La massoneria
La storia della rinascita della massoneria in Italia, dopo la lunga parentesi della Restaurazione, quando le logge (l’unità di base di un’organizzazione massonica) erano state messe al bando dai governi restaurati e l’istituzione si era dissolta, ha le stesse scansioni temporali della nascita dello Stato italiano: nell’ottobre del 1859 viene fondata a Torino la loggia Ausonia, mentre alla fine del 1861 si svolge la prima assemblea programmatica delle logge italiane. Nel volgere di pochi anni, la nascita disordinata ma significativa di molte logge che fanno riferimento a diversi gruppi massonici in contrasto tra loro, che solo a fatica si accorperanno nel corso del tempo, pone una serie di domande legate alla qualità dei personaggi che entrano a farne parte e ai loro progetti. C’è una presenza «massonica» in Italia alla vigilia della seconda guerra d’indipendenza che ha creato le premesse per l’unificazione della penisola?
Tra i pochi documenti certi, quelli delle logge di due città che – non a caso – sono città di mare: Genova e Livorno. Capitani marittimi e negozianti, iniziati per lo più in Brasile, sono gli iscritti riuniti nella loggia Trionfo ligure di Genova fondata nel 1856 dal commerciante Francesco Cipollina, al suo rientro in patria da Bahia dove era stato iniziato. La loggia è all’obbedienza del Grand Orient de France ed è frequentata da stranieri legati all’attività del porto. Il 1° dicembre 1858 in questa loggia è iniziato il capitano marittimo Nino Bixio che, nel 1860, diventa il «secondo dei Mille» di Giuseppe Garibaldi. Nel 1863 entra a farne parte anche il genero di Garibaldi, Stefano Canzio. Una seconda loggia, la Oriente ligure, nasce più tardi a Chiavari, legata addirittura al Grande oriente del Perù.
Più articolata la situazione di Livorno, porto commerciale di transito, la sola città italiana dove si sarebbe mantenuta una qualche attività massonica in tutto il periodo preunitario, con un significativo numero di logge. La più nota è la Amici veri dei virtuosi del 1859, anche questa legata al Grand Orient de France, che raccoglie un gran numero di commercianti, molti dei quali ebrei. Dai documenti di queste logge si desume una modesta attività latomistica, mentre non risulta nessun coinvolgimento politico. Nel resto d’Italia, poche e scarne notizie indicano la presenza a Bari, nel 1834, della loggia Peucezia, a Verona della Arena, a Occhiobello della Liberati, a Venezia della Stella folgorante, a Perugia della Fermezza. A Palermo nel 1848, durante la rivolta contro i Borboni, appare la Gran Loggia Nazionale di Sicilia. Le scrupolose ricerche degli anni recenti non hanno aggiunto nulla a quanto già noto da tempo, anche se sono utili rassegne di tutte le tesi sostenute nel corso degli ultimi cento anni. Le poche logge italiane della prima metà dell’Ottocento di cui si ha notizia sono vissute in periodi diversi e spesso molto brevi, senza contatti tra di loro e sono interessanti solo ai fini di una storia interna all’istituzione.
La grande fiammata della massoneria napoleonica non era però passata senza lasciare tracce. Nelle logge del Grande Oriente d’Italia di Milano e in quelle murattiane di Napoli erano entrati ufficiali dell’esercito francese e funzionari di Stato, ministri, prefetti, capi della polizia, molti opportunisti, insieme a non pochi idealisti e uomini di fede come Gian Domenico Romagnosi o Ugo Foscolo. In totale si sono calcolate circa 250 logge e 20.000 massoni attivi nell’Italia napoleonica nella quale, per la prima volta, si instaura un rapporto ufficiale tra Stato e istituzione libero-muratoria, che contemporaneamente si trasforma da cenacolo di un’élite intellettuale in luogo di accoglienza di massa per la nuova borghesia. La loggia diventa, in questo contesto, la cinghia di trasmissione e di diffusione del progetto, degli ideali e della cultura napoleonica, destinata a lasciare un segno profondo nella società italiana.
L’identità tra i nuovi quadri della borghesia e i massoni di età napoleonica è uno dei fattori di instabilità che mineranno dalle fondamenta i governi restaurati dopo il Congresso di Vienna del 1815; ma dopo il fallimento dei moti del 1821 e 1831, le nuove soluzioni politiche che cominciano a delinearsi escludono la massoneria dalla scena pubblica. La rinascita di qualche loggia tra il 1847 e il 1849 non cambia sostanzialmente le cose perché con la fine della stagione rivoluzionaria cessa ogni attività. Sappiamo invece che molti patrioti, costretti all’esilio, sono stati accolti in loggia nei paesi che li hanno ospitati: Francia, Belgio, Gran Bretagna.
Non ci sono documenti che provino che le vicende risorgimentali siano state opera di una inesistente istituzione massonica regionale o nazionale organizzata, eppure questa leggenda ha goduto di lunga fortuna ed è ancora oggi generalmente ripetuta. La tesi del Risorgimento opera della massoneria è stata affermata da tutta la pubblicistica reazionaria e tradizionalista, dal momento dell’unificazione in poi, con lo scopo dichiarato di delegittimare l’Italia unita, frutto di questo presunto complotto.
Per anni la dirigenza massonica non volle essere apparentata con il mondo del settarismo politico. Il gran maestro Ernesto Nathan, nel 1901, nella conferenza di inaugurazione di Palazzo Giustiniani, alla presenza di un folto pubblico, affermava correttamente che nella prima metà dell’ Ottocento c’era stato un momentaneo «ridestarsi al ’21, al ’48 e di nuovo verso il ’59» (Nathan 1901, p. 6). Ancora nel 1912, in una breve storia della massoneria, pubblicata sulla rivista ufficiale del Grande Oriente d’Italia, si può leggere che «con la caduta del dominio napoleonico ebbe fine anche questo periodo di sommo splendore della Libera Muratoria e, in parte come conseguenza dell’entrata in scena dei carbonari falsamente parificati ai liberi muratori, furono emesse severe proibizioni [...] La massoneria non risorse che sulla metà del XIX secolo» («Rivista massonica», 1912, p. 287).
Sono i pesanti attacchi politici condotti contro i massoni – che subiscono una netta impennata all’inizio del 1913 in vista delle prime elezioni a suffragio universale maschile – a cambiare la posizione del Grande Oriente, che ritiene indispensabile trovare una fonte di legittimazione del suo esistere e del suo operare e crede di trovarla proprio nelle vicende risorgimentali. Da questo momento l’accusa reazionaria di aver realizzato l’unità d’Italia diventa motivo di vanto, ribadita e ripetuta continuamente, rifacendosi in gran parte a fonti clericali.
Nel 1914 esplode la polemica tra lo storico dichiaratamente antimassone Alessandro Luzio e lo studioso massone Ulisse Bacci, l’uno impegnato a negare qualunque apporto massonico alla storia d’Italia, il secondo ben deciso a riaffermare la centralità dell’azione dei massoni, facendo largo uso di fonti come «L’Osservatore Romano», secondo il quale «ispiratrice, autrice della unità statale d’Italia fu la massoneria» (14 marzo 1914) e «La Civiltà Cattolica» che scrive:
dall’Alpi al Lilibeo tenevano il loro sotterraneo esercizio le versipelli frazioni delle sètte coi nomignoli di Guelfia, Adelfia, Sublimi maestri perfetti, la Stella, la Spilla nera, Cacciatori americani, Figli di Marate, Figli dell’onore, Fratelli seguaci, Protettori repubblicani, i Decisi, i Federati, i Riformati, i Patrioti etc.; i quali tutti in massima parte erano altrettante parvenze di una carboneria unica, la quale alla sua volta non era se non lo sdoppiamento o la metamorfosi della stessa massoneria (quaderno 1555, 1915).
Nello stesso anno Gaetano Salvemini scrive a Luzio per ribadire che «la leggenda che il Risorgimento italiano sia stato opera della Massoneria è stata creata dai clericali, i quali, incapaci di rendersi conto di questo fenomeno inaudito, lo attribuirono al... diavolo. [...] Della leggenda si prevalsero, poi, ma assai in ritardo, i massoni» (Luzio 1925, 2° vol., p. 239). Sulla sua linea anche Benedetto Croce e Adolfo Omodeo.
