La monarchia e lo Statuto
Quando il processo unitario si era già concluso, Alessandro Manzoni, in uno dei suoi ultimi scritti, La rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859, pubblicato postumo, formulò, contro tutti gli anatemi appena lanciati, un giudizio preciso sulle buone ragioni dell’indipendenza nazionale: «È di qui l’evidente e sacro diritto di levar di mezzo quella divisione, per conseguenza i vari governi, ne’ quali era attuata» (Manzoni 2000, p. 230). L’unità della penisola era un «sacro diritto» e Manzoni considerava l’indipendenza italiana come una vera rivoluzione e, in quanto tale, superiore a quella compiuta dalla Francia, perché senza guerra civile. Se una tale comparazione oggi ci appare inattuale, e forse impropria, resta però l’idea della «rivoluzione italiana».
L’unificazione nazionale italiana è stata infatti, forse soprattutto, una rivoluzione costituzionale. L’espressione «rivoluzione costituzionale» – che dobbiamo alla storiografia anglosassone e alla penna di Charles McIlwain – significa, in primo luogo, il distacco brusco da una tradizione di regole politiche. Ma significa, anche, la configurazione di un nuovo soggetto statuale, di una nuova potenza in condizioni di parità nel sistema delle relazioni internazionali. È infatti nel diritto internazionale che l’espressione «rivoluzione costituzionale» trova il suo pieno dispiegamento, ed è da qui che bisogna partire per comprendere il significato costituzionale dell’unificazione italiana; per capire perché furono fatte alcune scelte e non altre. Quelle scelte che determinarono l’assetto di lungo periodo dell’Italia moderna – la forma di governo parlamentare e la forma di stato unitaria – e che consentirono alla nazione di vivere e di sviluppare la sua rivoluzione costituzionale.
Quella italiana è stata una rivoluzione lunga e nel cosiddetto «decennio di preparazione» il principio di unificazione – che, con Manzoni, vogliamo considerare la base della rivoluzione italiana – si poté espandere e rafforzare. Iniziata nel 1849 con la «fermezza del vinto» (sono ancora parole di Manzoni in un altro scritto, Dell’indipendenza dell’Italia) che seppe mantenere «la bandiera italiana e lo Statuto», resistendo alle pressioni dell’Austria dopo Novara, perché la Costituzione promulgata da Carlo Alberto venisse abrogata, la preparazione si chiuse – sono sempre le parole di Manzoni – quando la nazione «poté ciò che volle» (ivi, pp. 279, 283, 293).
Il primo significato rivoluzionario dell’unità nazionale è, dunque, proprio la costruzione di un nuovo soggetto statuale, pari agli altri nei rapporti internazionali: un nuovo soggetto di diritto internazionale, una nuova potenza. La scelta di mantenere lo Statuto fu il primo passo in tale direzione. Già all’apertura delle ostilità con l’Austria, la guerra – anche se Carlo Alberto non l’avvertì – non era più un conflitto dinastico, ma una guerra nazionale. Ma l’atto di mantenimento, compiuto dal successore di Carlo Alberto, aprì la strada alla rivoluzione italiana e, anche se le frasi storiche attribuite al giovane sovrano fanno parte della costruzione del mito, resta il fatto che egli seppe trattare delle condizioni d’armistizio tali da mantenere il Piemonte alla guida del movimento nazionale (Romeo 1977, p. 383). E il 29 marzo dello stesso anno nell’aula di Palazzo Madama, a Torino, Vittorio Emanuele rinnovò, con il giuramento, la lealtà allo Statuto.
Anche la rivoluzione italiana era partita sull’onda della Grande Nation. Il suo inizio può essere collocato – seguendo una consolidata tradizione – nel momento in cui tutto ciò che avveniva in Europa non era più sentito come guerra di re, ma come conflitto di popoli.
Stendhal così comincia La Certosa di Parma: «Il 15 maggio 1796 il generale Bonaparte fece la sua entrata in Milano alla testa del giovane esercito che aveva allora allora passato il ponte di Lodi e fatto conoscere al mondo che, dopo tanti secoli, Cesare ed Alessandro avevano un successore […] Un popolo intero si accorse, il 15 maggio 1796, che tutto quello che fin allora aveva rispettato era sovranamente ridicolo, e qualche volta odioso».
La Francia divenne il motore che era in grado di rianimare l’idea dell’indipendenza italiana e Napoleone divenne a sua volta un «eroe italiano». Le fonti iconografiche confermano e documentano questo passaggio. Le stampe popolari, grande mezzo di comunicazione e di propaganda, scrivevano sui ritratti di Napoleone «Dux Italiae», collocando accanto alla sua figura cartigli con espressioni quali «La libertà d’Italia è già nata» (Bosséno, Dhoyen, Vovelle 1988, p. 103). A questo eroe rivoluzionario i progetti politici, la fantasia letteraria e l’immaginario popolare affidarono la trasformazione giuridica, politica e costituzionale; e, soprattutto, la liquidazione di un antico regime che era stato nei territori italiani (Piemonte compreso) particolarmente immobile e che aveva meritato il sarcasmo e il fastidio di viaggiatori come Montesquieu e Gibbon.
L’assetto che il Congresso di Vienna aveva dato all’Europa era, per sua natura, instabile, perché i due cardini su cui Metternich e Talleyrand lo avevano costruito, l’immutabilità dei confini e l’immutabilità degli equilibri costituzionali interni di ciascuno Stato, erano del tutto artificiali. Vienna fu solo questo: non un ritorno indietro, ma il blocco del tempo in un’istantanea, un ritratto di gruppo destinato a non muoversi mai.
Nel 1848 l’ordine della Santa Alleanza si rivelò una costruzione di carta. Gli eventi di quell’anno segnarono, perciò, anche la ricerca di nuovi equilibri continentali; equilibri che vennero raggiunti e che si stabilizzarono soltanto dopo il fatto, di enorme importanza per tutta l’Europa, costituito dall’unificazione italiana. Anche in questa prospettiva l’essere rimasto liberale e costituzionale rappresentò per il Regno sabaudo una carta vincente. La questione italiana era stata, per così dire, messa tra parentesi in Europa, perché qualunque soluzione non corrispondeva fino in fondo agli interessi delle grandi potenze e perché l’immobilità era ciò che ad esse più conveniva.
La grande occasione venne da quello che apparve a molti un disastro politico e morale per la Francia: l’insediamento di un avventuriero nei palazzi di Parigi. Il trionfo elettorale di Luigi Napoleone sorprese la vecchia Europa nel 1848. Il colpo di Stato del 2 dicembre 1851 la lasciò immobile «sul suo scranno», come scrisse Marx. Il proclama del Bonaparte, che annunciava il ritorno al suffragio universale, divenne così lo strumento di una nuova forma di governo plebiscitario che l’Europa ancora non conosceva, detta, da allora in poi, bonapartismo. Edmond de Goncourt parlò di «trionfo della menzogna», Victor Hugo lanciò l’appello per le barricate e per le armi al popolo. Marx, che mostrò il plebeismo antidemocratico di cui Luigi Bonaparte era espressione, vide bene – dal suo punto di vista rivoluzionario – quale duro colpo tutto ciò rappresentasse per la vecchia Europa. Tocqueville, che di Luigi Napoleone era stato ministro, non nascondeva tutta la sua delusione e dichiarava la Francia indegna della libertà. Dall’altra sponda della Manica, invece, un grande liberale come Walter Bagehot, scriveva sulla sua rivista, «The Economist», una serie di articoli favorevoli al nuovo regime francese. Gli inglesi per primi compresero che Bonaparte chiudeva la fase rivoluzionaria del Quarantotto, ma chiudeva anche l’egemonia asburgica sul continente.
