La genetica nel Novecento
Le leggi di Mendel furono menzionate in Italia per la prima volta dal botanico Giuseppe Cuboni (1852-1920) in un lavoro del 1903. Egli ne venne a conoscenza probabilmente attraverso colleghi tedeschi nel corso del VII Congresso internazionale di agricoltura, che si tenne in quell’anno a Roma (Di Trocchio 1989, pp. 157-58). Le prime sperimentazioni cominciarono nel biennio 1905-1906, a opera di botanici, fisiologi vegetali e agrari, oppure di zoologi interessati all’allevamento e alla zootecnia. In molti Paesi, compresa l’Italia, buona parte dei primi programmi di ricerca genetica prese corpo nell’ambito del miglioramento di colture e allevamenti (Pogliano 1999; Volpone 2008). Fu il ministero per l’Agricoltura, l’Industria e il Commercio a finanziare inizialmente il mendelismo e a diffonderlo attraverso l’attività di cattedre ambulanti, scuole di agricoltura e stazioni sperimentali fito e zootecniche (Maiocchi 2001). L’idea di incrementare le produzioni vegetali e animali, però, esisteva già prima del 1900 e le nuove strutture per la ricerca agricola, in realtà, cominciarono a essere fondate verso la fine dell’Ottocento.
La genetica mendeliana si rivelò funzionale a un processo già in atto, di natura socioeconomica: essa affiancò lo sviluppo della concimazione chimica e la meccanizzazione del comparto agricolo, e la sua diffusione fu relativamente veloce. Il miglioramento di piante coltivate e di animali domestici si basò sui nuovi principi della genetica. Nell’ambito vegetale, le ricerche furono condotte soprattutto su grano, mais, barbabietola, vite, tabacco e diverse piante da foraggio; nell’ambito animale, su polli, conigli, bachi da seta e vari tipi di bestiame.
Tra gli studiosi che se ne occuparono, si distinse particolarmente Nazareno Strampelli (1866-1942), che produsse oltre cinquanta varietà inedite di frumento. Suoi furono i cosiddetti grani della vittoria. Egli fondò (1919) e diresse a Roma l’Istituto nazionale di genetica per la cerealicoltura, e organizzò una vera e propria rete di stazioni di prova sul territorio nazionale (Lorenzetti 2000). Questa fu la prima istituzione pubblica in Italia a fregiarsi del termine genetica nella propria denominazione. Ottavio Munerati (1875-1949), direttore della Stazione agraria sperimentale di Rovigo, lavorò soprattutto sulla barbabietola, affinandone le caratteristiche zuccherine dal punto di vista sia quantitativo sia qualitativo, e svolse indagini di rilevanza internazionale sulla resistenza alla cercosporiosi.
Mendeliano, quantunque influenzato da Hugo de Vries (1848-1935), fu Alberto Pirovano (1884-1973). Egli inventò l’‘elettrogenetica’, con cui si occupò di mutagenesi indotta da energia elettromagnetica e fu padre dell’uva Italia. Giuseppe Lopriore (1865-1928) lavorò in diversi laboratori tedeschi di fisiologia vegetale e fu poi chiamato a dirigere la Stazione agraria sperimentale di Modena. Si occupò di vite, grano e mais, e diresse per anni la rivista «Le Stazioni agrarie sperimentali». Alessandro Ghigi (1875-1970), accademico naturalista e al contempo ibridatore avicolo, fu ordinario di zoologia e rettore all’Alma Mater di Bologna, e fondatore e direttore della Stazione di pollicoltura di Rovigo, nonché presidente (1934-35) della World poultry science association (WPSA). Fu tra i primi in Italia ad applicare il mendelismo all’incrocio di polli, fagiani e altri volatili domestici. Francesco Luigi Maiocco (1883-1966), direttore dell’Istituto nazionale di coniglicoltura di Alessandria, stabilizzò importanti razze cunicole italiane, ancora oggi esistenti, e lavorò alla genetica di altri animali da carne e da pelliccia.
I primi manuali di settore furono pubblicati in Italia subito dopo il primo conflitto mondiale, da Maiocco (Le leggi di Mendel e l’eredità, 1918) e Lopriore (Genetica sperimentale. Saggio di applicazione al miglioramento delle piante agrarie, 1920), e riguardarono rispettivamente l’ambito animale (con cenni all’eredità nell’uomo) e quello vegetale. Un limite della nostra genetica agraria fu che lo sforzo innovativo non fu sostenuto da solide indagini di laboratorio, almeno fino al secondo dopoguerra.
Nel 1919 nacque a Roma la Società italiana di genetica ed eugenica (SIGE), a opera del ginecologo Ernesto Pestalozza (1860-1934), dello statistico Corrado Gini (1884-1965) e dello zoologo Cesare Artom (1879-1934). Si era fatta strada, infatti, l’idea che «la Genetica – ramo vigoroso e giovane della moderna Biologia – […], non contenta dei successi ottenuti su piante e animali, si [potesse] volge[re] financo al perfezionamento delle razze umane» (G. Lopriore, Genetica sperimentale, 1920, p. 1). Alcuni dei primi eugenisti italiani, fra cui Giuseppe Sergi (1841-1936) ed Enrico Morselli (1852-1929), si opposero inizialmente al mendelismo, ma l’avvicinamento dell’eugenica alla genetica fu ritenuto, apparentemente, inevitabile. Già nel 1914, il medico Serafino Patellani tradusse per primo in Italia le opere di Gregor Mendel. Dieci anni dopo, lo zoologo Paolo Enriques (1878-1932) pubblicò il primo manuale di genetica umana, dal titolo L’eredità nell’uomo, rivolto ad antropologi, medici ed eugenisti, affinché fossero informati delle scoperte della nuova scienza dell’ereditarietà. Successivamente, tuttavia, l’eugenica passò nelle mani soprattutto di statistici e demografi che solo indirettamente nei loro lavori tennero conto di analisi genealogico-mendeliane (Cassata 2006 e 2007).