Prevale invece la vulgata secondo la quale il Risorgimento sarebbe stato opera della massoneria e molti massoni si fanno forti di queste «prove» ancora nel 1925 per dimostrare quanto l’Italia debba loro. Su questa linea si pone l’opera Carboneria e Massoneria nel Risorgimento, dell’avvocato Giuseppe Leti, alto dignitario massone che attinge a larghe mani alla pubblicistica cattolica e alle informative della polizia pontificia. Luzio gli contrappone il suo La massoneria e il Risorgimento italiano basato su un utilizzo altrettanto fazioso di una vasta documentazione d’archivio. Entrambi i lavori sono pubblicati mentre in Parlamento si discute il provvedimento voluto da Benito Mussolini per mettere fuori legge le società segrete. Fondamentale è il ruolo affidato da entrambi a Giuseppe Mazzini, che Luzio annovera tra i più ostili alla mentalità massonica, mentre Leti postula una sua affiliazione, sempre negata dall’interessato e da coloro che gli sono stati più vicini, eppure ancora oggi rivendicata da molti. Anche in questo caso si tratta della riproposizione da parte dei massoni di una tesi sostenuta, per ben altri motivi, dai cattolici.
Il padre gesuita Hermann Gruber, uno dei più preparati scrittori antimassoni della redazione della «Civiltà Cattolica», nel 1901 pubblica il libro Mazzini, massoneria e rivoluzione per dimostrare che «la mente direttiva del movimento rivoluzionario d’Italia, approdato alla presa di Roma ed alla distruzione dello Stato ecclesiastico, Mazzini, era massone». È ancora lui a diffondere la leggenda di una regolare iniziazione massonica di Mazzini, descritto come il «grande vecchio» di una rete massonica universale, concepita come centro direttivo di tutte le società segrete eversive e anticristiane. Assunto come reale il presunto massonismo di Mazzini, tutta l’attività dei mazziniani italiani – dagli anni Trenta dell’Ottocento in avanti – diventerebbe in un certo qual modo massonica.
Ancora oggi, correnti storiografiche revisioniste di matrice clericale e neoborbonica ripropongono con successo l’interpretazione della storia dell’unificazione come risultato di un preteso complotto massonico indirizzato a sradicare dal cuore del popolo la fede cattolica. A loro dire, all’Italia, unita da secoli dalla Chiesa cattolica, non serviva affatto l’unità politica che aveva abbattuto il potere temporale dei papi e tentato di scardinare i valori cristiani. Anche altri studiosi, sulla base di studi filosofici ed esoterici, sostengono che esista un fil rouge nella storia dell’Ottocento italiano che lega alla massoneria la carboneria e il vasto mondo del settarismo politico rivoluzionario e a questa tesi restano ovviamente molto legati i massoni. Questa premessa può aiutarci a verificare quanto la realtà sia diversa dal mito.
Solo l’8 ottobre 1859 usciamo dalle nebbie dell’indeterminatezza con la fondazione a Torino della loggia Ausonia, a opera di un piccolo gruppo di maestri massoni. I nomi dei fondatori non colpiscono certo per la loro centralità nella storia patria, e in particolare nelle vicende politico-militari che segnarono la preparazione e lo svolgimento della seconda guerra d’indipendenza nella primavera di quello stesso anno.
Il più noto è sicuramente Livio Zambeccari, compromesso nei moti carbonari del 1821 e da allora esule, in Spagna, in Uruguay, in Argentina e poi in Inghilterra. Massone dal 1835, ha combattuto con Garibaldi e conosciuto Mazzini. È stato deputato alla Costituente romana del 1849. Rifugiatosi a Corfù, cerca di organizzare logge massoniche nell’isola e ne viene espulso. Una vita avventurosa che trova il suo approdo nella Torino di Cavour, di cui condivide il programma politico. Con lui, il vecchio stenografo della Camera Filippo Delpino, un massone di età napoleonica, che ha dei lontani trascorsi carbonari e poi mazziniani; il medico Sisto Anfossi, che è stato esule a Parigi; l’avvocato Carlo Flori, di Reggio Emilia, esule del 1831, attivo nel 1848 parigino, diventato sottoprefetto in Piemonte; il litografo Francesco Cordey di Losanna, il commerciante Giuseppe Tolini di Varallo, l’operaio Vittorio Mirano di Alessandria. Maestro venerabile, ovvero capo della loggia, viene eletto l’ultraottantenne Delpino.
È probabile che dietro la nascita di questa loggia ci siano Cavour e la Società nazionale italiana. Rosario Romeo – che allo statista piemontese ha dedicato lunghi studi – ignora la questione e sostiene anzi che Cavour diffidava delle società segrete nei paesi liberi, né del resto ci sono prove di una sua adesione alla massoneria. Nell’autunno 1859 Cavour, che è stato il grande artefice delle vicende politico-militari di quell’anno, è fuori dal governo e teme il fallimento dei suoi progetti e il consolidarsi di un’egemonia francese in terra italiana. Per questi motivi potrebbe aver valutato positivamente la nascita di una massoneria nazionale per neutralizzare il pericolo che il Grand Orient de France – guidato dal principe Luciano Murat, cugino di Napoleone III – potesse favorire la costituzione di un regno dell’Italia centrale per un napoleonide, in linea con i progetti dell’imperatore dei francesi. Non sappiamo se Cavour fosse a conoscenza dei legami francesi delle logge di Livorno e Genova, ma entrambe rispondono comunque negativamente alla proposta che arriva dalla loggia Ausonia di avviare un’azione comune.
La modesta rappresentatività del gruppo fondatore della prima loggia torinese dovrebbe far riflettere sul presunto ruolo giocato dai massoni negli anni precedenti. Il contrasto tra la «mitologia massonica» e la realtà – quale emerge da documenti a disposizione di tutti – è tale dunque che non può non far riflettere sulla forza del mito. Come è possibile continuare a credere a un Risorgimento «voluto» dalla massoneria quando poi ci troviamo di fronte a poche persone che si riuniscono e si propongono di ricercare tracce di eventuali presenze sul territorio? Quanto sia tutto affidato a un progetto in divenire lo dimostra anche la freddezza con cui questa prima iniziativa è accolta dalle poche logge rintracciate in Italia che – legate a Parigi – non appaiono affatto interessate, in un primo momento, a costituire un’istituzione massonica italiana.
La massoneria che torna a vivere ufficialmente, mentre l’Italia si avvia a diventare Stato unitario, per la prima volta dopo la fine dell’Impero romano, è un organismo che solo con difficoltà si può ricollegare alla tradizione settecentesca con il suo ricco bagaglio di cultura iniziatica ed erudita che aveva segnato la vita di logge legate alla più stimolante circolazione di idee di respiro europeo. Mentre, come si è detto, ha invece lasciato una traccia non facile da dimenticare la massoneria napoleonica, luogo di aggregazione dei nuovi ceti emergenti. Le logge che si costituiscono si riempiono di uomini che hanno combattuto con la penna o con la spada per l’indipendenza nazionale, che hanno sofferto l’esilio e il carcere, che si avviano a ricoprire le più alte cariche della politica e dell’amministrazione. Sono la nuova classe dirigente di un paese giovane in via di assestamento. La massoneria italiana nasce e si struttura contemporaneamente allo Stato, con gli stessi uomini e con un chiaro progetto politico.
Facendo nostre le domande che Nello Rosselli poneva al lettore nel lontano 1926, bisogna chiedersi come mai, in un arco di tempo molto limitato, tanta gente che in passato ha organizzato sommosse e sottoscrizioni, collaborato con Mazzini o Cavour, combattuto con Garibaldi, entra nell’agone politico e nello stesso periodo entra anche in loggia. Cosa ritiene che sia la massoneria? Cosa vuole dalla massoneria? Cosa pensa di portarvi? Come ritiene di poter operare in loggia?
È storicamente accertato che le logge fioriscono nei paesi in cui si aprono spazi alla libertà di associazione; resta però un problema storiografico il motivo per cui questo accada e, nel nostro caso, come mai sia successo nell’Italia che si stava unificando. È sicuro che molti esuli hanno conosciuto l’istituzione nei paesi europei in cui hanno vissuto, ma resta importante chiarire quale scopo le assegnassero.
