Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Una poesia lirica di argomento amoroso sul modello trobadorico in volgare locale matura in Italia più tardi che in altre aree europee. L’iniziativa è presa presso la corte di Federico II in Sicilia e da qui nasce l’esperienza della Scuola poetica siciliana, trapiantata nella seconda metà del Duecento in Toscana, dove assume caratteri autonomi e dove spicca la personalità di Guittone d’Arezzo. Legato in parte ai modi siculo-toscani e guittoniani, il bolognese Guido Guinizzelli rinnova la lirica attraverso l’inserzione di un linguaggio dottrinale e lo sviluppo nuovo di temi come la gentilezza e la donna-angelo. Queste novità sono raccolte dai più giovani poeti fiorentini, fra cui Guido Cavalcanti e Dante Alighieri, che danno vita all’esperienza dello stil novo.
Giacomo da Lentini
Or come pote sì gran donna entrare
per gli occhi mei, che sì piccioli sone?
e nel mio core come pote stare,
che ’nentr’esso la porto laonque i’ vone?
Lo loco laonde entra già non pare,
ond’io gran meraviglia me ne dòne;
ma voglio lei a la lumera asomigliare,
e gli occhi mei al vetro ove si póne.
Lo foco inchiuso, poi passa di fore
lo suo lostrore, sanza far rottura:
così per gli occhi mi pass’a lo core,
no la persona, ma la sua figura.
Rinovellare mi voglio d’amore,
poi porto insegna di tal crïatura.
Giacomo da Lentini, Sonetti
Guittone d’Arezzo
Ora parrà s’eo saverò cantare
E s’eo varrò quanto valer già soglio,
poi che del tutto Amor fuggh’ e disvoglio,
e più che cosa mai forte mi spare:
ch’a om tenuto saggio audo contare
che trovare – non sa né valer punto
omo d’Amor non punto;
ma’ che digiunto – da vertà mi pare,
se lo pensare – a lo parlare – sembra,
ché ’n tutte parte ove distringe Amore
regge follore – in loco di savere:
dunque como valere
pò, né piacer – di guisa alcuna fiore,
poi dal Fattor – d’ogni valor – disembra
e al contrar d’ogni mainer’ asembra?
Guittone d’Arezzo, Rime, vv. 1-15
Guido Guinizelli
Al cor gentil rempaira sempre amore
Come l’ausello in selva a la verdura;
né fe’ amor anti che gentil core,
né gentil cor anti ch’amor, natura:
ch’adesso con’ fu ’l sole,
sì tosto lo splendore fu lucente,
né fu davanti ’l sole;
e prende amore in gentilezza loco
così propïamente
come calore in clarità di foco.
Foco d’amore in gentil cor s’aprende
come vertute in petra prezïosa,
che da la stella valor no i discende
anti che ’l sol la faccia gentil cosa;
poi che n’ha tratto fòre
per sua forza lo sol ciò che li è vile,
stella li dà valore:
così lo cor ch’è fatto da natura
asletto, pur, gentile,
donna a guisa di stella lo ’nnnamora.
Amor per tal ragion sta ’n cor gentile
per qual lo foco in cima del doplero:
splendeli al su’ diletto, clar, sottile;
no li stari’ altra guisa, tant’è fero.
Così prava natura
recontra amor come fa l’aigua il foco
caldo, per la freddura.
Amore in gentil cor prende rivera
per suo consimel loco
com’adamàs del ferro in la minera.
Fere lo sol lo fango tutto ’l giorno:
vile reman, né ’l sol prede calore;
dis’ omo alter: “Gentil per sclatta torno”;
lui semblo al fango, al sol gentil valore:
ché non dé dar om fé
che gentilezza sia fòr di coraggio
in degnità d’ere’
sed a vertute non ha gentil core,
com’ aigua porta raggio
e ’l ciel riten le stelle e lo splendore.
Splende ’n la ’ntelligenzïa del cielo
Deo crïator più che ’n nostri ’l sole:
ella intende suo fattor oltra ’l cielo,
e ’l ciel volgiando, a Lui obedir tole;
e con’ segue, al primero,
del giusto Deo beato compimento,
così dar dovria, al vero,
la bella donna, poi che ’n gli occhi splende
del suo gentil, talento
che mai di lei obedir non si disprende.