Gli avvenimenti del 1851 furono per il Piemonte l’occasione cercata. Cavour considerò subito la Francia del Secondo impero una potenza liberale, se non alla pari con l’Inghilterra, per lo meno schierabile sullo stesso fronte, proprio perché spezzava i vecchi equilibri e riapriva una dinamica rivoluzionaria negli equilibri europei. Quello che gli statisti piemontesi compresero era che l’ordine di Vienna si stava sgretolando e l’unificazione nazionale poteva essere intrapresa. Per sfruttare la situazione nuova il Piemonte aveva un grande strumento: la sua Costituzione, che gli dava la possibilità di costruire un regime liberale all’altezza del nuovo ordine.
La strada scelta da Cavour, fatta di modernizzazione liberale all’interno al fine ottenere prestigio e ruolo nel sistema dei rapporti internazionali, non era forse l’unica possibile, perché l’alternativa mazziniana dell’assemblea costituente era ancora ben presente, ma era la più realista; e quando, dopo la guerra di Crimea, nel 1855 si arrivò alla pace di Parigi, tra la sorpresa di molti e le proteste dell’Austria, la questione italiana divenne una questione europea.
L’azione di Cavour riuscì, così, a mutare le opinioni in Europa: la Francia fece sua la causa italiana (abbandonando l’antico giudizio di Lamartine secondo cui l’Italia era ormai un paese di morti) e le incertezze inglesi finirono. Sicché, quando si trattò di dire una parola finale al suo governo, per vincerne le ultime esitazioni, l’ambasciatore inglese presso il re di Sardegna, poi primo rappresentante della corte di San Giacomo nel nuovo Regno d’Italia, Lord Hudson (certo molto simpatetico verso la causa italiana), poté comunicare: «Non sono le mie simpatie per l’Italia, ma le mie simpatie per l’Inghilterra che, in presenza delle attuali circostanze, m’inducono a sostenere la soluzione meno nociva di tutte: l’unità d’Italia» (cit. in Capograssi 1949, p. 31). L’antica protezione data all’egemonia continentale degli Asburgo era finita e dall’unità d’Italia partiva la nuova Europa. L’obiettivo di costruire la nuova soggettività statuale – Italia – era riuscito; con essa si realizzò «il miracolo del Risorgimento» (Fisichella 2010). Di quel miracolo lo Statuto albertino fu lo strumento.
L’Italia era, da secoli, una realtà troppo importante ai fini delle geografie continentali, per essere lasciata all’autodeterminazione. Per non parlare dell’oggettivo interesse alla disunione della penisola coltivato dal temporalismo della Chiesa di Roma. Temporalismo che, se non era più quello denunciato da Guicciardini e da Machiavelli, restava sotto forma di paura del nuovo. Paura a cui si aggiungevano, per la Chiesa romana, l’incapacità politica di affrontare le fratture determinate dalla rivoluzione francese e forse anche il timore di perdere i privilegi conquistati nell’antico regime. Tutto ciò sarebbe stato puntualmente dimostrato – ben prima del sorgere della questione romana – dai conflitti tra i governi liberali piemontesi e le gerarchie ecclesiastiche locali.
Il problema che dovettero affrontare i protagonisti della rivoluzione nazionale era proprio quello di fare uscire l’Italia dalla situazione di dipendenza strategica. Questo fu, precisamente, il risultato dell’opera del Piemonte: attraverso l’obiettivo dell’indipendenza nazionale si dimostrò che gli equilibri del Congresso di Vienna non corrispondevano più agli interessi reali delle potenze europee e che l’ordine del 1815 era ormai diventato puramente illusorio. Con ciò fu assolto il primo compito di una rivoluzione costituzionale: creare un nuovo Stato ovvero, nel significato del diritto internazionale, una nuova potenza. Ma la rivoluzione costituzionale italiana aveva anche un altro obiettivo, quello di spezzare la staticità delle oligarchie locali e delle loro piccole alleanze. La penisola prima dell’unificazione era proprio questo: oscure solidarietà, dinastie senza orizzonti, oligarchie senza nazione e senza Stato.
In Italia una rivoluzione costituzionale, in uno qualunque degli Stati in cui era frammentata la penisola, era particolarmente pericolosa perché – era l’antico giudizio del principe di Metternich – un qualunque Stato costituzionale, vale a dire sottratto alla legittimazione assolutistica, sarebbe divenuto il polo di attrazione di tutti coloro che aspiravano all’unità nazionale; proprio per questa ragione il cancelliere dell’Impero considerava eversiva ogni costituzionalizzazione. Ma i tempi, anche nel Regno di Sardegna, nel «vecchio Piemonte alla deriva», secondo l’espressione di qualche aristocratico intimorito, erano cambiati. L’Europa liberale si era rafforzata e, con essa, il principio rivoluzionario dell’unificazione. Come scriveva alla fine del 1847 da Torino, una gran dama attenta agli eventi, la marchesa d’Azeglio: «une animation inaccoutumée se voit en tout. On parle, on va, on remue, on s’aborde, on se réunit» (cit. in Romeo 1977, p. 251).
Nei primi mesi del 1848 tutti i sovrani installati in Italia si sentirono costretti, per una ragione o per l’altra, a concedere una costituzione, venendo meno alla legittimazione assolutistica. Le carte concesse a Palermo e a Napoli, a Modena, nello Stato pontificio e in Piemonte avevano caratteri comuni, perché erano tutte ispirate alla Carta francese del 1830, con la parziale eccezione di quella del Regno delle Due Sicilie che prendeva a modello anche la Costituzione spagnola di Cadice del 1812.
Il processo di redazione dello Statuto fu rapido: l’8 febbraio il re annunciò la concessione di una Carta, elencandone i principi. Il 4 marzo il documento fu promulgato. L’atmosfera delle 12 riunioni che portarono alla formazione dello Statuto era di timore. Ma, fuori dal Consiglio di conferenza incaricato di redigere la nuova Carta, si svolgeva un’altra azione: la nascente opinione pubblica trovò una guida, e una personalità, capace di indirizzarla nel conte di Cavour. Sul suo giornale, «Il Risorgimento», Cavour svolgeva un’azione di stimolo e quasi di controllo, rispetto alla pavidità del re e della maggioranza dei suoi ministri.
Nelle prime adunanze d’inizio anno, si sentono gli echi di tumulti, in particolare quelli di Genova, epicentro della propaganda mazziniana. Si pensa a interventi di truppa nella città della Lanterna e i verbali delle riunioni lasciano traccia di proposte di stato d’assedio e di interventi pesanti. Poi prevale un atteggiamento prudente, sostanzialmente attendista: «non era ancora il caso». Le riunioni di gennaio si conclusero senza che nessuno dei partecipanti, non solo il re, come dice la leggenda di un Carlo Alberto sempre tentennante, sapesse esattamente cosa fare né cosa stesse per succedere. All’esterno, intanto, Cavour indirizzava efficacemente l’opinione pubblica. I primi giorni di gennaio trascorsero nell’incertezza, ma il 17 di quel mese giunse al Consiglio un «indirizzo presentato a S.M. dall’avv. Brofferio e altri tre individui, che, presentandosi come rappresentanti della nazione, si sono permessi di chiedere a S.M. la creazione di un regime costituzionale» (Comandini 1900-1942, 2° vol., p. 1367). Gli individui in questione, oltre ad Angelo Brofferio, erano Giacomo Durando, Francesco Predari e, naturalmente, Cavour; cioè i direttori dei più importanti giornali che si pubblicavano a Torino.