Si può forse capire questa scelta innestando la storia della massoneria italiana su quel filone di studi che ha fatto dei processi di «nazionalizzazione» delle masse una chiave della storia dell’Ottocento, valorizzando gli apparati ideologici, la sacralizzazione della politica, la formazione di un ethos comune. Resta il dato incontrovertibile che molti politici e uomini di cultura, nei primi anni dopo l’Unità, sono, quanto meno, transitati in una loggia: alcuni per restarci, altri abbandonandola subito delusi, altri ancora creando percorsi articolati che li hanno visti, in momenti diversi della vita, critici feroci dell’istituzione e convinti protagonisti.
Molti forse hanno visto nell’istituzione, dotata di una struttura e di una gerarchia ben organizzata, l’involucro idoneo a raccogliere e organizzare una parte dell’élite dirigente alla ricerca di nuovi valori di riferimento e di una religiosità non tradizionale. Non bisogna però cadere nell’errore di considerare questo sodalizio alla stregua di un moderno partito politico, perché non lo è mai stato, anche se molti vi hanno introdotto e variamente rielaborato i tanti fermenti culturali e sociali dell’epoca, secondo il pensiero massonico. Nelle logge entrano personaggi che hanno alle spalle decenni di militanza politica, che hanno avuto rapporti in gioventù con il variegato mondo rivoluzionario europeo, che hanno assorbito le più diverse teorie; esponenti del pensiero repubblicano rivoluzionario che, particolarmente attenti alle questioni sociali e al diritto all’autodeterminazione dei popoli, cercano di coniugare il socialismo con la fratellanza universale della cultura muratoria, senza peraltro rinunciare a interpretare in chiave iniziatica l’auspicato rivolgimento socio-politico. Per quanto la cosa possa apparire di non facile comprensione, nei massoni coesistono razionalità e atteggiamento intellettuale rivolto alla trascendenza, caratteristica costante, questa, dell’esoterismo occidentale, che porta a prospettive di palingenesi individuale e collettiva. Ci sono poi molti liberali moderati e una più larga base, rappresentativa del ristretto ceto medio italiano, ma anche dei nuovi mestieri.
Quando si sostiene che i massoni, nell’Italia liberale, hanno fatto politica bisogna dunque intendersi sul senso da dare a questa affermazione. Se consideriamo che la politica ha la funzione di cercare di integrare ciò che è separato, dare le basi di una comune appartenenza, costituire il legame sociale, allora appare corretto affermare che i massoni hanno svolto una consapevole e costante attività politica. La politica aiuta a rafforzare i legami sociali; la politica dà le linee dell’autoidentificazione e dell’autorappresentazione collettiva (quali valori storici rappresentiamo, quali vicende ci hanno prodotto, quale significato ha il nostro stare insieme). I massoni italiani hanno indubbiamente cercato di contribuire all’elaborazione di un’identità condivisa, per avvicinare la popolazione allo Stato e contribuire così alla nazionalizzazione degli italiani.
Quella che si può disegnare è una rete di consonanze ideali, di aspirazioni politiche e sociali, di progetti e proposte che vedono attivi un numero significativo di individui, molti dei quali entrano in loggia con la speranza di poter vedere realizzate le proprie aspirazioni.
Significativo al riguardo appare il ruolo svolto nel panorama culturale italiano dalla rivista «La Ragione» pubblicata a Torino dal 1854 al 1858. La dirige Ausonio Franchi, sacerdote sospeso a divinis, filosofo e teologo, affascinato dal socialismo quale nuova «religione dell’umanità» e dal pensiero di Giordano Bruno, convinto dell’impossibilità di conciliare cattolicesimo e libertà perché la libertà deve essere la nuova religione. Franchi condivide il cavouriano principio «libera Chiesa in libero Stato». Intorno a lui si raccolgono i democratici Giuseppe Montanelli, Filippo De Boni, David Levi, Mauro Macchi e altri rappresentanti della democrazia radicale che poi, negli anni Sessanta, contribuiscono a diffondere nelle logge quegli stessi ideali già discussi sulle pagine del giornale.
Franchi, che insegna storia della filosofia a Pavia dal 1860 al 1863, prima di essere trasferito all’Accademia scientifico-letteraria di Milano, entra in massoneria nel 1863 a Milano nella loggia Insubria e l’anno successivo ne assume la guida. Nel discorso che legge in loggia il 30 maggio 1864, egli delinea un ampio progetto nel quale auspica la nascita di società di mutuo soccorso e istituti di credito per artigiani e contadini; sollecita scuole aperte a tutti e accesso al lavoro in luogo della beneficenza e della carità. Politicamente, per lui, la massoneria deve essere un campo neutro dove tutti possano incontrarsi per il bene comune. Il suo ideale massonico si può così sintetizzare: ridurre a una sola famiglia l’umanità.
La cifra comune che troviamo presente in tutte le proposte discusse in questi anni è quella del ruolo che si ritiene la massoneria possa svolgere in Italia grazie al fatto di essere, secondo le parole di Franchi, «l’unico istituto, che abbia da secoli una gerarchia ed una disciplina da potersi contrapporre alla clericale. Essa quindi possiede ciò appunto che manca alla parte liberale, un centro, un corpo, un organismo una forza d’attrazione e di assimilazione, che non ha bisogno se non di estendere assai più la sua azione per comporre di tutti i cittadini liberali una famiglia sola e onnipotente» (Franchi 1864, p. 7). A questo organismo si affida il compito di puntare al progresso generale dell’umanità, al bene comune dei popoli, all’incremento del diritto e della libertà, utilizzando la politica per il raggiungimento dei grandi ideali massonici.
Dunque si aderisce alla massoneria perché la si considera l’unica realtà organizzativa in grado di potersi contrapporre alla ancora totalizzante cultura cattolica e le si chiede di costruire le linee guida fondamentali per la modernizzazione e la secolarizzazione del paese. I massoni sono numericamente pochi e hanno modeste risorse da impiegare nell’utopistico progetto di riforma globale della società, ma appaiono determinati nel voler trasformare l’Italia, e questo potrebbe contribuire a spiegare l’esasperata attenzione che dalle pagine della «Civiltà Cattolica» viene indirizzata verso i sodalizi massonici di cui si teme non già la potenza in atto, ma la pericolosità in fieri e soprattutto le alleanze e il progetto globale.
L’anticlericalismo ha segnato a lungo la storia dei paesi europei di cultura cattolica, facendo della massoneria un punto di riferimento ideale per quanti polemizzano con il potere ecclesiastico, accusato di voler dominare la società civile e condizionare lo Stato. Si rimproverano al clero la corruzione, l’ipocrisia e l’abbandono dei princìpi evangelici; si sollecita la laicizzazione dello Stato e della società facendo riferimento alla cultura dell’Illuminismo e al filantropismo umanitario, coniugati con il positivismo evoluzionistico e materialistico. In Italia poi l’anticlericalismo si lega al processo di unificazione nazionale e all’abolizione del potere temporale dei papi.
Nella prima fase di vita della rinata massoneria, sono spesso le logge o addirittura singoli personaggi ad avere un’evidente capacità progettuale. I primi massoni torinesi si riconoscono nella linea politica liberal-moderata di Cavour e intendono fare della nuova struttura un centro di azione filogovernativo e monarchico. A Torino tra i primi a essere iniziati nella loggia Ausonia troviamo il fondatore e condirettore della «Gazzetta del Popolo» Felice Govean, che diventa rapidamente l’uomo chiave della massoneria piemontese. Scrittore di opere a carattere divulgativo destinate all’istruzione popolare, Govean è anche impegnato nelle associazioni di mutuo soccorso piemontesi. È lui a proporre la costituzione del Grande Oriente d’Italia (Goi), assumendo la funzione di segretario fino alla convocazione della prima assemblea generale dei liberi-muratori del dicembre 1861. Tra la fine del 1859 e i primi mesi del 1860 entrano a far parte della loggia molti esponenti politici e uomini di cultura tra cui Pier Carlo Boggio, Filippo Cordova, Michele Coppino, David Levi, Giuseppe Toscanelli, Costantino Nigra.