Donna, Deo mi dirà: “Che presomisti?”,
sïando l’alma mia a Lui davanti.
“Lo ciel passasti e ’nfin a Me venisti
e desti in vano amor per Me semblanti:
ch’a Me conven le laude
e a la reina del regname degno,
per cui cessa onne fraude”.
Dir Li potrò: “Tenne d’angel sembianza
Che fosse del Tuo regno;
non me fu fallo, s’in lei posi amanza”.
Bonagiunta Orbicciani
Voi, ch’avete mutata la mainera
de li plagenti ditti de l’amore
de la forma dell’esser là dov’era,
per avansare ogn’altro trovatore,
avete fatto como la lumera,
ch’a le scure partite dà sprendore,
ma non quine ove luce l’alta spera,
la quale avansa e passa di chiarore.
Così passate voi di sottigliansa,
e non si può trovar chi ben ispogna,
cotant’è iscura vostra parlatura.
Ed è tenuta gran dissimigliansa,
ancor che ’l senno vegna da Bologna,
traier canson per forsa di scrittura.
Dante Alighieri
L’incontro con Bonagiunta Orbicciani
Purgatorio, XXIV, 49-63
“… Ma dì s’i’ veggio qui colui che fore
trasse le nove rime cominciando
‘Donne ch’avete intelletto d’amore’”.
E io a lui: “I’ mi son un, che quando
Amor mi spira, noto, e a quel modo
ch’e’ ditta dentro vo significando”.
“O frate, issa vegg’io”, diss’elli, “il nodo
che’l Notaro e Guittone e me ritenne
di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo!
Io veggio ben come le vostre penne
di retro al dittator sen vanno strette,
che de le nostre certo non avvenne;
e qual più a gradire oltre si mette,
non vede più da l’uno a l’altro stilo”;
e, quasi contentato, si tacette.
Dante Alighieri, Divina Commedia
Guido Cavalcanti
Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira,
che fa tremar di chiaritate l’âre
e mena seco Amor, sì che parlare
null’omo pote, ma ciascun sospira?
O Deo, che sembra quando li occhi gira,
dical’ Amor, ch’i’ nol savria contare:
cotanto d’umiltà donna mi pare,
ch’ogn’altra ver’ di lei i’ la chiam’ira.
Non si poria contar la sua piagenza,
ch’a le’ s’inchin’ ogni gentil vertute,
e la beltate per sua dea la mostra.
Non fu sì alta già la mente nostra
E non si pose ’n noi tanta salute,
che propiamente n’aviàn canoscenza.
Guido Cavalcanti, Sonetti
Dalla originaria Provenza la poesia trobadorica ha una diffusione europea e promuove la nascita di una lirica di argomento amoroso in molte lingue d’Europa. In Italia la nascita di una poesia in volgare locale è più tarda, mentre fiorisce la produzione di lirica trobadorica in provenzale. Le corti dell’Italia settentrionale sono ospitali nei confronti dei trovatori provenzali, accolti soprattutto nelle corti della Liguria e della Lunigiana, del Monferrato, della Marca Trevigiana. Tale presenza si intensifica dopo la crociata contro gli albigesi, che provoca una sorta di diaspora trobadorica. Ma oltre alla presenza di trovatori provenzali, è significativa l’attività di trovatori italiani che scrivono in provenzale, operando presso le corti (come Sordello da Goito a Treviso) o negli ambienti cittadini (come Rambertino Buvalelli a Bologna, Lanfranco Cigala e Percivalle Doria a Genova).
Rispetto a questo quadro introduce elementi nuovi il recente ritrovamento, per opera di Alfredo Stussi, di una canzone, Quando eu stava in le tu’ catene, risalente agli anni 1180-1210 e proveniente dagli ambienti dell’Italia settentrionale. Il modello è chiaramente quello della lirica provenzale, ma non pare seguito con aderenza troppo stretta. In ogni caso, il ritrovamento è significativo perché testimonia l’esistenza di una lirica di argomento amoroso in volgare italiano precedente alla nascita della Scuola poetica siciliana.
Ma l’iniziativa consapevole di promuovere un movimento letterario unitario in un volgare locale italiano matura presso la corte siciliana di Federico II di Svevia, un ambiente culturale di grande ricchezza, per la presenza di letterati e studiosi di lingua latina, greca e araba. Federico promuove gli studi giuridici e retorici, ma anche quelli filosofici e scientifici. E sono proprio i membri della Magna Curia federiciana, collaboratori dell’imperatore nella conduzione politica dello Stato, a dare vita all’attività poetica, insieme allo stesso imperatore.