Il 7 febbraio si tenne finalmente la riunione decisiva. I partecipanti erano quasi tutti consapevoli che per rendere solide le istituzioni e salvare la monarchia stessa non vi era altra strada che introdurre una fonte di legittimazione diversa da quella monarchica. Così il giorno successivo venne dato l’annuncio della promulgazione imminente della Carta e con l’annuncio si ebbe il proclama del re che fissava i principi ispiratori della nuova costituzione.
L’enunciazione dei principi dello Statuto, che costituiva il testo del proclama dell’8 febbraio, era strutturata in articoli: tra questi, il 6 e il 7 fissavano i cardini di quello che il proclama stesso definiva «un compiuto sistema di governo rappresentativo»: «Il potere legislativo sarà collettivamente esercitato dal Re e dalle due Camere» (art. 6); «la prima sarà composta da membri nominati a vita dal Re; la seconda sarà elettiva sulla base del censo da determinarsi» (art. 7). Sulla definizione del censo si aprì una discussione, per contrastare l’opinione secondo cui la proprietà fondiaria dovesse fungere da criterio unico per fissare i confini dell’elettorato attivo. L’opinione contraria, vincente, colse il punto del nuovo ordine, sostenendo che «è impossibile non ammettere le categorie dell’industria e del commercio alle elezioni, ma che anzi bisogna aggiungervi anche le capacità degli individui» (Negri, Simoni 1992, p. 63). Venne così posta fine alle basi feudali della legittimità monarchica, aprendo la strada al formarsi di un’opinione politica borghese, premessa del parlamentarismo.
Il germe del nuovo ordine, il principio del governo parlamentare, finì per divorare le parti caduche della vecchia legittimazione monarchica. Basta il riferimento a due norme: l’art. 22 che prevedeva il giuramento di lealtà allo Statuto da parte del re; e il divieto di mandato imperativo, regolato dall’art. 41, che segnava, invece, il primato della Camera elettiva. Sono queste norme insieme a far considerare lo Statuto come una carta destinata a cambiare nei fatti, proprio perché contenente due diversi principi di legittimazione: quello tradizionale dell’assolutismo regio e quello rappresentativo e parlamentare.
La concessione rapida dello Statuto, e soprattutto il suo mantenimento dopo la seconda restaurazione, diedero alla monarchia sabauda un primato e ne fecero un’eccezione. Essa apparve, infatti, l’unica forza della penisola dotata di una vocazione nazionale, l’unica ad essere legittimata, da allora in poi, ad accogliere quello che Vittorio Emanuele II chiamerà anni dopo «il grido di dolore» dell’Italia.
Finita dunque nel 1849 l’illusione neoguelfa, l’equivoco del papa liberale, dopo l’ignominiosa fuga del pontefice da Roma, e diventata quindi impossibile la strada di una lega nazionale, che federasse le monarchie sotto la guida di Pio IX; rivelatasi, allora, la miseria politica dei sovrani assoluti, non restò altra prospettiva realistica, per tutte le correnti del cosiddetto movimento nazionale, che quella del Regno di Sardegna.
Lo Statuto fu una concessione forse fatta malvolentieri, ma in ogni modo liberamente. E se i rapporti tra il re e il Parlamento furono difficili, le regole di un sistema parlamentare (qualche volta in modo incerto) furono mantenute. Il Regno di Sardegna, inoltre, fu l’unico Stato della penisola in cui, dopo che le aspirazioni rivoluzionarie vennero sconfitte, non vi furono processi politici né repressioni. Anzi, Torino divenne il rifugio di tanti esuli dagli Stati assolutisti, da Francesco De Sanctis, a Pasquale Stanislao Mancini, a Ruggiero Bonghi. In questo modo il vecchio Regno di Sardegna divenne il moderno Piemonte costituzionale: «Si può dire che una gran parte della classe dirigente italiana si trasferì allora nel Regno sardo» (Candeloro 1964, p. 216).
La definitiva liquidazione dell’antico regime in Piemonte era dunque il primo compito che la nuova classe dirigente statutaria dovette affrontare. La sconfitta di Novara mise però a tacere le vecchie oligarchie, che non poterono più vantare l’orgoglio militare, quasi fondamento della loro legittimazione. Paradossalmente, fu la sconfitta nelle campagne del 1848-49 ad aprire la strada al governo parlamentare. Ciò che ben comprese Vittorio Emanuele II, rinnovando il patto statutario: in tal modo poté cominciare l’attuazione della costituzione albertina. Su queste basi il Piemonte poté assumere una positiva immagine internazionale – il «credito nei consigli dell’Europa», come dirà Vittorio Emanuele II nel discorso della Corona del 1859 – e il Regno di Sardegna poté prepararsi a cogliere i frutti della propria immagine presso le classi dirigenti delle grandi potenze.
Quello compiuto nel 1849 dopo Novara dal giovane Vittorio Emanuele II fu un passo decisivo. La fedeltà alla costituzione, la lealtà al patto stipulato da Carlo Alberto, il mantenimento dello Statuto: la promessa che la carta era irrevocabile, come era scritto nel Preambolo del 1848, venne mantenuta. Non era facile, perché si trattava di riconoscere che era finita la solitudine del sovrano assoluto e che si faceva strada un nuovo principio di legittimazione. L’irrevocabilità fu quasi una trasmissione della legittimità, un tacito riconoscimento del nuovo principio politico. Con queste forme si diede inizio alla monarchia liberale e in tale direzione lo Statuto venne interpretato.
La rivoluzione italiana ebbe ancora un altro aspetto. Ed è quello che portava a compimento ciò che era già iniziato con l’arrivo (di conquista o civilizzazione che fosse) dell’onda della rivoluzione francese: la liquidazione giuridica dell’antico regime nei rapporti civili, l’eversione dei residui del diritto feudale. Processo che era già avanzato in alcune parti dell’Italia ancora disunita, ma che l’unificazione avrebbe completato con la grande legislazione che travolse completamente ciò che restava del particolarismo giuridico. Va detto che il Piemonte sabaudo, grazie alla nuova classe dirigente portata dallo Statuto e dall’avvio del governo parlamentare, aveva già fatto avanzare do molto lo smantellamento dell’ordine giuridico di antico regime. A partire dal 1850, l’anno delle leggi Siccardi, oltre all’abolizione del foro ecclesiastico, del cosiddetto diritto d’asilo e della manomorta, furono travolti i maggiorascati e tutte le minutaglie feudali, che erano il vero ostacolo alla costruzione di un’amministrazione moderna. Basti citare i terribili diritti casuali, che facevano di ogni impiegato dell’amministrazione, nella sostanza, un esattore privato, operante più per se stesso che per la sfera pubblica.
Tra l’altro, è proprio dall’abolizione dei residui feudali che traeva origine il conflitto tra il Regno e la Chiesa, ben prima della questione romana: conflitto che ebbe sempre, anche dopo l’Unità, caratteri del tutto politici e mai – nonostante qualche rappresentazione faziosa di parte ecclesiastica – antireligiosi.
Abbiamo tante descrizioni letterarie dell’antico regime, dalle memorie di ispirazione antigiacobina di Costa de Beauregard, ai Ricordi di gioventù di Giovanni Visconti Venosta (fratello del grande ministro degli Esteri) e al capolavoro di Ippolito Nievo, Confessioni d’un italiano. Ma forse il significato della modernizzazione giuridica che avrebbe portato all’unità italiana, il senso dell’impresa dei liberali piemontesi è riassunto bene dal passo di una lettera di Massimo d’Azeglio al nipote Emanuele, incaricato d’affari del Regno sabaudo a Londra. Scrive d’Azeglio nella lettera, datata 23 giugno 1853: «Nel senso gretto piemontese ci torna a conto che gli altri Governi italiani governino male, e più son cattivi, più diventiamo moralmente padroni dei loro sudditi […] A considerare le lezioni che riceve dall’alto il nostro povero popolo da Milano a Trapani, è un miracolo che non è fatto una mandra d’assassini» (d’Azeglio 1921, p. 513).