La teoria cromosomica di Thomas Hunt Morgan (1866-1945) e dei suoi collaboratori ebbe in Italia un percorso di diffusione difficile e controverso. Mentre in Germania e, soprattutto, negli Stati Uniti nasceva il programma di ricerca – formulato precocemente, nel 1902 – racchiuso nell’espressione ipotesi di Sutton-Boveri (da Samuel Sutton, 1877-1916, e Theodor Boveri, 1862-1915), la citologia sperimentale italiana si opponeva strenuamente all’idea che esistesse una correlazione fra la distribuzione dei caratteri ereditari e i fenomeni cromosomici, pur condividendo in parte il mendelismo. Ciò si dovette a un orientamento teorico di base, ampiamente condiviso nella comunità nazionale, che interpretava la cariogamia – e in generale i processi a carico della cellula – in chiave esclusivamente fisiologica, o «fisico-chimica» come si diceva all’epoca (richiamandosi all’approccio della physicalische Chemie tedesca), piuttosto che genetica (Dröscher 1996; Volpone 2003 e 2008). Nella terza edizione del celebre Trattato di istologia (1946) Giuseppe Levi ancora osservava in maniera critica:
La teoria della trasmissione ereditaria dei caratteri a base cromosomica è stata da qualche biologo giudicata troppo semplicistica, per poter dare ragione dei complessi e misteriosi fenomeni ereditari. Certamente essa, come qualunque altra, che ammetta una trasmissione di caratteri a base materiale, è d’ordine deduttivo; la prova obbiettiva della sua esattezza non fu raggiunta, e forse non potrà mai esserlo. Noi non abbiamo la possibilità, non dico di supporre, ma neppure di concepire, con quale meccanismo si possa indurre, mediante un substrato materiale, la determinazione dei caratteri (p. 241).
Levi non ammetteva alcuna possibilità che la materia organica che costituisce i cromosomi riuscisse a governare la trasmissione ereditaria dei caratteri e, soprattutto, il loro venire in essere, cioè il loro manifestarsi, formarsi, svilupparsi. Non a caso, Levi, nei primi decenni del Novecento, fu tra gli studiosi che animarono quella controversia scientifica, cui s’accennava, che, in termini kuhniani, può essere vista come una vera e propria contrapposizione di paradigmi: da un lato, vi era la citogenetica tedesca e statunitense, tacciata di essere vuota e nebulosa, dall’altro, la citofisiologia italiana, che non intendeva spingersi oltre la mera descrizione dei ‘fatti d’esperienza’ e preferiva non interpretare i fenomeni legati alla cariogamia in termini genetici (Volpone 2008).
Il principale contributo alla controversia sui cromosomi si dovette al giovane Paolo Della Valle (1886-1918), assiduo frequentatore della Stazione zoologica Anton Dohrn di Napoli e abile citologo, che formulò un’articolata teoria detta dei ‘cromosomi labili’. Questa fu essenzialmente una proposta alternativa all’ipotesi di Sutton-Boveri nell’ambito ristretto della citologia, ma venne intesa a livello internazionale come una critica della genetica cromosomica. Infatti, quantunque nel 1918 Della Valle morisse sul fronte d’Albania, le sue idee, tra il 1919-21, furono adoperate da alcuni studiosi italiani per contrastare anche la teoria di Morgan e collaboratori, di cui si cominciò a parlare dal 1913-15 in poi.
Durante l’intercinesi, i cromosomi sembravano scomparire al microscopio ottico; e questo dato, secondo Della Valle, ne metteva in discussione la consistenza di «organuli stabili cellulari» (Chromosomenindividualität, per Boveri) e la costanza numerica nelle diverse specie di organismi; pertanto, veniva meno la presunta centralità del ruolo da essi svolto nei processi ereditari. Negli anni 1909-13 Della Valle, sviluppando idee anticipate in parte dal ceco Kálmán von Tellyesniczky (1868-1932) e dal tedesco Rudolf A. Fick (1866-1939), sostenne che i cromosomi fossero il risultato di semplici ri-arrangiamenti regolari di cromatina, prima e dopo la cariocinesi, dovuti a forze molecolari, tensioni di superficie e processi termoelettrochimici; e chiamò la completa dispersione cellulare dei loro costituenti elementari, in fase intercinetica, smescolamento (in tedesco Entmischung). A suo parere, si trattava di strutture labili e incostanti, che poco o nulla avevano a che fare con la regolarità dei processi ereditari.