Il 9 maggio 1860 nella loggia Ausonia di Torino entra anche il siciliano Giuseppe La Farina che ha svolto un ruolo politico di eccezionale importanza tra il 1857 e il 1859 come segretario della Società nazionale italiana e stretto collaboratore di Cavour. Figura centrale, anche se non molto conosciuta, negli anni che vedono maturare il progetto di unificazione della penisola, appartiene a quel gruppo di uomini convinti della necessità di allargare la sfera del consenso, educando il popolo. Crede nella possibilità di fare dell’Italia una nazione e ha fede nei vantaggi di cui tutti godrebbero in una nuova situazione politico-istituzionale. In accordo con Cavour guida la Società nazionale italiana – organo di raccordo di tutte le frazioni liberali e democratiche che accettano il ruolo dirigente della monarchia sabauda – che diventa l’incubatrice della futura classe dirigente, in grado di assumere il controllo dei vari territori mano a mano che nel 1859 riescono a liberarsi. Nella Società nazionale affluiscono i democratici delusi dalla rigidità dottrinaria di Mazzini e convinti della necessità di aggregare quanti, a cominciare da Garibaldi, indipendentemente dalle loro opinioni politiche, sono disposti a operare per unificare l’Italia intorno alla monarchia sabauda. È del resto proprio l’adesione del generale nizzardo, la cui popolarità è già enorme, a decretare il successo del gruppo che opera nella clandestinità pur facendo riferimento al presidente del Consiglio piemontese.
Nella mente di Cavour, la Società nazionale si pone come il nucleo di un vero partito nazionale liberal-moderato, già pronto a operare in sede locale e in sede nazionale e, come sappiamo, essa svolge egregiamente nel 1859 i compiti affidatigli nella preparazione della seconda guerra d’indipendenza.
Si è molto parlato della presunta genesi massonica della Società nazionale italiana, che appare destituita di ogni fondamento anche se Delpino e Zambeccari, Levi, La Farina e Carlo Michele Buscalioni compaiono in entrambe le associazioni. Da qui forse l’equivoco che la Società nazionale sia stata un’emanazione massonica. In realtà solo nel febbraio del 1860 La Farina comincia a pensare alla possibilità di prendere contatto con la massoneria: «Per quanto alla Massoneria – scriveva a Giuseppe Vergara – sono pienamente d’accordo con te, ch’è cosa da non trascurare. So che qui vi è loggia, ma ignoro chi la componga; se pensassero rivolgersi a me, accetterei volentieri» (La Farina 1869, 2° tomo, p. 297). Presidente della Società nazionale, vicepresidente dell’Unione liberale, consigliere di stato, vicepresidente della Camera, La Farina resta massonicamente molto attivo fino al 1863, quando muore.
Solo a Roma, rimasta capitale dello Stato pontificio fino al 20 settembre 1870, troviamo negli anni Sessanta una parziale sovrapposizione tra la loggia clandestina Fabio Massimo, nata il 7 dicembre 1861, e il Comitato nazionale romano, sezione locale della Società nazionale italiana, rimasto legato al governo italiano. I fratelli della loggia sono anche in gran parte membri del Comitato filogovernativo e molti di loro finiscono al confino o in esilio.
Nel dicembre del 1861 viene iniziato a Torino anche Buscalioni che è subentrato a La Farina come segretario della Società nazionale italiana, di cui dirige gli organi di stampa «Il piccolo corriere d’Italia» e «L’Espero». Iniziato da appena un mese, è per qualche tempo la figura di riferimento del Goi e poi il suo primo storico. Diventato gran maestro aggiunto nel 1863, la sua esperienza massonica si conclude con la sconfitta della sua linea di indirizzo nel 1864.
Alla fine di dicembre del 1861 si riuniscono a Torino, dando vita alla prima Assemblea costituente massonica, i rappresentanti di 23 logge, che si sono costituite in varie parti d’Italia nell’arco di due anni e che sono unite dallo stesso progetto di aggregare le élites liberal-moderate e filomonarchiche. Tra loro tre logge di Torino, una di Bologna, cinque di Livorno, una di Pisa, Firenze, Ascoli, Macerata, Genova, Milano, Mondovì, Cagliari, Messina, Roma. Sono presenti anche due logge di Alessandria d’Egitto, una del Cairo e una di Tunisi, fondate da italiani all’estero.
A capo della giovane istituzione si era pensato di mettere Cavour e, dopo la sua morte, l’ambasciatore italiano a Parigi Nigra, che prima aveva accettato, poi rifiutato e infine in tarda età avrebbe negato ripetutamente ogni legame massonico. L’aver voluto un personaggio pubblico come Nigra si può spiegare con la sua notorietà, che avrebbe dato credibilità in Europa ai massoni italiani, e avrebbe soprattutto testimoniato il loro legame con la linea cavouriana. Quanto a Nigra, i duri attacchi del periodico clericale «Armonia» potrebbero averlo convinto della opportunità di non rischiare la carriera per la massoneria. È interessante comunque ricordare che il programma inizialmente scritto dal neoeletto Nigra, mirava a creare logge a Roma, nelle città del Veneto, del Friuli e del Trentino con l’evidente scopo di contribuire all’unificazione di tutto il paese anche con l’apporto dei massoni. Segretario della prima assemblea costituente massonica è David Levi, un avvocato israelita legato in gioventù a Mazzini, ma avvicinatosi alla fine degli anni Cinquanta a Giorgio Pallavicino e a La Farina, interessato alla questione sociale e all’emancipazione dei ceti popolari, deputato di sinistra, diventato massone negli anni Trenta a Livorno, una città aperta al dialogo interculturale. Si deve a Levi, che considera la massoneria importante per il contributo dato alla lotta per la difesa e l’estensione delle libertà individuali, in primo luogo quelle di pensiero e di parola, la prima teorizzazione di come si ritiene debba operare l’istituzione nel particolare momento in cui si trova la nazione.
La rivoluzione politica e nazionale, che sta per compiersi in Italia – scrive – non potrà assicurare il suo trionfo, né completarsi, se a paro con essa non si promova la riforma morale del popolo italiano. Questa riforma, o meglio diremo, la educazione morale, fisica, intellettuale dell’individuo e della Società è lo scopo che si propone a’ suoi lavori la Massoneria italiana ricostituita (Levi 1861, p. 8).
Il programma delineato da Levi è molto ambizioso e presuppone una struttura massonica forte e ben organizzata, una significativa attenzione alla diffusione delle idee massoniche attraverso la stampa e la promozione da parte dei massoni di scuole per i bambini, scuole serali e tecniche per gli operai, diffusione della scienza nella popolazione.
Questa progettualità, indirizzata alla trasformazione politica e sociale, alla secolarizzazione della società, non è certo esclusiva dei massoni, ma transita anche nelle logge e motiva l’appartenenza di molti aderenti. Complementare e inscindibile dal compito pedagogico di costruire il cittadino liberale, contribuire a strutturare lo Stato ed elaborare ordinamenti moderni, c’è la difesa dell’unità territoriale dello Stato italiano. Sono tanti i massoni che si sentono impegnati a difenderla da una temuta dissoluzione, una paura che, come sappiamo, condiziona la politica italiana nei primi decenni dopo l’Unità.
Sarebbe però semplicistico ritenere che la massoneria italiana sia nata adulta e pronta all’azione, ricca dell’elaborazione culturale delle epoche precedenti. La fase iniziale è lunga, complessa e conflittuale, segnata da un proliferare di logge e di sodalizi dei quali entrano a far parte massoni iniziati spesso senza formalità rituali, cui vengono conferiti tutti i gradi in pochi giorni o addirittura ore. Privi di sicuri maestri, privi di guida e di indirizzo, molti massoni degli anni Sessanta diventano legislatori e riformatori di un’associazione che conoscono assai poco e che cercano di indirizzare ora verso un eccesso di politica militante, ora nella direzione opposta. Nel volgere di pochi anni, assistiamo prima al tentativo di portare un buon numero di massoni in Parlamento e all’opposto, nel 1867, alla chiusura momentanea di tutte le logge in occasione delle elezioni politiche, per impedire agli affiliati di farvi campagna elettorale.