Di alcuni esponenti della Scuola poetica siciliana è nota e documentata l’attività politica in seno alla corte: Pier delle Vigne è un uomo di spicco, Giacomo da Lentini è un notaio, come anche Guido delle Colonne. Per altri esponenti di più difficile identificazione si può solo ipotizzare il rapporto con la Curia, in particolare pare molto probabile per Stefano Protonotaro. Altri rimatori appartenenti alla Scuola sono Giacomino Pugliese (XIII sec.) e Rinaldo d’Aquino. In ogni caso l’iniziativa di usare un volgare locale sembra doversi collegare con la volontà di dare un’espressione poetica autonoma e riconoscibile allo Stato federiciano. Alla forte identità politica doveva corrispondere un’esperienza letteraria altrettanto forte e identificabile.
La definizione di “siciliani” non è necessariamente connessa alla provenienza dei poeti, anche se alcuni furono realmente originari della Sicilia. Si riferisce invece alla partecipazione alla Magna Curia che aveva nel Regno di Sicilia il nucleo originario. In realtà gli esponenti della scuola poetica provengono anche da altre aree dell’Italia meridionale. Del resto la stessa corte federiciana aveva carattere mobile, in quanto l’imperatore amava trascorrere periodi più o meno lunghi nelle varie residenze poste in varie parti del regno, sia in Sicilia che sul continente. La massima fioritura della poesia siciliana si colloca fra il 1230 e il 1250, anche se non mancano proposte di anticipare di qualche anno il probabile avvio dell’iniziativa e benché alcuni rimatori continuino a essere attivi anche dopo la morte dell’imperatore.
Il ruolo di caposcuola, probabile iniziatore e personalità poetica più rilevante del gruppo, è da tutti riconosciuto a Giacomo da Lentini, detto il Notaro, cui si deve anche il corpus poetico più ampio: circa 40 testi fra canzoni, canzonette, discordi e sonetti. Della forma metrica del sonetto Giacomo è considerato l’inventore: si tratta di una forma breve (14 versi nella versione standard), chiusa e regolata nelle strutture interne, ma anche aperta a una ampia possibilità di variazioni, che permette la trattazione dei temi più rapida e meno impegnativa, anche sul piano stilistico, rispetto alla canzone di stile elevato, e risulta particolarmente adatta agli scambi di rime di corrispondenza e alle tenzoni. Fra gli altri autori un rilievo singolare ha Guido delle Colonne, autore di cinque canzoni, due delle quali di tutti endecasillabi, lodate da Dante per l’elevatezza della struttura metrica e dello stile.
La continuità di temi, strutture metriche, stile rispetto alla tradizione trobadorica è evidente. Tuttavia sono anche significative le novità introdotte. Tra le più importanti è la separazione fra musica e poesia: le canzoni trobadoriche erano vere e proprie canzoni accompagnate dalla musica e destinate al canto. I poeti siciliani scrivono esclusivamente per la lettura e la parola poetica diviene autonoma dall’accompagnamento musicale. Sul piano metrico, oltre all’invenzione del sonetto, anche nella struttura delle canzoni si rilevano novità di rilievo come l’eliminazione del congedo o tornata, in cui solitamente il poeta si rivolgeva al destinatario e inseriva anche riferimenti a temi di attualità politica. Nella stessa tendenza va l’abbandono del sirventese di argomento civile e politico: queste tematiche, rilevanti nel quadro sociopolitico mosso e vivace delle corti provenzali, come anche delle corti dell’Italia settentrionale, non sono più ammessi in uno Stato unitario fortemente centralizzato come quello federiciano. Per questo sul piano tematico i siciliani operano una selezione del repertorio trobadorico e si concentrano esclusivamente sulla lirica elevata di argomento amoroso, con l’abbandono anche di alcuni generi meno elevati come l’alba e la pastorella (anche se temi e strutture di quest’ultimo genere si possono riscontrare nel Contrasto di Cielo d’Alcamo).