La teoria di Della Valle ricevette diverse critiche e fu subito attaccata sia da scienziati di lingua tedesca (Adolf H.C. Borgert, Paul Büchner, Bohumil Nemec, Georg Tischler ecc.), sia da statunitensi (Edmund B. Wilson, Thomas H. Montgomery, Clarence E. McClung, R.T. Hance, C.L. Parmenter ecc.). Le obiezioni riguardarono argomenti specifici della teoria, ma anche aspetti generali, se non epistemici, dell’approccio dellavalliano allo studio del nucleo cellulare. Wilson nel 1910 definì Della Valle «il più grosso oppositore» della citogenetica che in quegli anni si andava sviluppando, e rivolse alla sua teoria critiche puntuali, ma osservò pure, in generale, che «nel trattare di dinamiche e relazioni cromosomiche bisogna adoperare lo stesso buon senso con cui si analizzano tutti gli altri fenomeni biologici, spesso soggetti a variazione». Quindi, esemplificando: «Sono stati osservati insetti con sette zampe, ma non per questo si mette in dubbio che essi tipicamente ne abbiano sei» (E.B. Wilson, Studies on chromosomes. Part IV, «Journal of experimental zoology», 1910, 9, pp. 70-71). Egli adoperò il lavoro del citologo partenopeo come bersaglio polemico ancora nel 1925, nella terza edizione del suo monumentale trattato di citologia, The cell in development and heredity.
Nel primo dopoguerra, nonostante la prematura scomparsa di Della Valle, la sua teoria continuò a far discutere, questa volta alla luce della teoria cromosomica dell’ereditarietà. Nel 1920, Gustavo Brunelli (1881-1960), fondatore (1919) e codirettore della «Rivista di biologia» insieme a Osvaldo Polimanti (1869-1947), recensiva in maniera molto critica il libro di Morgan intitolato The physical basis of heredity. Furono però soprattutto Federico Raffaele (1862-1937) e Davide Carazzi (1858-1923) a rianimare la polemica. Nella rivista intitolata «Rassegna delle scienze biologiche» (1919-1923), fondata e diretta da Carazzi, apparvero articoli nei quali i due studiosi, oltre a difendere le idee di Della Valle, criticarono diversi aspetti della teoria di Morgan, professando un radicale anticromosomismo. Raffaele, in particolare, definì l’idea della disposizione lineare dei geni sui cromosomi «dottrina della filza di salsicce» (A proposito di cromosomi, «Rassegna delle scienze biologiche», 1920, 2, p. 84). A vario titolo, inoltre, sulla «Rassegna» intervennero pure Levi, Ghigi ed Enriques. Levi difese l’opera di Della Valle, giudicando il morganismo privo di fondamento scientifico. Ghigi discusse di «insufficienze del mendelismo», poiché considerava Morgan un neomendeliano, e dubitava che la sua teoria potesse «essere assunta a principio generale» (Compendio di zoologia dell’Emery, 1920, p. 162). Enriques fu l’unico, nonché il primo in Italia, invece, a difendere la teoria morganiana, in un articolo significativamente intitolato In difesa dei cromosomi (1921).
Vale la pena ricordare che proprio in quegli anni William Bateson (Evolutionary faith and modern doubts, «Science», 1922, 55, pp. 55-61), biologo inglese altrettanto critico, ammise pubblicamente di essersi sbagliato sulla teoria morganiana – ammissione che ebbe vasta risonanza internazionale. Anche per Raffaele si può parlare di una ‘conversione’, databile intorno al 1923: a partire da questa data, infatti, cominciò a insegnare la genetica cromosomica nei propri corsi all’Università di Roma e le sue lezioni confluirono, nel 1924, nel primo manuale italiano di zoologia che incorporasse la teoria morganiana (P. Pasquini, S. Ranzi, Zoologia, per gli studenti di scienze naturali, di medicina e chimica farmacia, secondo le lezioni del Prof. Federico Raffaele). Parallelamente, Raffaele si prodigò anche affinché fossero istituiti incarichi per l’insegnamento della genetica in ambito accademico. Quando, inoltre, nel 1925-26 fu chiamato da Giovanni Gentile a dirigere la sezione di Biologia e zoologia del Comitato tecnico dell’Istituto della Enciclopedia Italiana, nella fase di assegnazione delle voci egli suggerì, in maniera significativa, il nome di Morgan per la stesura della voce Genetica, e ad Artom, considerato il discepolo di Boveri in Italia, fece assegnare quella di Eredità. Questo doppio gesto simbolico segnava in qualche senso la fine delle ostilità: l’era della citofisiologia italiana poteva considerarsi terminata, almeno formalmente. Era stata aperta la strada alla citogenetica e occorreva cercare di recuperare gli anni passati invece a osteggiarla.
Tra i primi a perseguire programmi di ricerca cariologica con indirizzo genetico vi furono Enriques, Artom e le loro rispettive scuole di Padova e di Pavia, a partire già dalla fine degli anni Venti. Enriques e i suoi collaboratori investigarono la determinazione del sesso in mosche, protozoi e molluschi; egli, inoltre, in prima persona, svolse studi di una certa rilevanza sull’eredità ologinica, rivisitò e ampliò le leggi di Mendel alla luce della genetica morganiana. Artom approfondì le proprie ricerche sull’Artemia salina, insieme a Claudio Barigozzi (1909-1996) e ad altri discepoli; e alcuni di questi investigarono anche il corredo cromosomico di grillotalpa e Drosophila.