Accanto e in contrapposizione al sodalizio torinese del Grande Oriente, a Palermo nel 1860 nasce un Supremo consiglio del Grande Oriente d’Italia di rito scozzese antico e accettato, ad opera di democratici vicini al movimento garibaldino, tra cui Pasquale Calvi e Zaccaria Dominici, che rivendica la sua autonomia e una pretesa maggiore anzianità rispetto agli altri nuclei. I massoni siciliani rappresentano l’altra anima della rivoluzione italiana, quella democratica e repubblicana, e sostengono un collegamento diretto con le logge sorte durante la rivoluzione del 1848. In realtà a Palermo, nel maggio del 1860, i massoni sono non più di 40 e solo dopo l’ingresso in città di Garibaldi si riattiva la loggia Rigeneratori del 1848 che assume il nome I Rigeneratori al 12 gennaio 1848 e Garibaldini al 1860. In questa loggia viene iniziato il 13 novembre 1860 Francesco Crispi, che per alcuni anni appare molto attivo nella massoneria palermitana con il preciso incarico di fondare nuove logge, regolarizzare quelle esistenti da attrarre nell’orbita siciliana e, se possibile, sottrarre logge al gruppo torinese. Nella primavera del 1862 Garibaldi viene nominato gran maestro del gruppo palermitano. A Napoli, nell’agosto 1861, Domenico Angherà, un ex sacerdote, massone dal 1848 e poi esule a Malta, fonda la loggia Sebezia e dà vita al Grande Oriente napoletano e poi, nel 1863, al Supremo consiglio. Ognuna di queste strutture può contare su poco più di 20 logge, prevalentemente dislocate intorno al centro propulsore.
La scelta del rito è fondamentale nella vita di una loggia o di un’istituzione, anche se i massoni italiani dell’Ottocento sembrano piuttosto estranei agli aspetti esoterici: molti di loro diventano massoni senza nessuna cerimonia e parecchi irridono ai rituali. Il rito è il complesso di norme che regolano le cerimonie all’interno di un tempio massonico, ma il termine rito viene anche usato per indicare un organismo massonico che amministra gradi superiori al terzo svolgendo la funzione di «scuola di perfezionamento».
I massoni torinesi decidono di adottare quello che poi diventa il Rito simbolico italiano, formato dai soli tre gradi di apprendista, compagno e maestro, per ribadire la loro lealtà alla corona e alla linea governativa, e dichiarano di volersi uniformare al Rito francese, per sottolineare i loro legami con Parigi. Intendono forse fare riferimento alla struttura organizzativa del Grand Orient de France, composta da logge che praticano i primi tre gradi simbolici, riunite in un organismo nazionale denominato Grande Oriente, retto da un gran maestro e da una Giunta direttiva o Supremo consiglio nominato da un’Assemblea generale.
I massoni palermitani – di sentimenti democratici e molto critici nei confronti dell’imperatore dei francesi Napoleone III – potrebbero aver scelto il Rito scozzese antico e accettato, un rito di 33 gradi, verticista e imbevuto di suggestioni rivoluzionarie in alcuni gradi, per manifestare la loro vicinanza agli «scozzesi» francesi, centro dell’opposizione al sovrano, ma anche per poter contare su una struttura organizzativa più simile a quelle di tipo settario.
Centrale nella massoneria di questi anni, così come lo è nel panorama politico italiano, appare la figura di Garibaldi, iniziato nel 1844 in una «loggia selvaggia» di Montevideo, Asilo de la Vertud, e poi passato nella loggia regolare Les Amis de la Patrie. Non abbiamo però notizie di una qualche attività massonica di Garibaldi in Italia prima del giugno del 1860, quando, sbarcato in Sicilia con i Mille, viene elevato dal grado iniziale di apprendista (segno evidente di un lungo disinteresse per i lavori massonici) al grado di maestro massone, ma senza nessuna cerimonia formale perché nell’isola non ci sarebbero state ancora logge funzionanti. Egli stesso afferma di essere stato aiutato «da Marsala al Volturno» dai massoni siciliani, adombrando l’ipotesi che la liberazione del meridione d’Italia dalla dinastia borbonica sia anche merito della rete associativa massonica, che proprio in quei mesi comincia a rivitalizzarsi per merito dei democratici isolani.
Nel marzo del 1862 alcuni alti dignitari «scozzesi», tra cui Crispi, Saverio Friscia, Rosario Bagnasco, conferiscono al generale tutti i gradi massonici dal 4° al 33° e lo nominano presidente del Supremo consiglio Grande Oriente d’Italia sedente in Palermo. Pochi mesi dopo Garibaldi – di nuovo in Sicilia per tentare la spedizione che avrebbe dovuto liberare Roma, ma che invece porta allo scontro con l’esercito regio sull’Aspromonte – fa iniziare tutti gli uomini del suo stato maggiore (Giacinto Bruzzesi, Giuseppe Missori, Francesco Nullo, Pietro Ripari, Giovanni Chiassi, Giovanni Basso, Enrico Guastalla, Giuseppe Nuvolari, Giuseppe Guerzoni, Francesco Bideschini, Pietro Porza, Gustavo Frigyesi), esentandoli da ogni formalità rituale. Contemporaneamente invia una circolare ai maestri venerabili per sollecitare un concreto sostegno alla spedizione. Queste iniziative mostrano chiaramente che Garibaldi intende appoggiarsi alla massoneria palermitana per realizzare il suo progetto militare che si conclude però con la sconfitta e l’arresto. Questo episodio del 1862 è il solo che vede nell’Ottocento un gruppo massonico italiano chiamato a partecipare in blocco a un’impresa rivoluzionaria.
La nuova azione che Garibaldi organizza nell’autunno del 1867 per liberare Roma e il Lazio, mette in agitazione tutti i massoni italiani, impegnati a raccogliere fondi e ad attivare reti e strutture organizzative, pur tra mille timori e perplessità. Sono parecchi anche i massoni che accorrono al seguito di Garibaldi e combattono con lui a Monterotondo e a Mentana. L’indignazione per il suo arresto è corale e l’idea che il primo massone d’Italia sia rinchiuso nella fortezza del Varignano suscita appelli e proteste.
Della vicenda massonica di Garibaldi vanno sottolineati alcuni aspetti: nei primi dieci anni di vita della massoneria in Italia, intorno alla sua figura si giocano le sole possibilità di unire le sparse membra di gruppi in conflitto tra loro e, non diversamente da quanto avviene in contemporanea nel mondo politico e associativo, Garibaldi mostra un’evidente volontà di svolgere un ruolo di raccordo tra le parti, accettando investiture dagli uni e dagli altri. Va aggiunto che Garibaldi manifesta una notevole sensibilità iniziatica, ma – come del resto altri grandi rivoluzionari – non esita a finalizzare la sua militanza al raggiungimento di mete dichiaratamente politiche.
Il Grande Oriente di Torino si dota di una struttura rappresentativa molto articolata con assemblee annuali ed elezioni regolari di tutte le cariche, compresa quella di gran maestro (la massima autorità massonica). Dopo Nigra, il 1° marzo 1862 viene eletto Cordova, un deputato liberale più volte ministro con Bettino Ricasoli e Urbano Rattazzi e già gran maestro aggiunto. La dirigenza del Grande Oriente è in gran parte ancora su posizioni governative, ma la componente democratica comincia ad acquistare un suo spazio e una sua visibilità nelle logge.
L’omogeneità ideologica liberal-moderata e filogovernativa del Goi si incrina nel febbraio del 1862 con la nascita a Torino della Dante Alighieri, una loggia ispirata dal siciliano Crispi, nella quale entrano o vengono iniziati molti esponenti della sinistra democratica tra cui Lodovico Frapolli, Francesco De Luca, Giuseppe Montanelli, Mattia Montecchi, Mauro Macchi, Giuseppe Zanardelli, Saverio Friscia, Benedetto Musolino, Riccardo Sineo, il direttore del quotidiano «Il Diritto» Giuseppe Civinini e Agostino Depretis.
