (n. 1936), autore versatilissimo misuratosi in seguito con tematiche di politica del diritto, bioetiche, animaliste e ambientaliste.
Quanto al realismo in senso stretto, già a partire dagli anni Cinquanta Luigi Bagolini aveva richiamato l’attenzione su tale orientamento (in particolare sul realismo scandinavo), ma è con Giovanni Tarello (1934-1987) che è effettivamente cominciata l’opera di approfondimento di questo modo di concepire il diritto. Partito dallo studio del realismo americano, Tarello sottopone a critica radicale il giuspositivismo con le sue pretese di scientificità, rilevando che le norme giuridiche non sono l’oggetto preesistente, ma il prodotto dell’interpretazione e sviluppa una teoria realista del diritto che poggia su una concezione della norma intesa, da un lato, come enunciato normativo, ossia come espressione linguistica idonea ad essere interpretata in senso normativo, e, dall’altro lato, come il contenuto di significato normativo ricavabile da un enunciato. Ne consegue una teoria dell’interpretazione concepita non come attività conoscitiva, ma come attività produttrice di norme, attività alla quale concorrono non solo giudici e giurisprudenza, ma anche giuristi e dottrina.
Rispetto al realismo americano è stato però il realismo scandinavo a dare vita in Italia ad elaborazioni originali. Tra i principali studiosi di tale orientamento, Silvana Castignone (n. 1931), Riccardo Guastini (n. 1946) ed Enrico Pattaro (n. 1941).
L’influenza dell’approccio realista, unitamente all’impostazione empirista maturata attraverso i precedenti studi su Hume, ha portato Castignone ad accentuare l’analisi del linguaggio giuridico e politico sull’esempio delle operazioni di «terapia linguistica» compiute dagli scandinavi per denunciare quei residui metafisici che ancora si annidano nel linguaggio giuridico. Tale metodologia ha avuto rilevantissime conseguenze, ma anche grossi limiti, derivanti dal fatto che una simile impostazione è volta più a «decostruire» che a ricostruire, limiti che Castignone tenta di superare.
Guastini è stato influenzato soprattutto da Alf Ross, del quale però non condivide la tesi secondo cui il diritto è riducibile a un insieme di direttive rivolte ai tribunali (ciò non è vero, per es., per il diritto costituzionale, settore al quale Guastini ha dato importanti contributi soprattutto in tema di fonti). Da Ross riprende invece, come si dirà, la concezione dell’interpretazione, partendo dalla ben nota distinzione tra interpretazione come risultato e come attività.
Pattaro, allievo di Fassò, riprende dal maestro la critica al positivismo giuridico e, alla luce dei suoi interessi epistemologici di orientamento analitico, sostiene che una teoria del diritto, coerentemente ispirata ad una filosofia neoempirista, non può non essere una teoria del diritto come fatto. Egli sviluppa una peculiare concezione, da lui stesso definita «realismo normativistico», incentrata sul riconoscimento che il diritto è una realtà ontologicamente non diversa dalla realtà dei fatti empirici, ma non può essere ridotto a questi ultimi (il che lo porta a definirsi «riduzionista non eliminativista»).
Il diffondersi degli accostamenti antiformalistici e giusrealistici sul piano teorico e la crisi della giustizia sul piano storico hanno grandemente stimolato nella filosofia del diritto italiana il dibattito sull’interpretazione.
La discussione si è sviluppata attraverso il confronto tra posizioni neoformalistiche, quale quella di Jori, che, sull’esempio di Hart, sostiene che le disposizioni normative presentano di regola un nucleo certo di significato che l’interprete comprende e può descrivere, nucleo al quale si accompagnano aree di vaghezza e di incertezza più o meno ampie a proposito delle quali l’interprete deve fare delle scelte, e posizioni neoscettiche, quale quella di Guastini, che, seguendo l’insegnamento di Tarello e la concezione di Ross, sostiene che interpretare non è conoscere la norma, ma produrla, e definisce quindi l’interpretazione come l’operazione consistente nel ricavare norme da disposizioni del legislatore; in altre parole, il legislatore produrrebbe una cornice di significati entro i quali l’interprete sceglierebbe la norma.
Importanti contributi sul tema sono venuti da filosofi di orientamento ermeneutico come Giuseppe Zaccaria (n. 1947) e Francesco Viola (n. 1942), che, guardando alla tradizione italiana risalente a Emilio Betti, ma più ancora a modelli di area tedesca (in particolare Hans Georg Gadamer e Josef Esser) e più recentemente di area anglosassone (Neil MacCormick e Ronald Dworkin), sostengono che la teoria dell’interpretazione non sia solo tema centrale nella concezione e nella pratica del diritto, ma possa dare utili apporti ai fini della descrizione e della definizione del diritto. Essi hanno sviluppato la loro riflessione lungo due direttrici tra loro complementari: l’interpretazione giudiziale e l’analisi giuridica del rapporto tra questioni di fatto e questioni di diritto (Zaccaria) e il diritto come pratica sociale (Viola).