Nuovi studiosi si misero in evidenza negli anni Trenta e Quaranta, con obiettivi di ricerca più squisitamente citogenetici, ma gli studi di settore da noi restarono pochi. La crisi economica, l’isolamento politico e lo scoppio della guerra, forse, non furono privi di ripercussioni sul percorso culturale che, con difficoltà, era giunto a compimento nella genetica italiana. Un grande caposcuola a Pisa fu Alberto Chiarugi (1901-1960), botanico e genetista. Egli cercò di adattare le leggi della genetica ai diversi cicli ontogenetici dei vegetali, in base alle diverse posizioni assunte dalla meiosi; e si occupò dell’azione dei geni in rapporto allo sviluppo. Ebbe tra i suoi discepoli Francesco D’Amato (1916-1998), il quale, nel secondo dopoguerra, andrà a occupare la prima cattedra di genetica in Italia istituita in una facoltà di Agraria. D’Amato fu a sua volta caposcuola, d’indirizzo genetico a base molecolare. Tra i suoi numerosi discepoli si annoverano Gian Tommaso Scarascia Mugnozza (1925-2011), che ha lavorato alla mutagenesi nel frumento duro scelto come specie modello, e Marcello Buiatti, che ha svolto indagini genetico-molecolari sui processi dinamici della vita e si è occupato di modellizzazione matematica.
Anche Carlo Jucci (1897-1962) è da ricordare, sia come caposcuola sia come organizzatore di ricerca. Discepolo di Giovanni Battista Grassi (1854-1925), fu dapprima a Portici, dove si occupò di genetica del baco da seta, dopodiché successe ad Artom a Pavia. Alla fine degli anni Trenta fondò qui un Centro di genetica annesso all’Istituto di zoologia, iniziando la pubblicazione di diverse riviste genetiche di orientamento moderno (tra cui, per es., «Scientia genetica», oppure «Genetica agraria», attualmente «Journal of genetics and breeding») e creando un Centro di raccolta per stipiti di ceppi selvatici di Drosophila, struttura unica nel suo genere all’epoca in Italia, mediata dall’opera del giovanissimo Adriano Buzzati-Traverso e stabilita grazie a un accordo tra l’Università di Pavia e quella di Berlino. Nel 1949 questo Centro fu sostituito dalla Type culture collection of Drosophila di Pavia, fondata da Buzzati-Traverso e patrocinata dall’International union for biological sciences (IUBS).
Il gruppo di Jucci a Pavia, composito e di respiro internazionale, fu il primo in Italia ad avviare studi sistematici sulla genetica di Drosophila. Tra gli studiosi che ne fecero parte, a vario titolo, si ricordano Nikolaj V. Timofeev-Ressovskij (1900-1981) e, soprattutto, Buzzati-Traverso (questi divenne subito l’anima del gruppo), ma anche Carmela Manunta, Guido Frizzi, Riccardo Milani, Angelo Bianchi e altri ricercatori. Frizzi, in particolare, portando a compimento un programma di ricerca voluto da Jucci sin dal 1939, svolse un lavoro su Anopheles di rilevanza internazionale e, nel dopoguerra, mise a punto le prime mappature cromosomiche compiute in Italia (G. Frizzi, Salivary glands chromosomes of Anopheles, «Nature», 1947, 160, pp. 226-27).
Con l’istituzione di centri di genetica in diverse università e l’avvio di corsi d’insegnamento, la disciplina cambiò il proprio assetto istituzionale. Alla data del 1940, la sola cattedra di genetica ufficialmente istituita in Italia si trovava a Napoli: era stata attribuita formalmente a Giuseppe Montalenti, ma non era ancora attivata. La situazione si sbloccò nel 1945, alla fine della guerra. Montalenti passò poi a Roma nel 1960. Nel 1948 due nuove cattedre di genetica furono istituite a Pavia e a Milano. Esse vennero ricoperte, rispettivamente, da Buzzati-Traverso e Claudio Barigozzi. Negli anni Cinquanta e Sessanta si registrò l’istituzione di cattedre di genetica in altre facoltà di Scienze naturali, così come in quelle di Agraria e di Medicina. L’accademizzazione caratterizzò questo nuovo periodo storico della genetica. Nello stesso periodo nacquero le prime associazioni di settore, come l’Associazione genetica italiana (AGI, fondata nel 1953), la Società italiana di genetica medica (SIGM, fondata nel 1953), la Società italiana di genetica agraria (SIGA, fondata nel 1954).
Arrivati agli anni Cinquanta, la genetica italiana aveva raggiunto una propria dimensione anche istituzionale, con le caratteristiche (non tutte positive) delle scienze accademiche a pieno titolo. Esistevano dunque diverse scuole che si rifacevano a tradizioni differenti, anche in competizione tra loro, ma che dopo la Seconda guerra mondiale si impegnarono a colmare il gap culturale che le scienze della vita in Italia sembravano scontare rispetto ai Paesi anglosassoni. Un deficit soprattutto di matematizzazione e molecolarizzazione, cioè di un approccio di laboratorio nuovo capace di ragionare con nuovi strumenti teorici che affrontavano anche la dimensione fisica delle macromolecole biologiche. Inoltre, per i genetisti (e in particolare per chi aveva deciso di occuparsi di genetica medica) fu cruciale distanziarsi immediatamente dall’ombra lunga della genetica razzista e dai terribili correlati eugenetici che i regimi nazifascisti avevano messo in atto nei decenni precedenti.