Tra gli iscritti troviamo il principe François-Claude Arpad de Crouy-Chanel, pretendente al trono ungherese, e Ferdinando Ghersi, un vecchio massone iniziato in Spagna; entrambi alti dignitari del rito scozzese antico e accettato, lo introducono anche nella loggia. Il principe ungherese fonda il Supremo consiglio del rito a Torino e ne diventa il Sovrano gran commendatore (1862-64), seguìto nella carica proprio da Ghersi. Alto dignitario scozzese è anche De Luca, che diventerà gran maestro del Grande Oriente d’Italia. La loggia riunisce molti deputati e ufficiali di carriera non solo italiani ma anche polacchi, rumeni e ungheresi. Il 2 marzo entrano nella loggia Antonio Mordini, che era stato prodittatore in Sicilia nel 1860, e Aurelio Saffi, triumviro della Repubblica romana del 1849 e sempre legato a Mazzini. La loggia mette subito in discussione la regolarità dell’elezione del moderato Cordova, che ha prevalso per pochi voti sulla candidatura di Garibaldi e, in rotta di collisione con il Grande Oriente di Torino, il 18 marzo delibera di «fare adesione al Grande Oriente d’Italia sedente in Palermo» di cui è gran maestro lo stesso Garibaldi.
Il forte interesse dei democratici per la massoneria, lo scontro con la dirigenza di Torino e l’appoggio aperto a Garibaldi si spiegano abbastanza facilmente se pensiamo a quanto fosse fluida la situazione in quel 1862 e a quante aspettative nutrissero tutti nei confronti del generale. Si parlava di spedizioni nei Balcani e di sollevazione del Veneto. Sono mesi di grande fermento nei quali Mazzini spinge per moltiplicare le associazioni di area democratica che potrebbero diventare la base della mobilitazione popolare e coinvolgere, e se possibile condizionare, anche Garibaldi, che appare al centro di mille trame e di mille programmi.
L’elezione di Garibaldi a capo di due diverse e contrapposte Obbedienze, le avrebbe di fatto unificate, portando contemporaneamente il Grande Oriente di Torino su posizioni democratiche. Lo scontro diventa di pubblico dominio perché ne scrivono sia il democratico «Il Diritto» di Civinini, sia «L’Espero», giornale di cui è proprietario e direttore Buscalioni e che in questo periodo diventa l’organo ufficioso dei massoni moderati. In età liberale i giornali sono usati spesso come strumento di confronto e scontro tra divergenti progetti massonici e, soprattutto in provincia, non è difficile seguire le vicende delle logge sugli organi di stampa locali.
Insofferente alla linea politica moderata del gruppo dirigente torinese e attratta dal radicalismo repubblicano del nucleo «scozzesista» siciliano, la loggia Dante Alighieri assume una sua propria identità e indipendenza nel 1864, cerca accordi con Crispi a Palermo, assume la funzione di «Grande Oriente al rito scozzese per le province subalpine», infine rientra nel Grande Oriente facendosi riconoscere le strutture organizzative «scozzesi» del Capitolo, del Consiglio e dell’Areopago, aprendo così la strada al riconoscimento di una pluralità ritualistica.
L’uomo di riferimento è ancora Garibaldi che, pur essendo a capo del Grande Oriente di Palermo, viene eletto gran maestro nell’Assemblea costituente del Grande Oriente d’Italia che si svolge a Firenze nel 1864. Si spera in questo modo di unificare di fatto la massoneria italiana con una carica onorifica offerta a un personaggio carismatico, mentre l’esercizio effettivo del potere dovrebbe essere appannaggio del deputato calabrese De Luca, eletto suo sostituto.
Garibaldi ha invece in mente il progetto ambizioso di «raccogliere in un fascio» le tante espressioni della sinistra democratica e spera di poterlo fare anche attraverso la libera muratoria, proprio in una fase in cui la dirigenza è impegnata invece a evidenziare le differenze fra l’attività politica e quella massonica. La massoneria non può essere un partito, sostiene De Luca, che assume la reggenza dopo le scontate dimissioni di Garibaldi e la durissima reazione del Supremo consiglio di Palermo che non intende farsi assimilare dal Goi. Il deputato calabrese, rappresentante di una sinistra moderata, si impegna a tenere la politica fuori dalle logge.
Nel decennio 1860-1870 si assiste dapprima a una crescita tumultuosa di tutte le diverse Comunioni italiane (Torino, Palermo, Napoli, Milano), ognuna delle quali intercetta un segmento dell’opinione nazionale, poi, a fronte di un aumento costante del Grande Oriente d’Italia che arriva a contare 150 logge alla fine del decennio, si manifesta la crisi del Supremo Consiglio di Palermo che, dalle 126 officine del momento di maggiore sviluppo, scende a sole 23 logge sicuramente attive.
Sono però poche le logge che hanno una vita lunga e regolare. Sono molto più numerose quelle che hanno vita breve, sono pressoché inattive, si sciolgono oppure vengono demolite o ancora si rendono autonome dai centri di riferimento. La loggia è un organismo autonomo e autoreferenziale e, in quanto tale, se non si riconosce nella linea della dirigenza del gruppo di riferimento, può prendere una strada indipendente dando vita a nuove organizzazioni che si accorpano, si scindono, si riaccorpano secondo variabili sempre diverse. Analogo appare il comportamento di quanti migrano da una officina a un’altra, abbandonano a volte per lunghi periodi l’istituzione; spesso, dopo un rapido transito, si allontanano per sempre dalle logge nelle quali non hanno trovato evidentemente quello che cercavano.
L’Assemblea costituente che si tiene a Firenze nel 1864 segna la fine della supremazia del gruppo torinese. Insieme alla capitale, anche l’asse della politica massonica si sposta dal Piemonte in Toscana, dove viene trasferita nel 1866 la sede ufficiale del Grande Oriente d’Italia. In pochi anni (1861-64) i rapporti di forza all’interno del Goi subiscono dunque una completa trasformazione. Sono i democratici a prendere ben presto il controllo della struttura, nata con una maggioranza di aderenti di cultura liberal-moderata. Da questo momento si apre un insanabile confronto tra gli appartenenti ai diversi riti attraverso i quali passano differenti culture massoniche.
Il Rito scozzese antico e accettato, diffuso in tutto il mondo, ha un’organizzazione interna di tipo piramidale assai complessa. La «strada di perfezione» che propone rivisita talune situazioni storiche ben datate (templari, rosacroce), per poi interpretarle da un punto di vista metastorico, sintetizzando le varie tradizioni e riconducendole all’unità. Il Rito simbolico, all’opposto, è solo italiano. Non esistono gradi, non vi sono gerarchie, tutte le cariche sono elettive e temporanee e il cerimoniale è ridotto al minimo. Tutto ciò lo fa ritenere uno strumento democratico e quindi più adatto ai tempi. I «simbolici» ritengono che il grado di maestro presupponga il raggiungimento della perfezione massonica e che la sovranità debba essere appannaggio di tutti i maestri massoni. «Scozzesi» e «simbolici», pur intraprendendo un percorso iniziatico sostanzialmente diverso, convivono nell’Ordine, vale a dire nella struttura amministrativa e organizzativa nella quale confluiscono tutte le logge che si riconoscono in una determinata Obbedienza.
Nel 1864 un gruppo di logge dissidenti dal Goi si riunisce intorno alla loggia Insubria, dando vita al Rito simbolico di Milano. Alla base dello scisma un programma progressista in campo sociale, la volontà di allargare le possibilità di accesso alla massoneria, riducendo le tasse annuali di frequenza e semplificando al massimo la complessa ritualità massonica, con la conservazione dei soli gradi simbolici di apprendista, compagno e maestro. Il gruppo, che fa capo a Franchi e raccoglie adesioni in una ventina di logge del Centro-Nord, getta le fondamenta della Serenissima Gran Loggia di Rito Simbolico. Fra gli aderenti troviamo avvocati, docenti universitari, banchieri. Il Rito simbolico di Milano rimane separato dal Grande Oriente d’Italia dal 1864 al 1868, quando, per impulso dell’avvocato trentino Simone Larcher, lo scisma ha termine e il gruppo rientra nel Goi.