Particolare rilievo assume il tentativo di Frosini (1922-2001), autore di numerose opere di carattere storico e teorico di indirizzo strutturale, di coniugare ermeneutica giuridica e informatica, disciplina di cui è stato tra i primi a cogliere le possibilità di applicazione in ambito sociale e giuridico. L’informatica, facilitando il percorso informativo, consente infatti, secondo Frosini, un’interpretazione più completa ed efficace delle norme giuridiche.
Peculiare l’approccio di Alessandro Giuliani (1925-1997) il quale, sulle orme di Riccardo Orestano, considera lo studio storico quale aspetto costitutivo dell’esperienza giuridica e alla luce di queste premesse ha condotto importanti ricerche sulla teoria del processo, sui giudici e sulla giustizia.
Nuove suggestioni sul tema dell’interpretazione vengono dal movimento affermatosi soprattutto negli Stati Uniti tra gli anni Settanta e Ottanta, noto come «diritto e letteratura», che, oltre a considerare i grandi classici della letteratura come importanti documenti per la comprensione del diritto («diritto nella letteratura»), applica ai testi giuridici metodi e strumenti di analisi e di interpretazione elaborati dalla critica letteraria, partendo dalla premessa che il diritto è una storia da interpretare come qualsiasi altra storia letteraria («diritto come letteratura»). In Italia tale approccio giusletterario ha avuto precursori fin dalla prima metà del secolo scorso in autori come Ferruccio Pergolesi e Antonio D’Amato e ha trovato riscontro tra i filosofi del diritto soprattutto in Mario A. Cattaneo (1934-2010), che ha dedicato vari studi a Dante, Alessandro Manzoni e Carlo Goldoni.
Non va infine sottaciuto che l’Italia mantiene una ricca tradizione di storia della filosofia del diritto: alla fine degli anni Sessanta risalgono i tre volumi della Storia della filosofia del diritto (3 voll., 1966-1970) di Fassò, che, spaziando da Omero al realismo americano, dalla patristica alla teoria sovietica e, nell’edizione aggiornata, fino al dibattito contemporaneo, rappresenta la più completa storia della filosofia del diritto in lingua italiana oggi esistente.
F. Battaglia, Corso di filosofia del diritto, 3 voll., Roma 1940-42.
R. Treves, Diritto e cultura, Torino 1947.
R. Treves, Spirito critico e spirito dogmatico. Il ruolo critico dell’intellettuale, Milano 1954.
G. Fassò, La legge della ragione, Milano 1964.
N. Bobbio, Giusnaturalismo e positivismo giuridico, Milano 1965.
U. Scarpelli, Cos’è il positivismo giuridico, Milano 1965.
Tavola rotonda sul positivismo giuridico, Pavia (2 maggio 1966), Milano 1967.
G. Fassò, Società, legge, ragione, Milano 1974.
G. Tarello, Diritto, interpretazione ed usi. Studi di teoria e metateoria del diritto, Bologna 1974.
N. Bobbio, Dalla struttura alla funzione. Nuovi studi di teoria del diritto, Milano 1977.
G. Tarello, L’interpretazione della legge, Milano 1980.
U. Scarpelli, L’etica senza verità, Bologna 1982.
U. Scarpelli, Il positivismo giuridico rivisitato, «Rivista di filosofia», 1989, pp. 461-74.
S. Cotta, Il diritto nell’esistenza. Linee di ontofenomenologia giuridica, Milano 19912.
E. Pattaro, Il positivismo giuridico italiano. Dalla rinascita alla crisi, in Diritto e analisi del linguaggio, a cura di U. Scarpelli, Milano 1976.
La filosofia del diritto in Italia nel secolo XX, Atti dell’XI Congresso Nazionale, Napoli-Sorrento (4-7 ottobre 1976), a cura di R. Orecchia, Milano 1976.
M. Jori, Il giuspositivismo analitico italiano prima e dopo la crisi, Milano 1987.
N. Bobbio, Profilo ideologico del Novecento, Milano 1990.
Law and language. The Italian analytical school, ed. M. Jori, A. Pintore, Liverpool 1997.
L. Ferrajoli, La cultura giuridica nell’Italia del Novecento, Roma-Bari 1999.
G. Fassò, Storia della filosofia del diritto, 3 voll., edizione aggiornata a cura di C. Faralli, Roma-Bari 2001.
A treatise of legal philosophy and general jurisprudence, ed. E. Pattaro, 11 voll., Dordrecht 2005-2011.
F. Todescan, Compendio di storia della filosofia del diritto, Padova 2009.
M. Barberis, Giuristi e filosofi. Una storia della filosofia del diritto, Bologna 2011.
P. Grossi, Novecento giuridico: un secolo post moderno, Napoli 2011.