Così i poeti siciliani si concentrano esclusivamente sull’amor fino (traduzione dell’espressione provenzale fin’amor) e indagano acutamente la psicologia amorosa a partire dalle convenzioni e dalle tematiche dell’amore cortese. Il tema amoroso è svolto al di fuori di qualsiasi diretta confessione autobiografica, ma su un piano di astrazione e stilizzazione. Si ritrova, pur se estranea al contesto sociale, anche la tradizionale metafora feudale a rappresentare il rapporto di servizio amoroso e non manca anche il motivo tradizionale dei “malparlieri” che minacciano l’amore con le loro dicerie, mentre si ricorre più di rado all’artificio del senhal. Per quanto riguarda la rappresentazione della donna i siciliani portano avanti il processo di smaterializzazione della bellezza femminile che toccherà il culmine con il motivo stilnovistico della donna-angelo. Sul piano retorico assume rilevanza il ricorso alle similitudini naturalistiche, proposte con sensibilità “scientifica” originata anche dall’attenzione per la scienza nella Magna Curia.
La lingua usata è un siciliano che, sulla scorta delle indicazioni di Dante nel De vulgari eloquentia si suole definire “illustre”, cioè alleggerito dei tratti locali più marcati e innalzato attraverso il modello di regolarità costituito dal latino, oltre che nobilitato e arricchito da provenzalismi e gallicismi tradizione letteraria. Tuttavia la forma linguistica originaria ci è nota solo parzialmente, in quanto i testi sono stati trasmessi attraverso codici toscani di fine Duecento in cui i copisti hanno operato un sistematico intervento di toscanizzazione delle forme siciliane. È possibile ricostruire in parte la forma originaria dei testi siciliani attraverso la trascrizione della canzonetta Pir meu cori alligrari di Stefano Protonotaro, effettuata dal filologo Giovanni Maria Barbieri nel XVI secolo da un manoscritto ora perduto. Ulteriori elementi sulla lingua provengono dalla recente scoperta, ad opera di Giuseppina Brunetti, di un frammento della canzone Resplendiente stella de albur di Giacomino Pugliese, in un codice (ora a Zurigo) copiato nel 1234 nell’Italia del Nord, senza la mediazione toscana. Si tratta della più antica trascrizione in nostro possesso di testi siciliani, ed è possibile individuare i tratti linguistici originari al di sotto della patina settentrionale sovrapposta dal copista.
In seguito alla fine del potere svevo, con la morte di Federico nel 1250 e la sconfitta di Manfredi nella battaglia di Benevento (1266), si conclude anche l’esperienza della Scuola poetica siciliana.
Tuttavia la lezione dei siciliani è accolta da una serie di rimatori emiliani e soprattutto toscani, che danno vita a un complesso movimento poetico cui gli studiosi applicano l’etichetta di “poesia siculo-toscana”, a indicare la continuità rispetto all’esperienza della prima lirica in un volgare italiano, ma anche l’autonomia e il trasferimento geografico e linguistico nell’area toscana. Non si tratta dunque di un’esperienza unitaria definibile come “scuola”, ma di una pluralità di voci. La diversa situazione sociopolitica dei vivaci Comuni toscani, molto lontana da quella dallo Stato centralizzato federiciano, porta una serie di conseguenze anche sul repertorio tematico e sulle scelte metriche. I temi politici, esclusi dalla lirica siciliana, tornano a essere frequentati dai siculo-toscani sul modello del sirventese provenzale. Vengono ripresi anche alcuni altri generi provenzali, come la pastorella, rimasti esclusi dalla selezione siciliana. Per quanto riguarda le forme metriche i siculo-toscani accolgono la proposta del sonetto, che si impone anzi come una delle forme canoniche, e lo sviluppano anche con nuove varianti. D’altra parte recuperano direttamente dalla tradizione trobadorica forme metriche assenti nei siciliani, come la ballata, che entrerà così a far parte del canone metrico italiano.
Sul piano linguistico manca l’impronta unitaria verso una lingua omogenea ravvisabile nei siciliani ed è più debole la tendenza verso forme di volgare “illustre”. Questi poeti appaiono invece più vicini alle situazioni locali, tanto che Dante li rimprovererà per le soluzioni troppo “municipali”, per l’incapacità di tendere verso modelli più elevati, regolati e unitari.