Quello che è comunque sorprendente è la vitalità della comunità italiana nei primissimi anni del dopoguerra, capace di produrre ricerche di valore internazionale. Proprio l’internazionalizzazione e la volontà di confrontarsi con il mondo anglosassone sembrano essere la chiave per comprendere i successi di alcune delle scuole di genetica italiana. Montalenti, per es., oltre a essere stato il primo titolare di una cattedra con la parola genetica nella sua denominazione (Montalenti era ufficialmente entrato come docente di biologia e zoologia generale compresa la genetica e la biologia delle razze umane) e autore del primo manuale di genetica in italiano (Elementi di genetica, 1939), portava con sé l’esperienza d’oltreoceano presso il laboratorio dell’embriologo Frank R. Lillie di Chicago, e una carriera lunga più di un decennio in cui si era occupato di fisiogenetica dello sviluppo: un campo di ricerca che avrebbe esteso ancora per molti anni in diverse direzioni, con molti allievi cresciuti nei suoi laboratori (De Sio 2006). Buzzati-Traverso, dal canto suo, già negli anni Trenta aveva visitato diversi istituti di ricerca statunitensi e subito dopo la guerra mise a frutto i suoi legami con gli Stati Uniti, ritornandovi più volte per lunghi periodi e con incarichi anche prestigiosi di organizzazione e management scientifico.
Buzzati-Traverso divenne poi a Pavia animatore del più importante centro di diffusione della genetica e della biologia molecolare nell’accademia italiana (ricordiamo già negli anni Quaranta la pubblicazione, con Luigi L. Cavalli, di Teoria dell’urto ed unità biologiche elementari, 1948, in cui si esponevano ipotesi e metodi della nascente biologia molecolare). Non va dimenticato però il forte legame con l’ambiente milanese, dove il laboratorio di Barigozzi nell’Università e l’Istituto sieroterapico milanese Serafino Belfanti costituirono luoghi importanti per la genetica. Da questi istituti uscirono infatti prima Luigi Luca Cavalli (n. 1922), che solo più avanti aggiunse anche Sforza al cognome, e poi Ruggero Ceppellini (1917-1988). Cavalli già negli anni Quaranta si distinse a livello internazionale per la collaborazione con Ronald A. Fisher, uno più importanti genetisti del Novecento, e poi per gli studi sulla ricombinazione sessuale nei batteri, fenomeno osservato indipendentemente da Joshua Lederberg e da Cavalli nel 1946. Negli anni successivi, con base a Pavia ma con connessioni sempre più forti con gli Stati Uniti, si dedicò sempre di più allo studio dell’evoluzione della nostra specie, un’area di ricerca di cui è considerato uno dei maggiori esponenti nel Novecento e che ha portato a ricostruire la grande variabilità della nostra specie, correlandola inoltre con le vicende culturali più importanti degli ultimi millenni, come, per es., la rivoluzione agricola.
Ceppellini, indirizzato allo studio della genetica dopo la laurea in medicina proprio da Cavalli e da Barigozzi, iniziò a lavorare all’Istituto sieroterapico milanese, occupandosi della tipizzazione dei gruppi sanguigni, un campo relativamente inesplorato (il sistema Rh era appena stato descritto). In breve tempo, egli diventò uno dei sierologi più noti a livello internazionale, utilizzando gli strumenti della genetica per comprendere l’ereditarietà dei fenotipi del sangue. Dalla metà degli anni Cinquanta intrecciò sempre più strettamente l’immunologia e la genetica, entrando a far parte di un ristretto gruppo di ricercatori biomedici che in un decennio chiarirono le basi genetiche del sistema immunitario individuale, aprendo la strada alla tipizzazione dei tessuti fondamentale per migliorare la riuscita dei trapianti d’organo. Ceppellini era titolare della cattedra di genetica medica all’università di Torino dal 1958 e poi anche direttore del Centro di studio per l’immunogenetica e l’istocompatibilità finanziato dal Consiglio nazionale delle ricerche (CNR): in queste posizioni, cumulate poi con altri incarichi in Italia e all’estero, riuscì a creare una vera scuola di genetica medica, capace di influenzare lo sviluppo di questa disciplina sia in Italia sia all’estero. Anche questo è stato un esempio di modernizzazione riuscita, grazie non solo al talento scientifico, ma anche alla capacità di giovarsi di finanziamenti e relazioni internazionali.
Negli anni Cinquanta, dunque, la genetica italiana si trovava effettivamente nelle grandi reti scientifiche internazionali: un rientro sanzionato ufficialmente con l’organizzazione a Bellagio nel 1953 del IX Congresso internazionale di genetica, con Montalenti come deus ex machina che presiedette anche alla creazione dell’Associazione genetica italiana, in cui confluirono praticamente tutti i cultori della disciplina. Non che non ci fossero divisioni di natura «politica», evidenti, per es., nell’isolamento del Centro milanese per studi di genetica umana, fondato da Luisa Gianferrari (1890-1977) nel 1940 a scopo di «bonifica» del «materiale umano» che migrava verso le città dalle valli alpine, e quindi della possibilità per gli industriali di avvantaggiarsi per il «reclutamento delle maestranze» conoscendo le «località ove determinati talenti tecnici, per virtù ereditaria di uno o più ceppi, sono particolarmente frequenti» (L. Gianferrari, Il centro milanese per gli studi di genetica umana, «Milano. Rivista mensile del Comune», settembre 1941, pp. 677-78).