Anche in questa prospettiva vi è il senso preciso di quella che abbiamo chiamato «rivoluzione costituzionale». Il termine «costituzione» e l’aggettivo «costituzionale» avevano, infatti, nell’età del Risorgimento italiano, un significato più esteso di quello attuale che tende a identificare la costituzione con un insieme di norme. Per gli uomini dell’unificazione, per Mazzini come per Cavour, «costituzionale» significava la creazione di una nuova legittimità, un mutamento del principio politico, scritto in forma di norme solo per essere meglio inteso. «Costituzionale» significava, allora, il rovesciamento del principio di organizzazione della comunità: dalla sacralità del sovrano al governo popolare nella forma parlamentare.
Qui si colloca la natura rivoluzionaria del Risorgimento italiano. La strada percorsa portò all’equilibrio costituzionale tipico delle monarchie liberali, ma cambiando il principio di legittimità e superando quello che sarcasticamente Cavour chiamava «le bon vieux temps». Il progetto costituzionale di Cavour, imitare l’Inghiterra sostituendo, senza guerra civile, il principio monarchico con quello parlamentare, poté realizzarsi grazie al mantenimento dello Statuto. La carta sabauda in vigore da più di dieci anni poté consentire più tardi che si compisse l’ultimo passo della rivoluzione costituzionale: l’estensione della carta del Piemonte al nuovo Regno d’Italia. Sono gli anni dell’«attività meravigliosa» in cui l’azione politica di Cavour fu soprattutto indirizzata a superare l’alternativa del 1848 e far vincere la costituzione sulla rivoluzione. «Tra il 1851 e il 1852 si può ben dire che nel Regno sabaudo finisca un’epoca e ne inizi un’altra» (Talamo 2000, p. 560).
Possiamo sintetizzare gli aspetti principali del percorso costituzionale seguito da Cavour per passare dal Piemonte statutario all’Italia unita. In primo luogo, vi è l’esigenza di mantenere lo Statuto, senza però bloccarlo in una rigida lettura formale, in un insieme di norme troppo rigide. In secondo luogo vi è l’utilizzazione anche delle spinte rivoluzionarie per far avanzare la situazione politica del Regno e della penisola, sia sul piano delle riforme interne, sia per mettere all’ordine del giorno dell’Europa la questione italiana. La linea di Cavour, quindi, è quella di non cedere mai alle situazioni tumultuose, ma di utilizzarle per volgerle verso l’obiettivo dell’unità nazionale. Infine, il terzo, più importante, obiettivo del conte è quello di trasformare progressivamente il governo costituzionale puro, dipendente dal re, in governo di gabinetto, dipendente dall’assemblea elettiva.
Ancor prima di assumere il ministero delle Finanze, Cavour, in un discorso alla Camera del 1851, rendeva chiaro che il suo non era un semplice progetto di modernizzazione economica, ma una strategia da cui far scaturire un accresciuto ruolo internazionale del Piemonte: «Siamo forse il popolo che rappresenta più fedelmente l’idea di progresso e di libertà moderata; e io dico che questa idea è destinata ad estendersi ed a percorrere tutta l’Europa» (Cavour 1863-1872, 2° vol., p. 443).
Il Regno di Sardegna aveva già una classe politica in grado di capire i tempi nuovi, di appoggiarsi a un’opinione pubblica, di costruire l’occasione per realizzare l’unità nazionale. Quello che il Piemonte aveva in più rispetto al resto d’Italia era infatti un movimento liberale efficiente, dotato di ispirazione ideale, di un progetto e di una guida politica. Lo Statuto si rivelerà per l’opinione nazionale che si andava formando, non soltanto il prodotto di tatticismi e di calcoli di opportunità, ma l’espressione di una funzione nazionale.
Il Piemonte visse così un singolare paradosso storico. Da un lato vi era nel Regno un ceto aristocratico tra i più chiusi e timorosi della penisola; ceto aristocratico per il quale, ad esempio, l’idea di una costituente, che, oltre a Mazzini, prospettavano con forza anche i patrioti lombardi, evocava lo spettro della Convenzione giacobina (Romeo 1963, p. 113). Dall’altro lato l’obiettivo stesso dell’unità nazionale che il Piemonte fece proprio, era quanto di più rivoluzionario potesse essere immaginato.
Per la verità, il perseguimento dell’Unità poteva essere mascherato come un obiettivo moderato, perché era quasi ineluttabile che si compisse con la simbologia dinastica e sotto le bandiere del re di Sardegna, ma era allo stesso tempo un obiettivo antimoderato perché soppiantava le vecchie oligarchie e proiettava l’Italia delle piccole corti provinciali nel mondo moderno.
La politica e la dottrina dell’Europa avevano saldamente collegato l’idea di nazione – che sottintendeva quella di corpo elettorale – con l’idea di costituzione, che implicava l’idea di governo derivante da un mandato popolare e non dall’investitura del sovrano. Nel chiaroscuro di queste nozioni si collocano le idee di due protagonisti (e antagonisti) del decennio di preparazione, Mazzini e Cavour.
Giuseppe Mazzini è stato uno degli uomini del Risorgimento che più hanno pensato al significato rivoluzionario di costituzione. La sua opinione secondo cui al nuovo ordine politico e all’unità si dovesse arrivare attraverso un’assemblea costituente è, certo, una dottrina che fa da spartiacque negli eventi 1848. Mazzini aveva messo in alternativa, quasi in contrapposizione, costituente e diplomazia, non perché – come è noto – sottovalutasse il peso internazionale della questione italiana; ma proprio perché riteneva che fosse l’Europa tutta a dover cambiare, a dover rivoluzionare, il suo principio di governo.
Egli aveva iniziato la sua meditazione sul tema della costituente, riflettendo su quelli che gli apparivano i limiti della rivoluzione parigina del luglio del 1830, che aveva portato sul trono di Francia Luigi Filippo. Limiti consistenti nell’aver preteso «di rifare un governo e una Costituzione, senza Congresso, senza assemblee primarie, senza Costituente» (Falco 1946, p. 31). Mazzini, infatti, quasi identificava l’essenza di ogni costituzione moderna in un evento rivoluzionario: il suo modello restava il processo rivoluzionario che aveva portato alla formazione degli Stati Uniti d’America. In altri termini, per Mazzini, ciò che conta davvero in una costituzione, ancor più che il suo contenuto giuridico o le sue norme positive, è il processo attraverso il quale si arriva ad adottare una Carta, una «legge superiore».
Vale la pena di ricordare che l’azione mazziniana non fu soltanto limitata a teorizzare la costituente; ma si deve alla sua azione uno dei documenti costituzionali più rigorosi dell’Italia moderna, la Costituzione della Repubblica Romana. Questa era certamente una costituzione rivoluzionaria, dove il principio di legittimità popolare veniva espresso nitidamente nell’art. 15: «Ogni potere viene dal Popolo. Si esercita dall’Assemblea, dal Consolato, dall’Ordine giudiziario». La Costituente della Repubblica Romana fu degna dei poteri che le erano stati attribuiti, perché nel poco tempo che durò, promulgò una legislazione che dava «un segno concreto di cosa fosse una democrazia e quali fossero le leggi che la realizzano veramente» (Villari 2009, p. 216). È però altrettanto certo che lo schema costituzionale di Mazzini metteva al centro del sistema l’assemblea, preoccupandosi meno della separazione dei poteri e dei meccanismi di delega, tipici del costituzionalismo anglosassone.