Per quanto riguarda le singole personalità un ruolo significativo è svolto dal lucchese Bonagiunta Orbicciani, che sarà citato da Dante nel Purgatorio nel quadro di una messa in prospettiva dello sviluppo della lirica dai siciliani allo stil novo dantesco (Purgatorio, XXIV, 19-63). Bonagiunta appare vicino ai siciliani e sembra svolgere una funzione di mediazione verso le esperienze più autonome. Rispetto a Guittone, con cui pure condivide la ripresa delle tematiche politiche e morali, mostra una predilezione per un dettato chiaro e lineare, lontano dalle ardue soluzioni del rimatore aretino. La sua posizione di rilievo è testimoniata anche dalla partecipazione a vari scambi poetici, tra cui spicca quello con Guido Guinizzelli, cui rimprovera nel sonetto Voi ch’avete mutata la mainera le novità introdotte e in particolare l’eccessiva “sottigliansa”. Alla conseguente oscurità che ravvisa nel dettato di Guinizzelli, Bonagiunta contrappone l’esempio del fiorentino Chiaro Davanzati, un’altra personalità eminente tra i siculo-toscani, caratterizzato da un dettato chiaro e leggero, in continuità con i modelli siciliani.
Ma la personalità più rilevante è certamente quella di Guittone d’Arezzo. Il poeta aretino pone al centro della sua vita una svolta decisiva costituita dalla “conversione” e dall’ingresso verso il 1265 nell’ordine laico dei Cavalieri di Santa Maria (i cosiddetti “Frati Gaudenti”). Alla prima fase della vita e della carriera poetica appartengono testi che svolgono nei modi consueti la tematica amorosa, ma anche una serie di composizioni dedicate a temi politici, con appassionata partecipazione polemica e militante. Nella seconda fase la tematica politica e civile viene affrontata con una prospettiva più meditata e universalizzante, mentre si affiancano i testi su argomenti morali e religiosi. Sia nella prima che nella seconda fase i testi di Guittone sono però caratterizzati soprattutto da uno stile artificioso, ricercato e oscuro, ricco di giochi di parole, allitterazioni, rime rare e difficili, complesse costruzioni sintattiche, che avvicinano il rimatore aretino alle esperienze provenzali del trobar clus, il cui massimo rappresentante è Arnaut Daniel.
Per il virtuosismo stilistico e per le grandi capacità di sperimentatore Guittone diviene subito l’ammirato e imitato caposcuola di uno stuolo di rimatori definiti dai critici “guittoniani”. Tra i più rilevanti si possono citare Meo Abbracciavacca di Pistoia, Inghilfredi da Lucca, il pisano Panuccio dal Bagno, il fiorentino Dante da Maiano. Ma il più significativo è forse l’altro fiorentino Monte Andrea, che gareggia con Guittone nello stile artificioso, con risultati di notevole valore. Ma in realtà nessuno dei poeti tardo-duecenteschi può dirsi immune dall’influenza del poeta aretino, neppure Guinizzelli, che pure inizierà la “nuova maniera” dello stil novo, e perfino Dante, che pure sarà sempre critico verso Guittone.
Accanto alla Toscana, particolarmente attiva nella elaborazione di poesia lirica si mostra la città di Bologna, sede della prestigiosa università e teatro di una ricca e multiforme operosità culturale in ambito retorico, filosofico e scientifico, oltre che giuridico. Qui operano poeti in lingua d’oc come Rambertino Buvalelli, mentre dal 1249 alla morte avvenuta nel 1272 è tenuto prigioniero Enzo, re di Sardegna, figlio naturale di Federico II, a sua volta autore di testi poetici secondo i modi della Scuola siciliana, e sono attivi alcuni poeti che si ispirano alla lirica siciliana e provenzale. Tra questi si distingue il notaio Guido Guinizzelli, di cui rimane un corpus di una ventina di testi, tra canzoni e sonetti. Egli appare non lontano dalla maniera cortese e guittoniana dominante in Toscana, ma in un numero ristretto di componimenti emergono elementi nuovi. Forse la presenza della cultura universitaria bolognese crea una particolare consapevolezza retorica e promuove l’assunzione di elementi dottrinali all’interno della lirica di argomento amoroso. E lo scambio tra Firenze e Bologna è particolarmente ricco e vivace nel Duecento. Non sorprende dunque che le novità proposte da Guinizzelli trovino accoglienza e sviluppo da parte di più giovani poeti fiorentini. Al modo di fare poesia inaugurato da Guinizzelli e proseguito a Firenze da Guido Cavalcanti, Dante Alighieri e alcuni altri poeti, Lapo Gianni, Dino Frescobaldi, Gianni degli Alfani e il cosiddetto “Amico di Dante”, identificabile in Lippo Pasci de’ Bardi, e poi Cino da Pistoia, si applica tradizionalmente l’etichetta critica di “dolce stil novo”, secondo la celebre definizione dantesca (Purgatorio, XXIV, 55-57).