Le fratture furono rese ancora più evidenti quando Luigi Gedda – già fondatore dell’Azione cattolica ed esponente dell’ala più conservatrice della Democrazia cristiana – tentò con un colpo di mano di aggiudicarsi la prima cattedra di genetica medica all’Università di Roma, un progetto poi portato a termine nel 1958 con la creazione dell’Istituto Mendel con i finanziamenti del Vaticano, e le cui principali ricerche riguardarono la genetica dei gemelli: il tutto combattendo una battaglia di retroguardia sui concetti razziali, in opposizione più o meno aperta allo Statement on race (1950) dell’UNESCO (United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization; Cassata 2006). L’Istituto Mendel nei decenni successivi è stato comunque un importante centro per la genetica medica italiana, anche grazie alla stretta collaborazione con il vicino ateneo romano, per cui molti importanti docenti e ricercatori vi sono transitati.
La genetica umana era d’altra parte uno dei campi in cui i ricercatori italiani avevano già conseguito importanti risultati, soprattutto in filoni di ricerca con una forte tradizione nazionale. È il caso dello studio della malaria e della genetica umana a essa correlata (senza dimenticare le già citate ricerche di Frizzi e la scuola malariologica romana di Mario Coluzzi, che negli anni Sessanta dimostrerà geneticamente l’esistenza di diverse sottospecie all’interno del complesso Anopheles gambiae, il principale vettore malarico africano) che, già negli anni Quaranta, vide Ida Bianco (1917-2006) ed Ezio Silvestroni (1905-1990) impegnarsi in un progetto di ricerca, insieme a Montalenti, che dimostrò in maniera inequivocabile l’ereditarietà della microcitemia e quindi della talassemia (Canali, Corbellini 2006). Ciò portò alle prime campagne su vasta scala di consulenza genetica prematrimoniale nelle aree considerate più a rischio (Sardegna, alcune aree della pianura padana, Lazio), anche se l’effetto sull’incidenza della malattia rimase immutato.
Sempre in Sardegna, negli anni Settanta, il gruppo di Antonio Cao (1929-2012) mise a punto le prime campagne di screening prenatale (con l’analisi dei villi coriali), finalmente efficaci dal punto di vista della prevenzione, che permisero in pochi anni di abbassare notevolmente il numero di nati affetti da talassemia. La storia delle analisi genetiche per la talassemia e la microcitemia, nonché delle campagne per l’informazione e la diagnosi prenatale, rappresenta uno degli esempi più importanti di interazione tra ricerca biomedica di base e medicina clinica, e l’esperienza italiana è stata presa a modello negli anni successivi per i programmi di prevenzione estesi a tutta l’area mediterranea, anche con il patrocinio dell’Organizzazione mondiale della sanità.
Sempre nell’ambito della malaria, va ricordato lo studio progettato e realizzato da Ceppellini in Sardegna, pubblicato nel 1957, che portò per la prima volta evidenze sperimentali in Italia per la cosiddetta malaria hypothesis, cioè l’idea che le mutazioni che in forma omozigote causano alcune emoglobinopatie come l’anemia falciforme e la talassemia fossero state selezionate nel tempo per la protezione che la loro forma eterozigote conferisce nei confronti della malaria. Questa ipotesi era stata avanzata da John B.S. Haldane e Montalenti tra il 1948 e il 1949 e fu poi dimostrata in Africa da Anthony Allison nel 1954. Ceppellini, pur in assenza di infezione (la malaria era stata eradicata in Sardegna già alla fine degli anni Quaranta), mise a confronto alcuni tratti genetici presenti nelle popolazioni di quattro paesi nell’area di Orosei, due a livello del mare e due poco distanti ma a oltre 900 metri di altitudine, cioè in un ambiente sfavorevole alla trasmissione della malaria. Gli abitanti delle due aree si rivelarono simili in tutti gli aspetti tranne che per il tratto talassemico, che mostrava per i villaggi costieri una frequenza decisamente maggiore (U. Carcassi, R. Ceppellini, F. Pitzus, Frequenza della talassemia in quattro popolazioni sarde e suoi rapporti con la distribuzione dei gruppi sanguigni e della malaria, «Bollettino dell’Istituto sieroterapico milanese», 1957, 36, pp. 207-18).
In Italia, questo filone di studio è stato estremamente fruttuoso e, a fianco delle emoglobinopatie, la ricerca si è concentrata soprattutto sul deficit di G6PD, un’enzimopenia che negli eterozigoti conferisce resistenza alla malaria e ha tra i possibili sintomi il favismo. Su questo deficit ereditario, la cui frequenza statistica ha dei picchi nelle popolazioni di zone storicamente di endemia malarica, la genetica italiana ha apportato importanti contributi, soprattutto grazie a Marcello Siniscalco e Lucio Luzzatto (n. 1936). Entrambi questi studiosi sono legati a Napoli. Il primo perché iniziò la sua carriera nel dipartimento diretto da Montalenti nell’ateneo partenopeo, il secondo perché lavorò per molti anni all’Istituto (prima Laboratorio) internazionale di genetica e biofisica (LIGB), un centro di ricerca che nacque come una creatura della scuola di Pavia e con caratteristiche molto particolari volute dal suo fondatore e primo direttore, Buzzati-Traverso.