Nel 1867 Lodovico Frapolli, il gran maestro che subentra a De Luca, sottopone a un pesante ritocco la comunione appesantita da troppe logge inattive e da troppi associati entrati a seguito di un «proselitismo senza discernimento». Le linee programmatiche vengono formalizzate nel nome stesso della Comunione, che aggiunge a «Massoneria Universale-Famiglia Italiana-A.G.D.G.A.D.U.» (alla gloria del grande architetto dell’universo), le parole «Scienza, Libertà, Lavoro, Fratellanza, Solidarietà». Frapolli emana nel 1867 nuovi statuti che riorganizzano il Goi lasciando all’assemblea generale dei rappresentanti di tutte le logge italiane la facoltà di determinare le linee programmatiche della comunione, di eleggere il consiglio dell’ordine, il gran maestro e i due aggiunti.
Nel suo programma la questione educativa è centrale: asili per l’infanzia, scuole serali per gli operai, libertà d’insegnamento, mutuo soccorso e mutua istruzione tra i fratelli sono i cardini sui quali la loggia deve girare. Si afferma che tutto ciò che giova al prossimo è di competenza della loggia: dalla beneficenza, alla cura dei feriti e degli infermi.
Il personaggio Frapolli, appare emblematico dell’ambivalenza dell’essere massone, che rende questa appartenenza difficilmente catalogabile. Esponente della buona borghesia milanese, ufficiale asburgico in Polonia, ingegnere minerario a Parigi, attivo in Italia nel biennio rivoluzionario 1848-49, esule nei dieci anni successivi, torna a operare nel 1859 con i cavouriani e nel 1860 con Garibaldi in Sicilia. Come deputato siede nei banchi della Sinistra. Entra in massoneria solo nel dicembre del 1862 nella loggia torinese Dante Alighieri e in un mese percorre l’intero cursus honorum massonico, approdando al 33° grado del Rito scozzese di cui è un convinto sostenitore e che riesce in pochi anni a imporre al Goi. È favorevole all’elezione di Garibaldi a gran maestro nel 1864, ma nello stesso tempo lavora ad allontanare la Comunione da un’eccessiva contiguità con la politica militante. «Principi di quest’associazione – scrive Frapolli nell’art. 2 del regolamento di loggia da lui emanato nel 1867 – sono la ricerca del vero, la filantropia e la tolleranza»; «il suo fine esclusivo è lo studio della filosofia, l’educazione ad una morale conforme agli eterni principi della scienza e l’esercizio della beneficenza» (art. 3).
Frapolli condanna insistentemente ogni tipo di commistione con la politica, ma nel contempo fonda a Firenze nel luglio del 1867 la loggia Universo che raccoglie rappresentanti di primo piano della Sinistra democratica e di cui lui, sebbene gran maestro, si proclama «venerabile». L’aver deciso di porsi alla testa di una loggia indica il ruolo guida che ad essa viene attribuito. Il motivo di questa iniziativa risiede nella volontà di facilitare ai deputati e ai politici, presenti a Firenze per le loro attività istituzionali, la frequenza dei lavori di loggia, ma di fatto Frapolli crea una loggia anomala che per alcuni anni svolgerà il compito di indirizzare tutta la comunione.
Il documento con il quale Frapolli, il 21 luglio 1867, spiega le linee base della nuova officina definita «Loggia centrale» sembra confermarlo. Frapolli si dice convinto che l’unità massonica è premessa indispensabile per consolidare l’unità politica della nazione e spiega come intende usare questo strumento. Il venerabile della loggia Universo sarebbe stato sempre il gran maestro in carica. Ogni settimana nella sala dei passi perduti (sala che precede l’ingresso al tempio) si sarebbero tenute riunioni familiari aperte solo a quanti sarebbero stati invitati di volta in volta. «Questa loggia sarà, lo spero, nucleo fecondo» (Archivio di Stato di Roma, Carte Pianciani, busta 58).
Sembra evidente che Frapolli intenda riunire nella nuova loggia fiorentina un nucleo significativo di democratici e progressisti cui si affida il compito, al di là delle legittime rivalità politiche, di costituire il pensatoio del Goi fungendo da punto di snodo, da cerniera, tra l’istituzione massonica e il fronte della democrazia italiana. Proprio perché deve indicare ai fratelli la linea politica da seguire, è indispensabile che l’officina sia guidata dal gran maestro in persona. In tal modo si ribadisce il ruolo della massoneria come centro di raccordo del fronte più ampio possibile di progressisti, al di là delle posizioni politiche dei singoli. Ancora più eclatante è però la conclusione della carriera massonica di Frapolli che, nel settembre del 1870, si dimette dalla gran maestranza per accorrere in Francia a combattere con Garibaldi contro l’esercito invasore tedesco in aiuto della neonata repubblica, suscitando forti reazioni e violente critiche.
La guerra franco-prussiana lascia finalmente libero il governo italiano di entrare a Roma, capitale acclamata fin dal 1861, ma inaccessibile perché protetta da Napoleone III. Negli anni Sessanta la città pontificia è stata al centro dell’attenzione di quanti speravano di suscitare nei romani stessi una spinta rivoluzionaria, resa improbabile anche dall’alto numero di esuli e carcerati politici che aveva svuotato la città. Una fitta rete di rapporti ha legato al piccolo nucleo del comitato d’azione romano alti dirigenti massonici, ma con scarsi risultati. Nell’estate del 1870 la pressione massonica sul governo per il trasferimento della capitale a Roma si fa significativa e la fonte per seguirla è la «Rivista della Massoneria Italiana» diretta dal deputato democratico Macchi, il cui primo numero porta la data del 30 luglio 1870. Già nel 1867, fondando la loggia Universo, Frapolli aveva impegnato gli affiliati a trasferire la loggia a Roma appena la città fosse diventata italiana. Quello che appariva un miraggio, in pochi giorni diventa possibilità concreta e i massoni italiani si impegnano a premere sul governo facendo firmare petizioni e soprattutto attivando sinergie comuni, dimentichi per una volta delle reciproche diffidenze e pregiudiziali: lombardi e siciliani, piemontesi e toscani si muovono all’unisono agitando l’opinione pubblica, mentre migliaia di fuochi vengono accesi il 5 settembre sulle montagne dell’Appennino per significare i sentimenti della popolazione.
Con l’ingresso delle truppe italiane a Roma il 20 settembre 1870 si chiude idealmente la prima fase della storia del Goi, una vicenda segnata dall’aspirazione a completare il processo di unificazione nazionale e nel contempo caratterizzata da progetti di tipo palingenetico.
Nelle pagine precedenti abbiamo accennato più volte a Mazzini per escludere che abbia mai avuto un’iniziazione massonica e abbia fatto parte di una loggia. Ma questa mancata adesione non gli impedisce di guardare con grande attenzione a quanto succede nelle massonerie italiane, né limita il suo desiderio di condizionarne dall’esterno le vicende.
Mazzini si interessa alla nuova rete associativa che si sta creando in Italia e spera di poterla utilizzare ai suoi scopi rivoluzionari, pur rimanendo esterno alla struttura. Per questo motivo cerca di potenziare le logge del Grande Oriente di Palermo che nutrono sentimenti repubblicani e raccolgono persone a lui legate e nel 1866 – quando crea l’Alleanza repubblicana universale – tenta di farla penetrare nelle logge per farne strumento di azione rivoluzionaria. Di fronte al fallimento del suo progetto lamenta l’inutilità di una istituzione a suo dire fondamentalmente moderata perché accetta persone di differente credo politico e non impone una linea unica. Scrive infatti che «la Massoneria accettando da anni e anni ogni uomo senza dichiarazioni d’opinioni politiche, s’è fatta assolutamente inutile a ogni scopo nazionale» (Mazzini 1940, pp. 89-90).
Mazzini ha ragione nel senso che all’interno della massoneria italiana la dialettica politica è sempre molto vivace e le diverse logge si presentano spesso come nuclei che rispecchiano progetti e aspettative molto diverse le une dalle altre. Di volta in volta prevale una posizione alla quale viene immediatamente contrapposta una diversa posizione che può portare a un accordo o a una rottura, in una dialettica mai composta.