La novità della poesia di Guinizzelli, pur limitata a un numero esiguo di testi, è subito notata dai contemporanei. È in particolare Bonagiunta Orbicciani a intervenire rimproverando l’eccessiva “sottigliansa” del dettato guinizzelliano, cioè la difficoltà della sua poesia per l’uso di concetti oscuri di derivazione dottrinale, con lessico filosofico-scientifico e formule scritturali.
Complessivamente, a partire dall’esperienza innovatrice di Guinizzelli, ma tenendo presenti anche gli esiti successivi, si possono indicare alcune caratteristiche del movimento, che tuttavia non assumerà mai un’unità e omogeneità tale da configurare una vera “scuola poetica”. Nonostante tutti i poeti stilnovisti siano intensamente impegnati nella vita politica e civile, dalla loro poesia è bandita ogni tematica che non sia strettamente amorosa, in continuità rispetto ai siciliani e in opposizione a Guittone e ai siculo-toscani. L’amore è al centro della riflessione poetica ed è indagato soprattutto nelle sue connessioni con il “cor gentile”, nonché nella sua capacità di guidare il poeta attraverso un percorso di elevazione spirituale. E rispetto a Guittone e ai guittoniani la distanza è evidente soprattutto a livello linguistico, stilistico e retorico. Si ricerca la dolcezza dello stile, ottenuta attraverso una selezione lessicale che esclude ogni forma troppo municipale o popolare. La sintassi è piana e lineare, mentre gli artifici retorici tipici della lirica guittoniana sono evitati, in nome di un modello di armonia e levigatezza. Tuttavia il ricorso a un lessico filosofico e scientifico e l’inserzione di immagini dottrinali rendono il dettato, pur nella sua apparente semplicità, tutt’altro che facile e immediato e richiedono nel lettore un alto livello culturale.
Rispetto alla tradizione siciliana e cortese della lirica d’amore solo alcuni temi vengono conservati, mentre altri, come quelli tipicamente provenzali dei “malparlieri” o della ricompensa d’amore vengono tralasciati. Altri motivi vengono invece sviluppati e acquistano una nuova forza. Così viene approfondita l’analisi psicologica dell’innamoramento attraverso la visione e la presa di possesso da parte dell’immagine della donna e di Amore che la accompagna della mente e del cuore del poeta.
L’immagine della donna-angelo, che nei siciliani era una semplice iperbole, assume una forza e un’intensità nuova già in Guinizzelli, e il tema della lode trascende la dimensione cortese per caricarsi di significati più profondi, anche attraverso il ricorso al linguaggio della mistica. Un altro tema che viene valorizzato a fondo è quello del saluto della donna e del suo potere salvifico.
La canzone Al cor gentil rempaira sempre amore è considerata il “manifesto” dello stil novo, in quanto pone con forza alcuni di questi temi fondanti. Fin dal primo verso si sottolinea il rapporto necessario tra gentilezza, cioè nobiltà d’animo, e amore: solo che è nobile interiormente può amare e anzi non può non amare. Così la presenza di amore certifica la nobiltà dell’animo del poeta. Il principio è poi illustrato attraverso una serie di analogie tratte dal linguaggio naturalistico e scientifico che giunge a immagini cosmologiche nutrite anche del linguaggio della “metafisica della luce” e della mistica francescana. La figura della donna-angelo assume una funzione fondamentale. Guinizzelli paragona la donna alle intelligenze angeliche che trasmettono la volontà divina facendo muove le sfere celesti: analogamente la donna trasmette la volontà divina mettendo in movimento nell’amante un processo di perfezionamento morale e di elevazione spirituale. Inoltre questa azione nobilitante e salvifica è svolta dalla donna non solo nei confronti del poeta, ma attraverso la sua miracolosa apparizione anche nei confronti di tutti coloro che ne ricevono il saluto. Rispetto alla tradizione cortese la figura della donna appare ormai come una visione mistica, quasi priva di attributi fisici e descritta invece soprattutto nelle sue virtù spirituali e morali. Per questo acquista una forza nuova l’assimilazione finale della donna a un angelo del cielo, da parte del poeta rivolto a Dio: “Tenne d’angel sembianza / che fosse del tuo regno; / non me fu fallo, s’in lei posi amanza”.