Il LIGB nacque a Napoli nel 1962, ma da diversi anni Buzzati-Traverso stava cercando di importare in Italia l’approccio molecolare alle scienze della vita che aveva appreso e visto crescere nei suoi soggiorni negli Stati Uniti. A partire dal 1957, tornato in Italia dopo due anni trascorsi a La Jolla come direttore della Divisione di biologia molecolare della Scripps institution of oceanography, organizzò, con il patrocinio del Comitato nazionale per l’energia nucleare (CNEN, al cui interno dirigeva la Divisione biologica), corsi biennali intitolati Effetti biologici delle radiazioni ionizzanti. Gli studenti erano tenuti a sapere l’inglese, avevano docenti non solo italiani, erano pagati mensilmente e in generale i corsi prevedevano una vasta componente sperimentale. Inoltre, gli studenti dovevano trascorrere almeno un semestre in un laboratorio all’estero. Di fatto, i due corsi (che terminarono nel 1961) formarono in Italia la prima generazione di genetisti molecolari, che ha costituito la spina dorsale della disciplina per i successivi decenni, introducendo su vasta scala la disciplina sia nelle facoltà di Scienze sia in quelle mediche.
Tuttavia, l’impresa di Buzzati-Traverso non poteva compiersi all’interno del sistema universitario (anche i corsi 1957-61 ne erano formalmente esterni) e, con il contributo congiunto CNR-EURATOM (European atomic energy community), nel 1962 vedeva la luce il Laboratorio internazionale di genetica e biofisica, che per tutti gli anni Sessanta fu un punto di riferimento anche internazionale per la vibrante comunità della biologia molecolare e della genetica. Una sezione del LIGB era inoltre rimasta a Pavia, dove lavorava anche Cavalli-Sforza, che stava avviando i suoi studi di genetica umana (utilizzando i registri parrocchiali di alcuni paesi della pianura padana per ricostruire gli alberi filogenetici delle popolazioni locali, mettendoli poi in relazione con le caratteristiche genetiche), con finanziamenti italiani e internazionali e collaborazioni che lo porteranno rapidamente a emigrare negli Stati Uniti (all’Università di Stanford) e a diventare uno dei più noti studiosi di genetica umana a livello mondiale.
A Napoli fu creato un nuovo tipo di istituto per l’Italia, indipendente dall’università (e quindi slegato dalla didattica), riccamente finanziato, dove si riunirono vari filoni di ricerca che si allontanavano dalla genetica classica per utilizzare l’approccio molecolare. Al LIGB convergeva inoltre, nella persona di Franco Graziosi, la scuola di biofisica romana che si era sviluppata soprattutto tra università (appunto con Graziosi, che studiava la genetica del fago) e Istituto superiore di sanità (intorno a Mario Ageno, nel laboratorio di fisica). In quest’ultimo, già negli anni Cinquanta si usavano strumenti avanzati (in un laboratorio molto attrezzato) come le ultracentrifughe e il microscopio elettronico per analizzare oggetti di interesse biologico.
Nel LIGB di Napoli si misero insieme competenze molto diverse, con una massa critica di ricercatori impegnati a dialogare con i colleghi di tutto il mondo e capaci anche di importanti scoperte. Ricordiamo tra i risultati più importanti ottenuti nel primo periodo del LIGB la scoperta degli heat shocks (cioè l’effetto degli sbalzi di temperatura sull’attività del DNA, studiato per la prima volta nel 1961-62 da un giovanissimo Ferruccio Ritossa, n. 1936) e del fenomeno di metilazione, fondamentale nella regolazione dell’espressione genica, osservato da Edoardo Scarano nel 1966. Inoltre, va ricordata l’importante attività di alta formazione che il LIGB svolse in quegli anni, diventando in Europa un punto di riferimento per corsi avanzati nelle tecnologie (come l’ibridazione DNA-RNA), patrocinati da diverse organizzazioni internazionali.
Il successo iniziale del LIGB, che ebbe ovviamente l’aiuto anche della Commissione per la genetica interna al CNR, si scontrò presto, tuttavia, con le difficoltà poste dalla burocrazia e con alcuni limiti delle scelte di Buzzati-Traverso. La fine del contratto EURATOM e l’entrata a pieno titolo nel CNR segnarono la fine della flessibilità nella gestione, già provata dalla crisi suscitata dai casi Marotta e Ippolito (i direttori dell’Istituto superiore di sanità e del CNEN, che tra il 1963 e il 1964 vennero accusati di abusi nella gestione dei due istituti, subendo poi pesanti condanne) pochi anni prima.
Nel 1969 la protesta politica di tecnici (la vasta maggioranza) e ricercatori (una piccola parte) pose fine alla direzione di Buzzati-Traverso, seguita da un periodo di declino, almeno nella dimensione internazionale. La ricerca, tuttavia, continuò e produsse risultati di assoluta rilevanza, quali gli studi sul gene G6PD del già citato Luzzatto e di Graziella Persico (a partire dalla seconda metà degli anni Settanta) e la scoperta dei geni omeotici nella nostra specie, per opera di Edoardo Boncinelli e Antonio Simeone (a metà degli anni Ottanta). Solo faticosamente, quindi, il centro napoletano tornò a livelli di eccellenza, anche se non raggiunse mai il rilievo dei suoi primi anni. Come i corsi pavesi, tuttavia, è difficile sottovalutare l’opera di modernizzazione di Buzzati-Traverso, e forse proprio la ‘diaspora’ dei ricercatori del LIGB dopo la rivolta del 1969 ha aiutato ulteriormente questo processo di innovazione, diffondendo l’approccio molecolare e l’idea di organizzazione multidisciplinare, necessaria per realizzare al massimo le potenzialità della ricerca.