Come è noto, per Mazzini l’Unità italiana non si compì senza dolore: «Ciò che avveniva sotto i suoi occhi era lontanissimo da ciò che aveva sognato. In luogo di un popolo che insorge e s’acquista con le armi libertà, indipendenza, coscienza di missione nazionale, vedeva un ministro che guadagnava cautamente al suo re per parte l’Italia ed estendeva alle provincie annesse il vecchio statuto borghese e piemontese di Carlo Alberto» (Falco 1946, p. 94). Questa valutazione coglie certamente la sconfitta del grande patriota, perché nulla vi era di più lontano dall’ideale mazziniano di patto nazionale, che era il nocciolo della sua idea di costituente, dell’estensione dello Statuto al nuovo Regno d’Italia.
All’idea mazziniana di costituente si contrappone, negli anni che forgiano la rivoluzione italiana, l’idea, flessibile e duttile, di una costituzione che serva soprattutto a un differente processo: quello della costruzione di una nuova soggettività statuale, in grado di fare del Piemonte, poi dell’Italia, una potenza tra le potenze.
Lo Statuto era dotato di «un silenzio provvido perché permise un’evoluzione dal suffragio ristretto e censitario dei primi tempi, al suffragio universale, senza pastoie di costituzionalità» (Amorth 1951, p. 786). Quei silenzi erano proprio ciò che più conveniva alla politica in cerca di occasioni perseguita da Cavour. Egli ricordava bene come si era sviluppata la dinamica costituzionale in Inghilterra dove – almeno dopo il 1832, con il Reform Bill – la lotta costituzionale, che riguardava l’allargamento del suffragio e la riforma delle istituzioni, poté svolgersi senza i vincoli formali di un documento rigido e dei suoi tecnicismi.
La concezione costituzionale di Cavour aveva il merito di trasmettere all’Italia il pensiero del liberalismo europeo, quello dell’ammirato François Guizot e dell’ancor più ammirato riformismo britannico. Era il modello – magari un poco mitizzato – dell’aristocrazia bienfaisante. Era però una visione costituzionale il cui l’obiettivo centrale e vitale era quello di «affermare il primato del parlamento contro il primato della prerogativa costituzionale regia» (Maturi 1954, p. 14). Questo obiettivo poteva essere raggiunto solo da una politica di ampie riforme, che distruggessero quanto restava delle strutture feudali, che battessero il peso del localismo, ancora forte nella cultura politica del Regno sabaudo, e che, inoltre, potessero sbloccare la situazione parlamentare.
Cavour seppe approfittare, per così dire, dello Statuto. Valga soltanto, come esempio, la sua interpretazione della norma (derivata dalle costituzioni della Francia rivoluzionaria) che vietava il mandato imperativo, il già citato art. 41 dello Statuto. Quando si dovette scegliere il sistema elettorale, contro i democratici che avrebbero voluto vincolare i deputati al mandato dei consigli comunali, il conte si espresse con decisione. Qualora si fosse seguita quella strada, si sarebbe arrivati «in certo modo a stabilire il mandato imperativo, condannato quale sistema pernicioso e funesto […] e si sarebbe irrigidita la società nello schema ossificato della corporazione municipale» (ivi, p. 12).
Giorgio Falco ha scritto: «E, nel processo del Risorgimento, l’esperienza di Mazzini divenne la lezione di Cavour» (Falco 1946, p. 61). È una visione celebrativa, ma forse troppo ottimistica.
Più equilibrato è il giudizio sull’opera costituzionale di Cavour dato da Rosario Romeo: «il conte realizzò il suo capolavoro politico in un quadro complesso, dove finirono per trovar posto, insieme, monarchia e rivoluzione, conservazione di vecchie forze dirigenti e distruzione di antichi regimi, principio di autorità ed appello a un nuovo diritto fondato nel popolo attraverso i plebisciti» (Romeo 1963, p. 151).
Gli obiettivi e gli strumenti della modernizzazione cavouriana erano semplici: libertà degli scambi nelle relazioni internazionali, costruzione e rafforzamento del mercato all’interno. Questo secondo obiettivo implicava l’adeguamento delle strutture dello Stato e dell’economia. Adeguamento che si rivelò più difficile del previsto, perché, nell’amministrazione sabauda, tutto era da rinnovare: dall’ordinamento giudiziario alla struttura dell’esercito, dalla diplomazia al personale dell’amministrazione e alle sue strutture. Il conte perseguì tali obiettivi con alterne fortune, sia come ministro delle Finanze, sia come primo ministro, cercando, come egli stesso disse, di «inebriare» il Piemonte.
L’attuazione dello Statuto fu lo strumento di questo progetto: sviluppando il ruolo dell’assemblea eletta, dando alla legislazione ordinaria i contenuti di riforma, impedendo la paralisi del sistema parlamentare, il suo arretramento o il blocco. Il problema del decennio di preparazione è, detto in estrema sintesi, quello di far vivere il Parlamento.
Il problema era complicato dal fatto che non vi era nel Regno una vera tradizione parlamentare. Non vi erano le prassi, le convenzioni, le consuetudini, le interdizioni: le circostanze che avevano costruito la forza dell’assemblea di Westminster. Nel Regno sabaudo un intervento esterno come quello del re poteva compromettere tutto. Non si trattava solo di rafforzare lo Statuto – che avrebbe anche potuto essere solo un’espressione retorica – ma piuttosto di rafforzare anche contro la Corona l’organo costituzionale più fragile, quello che poteva più facilmente subire limitazioni da parte dell’ingerenza del re e della corte: il Parlamento.
Una parte delle classi di antico regime e del partito di corte non si erano rassegnate e consideravano lo Statuto e il sistema parlamentare concessioni, forse ritrattabili e sempre in bilico. D’altronde la lettera della Carta indicava pur sempre nel re il titolare dell’indirizzo politico, e il gabinetto non sembrava potersi reggere soltanto sulla fiducia dell’assemblea. Dopo la grave crisi costituzionale seguita alla sconfitta del 1849 si manifestarono pesanti pressioni sul re e sul primo ministro d’Azeglio, che seppero ben resistere, perché lo Statuto fosse revocato.
Lo stesso concetto di maggioranza parlamentare era fluido e incerto, e ogni discussione importante era un’incognita. I provvedimenti di riforma economica che Cavour, ministro delle Finanze, riuscì a far approvare dal Parlamento subalpino passarono non grazie a una maggioranza predefinita, ma grazie a schieramenti sostanzialmente occasionali, a maggioranze contingenti. Questa situazione esponeva l’azione di governo e i progetti di Cavour al caso, ai venti, agli umori. Lo Statuto non si era ancora stabilizzato e ogni maggioranza parlamentare era insicura. Questo era il problema che accompagnò la nascita della monarchia liberale.
La strada che Cavour aveva pensato e creato per dare al Piemonte quella che abbiamo chiamato la vocazione nazionale, passava proprio attraverso l’utilizzazione dello Statuto come strumento per la modernizzazione del Regno: attraverso questa immagine di progresso, farne il riferimento per tutta la penisola. Ecco ancora le parole di Cavour nel 1850, nella dichiarazione di voto per l’approvazione delle leggi Siccardi: «progredite largamente nella via delle riforme, e non temete che esse siano dichiarate inopportune; non temete d’indebolire la potenza del trono costituzionale che è nelle vostre mani affidato, ché invece lo rafforzerete; invece con ciò farete sì che questo trono ponga nel nostro paese così salde radici, che quand’anche s’innalzi intorno a noi la tempesta rivoluzionaria, esso potrà non solo resistere a questa tempesta, ma altresì, raccogliendo a sé tutte le forze vive d’Italia, potrà condurre la nostra nazione a quegli alti destini cui è chiamata».