Guido Cavalcanti è forse l’iniziatore del nuovo stile a Firenze, ben presto seguito da altri poeti, fra cui il più giovane Dante Alighieri.
Tuttavia lo stilnovismo cavalcantiano è solo in parte assimilabile alla lezione guinizzelliana. Se questo vale certamente per la dolcezza dello stile e per la ripresa di alcuni temi, come quelli del saluto e della lode, nonché per l’assunzione di concetti e terminologia di derivazione filosofica, scientifica, scritturale, la concezione dell’amore che emerge dalle liriche di Cavalcanti appare ben diversa: l’amore è visto come una forza irrazionale e travolgente, che prende possesso della mente dell’amante, provocando uno sconvolgimento interiore e un’angosciosa sofferenza.
Nella celebre canzone Donna me prega Cavalcanti indaga con l’ausilio di una precisa terminologia filosofica la natura dell’amore. Ne emerge una posizione opposta rispetto a quella della Vita Nova dantesca. Non è chiaro a quale opera spetti la priorità cronologica, ma in ogni caso l’opposizione è evidente. Secondo Cavalcanti, che si ispira alla filosofia dell’aristotelismo radicale, l’amore non è una “sostanza”, cioè un’entità autonoma, ma è un “accidente”, cioè una proprietà, e in particolare coinvolge non l’anima razionale, ma l’anima sensitiva dell’uomo. Di qui un drammatico e distruttivo conflitto con l’intelletto al cui controllo razionale l’amore sfugge completamente.
Questo conflitto interiore è rappresentato drammaticamente da Cavalcanti attraverso la messa in scena di una serie di “spiriti” e “spiritelli”, personificazioni delle diverse facoltà dell’anima, dei sensi interni ed esterni, degli spiriti vitali dell’individuo ma anche delle passioni, delle parti del corpo e degli atti coinvolti nell’innamoramento. Ne risulta la rappresentazione oggettiva e drammatica di un soggetto diviso e lacerato. Così anche i motivi stilnovistici della lode e del saluto sono per lo più volti da Cavalcanti in chiave pessimistica e dolorosa. L’apparizione dell’amata solo apparentemente conforta, ma in realtà sconvolge il poeta lasciandolo in preda alla passione angosciosa, oppure sbigottito e sopraffatto per l’incomprensibilità razionale di tale apparizione. Tuttavia, anche l’espressione dell’amore doloroso riceve una resa stilistica piana e dolce, con soluzioni sintattiche armoniose e lineari. La dolcezza delle forme sembra voler limitare e razionalizzare l’angoscia, le lacerazioni, gli sbigottimenti provocati dalla drammatica presenza dell’amore.
Il corpus cavalcantiano è costituito da una cinquantina di testi: oltre alle canzoni e ai sonetti, spicca la predilezione per la ballata, presente con 11 esemplari. Accanto alle liriche in cui si manifesta la concezione dell’amore doloroso vi sono testi appartenenti a un registro più leggero, in cui Cavalcanti affronta temi e motivi meno drammatici, mostrando una singolare abilità nella rappresentazione di paesaggi campestri e immagini naturalistiche.
Un ruolo singolare nella continuità della lirica italiana è svolto da Cino da Pistoia. Più giovane di Dante di qualche anno, porta avanti l’esperienza della lirica stilnovista proprio quando i capiscuola vengono meno: Cavalcanti muore nel 1300, mentre Dante si sposta verso nuove esperienze letterarie. Cino si pone dunque come prosecutore dello stil novo, ma giunge con la sua attività a passare il testimone della tradizione lirica alla generazione di Petrarca e Boccaccio. Nell’ampio corpusdel poeta pistoiese (circa 165 testi, più altri di dubbia attribuzione) la poetica stilnovista è declinata in forme dolci e melodiose, con una prevalenza della tonalità malinconica e attenzione particolare all’analisi dei meccanismi psicologici e ai temi della memoria, che prelude ai più complessi svolgimenti petrarcheschi.