Negli anni Sessanta esistevano dunque in Italia almeno tre importanti scuole di livello internazionale. Quella napoletano-romana di Montalenti, quella pavese-napoletana di Buzzati-Traverso e quella torinese di Ceppellini. Quest’ultima, come abbiamo già accennato, svolse un ruolo fondamentale nella descrizione dei meccanismi genetici ed ereditari dell’istocompatibilità e del controllo genetico del sistema immunitario. Quest’impresa fu il risultato di molti anni di lavoro che negli anni Sessanta conobbero però una svolta cruciale con l’introduzione di nuove metodologie di ricerca e di collaborazione internazionale. Al di là dei dettagli tecnici (come la diffusione delle nuove tecniche sierologiche per la tipizzazione dei tessuti o i primi utilizzi dei computer per stabilire le relazioni di parentela), ciò che preme sottolineare è il fatto che negli anni Sessanta il polo torinese (tra CNR e Università) fu un nodo fondamentale in una rete internazionale che, a partire dal 1964, si incontrò negli International histocompatibility workshops.
In questi workshops si lavorava al bancone di laboratorio e ogni gruppo (ai primi incontri parteciparono meno di una decina di laboratori) testava i propri standard su materiale comune, così da evidenziare le tecniche più affidabili. Grazie a questo tipo di lavoro, si giunse rapidamente alla creazione di standard per la tipizzazione dei tessuti, e un passaggio fondamentale fu il workshop organizzato nel 1967 a Torino. In questo incontro, non solo si dimostrò l’esistenza di un unico sistema genetico (HLA, Human Leukocyte Antigen), che controllava appunto la compatibilità di tessuti tra individui, ma si misero a punto i primi protocolli internazionali di collaborazione per la chirurgia dei trapianti. Lo studio della compatibilità dei tessuti consentì, infatti, di avere test rapidi e affidabili con cui far corrispondere donatori e riceventi per i trapianti d’organo, modificando le procedure che fino ad allora non prendevano in considerazione queste caratteristiche genetiche e avevano tassi di successo molto bassi. Le possibilità di traslazione clinica di queste scoperte di laboratorio furono immediatamente messe a frutto, e grazie alla spinta dell’olandese Jon van Rood a Torino fu annunciata la creazione del primo network transnazionale per i trapianti, Eurotransplant.
Negli anni, proprio grazie alla scuola di Ceppellini e alla collaborazione con i chirurghi della facoltà, quello di Torino è diventato il centro nazionale di riferimento per la genetica dei trapianti in Italia. Inoltre, le numerosi collaborazioni internazionali di Ceppellini hanno reso possibile l’esportazione di numerosi talenti che, come spesso accade, non sono più rientrati in Italia. Altri importanti ricercatori cresciuti con lui hanno ricoperto o tuttora ricoprono importanti posizioni all’interno delle varie discipline riconducibili alla genetica umana.
Nei primi decenni della sua giovane vita, la genetica italiana ha vissuto fasi di espansione e contrazione. La prima parte del Novecento ha visto l’introduzione dei nuovi concetti soprattutto nella loro dimensione applicativa, nell’ambito dell’agricoltura e della zootecnia. Ciò implicò anche una minore penetrazione nell’ambito accademico, che soltanto alla fine degli anni Trenta si dimostrò interessato allo studio delle basi materiali dell’eredità e delle leggi della trasmissione ereditaria dei caratteri. Durante il ventennio fascista, tuttavia, alla genetica applicata si affiancò un approccio di genetica razziale senza alcun fondamento scientifico e che lascerà diverse ombre anche nei decenni successivi.
La nuova generazione di ricercatori formatisi negli anni Trenta e già in contatto con i colleghi nei Paesi anglosassoni riuscì dopo la guerra a innestare i nuovi approcci teorici e sperimentali con i filoni di ricerca già radicati nella cultura italiana, quali, per es., le ricerche sulla malaria. Ciò consentì alla comunità scientifica italiana di apportare contributi significativi in alcuni ambiti che meno hanno sofferto dei ritardi dovuti alla lenta istituzionalizzazione della disciplina che vide la sua completa integrazione nel contesto universitario soltanto negli anni Sessanta.
Alla fine di quel decennio, tuttavia, si rivelarono alcune debolezze intrinseche della ricerca d’avanguardia italiana, resa fragile dalla dipendenza dalle fonti di finanziamento internazionali, soprattutto statunitensi. Ceppellini, Buzzati-Traverso, Montalenti, Barigozzi e altri ancora sfruttarono opportunità concesse dagli NIH (National Institutes of Health), dalla Rockefeller foundation, dall’EURATOM. Queste opportunità diminuirono in quantità e qualità dalla fine degli anni Sessanta e all’inizio degli anni Settanta: dopo la contestazione più intensa, che toccò da vicino anche gli istituti di ricerca, oltre che le università, la congiuntura internazionale rallentò il pur timido aumento del finanziamento pubblico della ricerca, riducendolo durante la crisi petrolifera. Tale stagnazione ebbe i suoi effetti anche sulla comunità dei genetisti, che persero la centralità internazionale faticosamente guadagnata nei decenni precedenti, centralità che altrettanto faticosamente è inseguita oggi.
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