Nel 1868 il Grande Oriente di Palermo, dopo le dimissioni di Garibaldi, deluso dal fallimento del suo tentativo di arrivare a un’unificazione della massoneria, decide di offrire la carica di gran maestro prima a Carlo Cattaneo e poi a Mazzini, che rifiutano, e infine al mazziniano Federico Campanella, che accetta, ma non tarda ad accorgersi che la struttura siciliana è debole, disorganica e ha bisogno di essere profondamente rinnovata. Curiosamente avanza le stesse richieste che a Milano aveva proposto Franchi: semplificazione dei rituali, diminuzione delle quote di ammissione per aprire le logge a popolani e operai, democratizzazione della struttura. Un giovanissimo Camillo Finocchiaro Aprile, oratore della loggia Giorgio Washington di Palermo, presenta a sua volta una bozza di nuovi statuti nella quale propone l’elezione a suffragio universale di tutte le cariche massoniche e una semplificazione della struttura scozzese.
Segue un periodo di grande conflitto all’interno della massoneria meridionale, sempre più debole e divisa, mentre Campanella lavora all’ipotesi di una nuova costituente massonica che aggreghi tutte le diverse componenti e i vari riti. Riuscirà nel suo intento nel 1872, quando i siciliani confluiranno nel Grande Oriente d’Italia guidato da Giuseppe Mazzoni, uno dei triumviri del governo provvisorio toscano del 1849.
All’assemblea romana del 1872 partecipano 153 logge distribuite in tutta la penisola e tra gli italiani all’estero. Segretario risulta eletto Luigi Castellazzo, mentre il tesoriere è Luigi Pianciani (sindaco di Roma dal novembre del 1872 al luglio del 1874). Nel consiglio dell’ordine entrano Giovanni Nicotera, Giorgio Asproni, Pietro Lacava, Mauro Macchi, mentre Depretis per pochi voti non è eletto gran maestro aggiunto. Abbiamo dunque una ricca presenza di deputati provenienti dalle file della Sinistra.
Entrano per lo più in massoneria i democratici che accettano comunque le istituzioni monarchiche e che si propongono di fare opposizione dall’interno del sistema vigente. Combattono la massoneria i mazziniani che vogliono invece scardinare lo Stato monarchico e puntano alla rivoluzione repubblicana. Ma anche questo non è del tutto vero, se pensiamo che Saffi, pur legatissimo a Mazzini e suo erede, entra nella loggia Dante Alighieri di Torino, così come diventa massone Giuseppe Petroni, condannato al carcere a vita dai tribunali pontifici nel 1853 e disposto a non uscirne mai per non abiurare la sua fede politica. Viene infatti liberato solo il 21 settembre 1870. Discorso analogo riguarda Campanella. Dei tre eredi designati di Mazzini, Saffi, Quadrio e Campanella, due sono massoni. Nathan, molto vicino a Mazzini e su posizioni di stretta ortodossia, entra invece in massoneria solo quando approda al radicalismo.
È opportuno riflettere sull’adesione di tanti mazziniani alla massoneria perché, dopo la magmatica fase iniziale, la dirigenza del Grande Oriente d’Italia, l’organismo che finisce col raccogliere tutte le logge italiane, condivide e si propone di attuare molti stimoli del progetto pedagogico mazziniano attraverso l’azione di grandi maestri come Mazzoni, Petroni, Adriano Lemmi, Nathan, Ettore Ferrari, tutti di formazione mazziniana. Anche Bacci, il direttore-proprietario della «Rivista della massoneria italiana» la pubblicazione ufficiale che arriva in tutte le case dei massoni e su cui scrivono molti iscritti di fede democratica, è mazziniano.
Mazzini ripeteva che «il problema che vogliamo risolvere è un problema educativo» (Mazzini 2005, p. 22). Ed è proprio la scuola, la formazione dei giovani, l’istruzione per gli adulti, che fin dagli anni Sessanta appare al centro della progettualità dei massoni. La dimensione pedagogica fornisce un’importante chiave di lettura per interpretare molte espressioni culturali e molte forme associative della seconda metà dell’Ottocento – tutte coerentemente indirizzate a orientare i processi di trasformazione sociale – agendo da lievito all’interno dei vari programmi.
Troviamo una significativa attenzione al tema educativo già nel primo programma enunciato da Levi nel dicembre del 1861, nel quale si parla di «educazione d’ambo i sessi per mezzo di istituti, di riunioni, di scuole, onde arrivare colla scienza ad emancipare le menti dalla fede cieca, dalle credenze imposte, e secolarizzare la società, tal che ogni individuo nel sacrario della sua coscienza trovi il proprio sacerdote, nelle grandi leggi di giustizia e virtù la propria morale, e nel suo Dio la felicità e la propria salute» (Levi 1861, p. 8).
Nell’Italia liberale sono vicini alla massoneria molti personaggi impegnati nella politica scolastica: ministri e alti funzionari della Pubblica istruzione, parlamentari coinvolti nelle riforme scolastiche, studiosi di problemi pedagogici, professori universitari e di scuola media. La scolarizzazione allargata a tutte le fasce sociali e la difesa della laicità della scuola sono due cardini che contraddistinguono l’impegno dei massoni in età liberale. La richiesta di abolire qualunque insegnamento religioso nelle scuole pubbliche, che devono sviluppare il senso di una morale condivisa e non devono insegnare dogmi, è avanzata dalle logge milanesi fin dal 1870.
Anche larga parte dell’associazionismo di matrice laico-risorgimentale, che si sviluppa in Italia a partire dagli anni Sessanta dell’Ottocento, vede i massoni molto attivi. Nelle singole città non sono molti, ma i loro nomi si trovano in tutti i comitati istitutivi di associazioni, con un effetto moltiplicatore. Spesso è massone il promotore dell’iniziativa o lo sono i finanziatori. È una fitta rete che viene a coprire il territorio nazionale di associazioni di reduci dalle patrie battaglie, società democratiche, circoli popolari, società di mutuo soccorso, cooperative di consumo e di lavoro, scuole serali, biblioteche popolari circolanti, banche operaie, ricreatori popolari laici «per combattere osterie e lupanari». A fine secolo a queste iniziative si aggiungono le scuole libere professionali, le università popolari, le istituzioni sanitarie, le colonie marine. In molte città i massoni organizzano ricreatori laici festivi per ragazzi ai quali si fanno svolgere attività sportive, ludiche e istruttive.
A parere degli studiosi, è qui – nella capacità di aggregare il consenso e di mobilitare l’opinione pubblica – il vero potere della libera muratoria di età liberale. Possono essere ascritte all’area massonica anche le società di tiro a segno, finalizzate alla realizzazione garibaldina della nazione armata in luogo dell’esercito stanziale, che si diffondono in Toscana, Lombardia, Emilia Romagna e Piemonte negli anni Sessanta dell’Ottocento.
Ad alcuni medici igienisti massoni dobbiamo anche la lunga battaglia per la completa secolarizzazione dei cimiteri e la diffusione della cremazione in Italia che si avvia a Milano, nel 1873, con Gaetano Pini e Malachia De Cristoforis. Le tante società per la cremazione che si costituiscono nel Centro-Nord sono tutte fondate da massoni. Anche il lungo impegno per l’introduzione del divorzio vede in prima fila molti massoni, a partire dal 1874. Le prime proposte di legge portano la firma dei deputati Salvatore Morelli, Tommaso Villa e Giuseppe Ceneri.
I massoni hanno infine dato un impulso significativo, anche se scarsamente considerato, all’elaborazione della memoria del Risorgimento. Hanno contribuito alla «monumentalizzazione» del paese, rispondendo a una esigenza pedagogica prima che artistica. Si può seguire la genesi dei tanti monumenti di soggetto risorgimentale, che in pochi decenni riempiono le piazze di città e paesi, scorrendo le pagine della «Rivista della massoneria italiana» che ne segue l’origine, fornisce notizie sulla committenza e sui finanziatori, tra cui primeggiano le logge massoniche, insieme a una miriade di associazioni.
Il progetto di «costruzione» degli italiani è stata la grande utopia degli uomini del secondo Ottocento e molti protagonisti di quei decenni sono stati dei buoni organizzatori culturali. Si può sostenere che tra i compiti che i massoni si attribuiscono risalta «il culto del patriottismo», che si concretizza nella celebrazione solenne degli anniversari, nell’erezione di monumenti e busti, nella partecipazione alle feste nazionali, nell’elaborazione di una memoria condivisa.
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