Questa impostazione determinò le vicende del decennio di preparazione, tra il 1849 e il 1859, e fece sì che il Piemonte riuscisse a realizzare in qualche modo un fenomeno simile a quello che aveva fatto della Francia la Grande Nazione d’Europa, riuscendo ad apparire, almeno nella penisola, centro diffusore di progresso. «Nel naufragio italiano – aveva scritto nel momento più buio per le speranze, nel novembre del 1849, il patriota toscano Giuseppe Montanelli – guardo al Piemonte come a tavola di salvezza» (Montanelli 1945, p. 20). Quest’immagine di salvezza fu dovuta in amplissima misura alla preservazione ostinata e paziente da parte di un piccolo gruppo di uomini, del documento costituzionale.
Lo Statuto albertino fu il culmine del processo di liquidazione dell’antico regime. Il codice civile, la separazione tra Stato e Chiesa, il nuovo regime della proprietà e il suo ovvio collegamento con i diritti individuali e le libertà politiche, resero irreversibile l’eredità della rivoluzione francese. Per Cavour il rafforzamento del sistema parlamentare era obiettivo prioritario e strategico: «in un paese costituzionale, la prima condizione di forza si è che esista un perfetto accordo tra il ministero e il parlamento» (Cavour 1925, p. 68).
La brusca sostituzione di una legittimazione, quella monarchica, con una nuova, rappresentativa, si fece strada a fatica. La classe politica statutaria era consapevole che il Piemonte non era l’Inghilterra e mancavano alcune delle forze che avevano fatto grande la costituzione inglese. Mancava la forza dell’opinione pubblica e non era ancora completamente sviluppata la rete dell’economia industriale moderna. Per questo le basi del sistema parlamentare prodotto dallo Statuto erano ancora fragili, ma l’unificazione rafforzò il meccanismo parlamentare.
L’unificazione si compì con gli strumenti rappresentativi: le elezioni, per quanto a suffragio ristretto (come, peraltro, in tutta Europa), gli stessi plebisciti, le preoccupazioni per un Parlamento «italiano», la mescolanza regionale sono i passi, tutti ispirati in qualche modo al principio elettivo, che portarono alla proclamazione del Regno d’Italia.
Gli strumenti giuridici furono diversificati. I plebisciti del 1860 – le cosiddette annessioni – si svolsero in Emilia, Toscana, Marche, Umbria con corpi elettorali che ammontavano a circa un terzo delle popolazioni e che – nonostante la formula semplice del quesito che chiedeva se si volevano mantenere regni separati o se si voleva l’«unione» alla monarchia di Vittorio Emanuele – registrarono un consenso effettivo al nuovo Stato. Andarono diversamente le cose al Sud, dove la spedizione di Garibaldi impose un’unificazione con strumenti diversi (Volpe 2009, p. 18).
Si arrivò al nuovo Regno in modo lineare: prima con l’elezione del Parlamento italiano, il 27 gennaio 1861, poi con la convocazione delle Assemblee, infine con la proclamazione del Regno, da parte delle Assemblee stesse, il 17 marzo 1861.
Dopo la proclamazione del Regno d’Italia bisognava unificare la penisola. Si dovette in primo luogo conformare l’amministrazione dello Stato al nuovo ordine politico. Fu il problema più difficile che dovettero affrontare i successori di Cavour, vero banco di prova dell’unificazione (Pavone 1964, p. 38). Fu difficile per almeno tre ragioni. La prima era che le burocrazie non avevano lo stesso livello di competenza e in talune zone l’eredità dell’antico regime si manifestava ancora come un esercizio privatistico delle funzioni di amministrazione e vi era ancora, in qualche modo, la venalità degli impieghi pubblici (Cassese 1977, p. 21).
La seconda ragione, connessa alla precedente, era che le funzioni amministrative erano oggetto di ciò che nel linguaggio attuale si direbbe scambio politico: controllare l’amministrazione serviva cioè a garantire influenza e capacità elettorale. Di qui il diffuso malcontento del personale amministrativo dei vecchi Stati e di molti gruppi politici locali, che temevano di vedersi espropriati del loro strumento di influenza. La lotta contro l’uso politico dell’amministrazione divenne poi una bandiera degli esponenti sconfitti della Destra e il libro di Marco Minghetti del 1881, I partiti politici e la loro ingerenza nella giustizia e nell’amministrazione, ne diventò una sorta di manifesto. Rimuovere la confusione tra funzione politico-parlamentare e funzione amministrativa fu uno dei compiti più difficili dell’Italia unita, forse rimasto incompiuto (Pavone 1964, p. 27). Fu, questa, una battaglia perduta dalla Destra e dalla Sinistra, tanto che la classe dirigente liberale, da Bettino Ricasoli a Giovanni Giolitti, finì per adattarsi alla situazione. Questo residuo dell’antico regime e dell’Italia preunitaria rimase nonostante le grandi denunce dei «sopracciò» di paese, come li chiamava De Sanctis, ancora ai tempi della Destra, fino ai «mazzieri» di Gaetano Salvemini, ai tempi di Giolitti.
Una terza ragione di difficoltà dell’unificazione amministrativa risiedeva in quella che è stata chiamata la via italiana all’accentramento: «La classe dirigente italiana fu, nel suo complesso, troppo impegnata a tenere in piedi, come che fosse, contro i ‘neri’ e contro i ‘rossi’, il particolare tipo di Stato unitario da lei faticosamente creato» (ivi, p. 195). Ormai, però, la tesi storiografica secondo cui l’accentramento fu funzionale a evitare la rivoluzione sociale ha fatto il suo tempo, e possiamo considerare luci e ombre di una costruzione difficile, ma vittoriosa.
Certo, l’accentramento era giustificato dai timori – non del tutto infondati – di dissolvimento del nuovo Stato. Ma era anche, forse in misura maggiore, un tentativo di porre freno alle baronie locali, dalla Toscana al defunto Regno delle Due Sicilie. E inoltre, una struttura accentrata consentì – e con molte difficoltà – la costruzione delle strutture senza le quali lo Stato unitario sarebbe stato una mera proclamazione: dalle ferrovie al sistema scolastico, dalla finanza ai servizi postali.
L’accentramento amministrativo e la costruzione delle grandi strutture nazionali, che comportavano limitazioni delle situazioni soggettive nelle procedure amministrative, aprì invece il problema dei rapporti tra Stato e cittadini, sotto il profilo della tutela giurisdizionale. Proprio a seguito dell’allegato e delle leggi di unificazione del 1865, sull’abolizione delle vecchie strutture del contenzioso amministrativo, pure emanate in nome dell’unità della giurisdizione, gran parte dei ricorsi contro gli atti amministrativi restavano senza appello. Di qui la battaglia, condotta da un altro esponente della Destra sconfitta, Silvio Spaventa, per la «giustizia nell’amministrazione». Questa volta fu una battaglia vinta con l’istituzione della sezione giurisdizionale del Consiglio di Stato, nel 1889.
Problemi diversi, ma non altrettanto gravi e non di così lunga durata, comportò l’unificazione del diritto civile e del diritto penale del nuovo Stato. In primo luogo, va ricordato che l’archetipo, il modello, il Codice napoleonico si era già diffuso in Italia con le armate francesi. E nessuna Restaurazione – in nessuna parte d’Europa, per la verità – poté cancellare questo grande risultato della Rivoluzione.
Tre furono i punti principali oggetto di discussione a proposito dell’unificazione dei codici, uno di metodo e due di merito. Il primo problema derivava dal fatto che i vecchi fori, le vecchie avvocature e le vecchie giurisdizioni avevano le loro tradizioni e che in molti casi avrebbero voluto mantenerle. Valgano per tutti gli esempi della Lombardia e della Toscana che avevano già legislazioni civili e penali moderne. In particolare, la Toscana aveva abolito la pena di morte e nella Lombardia austriaca erano in vigore leggi penali più miti e più moderne di quelle piemontesi. Inoltre si manifestarono molte critiche per un preteso servilismo della nuova legislazione verso il Code Civil o verso la tradizione romanistica. Tutte critiche provenienti dalla dottrina, che in buona sostanza si riassumevano nell’accusa secondo cui il codice francese, come poi quello italiano del 1865, fossero codici della proprietà. Come scriveva in un celebre Commentario Giuseppe Pisanelli: «Basta volgere un semplice sguardo al codice civile per convincersi che la proprietà sia il subbietto proprio di quel codice» (cit. in Aquarone 1960, p. 37). Ma questa non era una critica allora sostenibile, perché tutta la cultura giuridica europea si sostanziava delle nozioni dogmatiche di proprietà e contratto. Sicché pare equilibrato il giudizio secondo cui l’adozione del modello napoleonico fu sufficiente nel 1865 e che fu «proprio l’avvenuta unificazione politica che impresse però nel giro di pochi anni un nuovo corso all’economia italiana con una conseguente dislocazione dei rapporti sociali, e che rese pertanto in breve tempo inadeguata la legislazione post-unitaria» (ivi, p. 80).
In conclusione si può dire che le resistenze all’uniformità dei codici vi furono, ma quelle al codice civile erano critiche di carattere politico (a cui si aggiungevano resistenze corporative), mentre il codice di procedura civile e quello di procedura penale apparvero subito migliori dei vecchi codici di rito precedenti l’unificazione.
Più aspro si presentò il primo problema di merito, relativo all’abolizione della pena di morte. La Toscana l’aveva abolita subito dopo la cacciata dei Lorena e restaurarla avrebbe significato suscitare l’indignazione di larghi strati dell’opinione pubblica, non solo toscana. Ma il progetto di Mancini, che estendeva il codice sardo del 1859 a tutto il Regno, abolendo però la pena di morte, si bloccò al Senato del Regno e l’Italia non ebbe un codice penale unitario fino al codice Zanardelli del 1889, grazie al quale la pena capitale fu abolita definitivamente.
Il secondo problema era quello del matrimonio civile, già proposto nel 1852 da d’Azeglio che, proprio a causa di quella proposta, in una delle crisi di bigottismo di Vittorio Emanuele, era stato costretto a lasciare il governo. Ma nel 1865 le cose andarono meglio e l’unificazione portò davvero a una svolta; e se non fu possibile introdurre il divorzio chiesto da molti, il matrimonio civile (che non era una novità rispetto al codice napoleonico) «rappresentava tuttavia una conquista nei confronti di tutte le legislazioni preunitarie e certamente la più profonda riforma attuata dal codice nella vita sociale italiana» (ivi, p. 40).
I problemi politici implicati dalla legislazione di unificazione poterono risolversi anche grazie all’equilibrio tra la Corona e il Parlamento. E, nonostante ciò che tante volte è stato scritto, l’Italia unita nacque costituzionalmente come un sistema parlamentare (Volpe 2009, p. 85).
Il 17 marzo 1861 lo Statuto albertino divenne la carta costituzionale del Regno d’Italia. Il processo costituzionale che portò all’Unità fu determinato dall’esigenza di fare in fretta. Anche per questo si scartò la strada di un processo costituente vero e proprio e si procedette invece attraverso la forma delle annessioni confermate da plebisciti. Lo Statuto albertino fu quindi accettato, secondo la formula delle votazioni che diceva «annessione alla monarchia costituzionale di Vittorio Emanuele».
La lettera dello Statuto non disegnava un vero e proprio governo di gabinetto e non prevedeva esplicitamente un esecutivo fiduciario del Parlamento. Per questo tutta la storia dell’esperienza statutaria, prima e dopo l’Unità, è anche la storia del tentativo di costruire un sistema parlamentare forte. E i tentativi furono molti. A parte Cavour, che aveva una legittimazione personale che probabilmente non si sarebbe più ripetuta, tutti i grandi presidenti del Consiglio misero il rafforzamento del Parlamento al centro delle loro dichiarazioni programmatiche. Per alcuni il rafforzamento del sistema parlamentare significava forse soprattutto il rafforzamento dell’esecutivo. Il tentativo era però inficiato all’origine, perché identificava l’esecutivo con la Corona, e pensava al primo ministro come a un missus di quest’ultima, e non come al leader della maggioranza parlamentare. Tra le tante argomentazioni messe in campo dopo l’unificazione e più insistentemente nella crisi di fine secolo, una soprattutto colpisce: ed è l’argomentazione secondo cui il rafforzamento dell’esecutivo corrispondeva al principio della separazione dei poteri. L’esecutivo – si diceva – può espandere le sue competenze, perché ognuno dei poteri costituzionali ha il diritto di riordinarsi e determinare le rispettive attribuzioni come meglio crede. In questo modo, però, il principio della separazione dei poteri, divenne poco più di una tecnica di classificazione: tra i poteri costituzionali non si dà un reciproco controllo o interferenza; essi sono separati solo perché compiono atti distinti; e la loro separazione corrisponde all’efficienza organizzativa dello Stato, non alla tutela costituzionale dei diritti soggettivi. Tentativi dottrinali di questo genere – spesso seguiti da manovre parlamentari – finirono con l’indebolire la stessa posizione del premier, che restò il vertice dell’amministrazione, il fiduciario della Corona, ma non il leader del Parlamento.
Esemplare in questa direzione è l’esperienza di Francesco Crispi. Questi adottò nei confronti del Parlamento uno stile giudicato antiparlamentare. Si ricorda la frase con cui egli aprì la crisi del proprio ministero nel febbraio del 1889, giustificando le dimissioni «per non compromettere con un voto parlamentare i grandi interessi del paese», indicando nel Parlamento un avversario degli «interessi del Paese»; si ricorda la legislazione che rafforzava il controllo del ministero sull’amministrazione, ma l’equivoco di fondo era soprattutto l’indifferenza per l’organizzazione costituzionale. Anche lo statista siciliano credeva in qualche modo di ispirarsi al modello inglese. Vedeva bene che in quel sistema vi era il primato dell’esecutivo, ma non vedeva (come tutta la cultura politica italiana dopo di lui) qual era la legittimazione di quel primato: non la Corona, ma il corpo elettorale.
Ma questo non era possibile in Italia: l’espropriazione delle prerogative regie era interdetta dalle funzioni simboliche della Corona. Mancò in questo e negli altri tentativi di affermazione del primato dell’esecutivo l’idea di una legalità costituzionale, l’idea di una «legge superiore». Così il tentativo si risolse non nel primato dell’esecutivo, ma nel primato dell’amministrazione, che in qualche modo ne era l’opposto. L’aspirazione alla via inglese diventò la via tedesca e il presidente del Consiglio il Cancelliere, responsabile solo di fronte al re. In questo caso il rafforzamento del Parlamento divenne il suo opposto.
Nel sistema costituzionale italiano il potere esecutivo si rafforzò e ampliò le proprie competenze, ma solo nella direzione del controllo della pubblica amministrazione, non come potere costituzionale. Il capo dell’esecutivo, in particolare, non poté mai esercitare un vera funzione di guida parlamentare. Una situazione che, come è noto, ha molte cause, a cominciare dal fatto che lo Statuto taceva sulla figura del presidente del Consiglio. E taceva perché nel testo della carta restava l’ambiguità tra investitura dell’esecutivo da parte della corona e fiducia parlamentare. Vi furono naturalmente diversi tentativi di dare rilievo costituzionale alla figura del presidente del Consiglio, ma l’evoluzione restò, per così dire, sospesa e ambigua, perché tutti i tentativi furono indirizzati verso l’amministrazione, anziché verso la guida della maggioranza e dell’assemblea rappresentativa. La lenta ascesa dell’esecutivo restò così imprecisa, senza nemmeno riuscire ad affermare il coordinamento tra i ministeri.
Come è stato osservato, questo problema ha le sue radici nelle dinamiche del sistema politico, più che nelle regole giuridiche: «la supremazia del capo del gabinetto non è data ‘a priori’, né si crea spontaneamente [...] Ecco allora [...] il ricorso allo strumento normativo, che viene ritenuto idoneo a conseguire lo stesso risultato, cioè a garantire al Presidente del Consiglio la posizione che il sistema politico da solo non gli offre» (Rotelli 1972, p. 452). Il carattere permanente del premier resta segnato da una doppia debolezza: debolezza interna al gabinetto (per l’impossibilità del coordinamento amministrativo), debolezza verso l’assemblea (per l’impossibile certezza e la difficile guida della maggioranza). La figura del presidente del Consiglio si rafforza quasi esclusivamente nel suo ruolo di mediatore, anziché in quello di leader.
In Italia nessuno dei protagonisti della lotta costituzionale poté prevalere. Non vi riuscì l’assemblea parlamentare che era frammentata e ricca di gruppi clientelari; non vi riuscì l’esecutivo perché nessuna assemblea – neppure quelle dell’età giolittiana – volle dare al premier la possibilità di diventare leader. L’equilibrio instabile fu invece quello della mediazione ininterrotta, tra l’esecutivo e il Parlamento, e tra il primo ministro e gli altri soggetti dell’esecutivo, le burocrazie e i titolari di dicasteri. E soprattutto la mediazione tra il premier e la Corona. Con le parole di Vittorio Emanuele Orlando: «Nel suo sviluppo storico, il Gabinetto è l’efficienza di due forze: la Camera come rappresentanza immediata degli interessi sociali, che dà l’indirizzo, e la regia autorità che dà il carattere e la sanzione del diritto» (Orlando 1909, p. 12).
È ben espresso nelle parole di Orlando uno dei miti ricorrenti della costituzione unitaria: l’idea dello Statuto come carta regia. Mito che si espresse compiutamente nella crisi di fine secolo nello scritto di Sidney Sonnino del 1897, Torniamo allo Statuto, che invocava un sistema costituzionale puro, in cui l’esecutivo poggiasse solo sulla fiducia del re, eliminando quella che l’autore considerava una degenerazione: l’aumento delle competenze del presidente del Consiglio, diventato, a suo giudizio, un potente «maestro di palazzo». Va però detto che la posizione antiparlamentare di Sonnino si accompagnava a un atteggiamento favorevole all’allargamento del suffragio. Questa apparente contraddizione si spiegava con il fatto che la sua visione era fondata su un rapporto diretto re-popolo che escludeva ogni mediazione parlamentare. Quella di cui Sonnino parlava era una costituzione immaginaria, perché mai, dopo il 1848, si era avuta una dinamica costituzionale di quel tipo, e non si poteva tornare dove non si era mai stati. L’equilibrio che si era lentamente formato era stato colto da Filippo Turati in uno scritto del 1896, La bancarotta dello Statuto: «Noi ci contentiamo [...] di stare attaccati al vecchio Statuto Albertino [...] lo Statuto del regno è un patto bilaterale e che, se lo si strappa da un lato, si autorizza qualsivoglia strappo dalla parte opposta» (Turati 1897, p. 54). Questo delicato equilibrio caratterizzò tutta la storia unitaria, fino all’età giolittiana compresa.
Se il meccanismo rappresentativo si trasformò in un sia pur fragile equilibrio di gabinetto, un’altra importante trasformazione riguardò l’istituto della Corona. È qui uno dei grandi passaggi costituzionali dell’Italia unita, quello descritto da Bonghi nel saggio del 1893, L’ufficio del principe in uno Stato libero.
La legge del 4 marzo 1861 aveva usato una formula che si era già consolidata; quella del re «per grazia di Dio e volontà della Nazione». L’interpretazione della formula, fin dai primi anni dell’unificazione, accentuava piuttosto la nazione che il re. Così, ad esempio, scriveva Luigi Palma: «essendo il re la personificazione della maestà nazionale, la sua persona deve essere sacra come la maestà della nazione» (Palma 1881-1885, 2° vol., p. 376). Allo stesso modo si interpreta la nozione – apparentemente così medievale – di inviolabilità, che viene strettamente connessa a quella di irresponsabilità: «il re è giuridicamente irresponsabile e quindi inviolabile di fronte al diritto dello Stato» (Racioppi, Brunelli 1909, 1° vol., p. 287).
Questi esempi ci servono a sfatare un luogo comune della storiografia, secondo il quale lo Statuto non riuscì a costruire un vero sistema parlamentare: per quanto fragile, l’equilibrio unitario restò parlamentare e non si ebbe mai un sistema a direzione regia. E anche se dopo l’unificazione cominciò una sorta di leggenda nera, che, invece di cogliere il momento europeo che il Risorgimento era stato e che l’unificazione seppe continuare, guardò solo ai difetti dei processi interni, resta il vero risultato dell’unificazione e del Risorgimento: la nascita di una nuova potenza europea. Restava, insomma, il fatto che, come scrisse Giustino Fortunato, citando Ferdinando Petruccelli della Gattina: «L’Italia è. Gli italiani soltanto possono disfarla, abusando del metodo, delle arti, della armi con cui la fecero» (Fortunato 1913, p. xxiii).
Non c’era stata una «maledizione italiana», né un «Risorgimento senza eroi». Messi di fronte a grandi prove lo Stato e l’amministrazione ressero, il Parlamento resse. Lo Statuto, nell’interpretazione che aveva portato al governo parlamentare, venne rimesso in discussione, con la crisi di fine secolo. Ma trovò sempre gli uomini che lo fecero vivere. E anche l’accusa allo Statuto di non aver saputo resistere al fascismo va riconsiderata e contestualizzata. In fondo, nessuna costituzione sa davvero resistere alle crisi politiche profonde e alle trasformazioni totali, come quella che la prima guerra mondiale portò anche all’Italia. E soprattutto agli errori politici, anche di un solo giorno, come quelli che portarono al 1922.
Possiamo continuare a indicare nello Statuto uno degli strumenti principali dell’unità nazionale, per almeno due precise ragioni. La prima ragione va fatta risalire al fatto che la Carta del 1848 consentì l’affermazione in qualche modo, talvolta anche tortuoso, del primato del Parlamento. Ovvero – come si è detto più volte – la sostituzione del principio di legittimazione dinastico con il principio di legittimazione rappresentativo. La seconda ragione, indicata in una specifica norma, ma con il carattere di un principio generale, è la forza di distruzione delle consorterie locali, e quindi di unificazione nazionale, esercitata dal divieto di mandato imperativo. È questo principio che spezza il vincolo, regressivo e arcaico, tra rappresentanza e territorio e lo sostituisce con la nozione giuridica, importata dalla rivoluzione francese, di nazione, collegando ad essa – e solo ad essa – il mandato. In questo modo solo il Parlamento è espressione della comunità politica, esercitando il primato costituzionale.
Lo Statuto fu realmente la condizione dell’unificazione nazionale e questa consentì l’entrata della nazione nell’Europa dei parlamenti e delle libertà moderne. Possiamo lasciare, ancora una volta, in conclusione, la parola a Manzoni: «l’Italia divenne libera perché divenne unita».
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